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I VICERÈ F. De Roberto, riassunto e analisi, Appunti di Letteratura

Riassunto, analisi e appunti del romanzo I Vicerè dello scrittore siciliano F. De Roberto.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 14/07/2020

Sciarom
Sciarom 🇮🇹

4.4

(23)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica I VICERÈ F. De Roberto, riassunto e analisi e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! I VICERÈ: 1894 Sino agli anni 60 del 900 la critica, tuttavia, non si accorse del grande valore del romanzo, anche a causa dell'opinione severa di Benedetto Croce, che nel 39 scrisse, nelle Colonne della critica (rivista diretta dal filosofo, poi raccolta nel 6° volume della letteratura dell'Italia Unita) una critica negativa. Croce dice che il De Roberto ha al suo arco delle frecce, è abile nel maneggio della penna, uomo di cultura. Tuttavia taccia allo scrittore la pesantezza dell'Opera stessa che non fa mai battere il cuore al lettore, opera che non illumina l'intelletto. Giudizio liquidatorio. I viceré, agli occhi di Croce, difettano di poesia (difetto più grande trovato dal filosofo), mancano della carica poetica. In essi prevali un intento dimostrativo di matrice Zoliana, secondo Croce. Suddetto giudizio sarà impugnato e ribaltato da Leonardo Sciascia, sulle pagine di Repubblica, in cui lo scrittore di Racalmuto dimostra come Croce abbia avuto una vista poco acuta nel giudicare l'opera di De Roberto. Il giudizio positivo che Sciascia formula prendendo le distanze da Croce è:" Dopo i promessi sposi, i Vicerè è il più grande romanzo della letteratura italiana". Tra i due giudizi si staglia un evento importante, cioè l'uscita postuma del gattopardo. I due romanzi furono messi a confronto soprattutto sul piano delle somiglianze. Tra le figure più importanti della critica degli anni 60 ricordiamo: Carlo Alberto Madrignani, curatore del meridiano dedicato al De Roberto e Vittorio Spinazzola, autore del saggio "il romanzo antistorico" incentrato su Pirandello, De Roberto e Tommasi di Lampedusa. Entrambi mettono in evidenza come De Roberto guardi con spiccato spirito critico al processo del risorgimento. Lo scrittore siciliano è chiaramente legato alle vicende del risorgimento (nasce del 1861, elezione del primo parlamento nazionale). Se pensiamo alla trama dei viceré notiamo come i protagonisti siano una famiglia aristocratica (gli Uzeida di Francalanza, dietro cui si celano i principi Biscari) negli anni a cavallo dell'unificazione Nazionale. La narrazione inizia nel 1855 e si conclude nel 1882. De Roberto critico severo del risorgimento, è il tema del Risorgimento mancato, fallito, ci fa vedere come le classi dominanti dell'antico regime riescono comunque a mantenere il potere saltando sul carro dei vincitori cambiando idea politica. Ci insegna come nella storia non conti la fede politica o l'ideologia, ma conta l'esercizio del potere, cui le classi dirigenti di sempre si ostinano a mantenere. L'importanza di De Roberto è legata anche a questa lezione di antistoricismo (Spinazzola-> orientamento Marxista). Capacità di guardare alla storia con scetticismo, in maniera disincantata (scetticismo di fondo nei confronti di qualsiasi forma di progresso della storia, quel progresso chiamato da Leopardi "le magnifiche sorti e progressive", Leopardi molto caro a De Roperto a cui dedica una monografia nell'anno del centesimo anniversario della nascita del poeta recanatese). Questa interpretazione scettica e negativa, spietata, demistificante della storia è una chiave di lettura che De Roberto dà in eredita ai prossimi scrittori siciliano. Pensiamo ai vecchi e Giovani di Pirandello, ma anche ad un racconto di Brancati, laureatosi con una tesi su De Roberto (il vecchio con gli stivali) dove si parla del passaggio dal fascismo all'antifascismo dove mette in evidenza come un momento che avrebbe dovuto essere di svolta per l'Italia in realtà non lo è davvero. Al centro del racconto troviamo Aldo Piscitello, un impiegato al municipio che nell'intimo è del tutto in disaccordo con l'ideologia fascista, anche se non ha maturato una consapevolezza teorica poiché viene dal popolo, è l'antifascimo istintivo del popolo. Negli ultimi anni è costretto a prendere la tessera del fascio per non perdere il proprio lavoro. All'arrivo degli alleati si insediano, tuttavia, i comitati per l'estromissione dai posti di lavoro di coloro che si erano compromessi dal regime fascista, l'unico ad essere epurato dalla sua carica è il povero Piscitello, poiché nel frattempo tutti gli altri, davvero fascisti, sono saltati sul carro dei vincitore, mentre Piscitello non ne ha il tempo. Altro racconto simile è quello di Sciascia il 48 edito nel 57 in cui si segue le vicende del barone Graziano e in cui si seguono le tappe dell'iter trasformistico del Barone. Per ultimo abbiamo il gattopardo. Tancredi, nipote del principe Salina, salta sul carro del vincitore andando a combattere con Garibaldi poiché capisce che quella è la scelta che non gli fa perdere il potere. La frase più celebre del Gattopardo è proprio Tancredi a dirla al principe Salina: "Se vogliamo che tutto resti c'è, è necessario che tutto cambi". Questa apparente continuità è però contraddetta da un atteggiamento diverso di Lampedusa nei confronti dell'aristocrazia. In entrambi i romanzi, protagonista, è una famiglia aristocratica. Tuttavia Tomasi di Lampedusa guarda all'aristocrazia con nostalgia, come se intonasse un requiem ad un mondo che volge al tramonto, Tomasi è infatti un nobile, fa parte dell'aristocrazia. In De Roberto, invece, c'è un atteggiamento critico e assolutamente polemico nei confronti dell'aristocrazia. Tomasi non amava De Roberto, e, secondo lui. De Roberto guardava all'aristocrazia come da un buco di una serratura. Il suo è un atteggiamento tipico del servo che guarda con disprezzo i padroni ed, in tutto il romanzo dei vicerè i servi guardano alla famiglia Uzeida con disprezzo, come una famiglia di pazzi. I vicerè sono un romanzo storico in quanto la storia dei vicerè ha come sfondo la vera storia d'Italia, ma a questo dovremmo aggiungere che i vicerè sono insieme anche un romanzo antistorico, in essi è attiva un'idea De Robertiana della storia non come avanzamento, progresso, attuazione delle magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria, bensì un'idea della storia come luogo in cui si perpetua il potere grazie alla cinica pratica del trasformismo. FORMA CICLICA DEI ROMANZI. De Roberto scrive 3 romanzi: - l'ILLUSIONE 1891 - I VICERE 1894 -L'IMPERIO pubblicato postumo 1929 Questi tre romanzi costituiscono la trilogia degli Uzeida, sono un ciclo vero e proprio in cui i tasselli sono legati tra di loro dal fatto che protagonista è sempre la stessa famiglia. Nella storia letteraria del nostro paese De Roberto non è l'nico ad organizzare la sua materia all'interno di un ciclo, pensiamo a Bassani nel 900, o a Prust, ma ancora l'esempio 800 cui guarda De Roberto. MODELLI OTTOCENTESCHI: I modelli ottocenteschi d'oltralpe per De Roberto sono Balzac con la comédie humaine e Zolà con Rugon-Macar. Questi due scrittori sono importanti perché effettivamente introducono all'interno di quella che è diventata una vera e prorpia moda letteraria ottocentesca una novità. Prima di loro il criterio fondante della scrittura ciclicla era un principio di prosecuzione o di continuazione cronologica, si imponeva al lettore l'obbligo di una lettura sequenziale del ciclo in quanto la materia era scritta in modo genealogico (più generazioni che si susseguono nel tempo). Con Balzac le cose cambiano in quanto abbiamo una costruzione sincronica della materia, non c'è più un ordine di lettura prestabilito al quale il lettore è vincolato. Si parla di decentramento, cioè alcune figure che hanno giocato un ruolo da protagonista all'interno di alcuni volumi della serie tornano negli altri in un ruolo minore, magari da comparsa, Date cruciali nel processo di formazione della nuova Italia. IN ciascuna di queste circostanze storiche così importante un Uzeida sale alla ribalta, cioè diventa protagonista dei nuovi tempi. Fine della prima parte: Duca Gaspare diventa deputato. Seconda parte: Don Blasco si pone a capo dei cortei che festeggiano la fine del potere temporale dei papi. Terza parte>: il principe Consalvo tiene un comizio durante la sua compagna elettorale ed ottiene il massimo suffragio popolare e viene eletto come lo zio Gaspare deputato. Questi episodi sono contrappuntarti subito prima o dopo da un evento patologico o luttuoso della vita familiare. Prima parte: aborto mostruoso di Chiara Uzeida Seconda parte (fine): impazzimento di Ferdinando, giunto ormai sulla soglia della morte. Terza parte (zona conclusiva): malattia della vecchia zitellona Ferdinanta. Accoppiamento giudizioso ben calcolato dall'autore, come se avesse voluto proiettare sarcasticamente sulla genesi della nuova Italia, sulle tappe fondamentali del processo di formazione della uova italia, un presagio funebre, negativo. Da un lato il decadimento biopsichico (sia corpo che spirito) della vecchia razza degli Uzeida, e dall'altro la rigenerazione della stessa razza attraverso la politica trasformistica, camaleontismo politico che consente ai suoi esponenti di riciclarsi e inserirsi perfettamente nelle maglie del potere dello stato. DIMENSIONE TEMPORALE Da un punto di vista strettamente temporale occorre soffermarci su altri dati, cioè che la prima parte, sebbene operi soltanto l'arco cronologico dal 1855 al 1861, contiene anche delle digressioni temporali retrospettive, pertanto è la più ampia dal punto di vista temporale. Lunghe analessi attraverso i quali il narratore costruisce gli antefatti, questo accade soprattutto nel terzo capitolo della terza parte dove DR ricostruisce il ritratto biografico di Teresa, dei suoi figli e dei suoi cognati. Seconda e terza parte coprono circa un decennio (seconda parte 1861-1870, terza parte 1870- 1882) DIMENSIONE SPAZIALE (CRONOTOPO ROMANZESCO) Circoscritto alla città di Catania, tutto si sporge in questa città, DR non insegue mai i personaggi al di fuori della città, non sapremo mai cosa Don Gaspare faccia una volta divenuto Deputato e trasferitosi a Torino, Firenze o Roma. Nell'ambito di questo orizzonte cittadino, la sede privilegiata è costituita dal palazzo, sontuoso focolare domestico della famiglia, ove ha sede il capocasata, Giacomo, il primogenito di Teresa, i suoi figli, la sorella Lucrezia fino al matrimonio, ma anche lo zio Gaspare, duca di Orà, che sarà eletto deputato. Vi è poi il doppione del palazzo Uzeida, cioè la residenza estiva del belvedere, dove il parentato vi si reca in occasioni delle vacanze estive o quando vi si presentano in città pubbliche calamità. Altri due sono gli edifici urbani che costituiscono punti importanti per la storia degli Uzedia: Il monastero (polo religioso) e il municipio (polo laico, del potere), due prolungamenti di palazzo Uzedia, due luoghi in cui la famiglia si sente come a casa sua in cui il loro potere è molto forte Tutta o quasi l'azione si svolge in interni, il romanzo è pertanto segnato da un senso di angustia soffocante, i personaggi coabitano in ambienti chiusi e ciò enfatizza il loro stato di esasperazione, di odio, di rivalità e i loro comportamenti rissosi. PRIMI DUE CAPITOLI: -Sequenza della morte e dei funerali di Teresa. In queste pagine si nota un aspetto importante del modo di procedere di DR nel racconto, cioè l'aspetto corale del narrato. I funerali e la morte vengono raccontati da un punto di vista corale dei servitori e dei membri della famiglia che partecipano al funerale. Il primo atto consiste alla notizia della morte della matriarca che viene data da un servitore, un cocchiere (Salvatore Cerra)( che da la notizia agli altri servi, Teresa muore al belvedere ed il cocchiere reca la notizia a palazzo Uzeida in città. (Annuncio notizia funebre pag 27 "la principessa morta di un colpo la mattina mentre lavavo la carrozza") Nel proseguo della narrazione intercettiamo dei commenti della discussione tra i servi. A pagina 48 uno dei servi dice "E senza nessuno dei suoi figli, in mano di estranei...così ad un tratto". A pagina 50 un servo sta litigando con un altro servo e vine ammonito, poiché le circostanze non ammettono un comportamento di questo tipo ("Che è questa vergogna", don Gaspare risponde "quale vergogna quella di una casa in cui madre e figli...etc"). Da questi frammento il lettore ha contezza del fatto che Teresa Uzeida si è comportata in maniera minacciosamente tirannica con i suoi figli e per questo i figli si sono allontanati da lei nutrendo odio ed ostilità, tant'è vero che quando si trova malata la belvedere decide di scrivere il testamento senza consultarsi con nessuno dei suoi figli, con il solo aiuto di Marco, amministratore delle finanze di casa Uzeida mentre ci viveva Teresa. Successivamente possiamo prendere in considerazione il racconto che fa l'ebanista a pagina 51 e che ci ragguaglia sulla composizione della famiglia: "7 figliuoli, possiamo contarli il principe Giacomo...e finalmente il contino Raimondo che ha la figlia del ***Palmi". Sfrutta questa circostanza per enumerare i membri della famiglia, aggiungendo i 4 cognati che sono i fratelli del marito di Teresa e l'ebanista continua: "Poi vengono i cognati.................e donna Ferdinanda, la Zitellona". Dunque 7 sono i figli di Teresa (4 maschi e 3 femmine) e 4 sono i cognati di Teresa stessa, questi sono i personaggi principali del romanzo. Più avanti l'ebanista allarga lo sguardo e prende in considerazione altri rami della famiglia Uzeida. rami collaterali, di una nobiltà minore, in particolare la famiglia Radalì-Uzeida (pag 52) e nomina anche la signora donna Graziella, figlia di una defunta sorella della principessa e pertanto cugina carnale di tutti figliuoli della morta. Alla fine si chiude il portone del palazzo in sengo di lutto (pag 50 "e come girò il portone Giuseppe etc etc") DIGRESSIONE SULLA FRASE: "Un vecchio disse: Razza di matti questi Francalanza!" (Pag 50)- > partendo da una lettera di DR all'amico Di Giorgi (1891, quando sta iniziando a concepire i Vicerè, li scriverà durante 3 anni, durata molto lunga). tratto della lettera importante: "La storia di una gran famiglia la quale deve essere composta da 14-15 tipi tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante dell'altro. Il primo titolo era vecchia razza, ciò ti dimostri il decadimento ultimo che dovrebbe essere fisico e morale di una stirpe esausta." La lettera è importante poiché dice un titolo primitivo dell'opera. Si enuclea quindi il tema della razza, che poi rimbalza nella battuta di un anonimo passane subito dopo che il portone degli Uzeida si chiude "Razza di Matti!" Ma c'è anche il tema della follia, infatti DR scrive "uno più forte e stravagante dell'altro" la stravaganza prelude la follia, essa può diventare follia. Tema della follia e tema della razza che degenera, del sangue che si corrompe. DR usa dei termini specifici "decadimento fisico e morale di una razza esausta ". Il linguaggio di questa lettera, e lo spirito che circola nella battuta del passate anonimo ci impongono di prendere in considerazione il retroterra culturale dei vicerè, costituito dal sapere positivistico e dal naturalismo che si era nutrita di positivismo, pensiamo a Zolà che prende come modello filosofico il Polit-ten, il teorico del naturalismo, quale peraltro conia per primo l'espressione "naturlasimo". Ten, in un saggio del 58 mette a fuoco quelle che sono le cause di ogni fenomeno umano, quindi anche l'opera 'arte. Di parla di determinismo positivistico. Per questo teorico ogni realtà umana è risultato di tre cuase: fattore ereditario (definita la raz, la razza, patrimonio generico), ambiante sociale (il milieu), altro fattore è il momento storico ( Il momant). Questi tre fattori condizionano il comportamento dell'uomo e qualsiasi fenomeno umano individuale e sociale. Il positivismo di Ten trapassa e viene assimilato da Zolà, il quale nella prefazione al ciclo dei Rugon Macar riprende le idee di Ten e ci mostra come un originaria tara ereditaria, combinandosi con l'influenza dell'ambiente spieghi e determini il comportamento di una famiglia (Rugon-macar), quindi la degenerazione fisica della famiglia è dovuta a questa tara originaria che si trasmette di generazione in generazione. DR, rispetto al naturalismo tende a mettere tra parentesi quello che è l'approfondimento scientifico, che è pur epresente nei vicerè, ma in misura minore rispetto al ciclo Zoliano. A DR interessa, infatti, di più il funzionamento del potere, significativo che abbia cambiato il titolo, non più Vecchia Razza ma Vicerè, l'accento si sposta dal piano scientifico a quello politico. D'altra parte DR vive ed opera in sicilia ed il naturalismo gli giunge mediato dal verismo italiano, il quale aveva assimilato sì la lezione d'oltralpe, ma l'aveva fatta propria secondo dei parametri tutti italiano (pensiamo a Capuana, il teorico del verismo italiano). L'accento nel verismo defunto (pag 70). Nelle righe precedenti, tuttavia, il narratore introduce il figurino di un mendicante che entra in chiesa ma inciampa in un gradino dell'altare, quasi a sottintendere che i presunti beneficiari della carità di donna Teresa in realtà non sono stati affatto aiutati dalla nobiltà, tant'è che cadono per terra simbolicamente e sono costretti a strisciare. L'atteggiamento adulatorio di Don Cono nei confronti degli Uzeida trova un suo controaltare nei commenti malevoli che vengono fatti da parte di coloro che partecipano al funerale. Es. "adesso i suoi figli potranno respirare...la principessa teneva in un pugno lui e il suo suocero" pag 68. È la cosiddetta tecnica del contrappunto della narrazione De Robertiana messa in pratica sin da queste pagine iniziali del romanzo. Fa cioè in modo che gli epitaffi elogiativi entrino in cortocircuito con i pettegolezzi maligni dei partecipanti al funerale, pertanto le virtù degli epitaffi si contrappongono ai vizi, alle debolezze e alle manie di cui si parla nel corso di queste chiacchiere in chiesa. In particolare il carattere dispotico della Donna nei confronti dei marito e dei figli, ma anche l'ignoranza "sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni ed in quello dei conti" riferimento anche al denaro, all'avarizia. Pag. 71-72: "la cassa con tre chiavi...dopo l'allegra vita"-> Alcuni degli astanti alle esequie fa notare come ci sia contraddizione tra le disposizione del funerale di Donna Teresa e lo sfarzo, la sontuosità del fnerale stesso celebrato in gran pompa, soprattutto il riferimento maligno e maliziso (L'allegra vita che avrebbe condotto la matriarca durante il suo menage matrimoniale (relazione extraconiugale). Sempre a pag 71 : "negli angoli lungo i muri...ne commentavano le stravaganze", la stravaganza di Donna Teresa viene ad emergere dei commenti e detta alla Donna certe decisioni che non seguno spesso il buonsenso, ma sono dei veri e propri capricci, degli arbitri, che non si spiegano alla luce della ragione. SIGNIFICATO GENERALE DEL FUNERALE Si celebrano le esequie in pompa magna, possiamo dire che rivestono la funzione di una vera e propria recita pubblica, c'è una dimensione teatrale, spettacolare di questo evento che va sottolineare, come se l'aristocrazia celebrasse se stessa e volesse inculcare ai presenti l'idea del prestigio e della razza degli Uzeida. Quindi è un evento che si organizza in funzione della riaffermazione del potere nelle mani di questa potente famiglia aristocratica. Naturalmente ci sono degli elementi che contribuiscono a sottolineare questa dimensione spettacolare, come la musica e la coreografia cui presiede il maestro di casa (Baldassarre) che è il maggiordomo della famiglia e che nella circostanza fa da registra cerimoniere dello spettacolo. Pag.66: "Una galanteria, una cosa mai vista...neanche per il funerale del papa" (funerali degni di un papa) ed ancora "ma il cadavere è già posto al colatoio per l'imbalsamazione", apprendiamo quindi che il cadavere di Donna Teresa non si trova collocato al catafalco al centro della Chiesa, bensì è già a disposizione di ci doveva imbalsamarla. DR ci sta sottolineando il paradosso di un evento celebrato in gran pompa però in assenza del cadavere, a rimarcare con forza l'insensatezza, l'insulsaggine, la vuotaggine del cerimoniale stesso (tutto l'apparato maestoso delle esequie è sostanzialmente vuoto). Anche in questo caso abbiamo il canto dei commenti estasiati, ammirativi "12 piangenti, neanche per il funerale del papa" ed insieme il controcanto demistificante che colpisce l'avvenimento nella sua complessità. I pettegolezzi sparsi nel corso dell'episodio sembrerebbero mossi da malanimo, da risentimento, in realtà poi il romanzo dimostrerà come questi pettegolezzi corrispondano nella sostanza a verità, quindi anticipano ciò che poi arriverà dopo. EPISODIO DEL TESTAMENTO: Pag 70: " e i curiosi stipati nella chiesa...chi sarà l'erede?" DR crea un clima di suspance, non solo i curiosi e gli estranei sono allo scuro di quello che ha deciso Teresa per quanto riguarda la distribuzione delle sue ricchezze, ma sono all'oscuro anche i figli della defunta: "nobili e plebei, ricchi...erede del principato" Qui abbiamo una diversificazione, vi sono alcuni che pensano che l'erede universale sarà il primogenito Giacomo, altri invece pensano che la principessa disporrà perché tutto passi al terzogenito (contino Raimondo, unico figlio amato dalla donna) La lettura del testamento occupa l'ultima parte del secondo capitolo e viene letto nella galleria dei ritratti (ove sono posti i ritratti degli antenati, in particolare spicca quello del vicerè Lopez Sminenes de Uzeida che ci fa intuire come gli Uzeida siano una razza discendente dai vicerè spagnolo) in presenza di tutto il parentato, dal giudice in presenza del notaio. Pag 82: "Non dimentichiamo...per essere libera di fare a modo suo." MAIORASCO: legge del maggiorascato, che donna Teresa trasgredisce nel momento in cui redige il testamento e dispone delle sue ricchezze, questa legge vincolava l'autore del testamento a lasciare le sue ricchezze al primogenito per evitare la frammentazione del patrimonio, ai cadetti andava soltanto la legittima, cioè una minima parte dei beni della famiglia. Donna Teresa infrange questa legge perché è legata sentimentalmente al terzogenito e quindi decide di disporre diversamente le fortune della famiglia. Questa volontà apparentemente capricciosa della donna, legata ad una idiosincrasia con il figlio, in realtà rispecchia un mutamento epocale dei tempi. Dietro questa finzione romanzesca ci sta un realtà storica, negli anni in cui il romanzo si svolge, la nobiltà maggiore aveva dovuto scendere a compromessi con una nobiltà minore di cui Raimondo potrebbe essere il rappresentate, per potere sopravvivere. Quindi aveva incamerato sostanze da questa nobiltà inferiore in cambio di titoli e di riconoscimento sul piano giuridico. De Roberto ci propone tutto il documento del testamento (Da pag 90- Qui Donna Teresa ci dice qualcosa della sua storia personale, in particolare di come, nel momento in cui diventa la sposa di Consalvo 7° sia stata in grado di risollevare con la sua dote i pesanti debiti contratti dalla famiglia Uzeida. Anche dopo, Donna Teresa ha saputo essere una brava, oculata amministratrice dei suoi beni e dei beni degli Uzeida, Segue una sorta di testamento nel testamento, cioè ciò che Consalvo lascia, sul punto di morte, in eredità ai suoi figli, sottoforma di avvertimento (pag 91) "sul punto di...figli beneamati". Don Blasco, fratello di Consalvo settimo, parlerà di una "pulcinellata", cioè della possibilità che Donna Teresa abbia costretto il marito a sottoscrivere questo testamento. Il cuore del Testamento della donna si ritrova a pagina 91-92: "Io nomino pertanto...eredi universali...i miei due figli Giacomo 14esimo principe di Francalazna e Raimondo Conte di Rumeira...da me acquistate" Gioco di alternanza tra le parole di donna Teresa e la descrizione di ciò che avviene nella sala dei ritratti, soffermandosi particolarmente sulle emozioni e le reazioni degli ascoltatori. Il principe Giacomo riesce a controllarsi (impercettibile reazione). Nel testamento c'è anche una disposizione riguardante il palazzo degli Uzeida che toccherà a Giacomo ma Raimondo avrà la possibilità di usare il quartiere di mezzoggiorno e annesso servizio di stalle e scuderie. Potremmo dire che colui che inaspettatamente si ritrova nelle mani una parte cospicua del patrimonio è Raimondo, inaspettatamente rispetto alla tradizione del maggiorascato. Tutti gli altri figli, invece sono beneficiari, secondo le disposizioni di Teresa, soltanto delle briciole del patrimonio. Gli astanti reagiscono alla lettura del testamento in maniera diversa, che mette in evidenza un aspetto tipico del carattere degli Uzeida, cioè la capacità di saper simulare e dissimulare i sentimenti. Impercettibile la reazione del principe nel momento chiave della lettura del testamento, subito dopo, lo stesso Giacomo dice (pag 97) "ciò che ha fatto nostra madre è ben fatto". C'è questa approvazione compassata che non corrisponde affatto a quello che il principe prova dentro di sé, alla rabbia che deve senz'altro provare. Subito dopo si assiste anche alla reazione di un altro figlio di Donna Teresa, cioè il priore Ludovico: "La volontà della felice memoria sarà certo legge per tutti" TERZO CAPITOLO 1° PARTE: MATRIMONIO TRA TERESA E CONSALVO SETTIMO Tra le due famiglie c'è una grande differenza sociale, Teresa è figlia di un barone contadino, quindi nelle sue vene non scorre un vecchio sangue nobiliare, mentre Consalvo appartiene ad un casato antichissimo che risale ai Vicerè Spagnoli. Teresa colma questo divario approfittando della difficile situazione economica in cui versa la famiglia a causa di Giacomo 13°, padre di Consalvo, che è uno spendaccione e dilapida le ricchezze di famiglia, per cui convince il figlio a sposare la Donna che avrebbe potuto risollevare le sorti della famiglia, garantendo come dote un grande forma di denaro. In cambio, Teresa ottiene la possibilità di esercitare il potere su tutti i membri della famiglia, compresi marito e suocero. Il suo potere si manifesta non soltanto quando è in vita, ma anche da morta,la sua centralità, il suo ruolo dominante viene sottolineato da Sciascia (pubblicato su "La Repubblica") in cui parla di Donna Teresa Uzeida: "Un personaggio che non c'è, primogenito, il cosiddetto "piatto": "Costei aveva avuto dal padre una miseria...secondo la sordibilità del venditore". Si prospetta dunque la lunga carriera di Usuraia di Donna Ferdinanda, non accetta la sua condizione di "povera" che deve contare solo sul "piatto", somma irrisoria che le consente sono un vitto giornaliero, e, pur di diventare ricca, è disposta a qualsiasi cosa, a vendere la sua anima, lei si dimostra spietata, calcolatrice, ci ricorda il personaggio del Verga Crocifisso che non ascoltava le suppliche dei venditori. Ferdinanda riesce ad accumulare ricchezze sino a comprare un suo feudo e un suo appartamento, ottenendo l'indipendenza, poiché fino a quel momento era vissuta a casa di Donna Teresa. Donna Teresa è gelosa di Donna Ferdinanda, poiché la sua ascesa economica, in qualche modo, costituisce un'ombra su di lei, la pone in una condizione di inferiorità, di soggezione, perché donna Teresa è riuscita ad aggiustare le sorti economiche della famiglia Uzeida, però partendo da una sua dote cospicua, mentre donna Ferdinanda è partita dal nulla e, grazie alla sua intraprendenza ed il suo carattere è riuscita ad ottenere il successo auspicato. Le due cognate sono dunque rivali perché sono simili, entrambe votate all'accrescimento dei loro patrimonio. Pag 133: "Allora, secondo la sua sostanza venne crescendo...giacché la propria era naturalmente legittima ed ammirabile" Forte di questa ricchezza ed indipendenza economica, donna Ferdinanda pretende dai partenti di essere ascoltata, di essere una voce autorevole capace di condizionare le decisioni. Ferdinanda disprezza la moda recente diffusasi nelle famiglie nobili di mandare le ragazze in collegio per istruirsi, lei impara a far di conto per i suoi affari, impara a leggersi per guardarsi dalla gramigna, cioè dalla falsa nobiltà. La gramigna nella famiglia degli Uzeida di cui Donna Ferdinanda fa esperienza direttamente è, innanzitutto, la moglie di Raimondo, del terzogenito di Teresa e Consalvo, Matilde Palmi che, agli occhi di donna Ferdinanda costituisce un ramo storto della famiglia, da ascrivere alla falsa nobiltà. Pag 137: "Ora con questo enfatuamento della zitellona...l'umile figliola di qualche ricco fattore". La principessa Teresa aveva disposto in maniera tirannica che il figlio Raimondo sposasse una nobile di modesta caratura perché potesse più docilmente ubbidire al marito. Ciò che è interessante ai fini della storia di Donna Fedinanda è che questa Matilde Palmi, di nobiltà insignificante non le va prorpio giù, a tal punto che molti sono gli insulti all'ordine del giorno, in particolare donna Ferdinanda quando la nomina tende a storpiare il cognome della giovane: Pag 138:"Non solamente quella bestia della cognata...da quei contadini che erano". Questo stesso atteggiamento sprezzante lo ritroviamo ancor prima a pag 113: "In odio alla palma...ella non voleva che ci rimettesse piede". Qui si fa riferimento alla tresca adulterina di Raimondo e di Isabella Ferza e, all'interno di questa vicenda, Donna Ferdinanda prende le difese dell'amante che pure non le va completamente a genio dal momento che pure lei appartiene ad una classe non nobile (Non vine citata nel Munios), tuttatavia, farebbe di tutto pur di eliminare dalla famiglia, Matilde Palmi, pertanto, Donna Ferdinanda, all'inizio spinge Raimondo a perpetuare questa tresca amorosa, DON BLASCO E DON LODOVICO: Un Uzeida monaco, entrato nel monastero di San Nicola per ogni generazione, questa era la tradizione. Forte complicità tra il potere nobiliare e quello ecclesiastico. Il monastero di San Nicola è considerato una sorta di prolungamento del palazzo patrizio degli Uzeida perché la famiglia vi esercita una grande influenza. La monacazione forzata è una tema letterario che ha un illustre tradizione, considerando la letteratura precedente a DR ci vengono incontro gli scritti di Diderot (La Suzanne) ed ancora Manzoni (Monaca di Monza, Geltrude) e Verga ( la Maria, nel romanzo giovanile di Verga "Storia di una capinera"). In questi ultimi due casi, le due donne sono costrette per ragioni economiche ad andare in convento per ragioni economiche, vigeva già allora la legge del maggiorascato che prevedeva la non divisione dei beni della famiglia per favorire il primogenito maschio. Tanto nel Manzoni che nel Verga, le giovani provano a ribellarsi all'autorità paterna, ma non riescono e sono obbligate a prendere i voti. La stessa cosa avviene nel romanzo di DR, Giacomo XIII, costringe Don Blasco ad entrare in convento, allo stesso modo Teresa, impone a Don Lodovico di farsi monaco. All'interno della parentela, in in primo momento, l'acredine di Don Blasco si appunta, oltre che contro la principessa Teresa, anche contro il padre e il fratello. Pag. 102: "Don Blasco non risparmiava gli altri parenti...che non con un lungo discorso" In questo caso il narratore interviene a censurare gli eccessi verbali di Don Blasco con i puntini di sospensione. I DIFETTI DI DON BLASCO. Pag 205: "Grossolano, ignorante...tanto di coltello sotto i panni". Presenta, il personaggio, questi tratti caratteriali, cioè da una parte l'ignoranza, dall'altra l'attacamento ai beni materiali, tutto al contrario di ciò che in realtà dovrebbe essere, cioè un monaco pregno di umiltà e distaccato dalle ricchezze. Dpn Blasco spicca per la sua pinguedine, quindi è grasso, gioca al lotto, dunque è attaccato al denaro, ed è un uomo pronto allo scontro, violento, in quanto porta i coltello sotto alle vestiti. Pag 106: "assetato di potere...essere priore ed abate". Come tutti gli Uzeida egli è assetato di potere, e si prospetta una faida tra i candidati per il posto del priore che sono Don Blasco stesso e il nipote Don Lodovico, la spunterà il secondo perché dalla sua lo zio aveva solo il vantaggio dell'età, era più anziano, ma gli altri monaci non sopportavano i difetti di Don Blasco. Quando avviene lo scatto e Don Blasco vede sfumare il sogno di diventare priore, va su tutte le furie; Pag 106: "Ciò che gli uscì di bocca...con tutti i suoi abitanti". Ci sono delle frasi iperboliche "da incenerire il convento..." etc. Sempre dal testo: "Il meno che gli disse...del calcio assestatogli da quel gesuita porco di Don Lodovico". Ancora una volta i puntini sospensivi censurano le volgarità dette e pensate da Don Blasco. Questa figura DeRobertinana ricalca la più antica figura del Fra Cristofaro Manzoniano, ma al rovescio, nel senso che Don Blasco ha lo stesso temperamento focoso del frate manzoniano, ma il suo è irrazionale, non viene utilizzato per scopi umanitari, nobili come quelli di Fra Cristofaro, ma gli fa servire il proprio tornaconto personale. Don Blasco è un personaggio non dotato di coscienza personale, è un cinico, un egoista. Don Blasco ha anche molte amanti, si potrebbe dunque aprire l capitolo del concubinato del prete. Inoltre, il prete è sia uno spietato critico della sua famiglia, ce definisce "malarazza", ma è, allo stesso tempo, anche oggetto delle critiche dei propri familiari, del narratore e della vox populi: Pag 107 (I pensieri di Chiara): "Don Blasco era fatto così...per dargli torto", dunque una figura che non esita a contraddirsi pur di andar contro agl altri. Pag 131 (si contraddice): " che gli spettavano tper tradizione...sacrificato alle tradizioni medesime", era stato cioè sacrificato per far spazio al fratello maggiore seguendo la legge del maggiorascato. Capitolo VI PARTE PRIMA: Si svolge tutto nel convento di San Nicola, a proposito del noviziato di Consalvo, l'erede a titolo di principe, si ha modo di osservare la vita dissoluta dei monaci. Pag 208 (Fra Carmelo, che ha vissuto per anni nel convento, parla della storia del convento, destinato ad ammattire quando con l'arrivo delle truppe garibaldine, il convento verrà soppresso): "I monaci facevano l'arte di michelasso...andare a spasso", al contrario, quindi, delle leggi di San Benedetto che prevedevano una vita umile, sobria e riservata. Pag 213: "La regola andava letta in latino...propria e particolare mercede. risuscitare i morti". Si denota quale sia dunque la vera vita agiata dei monaci presso il convento, che non seguino effettivamente le regole Benedettine, ma vivono nell'abbondanza. Nella pagina seguente si legge ancora della vita di Don Blasco (Pag 214), e di come il nuovo abate aveva cercato di reprime queste sregolatezze, ordinando lo sgombero della sigaraia da una delle case di proprietà del convento del quartiere di San Nicola, che dovevano essere designate a gente bisognosa, ma che Don Blasco aveva donato alla preferita delle sue amanti, la sigaraia appunto. Il provvedimento dell'abate fa infuriare Don Blasco che ha la meglio contro l'abate ma che comunque si lega al dito questo affronto facendo sì che l'odio che prova per il priore, suo nipote Lodovico, sia il medesimo che prova per l'abate. VITA POLITICA DI DON BLASCO: Bisogna iniziare dicendo che all'interno del convento vi sono due diversi filoni politici, da una parte i liberali, cioè i filo-piemontesi, coloro i quali sostengono la casa dei savoia, dall'altro invece ci sono i Borbonici, i filo-Napoletani, che perono al causa di Francesco II, il partito, dunque, definito dai liberali "dei Sorci". In questa prima parte Don Blasco ci viene mostrato palesemente borbonico (pag 203), qui si evince come Don Blasco sia convinto che i Borbonici resisteranno strenuamente. Don Gaspare, fratello di Don Blasco, era invece un liberale, per tale motivo Don Blasco lo odia, in quanto costituisce un tradimento inaccettabili, quindi il ritorno da Palermo del duca di Oraua è un fatto terribile["Quello lì in galera...Francesco regnerà altri 100 anni"] Quindi a Don Blasco non piace che il fratello sia considerato un eroe della rivoluzione, quindi tende sempre ad accusarlo di opportunismo o peggio, in questo caso di vigliaccheria. Quando arrivano i Garibaldini e si insediano a San Nicola, Don Blasco ce l'ha di nuovo con il fratello Gaspare, perché è al centro dell'attenzione e non sopporta che sia considerato un eroe della libertà, dei tempi nuovi [Pag 270: "Don Blasco impiattato al convento...ne faceva parte"]. Sequenza importante per quanto riguarda l'esito positivo dell'impresa Garibaldina, è la decisione de parte del nuovo governo, della soppressione dei conventi e la conseguente alienazione e confisca dei beni ecclesiastici. Questo è ciò che si profila per gli ecclesiastici quando arrivano i garibaldini. La reazione a caldo si ritrova a pag 409: "Il Monaco alla notizia della legge...gli era mai uscito di bocca" . In questo caso è interessante il riferimento alle farmacie, dove non si vendevano solo le medicine, ma era un luogo di aggregazione in cui si discuteva di politica, c'erano dunque farmacie diverse a seconda degli orientamenti politici dei proprietari, a quei tempi Don Blasco frequentava farmacie borboniche e qui è interessante uno scambio di battute tra i due fratellastri Don Blasco e Fra Carmelo sulla confisca dei beni ecclesiastici, che ormai è legge, qualcosa di operativo, tant'è che fra Carmelo e gli altri monaci sono stati costretti a lasciare ASan Nicola e ad indossare abiti laici. Fra Carmelo è talmente scioccato da questa situazione che sembra aver perso il be dell'intelletto, da cenni di cedimento psichico [Pag 423 "Ce ne hanno cacciato...nessuno gliela contrasta"] (Lo scambio di battute si chiude con la ripresa della frase iniziale di Fra Carmelo: "Ce ne hanno cacciato, ce ne hanno cacciato") Don Blasco dunque da, almeno parte della responsabilità, ai monaci che avevano sottovalutato il pericolo. Quando il duca di Oraua si accinge a comprare una delle terre della chiesa, Don Blasca si indigna ferocemente, si traccia le vesti, come se fosse un vero e proprio atto di sciacallaggio, un sacrilegio quello compiuto dal fratello. La sua reazione è descritta a pag 413: "I beni della chiesa...arsenal", Don Blasco tuona contro tutte le novità che attentnato alla tradizione secolare della chiesa e ai privilegi. A questo punto assistiamo al drastico cambiamento (apostasia) di Don Blasco, che gira le spalle all'ideologia Borbonica ed abbraccia il rvoluzionismo, tant'è che lui stesso si macchia della stessa colpa del fratello, duca di Oraua, ed acquista l terre del monastero di San Nicola [pag 441: "Un bel giorno, però, Benedetto (marito di Lucrezia)...gli si misero contro"]. (Matteo Garina: marito della sigaraia, colui che aveva accettato che la moglie diventasse l'amante di Don Blasco e che anzi si era sbracciato per favorirgli la relazione.) Qui si nota lo spirito trasformistico di Don Blasco, lo spirito opportunistico. Questo cinico opportunismo è contestato da Donna Ferdinanda [pag 455: "Anche la casa...e a Francesco II?" Nel capoverso successivo abbiamo la difesa di Don Blasco: "Ma a Don Blasco importava un fico secco...l'avremmo fatta in barba al governo". In qualche modo il prete tenta di salvare il salvabile dicendo che il fatto di aver acquistato le terre appartenute a san Nicola non è un atto di incoerenza, bensì è un modo per farla ai nuovi venuti, cioè al governo liberale, un modo per riprendersi cioè che a loro era stato tolto, ma si tratta di una gioustificazione che non tiene perché il vero movente è quello opportunistico. Don Blasco abbraccia ormai senza remore le ideologie rivoluzionarie tant'è che alla fine della seconda parte capeggia i cortei di festeggiamento per la presa di Roma, esulta tra i liberali per la fine del potere liberale dei papi. [Pag 470-fine parte seconda:"Il sale sopra una seggiola e legge con il suo vocione*...circa 100 feriti"](Il duca di Oragua riceve dal prefetto un telegramma dove gli viene annunciato che Roma è stata presa. *Anche in questo caso Don Blasco si dimostra come una figura teatrale, fortemente icastico.] Durante il corteo vediamo Don Blasco urlare: "Abbasso morte abbasso!" cioè abbasso i presti e morte al padre. A conferma di questa nuova bandiera che don Blasco agita è l'abitudine recentemente contratta dal Monaco di frequentare una nuova farmacia [Pag. 492: "Da quel giorno Don Blasco...ma per una ragione diversa"]. Ludovico adduce a giustificazione della sua perplessità la sua coscienza, mette in evidenza non i veri motivi per cui resta tiepido alla causa ma dei motivi circostanziali. Donna Ferdinanda capisce che il nipote sta cercando di raggirarla e glielo dice espressamente "Coscienza, coscienza...ora che l'hai nelle fobici." (dì che stai assaporando il momento della rivincita contro Raimondo a causa del quale sei dovuto diventare monaco). Capolavoro di dissimulazione è lo stesso colloquio con Raimondo che supplica il fratello di procedere all'annullamento del matrimonio poiché donna Isabella era incinta. Nel colloquio Lodovico porta la maschera del fratello benevolo e amorevole, ma, come ci fa presente DR, in realtà Lodovico è felice di vedere il fratello, il ladro che lo aveva spogliato dei propri diritti, supplicante ai suoi piedi. 379: "Lodovico lo ricevette a braccia aperte..." Lodovico consiglia a Raimondo, a questo punto, di ottenere l'approvazione di Giacomo, indicandolo come la persona più autorevole per perorare la causa di Raimondo, in realtà è un raggiro in quanto non vuole aiutare il fratello in uno scandalo che lo avrebbe nociuto nella sua corsa al potere. L'ultima apparizione di Lodovio è nella terza parte del romanzo, a Roma, quando discute ad un colloquio con Consalvo,il nipote. Pag 504: "Monsignore lo accorse con l'untuosità (si mostra ipocrita) consueta...rispose piano, modestamente...Consalvo se lo propose a modello." Comprendendo l'astuzia dello zio, Consalvo decide di prenderlo a modello, insieme al prozio Duca di Oraua. Rispetto ai modelli letterari, anche in questo caso si può chiamare come modello un personaggio manzoninano, in particolare il cardinale Borromeo, ma la santità di Lodovico è solo apparente, scade nella interessata simulazione. Lodovico sparisce della narrazione nel momento in cui lascia Catania. Don Blasco e Lodovico deformano un valore, in particolare veicolano la fede religiosa in una versione deformata. ANGIOLINA, CHIARA E LUCREZIA: Le tre figlie di Donna Teresa. Su queste tre figlie Teresa esercita una volontà tirannica particolare guidata dalla legge salica, una legge che escludìva le figlie da ogni forma di eredità e privilegio (Pag 107: "Per lei...le femmine non sapevano fare altre che mangiare a Ufo...la sola che la guidasse"), oltretutto agli occhi di Teresa le figlie rappresentavano una minaccia per i figli maschi ed in particolare a Raimondo, poiché andando a marito si sarebbero portate la dota e quindi una parte di ricchezza che spettava ai figli. Angiolina, per decisione di Teresa, finisce in convento, appare una sola volta nel corso di tutto il romanzo a pag 108: "Angiolina, la maggiore...la madre non la perdonò più...realmente chiamata a Dio...morì Angiolina Uzeida e restò Suor Maria Crocifissa" Teresa aspettava come primogenito un maschio, quando arrivò invece una femmina non perdonò mai la nuova venuta per questa fatalità. CHIARA: Ci vien detto di lei che non era una bellezza, DR non ama indugiare sui caratteri fisici dei personaggi, in questo caso ci vien però detto che Lucrezia e Chiara non sono belle. Pag 126: "I due fratelli...Raimondo era bellissimo, Giacomo più che brutto...tra le donne l'alterazione era più che evidente, Chiara e Lucrezia...quasi non parevano donne...la Zia Ferdinanda sotto panni mascolini...l'usuraio e il sagrestano." Man mano che passano i secoli la razza degli Uzeida si imbruttisce, è il tema deterministico della degenerazione genetica che qui si mostra su piano estetico, perché i volti degli Uzeida delle ultime generazioni ci appaiono brutti, respingenti. I tratti di questa deturpazione sono un'estrema pinguedine o un'estrema magrezza. Chiara è tenuta da Teresa in un pungo di ferro, e ci si mostra ubbidiente alla madre fino al giorno in cui Federico il marchese di Villa Ardita non si offre di sposarla per niente, cioè senza dote. A questo punto Donna Teresa cambia i progetti per quanto riguarda il destino di questa figlia, in un primo momento aveva pensato di non maritarla ma poi, resasi conto che l'offerta del marchese era vantaggiosa per gli Uzeida, ci ripensa. Invita, quindi, CHiara a sposasri con il marchese. La reazione di Chiara è quella di ostinarsi a negare la sua mano, la sua disponibilità al matrimonio e, con estrema fissazione, cocciutaggine, rifiuta il partito del marchese. Con questa reaxone si dimostra tipica rappresentate della razza, perché ci vien detto che l'ostinazione, la cocciutaggine è un tratto peculiare di tutta la razza degli Uzeida. Questa è una prima dimostrazione della pazzia di Chiara. Pag 109: "Di prima impressione come tutti gli Uzeida...un poco pingue (il motivo iniziale non vuole sposare il marchese di Villa Ardita perché non risponde al sul ideale estetico)...era stata la più potente ragione della resistenza opposta alla madre...mai mai mai avrebbe sposato quella mezza botte...i piedi al muro (immagine icastica, incaponita) ella aveva sempre risposto di no, di no, e poi di no...ella sapeva come erano fatto quegli Uzeida, quando si incaponivano con quella testa...erano dei Vicerè, la loro volontà doveva far legge." Dunque abbiamo prima l'ostinazione, poi l'incostanza, la volubilità nel comportamento di Chiara. Prima ostinata a non voler sposare il marchese e poi volubile nel momento in cui capovolge il suo rifiuto e lo fa diventare un amore patologico. Nello stesso brano ci viene detto di un altro aspetto importante della vicenda del destino di chiara, cioè il suo desiderio di diventare madre (monomania= ossessione esclusiva che si presenta in forma estremistica). Proprio a causa di questo desiderio di maternità, Chiara diventa portatrice di un valore stravolto e quasi parodiato. Attraverso Chiara De Roberto ci rappresenta l'amore materno ma in modo deformato e quasi parodistico. Quando è presa da questo suo sogno di maternità, Chiara non pensa a nient'altro e si chiude al mondo (desiderio che equivale ad una manifestazione di egoismo). Pag 235:" Il marchese e Chiara...certi suoi quesiti" La coppia si espone al dileggio della gente, perché troppe volte la gravidanza era annunciata senza però un fondamento. Pag 237:"Il principe invitò tutti al belvedere...come di una colpa...intuiva le sue volontà...le attaccavano invece con gli altri." Chiara, che non può avere questo figlio tanto desiderato si colpevolizza per questa sua sterilità, e i due coniugi sono alleati nel tentare di difendersi dai pettegolezzi della gente e sfogano il malumore attaccando briga, lite con il prossimo. Nel capitolo nono della prima parte, tuttavia la gravidanza sembra reale e si impone sotto gli occhi di tutti, tant'è che la stessa Chiara prepara il corredo al nascituro. Pag 278: "La cugina Graziella (figlia di una sorella di Teresa) esaminava capo per capo...si decidevano a domandarle". "6 grandi ceste piene di tanta roba da bastare ad uno spizio di lattanti"-> quantità di roba sproporzionata rispetto alla necessità del nascituro, ennesimo dimostrazione di un amore materno stravolto e parodiato. Tuttavia Chiara abortirà nello stesso capitolo nono che quindi si apre con la preparazione del corredo e si chiude con Chiara che partorisce un feto mostruoso. Si tratta di una sequenza in cui si alternano due scene, uno incentrata sulla vita pubblica del paese all'indomani dell'unità d'Italia, e l'altra che invece ci riconduce alla vita famigliare degli Uzeida. Queste due scene sono alternate e DR si dimostra particolarmente abile nel montaggio. Pag 293 (scena pubblica):"Il giorno dell'elezione era vicino...i Giulente non mancavano mai" L'apertura è dedicata alla vita pubblica, siamo alla vigilia delle prime elezioni politiche in Sicilia dopo l'unità (18 febbraio 1861), si vota per l'elezione del parlamento nazionale. Vengono nominate queste due figure, i Giulente, che appartengono alla borghesia liberare, zio e nipote, Lorenzo e Benedetto (che sposerà Lucrezia). Entrambi si impegnano nelle lotte risorgimentali e dalla parte dei liberarli e in questo frangente sostengono la candidatura di Don Gaspare duca di Oraua, cognato di Donna Teresa che per convenienza aveva aderito alla causa liberale.Qui è descritto il fervore con cui i Giulente preparano queste elezioni, invitano gli elettori a votare per il duca di Oraua e, in mezzo a questi preparativi elettorali, si lascia intravvedere l portone di palazzo Uzeida che si apre, in questa circostanza alla folla di questi elettori, l'aristocrazia che trova conveniente, in questa occasione, aprirsi al contatto con il mondo socialmente basso che può favorirla nella corsa al potere. Subito dopo la scena pubblica cede il passo alla scena privata. Pag 293:"La vigilia della votazione, mentre il candidato dava udienza ai suoi fautori...al letto della partoriente". La prima zoommata viene fatta sul marito della partoriente "il marchese smaniava come un pazzo". Fino dalla soglia dell'episodio abbiamo i segnali della pazzia, della patologia, in quanto ci viene detto che Federico smania (radice->"mania" campo semantico della pazzia). in quanto è tutto preso dall'aspettazione di un evento tanto desiderato ormai prossimo. Il principe Giacomo, giunto sul posto, resta con Federico, mentre la principessa, la moglie Margherita, entra nella camera di Chiara. "Ostei aveva un'area beata...poveretto, è sulle spine". Chiara sta in preda ai dolori del parto eppure conserva un'area beata, questa espressione vuole indicare che Chiara, nonostante il travaglio, è felice di star per coronare il sogno della sua vita, e il suo pensiero volge a Federico che, in questo periodo della sua vita sentimentale, ama in maniera totale e incondizionata. "Il suo desiderio di tanti anni...era ancora vivo". Chiara partorisce un vero e proprio mostro, un "pezzo di carne informe", che ci viene descritto in maniera brutale. Nell'invenzione di questo episodio DR mostra di coltivare il gusto per l'orrido, l'accento è posto sugli aspetti più raccapriccianti e macabri dell'evento. Non si tratta di pura e semplice invenzione, in quanto, molto probabilmente DR, secondo la critica, si è valso della lettura della descrizione di un aborto mostruoso su un trattato specifico. È inoltre interessante la reazione delle levatrici a questo spettacolo ingrato che impallidiscono ma non per pietà, per il dolore perché si immedesimano in Chiara, ma semplicemente perché intuiscono che non avrebbero ricevuto nessun regalo per il loro servizio. Presiede, nella logica delle levatrici, quindi il materialismo assoluto, l'attaccamento al denaro. Questa logica economica si presenterà anche nel proseguo del racconto. In quel momento la partoriente sviene, quindi le astanti danno la notizia a Federico che reagisce con sgomento portandosi le mani nei capelli. Abnorme e inquietante è la reazione di Chiara una volta messa al corrente della situazione. La notizia le viene, in realtà preparate, prima le si dice che è una femmina, poi che è nata morta, poi, quando lei insiste per vederla, Chiara "non pianse, non provò raccapriccio...era tuo figlio". La sua era una reazione fredda, quasi scientifica, primo indizio di una pazzia ch esi manifesterà d'ora in poi in Chiara. A questo punto, nell'episodio entrano i parenti nella stanza della partoriente. È l'occasione per riaprire lo squarcio sulla vita pubblica. Pag 295:" Arrivarono frattanto gli altri parenti. a fare i suoi convenevoli". Gli altri parenti si prodigano nelle condoglianze del caso, ma il duca di Oraua fa i suoi convenevoli, si dimostra rammaricato è però una pura formalità. "Ma restò poco. Domani a Palermo". Come nel caso della morte della principessa Teresa il dolore era stato apparente, anche in questo caso le condoglianze sono solo formali. Il duca di Oraua non vede l'ora di riprendere il filo della sua giornata politica, si precipita infatti dai suoi aiutanti subito dopo la visita alla nipote. "il domani egli corse su e giù. il nome di Oraua" Ancora un volta, va in sscena il privato. Chiara chiama la cameriera perché ha in mente di conservare il feto in una boccia di strutto. "la marchesa ordinò che andassero a comprare dello spirito. e adattò il tappo". Alle visione di questa sorta di reliquia, i commenti e le reazioni furono varie. Consalvo commentò: "Guardava quel pezzo di grasso guazzante. "zio non pare la capra nel museo?". ma il parto di Chiara era più orribile". Ancora una volta DR esaspera le tinte orride del quadro. Chiara, dopo che il feto è stato conservato nella boccia: "Anche gli altri a poco a poco se ne andarono. il prodotto più fresco della razza dei Vicerè". C'è quindi uno sguardo soddisfatto di Chiara nei confronti del feto, e che mette in evidenza l'insania del personaggio. Il feto viene, in questa situazione, definito il prodotto più fresco dei vicerè, dunque l'esito della deformazione della razza. Chiara, prima di ordinare alla cameriera di andare a comprare lo strutto per tenere corservato il feto tira, da fuori da sotto il guanciale, un mazzo di chiavi, questo particolare non ci deve sfuggire. Nonostante la situazione eccezionale in cui si trova, di preoccupa di tenere sotto mano le chiavi della dispensa, per paura che qualcuno possa rubarvi. I parenti che erano andati da Chiara tornano a palazzo Uzeida e trovano che si è radunata della gente sotto al palazzo per festeggiare la vittoria del duca di Oraua. "La famiglia era appena arrivata al palazzo. facevano capriole" Questo sono i festeggiamenti in onore del duca che viene invitato ad affacciarsi dal balcone per un discorso, ma esso è timido, non sa parlare alla folla e quindi al suo posto parla uno dei due dimostrandogli le tare ereditarie della famiglia Uzeida, in particolare la volubilità di Chiara e di Lucrezia. [Pag 388: "Dove mettere Lucrezia?...che vi legherà tutti quanti." Quanto più Benedetto Giulente riesce ad ottenere prestigio tanto più aumenta l'ostilità di Lucrezia nei suoi confronti. Quando Benedetto viene nominato Cavaliere, Lucrezia lo prende in giro definendolo il pubblico "cavaliere senza cavallo". L'origine di questo disprezzo è il fatto di non aver sposato qualcuno alla sua altezza [Pag 415: "La vera origine...aveva fatto la pace...sdegnavano di trattarla...sposandolo...ci speculavano su...di Bnenedetto...da mastri notari...verità o menzogna?...è già cavaliere di natura"] I principi liberali professati da Benedetto non davano frutto, per questo agli occhi di Lucrezia erano indegni di essere serviti. Lucrezia soffre il fatto di essere nominata sidnachessa, questo perché l'essere moglie del sindaco le appare come qualcosa di degradante, uno scendere sul terreno dell'odiata borghesia, che fa di tutto per nobilitarsi. [Pag 433: "Le era parso che quel titolo di sindaco...un servitore del pubblico...e nascodessero un ironico dileggio"] Lucrezia si contraddice quando prima accusa il marito prima di non ottenere alcun tornaconto dalla sua posizione liberale, e poi scredita il ruolo importante assunto da Benedetto nella comunità. [Pad 435: "Poi denigrava in altro modo Giulente...lo attribuiva all'abizione"] Con una certa faccia-tosta fa pesare a Donna Ferdinanda e a Don Blasco di non averle impedito di sposare Giulente [Pag 434:"Si inettava la bocca contro di lui...sono stata sacrificata"] Arriva dunque ad atteggiarsi a vittima della famiglia cercando di suscitare la pena degli sconosciuti atteggiandosi a vittima sacrificale [Pag 435: "Diceva spesso cose più enormi senza pudore...quelli che mi hai fatto venire da Parigi? (accusa il marito di essere avaro)...ella si stringeva nelle spalle (vittimismo)...risparmia i tuoi quattrini (gli rinfaccia il fatto di averla isolata) ] La volubilità sentimentale di Lucrezia ci riserva ancora un'ultima sorpresa, quando apprende che il marito Benedetto è stato estromesso dal potere, il duca di Oraua gli aveva promesso di farlo diventare deputato un giorno, ma questa promessa si è rivelata falsa, perché ha favorito l'ascesa di Consalvo. Benedetto, realizzato di essere stato tradito dal duca di Oraua, finalmente apre gli occhi e scopre di essere stato usato dagli Uzeida, e, esasperato, tira un ceffone alla moglie. Quel ceffone, in qualche modo, ha il potere di convertire ancora una volta l'animo di Lucrezia che vede di nuovo in Benedetto l'uomo per il quale aveva sfidato gli Uzeida. Insieme a lui si arma di nuovo contro gli Uzeida [Pag 626: "Il ceffone la convertì...o lui o noi." Si è dunque ricompattato il fronte di marito e moglie contro gli Uzeida. Le parole che Consalvo dice alla zia Ferdinanda nell'Ultimissima pagina del romanzo per convincerla della tesi secondo cui la razza degli Uzeida non è degenerata ma è sempree la stessa. [Pag 664: "Guardiamo la zia Chiara...guardiamo la zia Lucrezia...e di spingerlo al ridicolo del fiasco elettorale." BENEDETTO GIULENTE: Seguiamo ora la storia dal punto di vista di Benedetto. Esso viene nominato la prima volta in occasione della lettura del testamento, vengono, infatti, qui annunciati i Giulente zio e nipote. Questo provoca la reazione stizzita di Donna Ferdinanda che non vuole saper niente di Benedetto in quanto indegno della razza Uzeida. [Pag 86-87:" Dio Lorenzo Giulente e suo nipote...ma il nipote?...buttati con i Sanculotti"] Le aspirazioni nobiliari dei GIiulente si esprimono attraverso la richiesta al re di poter ottenere il maggiorascato. Non avendo ottenuto l'approvazione reale i Giulente si buttarono ad appoggiare i Sanculotti. Il discorso pungoglioso di Donna Ferdinanda continua: "il consenso reale...potrà domandarsene l'istituzione del maiorasco...nel regno delle due sicilie"..."io credo che i Giulente sono nobili"..."io credo invece"...a sorridere finemente"] Dei Giulente si torna a parlare nel capitolo terzo della prima parte in un brano incastonato nel racconto delle vicende di Lucrezia [Pag 122:" I Giulente venuti circa un secolo addietro...negli altri"] C'è la mania della nobiltà da parte dei Giulente, il desiderio di diventare parte effettiva della nobiltà. Questo tipo di comportamento spiega perché i Giulente non abbiano coscienza di classe, vogliono lasciarsi assimilare dalla nobiltà, la loro è una politica di mimesi, di assimilazione e non di antitesi, non di contrasto, non c'è una dialettica di classi nei Vicerè. Tutto è in funzione dell'assimilazione dell'aristocrazia da parte di questa borghesia che DR scredita. Il fatto che poi Giulente esce sconfitto da questo tentativo rincara la dose, ci fa capire come questo disprezzo sia pieno e senza concessioni di sorta. A causa di questo desiderio di lasciarsi assimilare dalla nobiltà, i Giulente non costituiscono un polo sociale alternativo alla nobiltà, una forza sociale innovatrice nelle dinamiche politiche e sociali del tempo, e questo fa si che DR scelga i Giulente come famiglia rappresentativa di un ceto che ha tradito la sua missione, incapace di rinnovare la vita politica nazionale e di paese. Rappresentano il fallimento della borghesia liberale a fine '800. Al posto dello scontro, si ha invece la ricerca del compromesso, dell'inciucio, questo tipo di atteggiamento riprovevole Benedetto Giulente lo tiene sia a livello di vita privata che a livello di vita Pubblica, sia come uomo politico sia come sposo di Lucrezia. NELLA VITA PRIVATA: In qualità di marito di Lucrezia, Benedetto tenta di ottenere simpatica degli Uzeida ed è disposto a farsi servitore pur di raggiungere questo scopo. [Pag 333 (Donna Ferdinanda ha ficcato il naso nel menage familiare e pretende di guidare la nipote pur avvalendosi della competenza legale di Benedetto che ha tuttavia un atteggiamento estremamaente servile)] [Pag 336 (si nota come Benedetto non sia più padrone in casa propria ma sia compiaciuto, allo stesso tempo, di questo trattamento degli Uzeida, è felice che in qualche modo gli Uzeida lo trattino)] Quando vinee consultato per la questione del doppio scioglimento del matrimonio con Matilda e della sua amante Elisabetta con il marito, Giulente si fa inizialmente degli scrupoli di carattere legale, poi però entra in gioco l'orgoglio di essere stato un punto di riferimento della famiglia nobile di cui ormai si sente parte [Pag 337 "Ella non diceva che Benedetto...i suoi scrupoli".] SFERA PUBBLICA: Il cedimento al compromesso caratterizza anche la vita pubblica di Benedetto. Per comprendere ciò dobbiamo fare un passo indietro. Benedetto Giulenteha un passato da combattente garibaldino che resta ferito nella battaglia del Volturno. [Pag 275 "Al belvedere, dove il principe...la guarigione assicurata"] Abbiamo un passato eroico di benedetto Giulette, da combattente Garibaldino. Questo passato eroico viene ad essere rinnegato quando si tratta di ingraziarsi il parentato degli uzeida, perché il desidero di nobiltà è troppo offerte e prevarica anche sull'orgoglio. L'episodio della entrata in città dei Garibaldini (1862) è a pag 348 "Garibaldi era già in Sicilia...per andare contro il Papa". Giulente da ex combattente, che aveva seguito Garibaldi nella sua lotta contro i Borboni, dovrebbe esultare con Garibaldi, ma abbiamo visto come la moglie lo esorta, invece, a recarsi al Belvedere, dove sono gli Uzeida. E lo mette in crisi, in quanto è combattuto tra il suo patriottismo e la volontà di nobilitarsi agli occhi degli Uzeida. Insieme alla moglie, in questa manovra che mira a fargli rinnegare il suo patriottismo, ci sono anche Don Blasco eil duca di Oraua, che incide particolarmente sulle decisioni di Benedetto, potandolo ad un rinnegamento di quegli ideali. Don Blasco lo invita bruscamente a mettersi a parte di una legazione con lo scopo di convincere Garibaldi ad uscire dalla città per non mettere a repentaglio la vita dei concittadini. UN atteggiamento in controtendenza rispetto alla fede patriottica di Bendetto[Pag 351: "Giulente rimaneva perplesso...lasciandoci nel ballo"] Poco dopo, Benedetto riceve le lettere del duca di Oraua che si trova a Torino "Giulente stava ancora cercando di persuaderla la moglie...il non invervento...agli avversari...serio disastro...pericolo della situazione", resosi conto che tanto il monaco Benedettino, tanto il patriota, lo spingevano nella stessa direzione, Consalvo capisce che per tener buoni gli Uzeida e per continuare ad ingraziarseli deve mettere da parte il proprio orgoglio patriottico. Si conforma, quindi, ai consigli di Don Blasco e del Duca quando parla ai catanesi al circolo nazionale, il discorso che tiene al circolo scandalizza i vecchi amici di Benedetto, che si rendono ben conto del tradimento di Benedetto nei confronti dei vecchi ideali. [Pag 355: "Quel discorso scandalizzò...per indulto a sgomberare"] Giulente ha abbracciato i consigli degli Uzeida, diventando praticamente uno di loro. Tra le motivazioni che portano Giulente a mettere in discussione i suoi ideali non c'è soltanto il desiderio di ingraziarsi gli Uzeida, ma anche la volontà di diventare deputato. Proprio il Duca di Oraua, infatti, gli promette di lasciargli il suo posto [Pag 290: "Il duca pontificava...aspettando di prendere il posto del duca...nella grande politica"] Illudendosi di poter entrare nella grande politica, un giorno, Benedetto Giulente si accontenta di giocare un ruolo da fantoccio nella piccola politica, nella politica di Catania, diventando sindaco ma restando una marionetta nelle mani del duca di Oraua. [Pag 436: "Con l'aria di consigliare...era egli stesso...glieli raccomandassero"] Se Benedetto si presta a fare il sindaco fantoccio, e il duca esercita di fatto il suo potere, questo significa che il municipio è diventato un feudo degli Uzeida. ["Aveva la facoltà di fingersi...agenzia elettorale, fabbrica di clienti...ciò che a lui piaceva!] Lucrezia inveisce sul sindaco fantoccio, acendogli capire che lo disprezza per essersi messo alla mercé dello zio [Pag 436: "Bestia, sciocco...sapessi fare la tua parte...sopportava il municipio"] Questa ambizione è destinata a rimanere frustrata, la carriera politica di Benedetto si ferma al municipio, non ricaverà nulla da un'alleanza tanto lunga con l'Uzeida al potere. Il duca, alla fine, punterà su Consalvo e non su Benedetto. E quando Benedetto chiederà ragione di ciò, incentrando le proprie rimostranze sul fatto che Consalvo sia, politicamente, molto più a sinistra e meno moderato del duca e di Benedetto stesso, il duca risponderà che non ha più senso parlare di destra e di sinistra, che ora bisogna adeguarsi e, pertanto, Consalvo rappresenta meglio di lui il cavallo su cui contare. [Pag 621: "Il duca che gli aveva tante volte promesso...un vero salto nel buio"] Il Duca fa presente a Benedetto che bisogna adeguarsi ai nuovi tempo e deve, quindi accettare la sconfitta. Abbiamo visto come DR metta in atto una critica feroce sulla borghesia liberare attraverso la storia di Benedetto Giulente che esemplifica l'atteggiamento tipico di una classe sociale incapace di porsi come alternativa alla vecchia classe sociale dominante. In diverse occasioni De Roberto rappresenta il valore della fede politica ma deformato, stravolto. La stessa cosa avviene con gli Uzeida che si dedicano alla politica cioè Gaspare duca di Oarua e Consalvo, figlio di Giacomo. A loro la fortuna politica non manca, a differenza di Benedetto che esce perdente dalla lotta e scalzato da Consalvo. Nonostante questa diversificazione di fondo si può dire ciò che DR già dice di Benedetto, cioè che anche attraverso di loro DR rappresenta il fallimento dell'ideale, la sua involuzione. GASPARE DUCA DI ORAUA: È un cadetto, nutre nei confronti del fratello maggiore, Consalvo, una certa invidia [Pag 140 "Fino al '48 il duca...i suoi appetiti"] Il malcontento per la sua condizione lo spinge a prestare ascolto alle lusinghe dei liberali ["Il duca aveva dato ascolto...del principe di Francalanza"] La strategia dei liberali era quella di avere dalla loro un rappresentate importante dell'aristocrazia, i capi rivoluzionari sono molto abili a sfruttare il malcontento dei cadetti, penalizzati dalla legge del maiorascato, più propensi al cambiamento. Questa scelta politica, non è dettata da una vocazione, da una fede, è frutto di un calcolo, di una convenienza. Ne abbiamo una testimonianza a pag 145: "Don Blasco e Donna Ferdinanda (i più ferventi borbonici della famiglia)...numeri del lotto". Gaspare tenta la carta della liberà con lo stesso spirito con cui Don Blasco gioca al lotto. Gaspare presta ascolto ai liberali con prudenza, senza esporsi troppo al pericolo, in quanto a quei tempi i liberali erano considerati dei fuorilegge, ricorre qui un proverbio che punteggia il romanzo "saper dare un colpo al cerchio ed un altro alla botte". Il Duca sa muoversi in maniera prudente frequentando il gabinetto di lettura covo dei liberale, senza lasciare il casino dei nobili, quartiere dei puri. Si destreggia tra le due ideologie. Un altro aspetto del Duca D'Oraua è la codardia che, insieme all'assenza si una vera fede politica, ne faranno un politicante, un uomo che vaga in politica pensando al proprio tornaconto e non al bene del paese. Quando scoppia in Sicilia la rivoluzione del 48 don Gaspare non se la sente di partecipare e si ritira al Belvedere dando diverse motivazioni ad entrambi i partiti. Ai liberali dice che il moto era intempestivo e sarebbe, sicuramente fallito perché prematuro. Ai borbonici, invece, la fine imminente della carnevalata. In questa circostanza si mostra estremamente prudente, destreggiandosi. Quando il governo provvisorio della rivoluzione si inedia, il duca torna in città e presta di nuovo ascolto alle lusinghe del partito liberale, ma non prevede che presto i moti del 48-49 sarebbero stati spenti dal generale Borbonico principe di Satriaiano, il quale sbarca in sicilia e ottiene di reprimere la rivolta. In questa circostanza il duca si macchia di una grave colpa che gli sarà poi in questo frangente, tuttavia, non ci interessa la risposta di Giulente, bensì quella del popolano, il sarto Bellia che subentra al Giulente in questo punto del discorso: "Facendo Giulente il sarto Bellia...come vostra eccellenza". DR mette bene in evidenza, qui, quella che è l'ingenuità dei popolani, che hanno estrema fiducia nell'artistocratico, che credono che questo faccia davvero l'interesse del paese. Questa fiducia si spiega per l'antica soggezione del plebeo nei confronti del nobile (soggezione popolare alla figura del potere, suggestione del nome e del casato). Il mandato del duca è esercitato secondo criteri squisitamente clientelari, quasi clientelari mafiosi, distribuendo piccoli favori e onorificenze (es. il titolo di cavaliere dato a Benedetto Giulente) in cambio di soldi, di fette cospicue della rendita pubblica. Il duca strumentalizza la carica pubblica. Utilizzazione della carica a fini personali per arricchirsi ancora di più, e la trasformazione del collegio elettorale in un vero e proprio feudo in una rete clientelare. [Pag 447 (tutto il fatto è narrato dal punto di vista dei nemici del duca): "la questione era che i suoi avversari...e il ministero disperso di qua e di là (capitale prima a Torino e poi a Firenze)...Per i fatti del 62 (non era tornato a Catania quando Garibaldi era sbarcato di nuovo in sicilia)...come un feudo elettorale...egli non si muoveva (ora non si muove da Catania per andare in parlamento anche quanto vi si discutono questioni importanti)...una sola volta aperto la bocca (semprere restio a parlare)...in fondo alla zucca (non c'è una vera vocazione e non ci sono neppure le idee)...supina ignoranza...di marina"] È un quadro desolante questo, che viene completato dalla frase che secondo i nemici del duca quest'ultimo ripeteva nei primi mesi del nuovo governo liberale: Pag 448: "Ma la cupidigia era stata più grande della paura...ora che l'italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri" Politica asservita agli interessi familiari e personali. Questo motto del duca di oaua è una storpiatura di un patrota importante, il D'Azeglio, che, nei suoi ricordi, scrive: "Purtroppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gli Italiani." L'opposizione al duca di Oraua, si inserisce in un più ampio contesto di malcontento, l'universale malcontento, la delusione post rinascimentale per il modo in cui il risorgimento si era realizzato, e la delusione era dovuta al fatto che in parlamento sedevano uomini come il duca di Oraua [Pag 449: "prima, se le cose andavano male...battevano adesso la solfa."] Il duca di Oraua è un personaggio vincente, che riesce a farsi eleggere 5 volte di seguito al parlamento, ed anche quando cade la destra storia, partito di riferimento del duca, riesce a fare la scelta giusta, senza avvicinarsi alla sinistra e mantenendo i propri ideali riesce a farsi rieleggere. [Pag 544.545: "Il 16 marzo del 1876...la strombazzata novità...con duecento e più voti"] FERDINANDO E EUGENIO Coppia di stravaganti, che interpretano in maniera stramba il rapporto con la cultura. Rappresentano il valore-disvalore della cultura, il valore della cultura stravolto in disvalore. Avevamo già visto come la cultura subisca un declassamento all'interno del romanzo, si pensi a Benedetto, in questo caso il giornalista vende la penna per ingraziarsi uno degli Uzeida. La cultura si declassa, viene strumentalizzata, posta al servizio di uno scopo meschino. Le iscrizioni funebri di don Cono Canalà vadano intese in questo stesso senso, vadano a mettere in rilievo il degrado della cultura nel romano, Don cono è un adulatore, e scrive queste iscrizioni in lode della principessa soltanto per ottenere favori e protezioni dagli Uzeida. Infine donna Ferdinanda ha un diprezzo totale per la cultura, per le famiglie nobili che mandano i propri figli ad istruirsi. Impara a far di conto solo per i propri affari e a leggere per compiacersi delle sue origini nobiliare imparando a memoria il munios. Don FERDINANDO (Il babbeo): Lo scemo di famiglia, il babbeo è il soprannome che gli affida la madre. Lo avevamo già incontrato nel corso del funerale di Donna Teresa quando si era presentato in modo assolutamente stravagante e non consono e poi nel corso della lettura del testamento di donna Teresa che lascia il podere delle Ghiande e la terra dell'Ovo proprio a Ferdinando. Questo podere sarà un punto di riferimento importante per il personaggio, costituirà lo sfondo della sua esistenza, alle ghiande si legherà in maniera morbosa, luogo in cui farà i suoi esperimenti di inventore un po' pazzo. [Pag 114: "A qualunque ora andasse a cercarlo...mezzo selvaggio (triplice serie di aggettivi già usata per Lucrezia che ha lo stesso carattere di Ferdinando, molto legati)...insegnare l'arte"] Un avvenimento che segna una svolta della vita di Ferdinando è la lettura di un libro che gli viene regalato: "Un giorno, per san Ferdinando...al proprio sostentamento" È una lettura rivelazione che si lascia talmente tanto condizionare dal Robinso Crosue, da voler diventare anche lui un Robinson Crosue, trasformerà il Podere delle ghiande in una sorta di isola deserta. "Cominciò allora a fare esperimenti...restando a lui tutto il di più." Il piano è quello di liberarsi del figlio, estraneo alla razza degli Uzeida per suo disinteresse alla ricchezza, e per di più spillargli dei quattrini, imponendogli un contratto capestro ottiene di avere ben 500 onze l'anno sui frutti del terreno. Un terreno improduttivo che poteva dare e lasciare ben poco a Ferdinando, ma il babbeo era felice di soggiornare nell'isola perché a lui interessa soltanto di vivere la vita dell'eroe che gli aveva acceso la fantasia: "Egli era felice facendo la vita dell'eroe...prima che questa si sfasci" è chiaro che il modello Robinsoniano dal piano della lettura passa a quello esistenziale, interferisce con la vita concreta di Ferdinando. "Fin dal primo anno però egli...assottigliando tramano". Il podere rende sempre di meno, perché oltre ad essere di per sé improduttivo, diventa luogo di sperimentazione dissennata. Quando Don Blasco lo incita a impugnare il testamento di Teresa, Ferdinado si guarda bene dal seguire i consigli dello zio, perché teme che la ribellione possa rimescolare le carte del testamento e gli venga sottratto il paradiso delle ghiande che riproduce i luoghi dell'amato Crosue [Pag 118-119: "Rifiutando il testamento...che un savio nell'altrui" è ben contento di tenersi stretto il podere Isola delle ghiande. Questo attaccamento è confermato in occasione dei rivolgimenti rivoluzionari e delle epidemie, quando la famiglia Uzeida trova rifugio al podere, Ferdinando non segue la famiglia ma resta abbarbicato al suo podere. [Pag 176:" La villa a Francalanza al Belvedere...garanzie di immunità (attaccamento federel al podere delle ghiande"] Il racconto delle sperimentazioni che effettua al podere è presente a pag 235, in un primo momento si tratta di sperimentazioni di carattere agricolo, più tardi anche di carattere meccanico (ruoti e ingranaggi), condizionato sempre dalla lettura di libri. [Pag 235-36 "Ferdinando a modo suo... di diverso genere...fra i molti libri che comprava...e così via"] Cambia l'oggetto e il tipo di fissazione. Don Ferdinando ha rapporti con la cultura attraverso la lettura. Un'altra lettura condizionante le manie di Ferdinando è quella di un libro che parlava dell'imbalsamazione di animali, pertanto trasforma casa sua in un museo dell'imbalsamazione, in un carnaio. [Pag 256: "Quel babbeo di Ferdinando... Infine, l'ultima delle manie, delle fissazione, trasforma considerevolmente Ferdinando. Ferdinando si mostra disinteressato nei confronti delle ghiande che aveva amato, perché crede ormai di essere sul punto di morire, crede che gli restino soltanto 6 mesi di vita. [Pag 369: "Arrivati che furono alle ghiande...potete preparami il cataletto..la cosa era andata di questo modo...a prendere con sé il fratello" Siamo davanti ad una feroce ipocondria di Ferdinando che si lascia influenzare da tutti i libri di medicina che legge. Don Ferdinando veicola un'opposizione al mondo degli Uzeida, ai valori Uzeidani (ricchezza ed esercizi del potere), opposizione mite, non alla maniera di Don Blasco che attacca i suoi consanguinei tacciandoli di pazzia. Ferdinando si allontana a punta di piedi da tutti incarnando i valori diversi dell'utopia, alternativi a quelli per i quali gli Uzeida si scannano tra di loro. Il modello letterario di Ferdinando è quello del Don Chischotte, che si lascia influenzare dalla lettura dei libri di cavalleria. Ferdinando è un Don CHischotte depauperato della carica ideale rispetto al personaggio di Servantes. Ad un certo punto della propia vita, Ferdinando sceglie di abbandonare per sempre l'isola podere e di trasferirsi in città. Qui si ammala davvero, benché continui a credersi perfettamente sano. Capovolgimento della situazione al Podere delle ghiande dove era sano ed invece si credeva malato. "Il fatto è che in lui il sangue dei Vicerè si impoveriva" torna il tema della degenerazione biopsichica. [Pag 462: "A 39 anni egli se ne moriva...per le ruberie del fattore" Ferdianando crede che i parenti rapaci vogliano derubarlo di ciò che possiede, quando in realtà non possiede proprio nulla, dal momento che le ghiande non gli davano più nulla a causa prima delle stravaganze, poi degli acquisti folli ed infine delle ruberie del fattore. È interessante osservare che Ferdinando dimostri di essere uno degli Uzeida, cioè torna inaspettatamente il tema dell'attaccamento alla roba, alla ricchezza, per cui Ferdinando si riavvicina a quello che è una caratteristica peculiare della famiglia Uzeida. Nel delirio pre-agonico, egli, che teme di essere avvelenato, poiché stava seguendo le vicissitudini delle guerre franco-prussiane, crede che i suoi parenti siano prussiani. E, in particolar modo, scambia il parente che crede essere il più rapace, pensando possa avvelenarlo, con il generale prussiano Bismark. L'uscita di scena di Ferdinando è pertanto grottesca, delirante, folle. [Pag 469: "Con gli occhi stravolti...non schiuse più bocca (si rifiutò di mangiare)...aiuto, Bismark, assassino...aiuto assassino"] Non c'è modo più drastico per sottolineare il capovolgimento del valore della cultura in disvalore che la pazzia di Ferdinando. Come dire che la cultura per gli Uzeida conduce alla pazzia. È lo stesso DR a sottolineare come i due personaggi, Ferdinando ed Eugenio, dimostrino il disvalore della cultura per gli Uzeida, personaggi fortemente parodizzati. [Pag 608 (pensiero di Consalvo angosciato dalla para della pazzia che grava su tutti gli Uzeida): " Quei poveri di spirito...la ragione"] Eugenio e Ferdinando sono dei monomaniaci, passano da una mania ad un'altra, sono dei poveri di spirito, persone stravaganti, bislacche. Finiscno entrambe con il perdere la ragione) In questo ritratto dell'intellettuale degradato, DR ha tenuto come riferimento il libro di Flaubert "Bouvuard e Pecuchet " opera postuma e incompiuta dell'autore francese. Quest'opera mette in relazione due amici copisti. Uno dei due riceve un'eredita e decidono insieme di sfruttarla andando in campagna e provando a fare agricoltura fallendo, come fallisce Ferdinando alle ghiande. Dopo questo iniziale fallimento, i due copisti tentano esperimenti in diversi campi dello scibile, ma tutti questi esperimenti, alla fine, sono infruttuosi, fallimentari, sicché i due amici tornano ad esercitare il loro vecchio mestiere di copisti. È un'opera pregna di una risentita vena polemica contro l'ottuso spirito borghese dei tempi, contro le velleità culturali del ceto borghese. DR, che amava molto Flaubert, ha attinto per Ferdinando, anche a questo modello. EUGENIO: A differenza di Ferdinando neutre una cieca fiducia nella scrittura e non nella lettura. Alla scrittura affida il compito di dimostrare i suoi velleitari progetti destinati a fallire. L'antefatto della storia di Eugenio di legge a partire da pag 139: "Destinato sulle prima ad entrar nei benedettini...al mestiere delle armi". Eugenio è fratello della prima generazione degli Uzeida, e, inizialmente, era destinato al convento come Don Blasco, ma riesce a convincere i propri genitori ad avere una vera e propria vocazione per il mestiere delle armi. facendo valere questa sua presunta attitudine decide di lasciare Catania per Napoli, allora capitale del regno delle due Sicilie. Questo antefatto ci viene raccontata la vita napoletana di Eugenio, riesce ad entrare nella nobile compagnia delle reali guardie del corpo di Ferdinando II, ma non legando con i suoi compagni di milizia che non sopportano la sua fama di millantatore, la sua attitudine a dire bugie, a millantare ricchezze quando invece versa in uno stato di miseria (che si porterà fino alla fine dei suoi giorni), non vi resta a lungo. Lascia il corpo delle guardie reali per essere nominato gentiluomo di camera, alla corte di Ferdinando II, riesce ad ottenere un impiego a corte. Anche in questo incarico si crea dello scontento intorno a lui. Addirittura una voce malevola parla di cose poco pulite da lui combinate con un fornitore della casa reale. C'è un sospetto di disonestà anche in questa mansione. Passa, quindi, a vivere di nuovo a Catania con una nuova vocazione. Dimostra di essere attaccato all'idea degli scavi archeologici e la numismatica. [Pag 140: "Da Napoli l'ex guardia del corpo...valore grandissimo...cominciò a far commercio di antichità" Si specializza nel commercio di oggetti d'arte. l'elemosina. Intanto, però, vuole tentare un altro colpo, cioè, il nuovo araldo. [Con meno pudore e più fame di prima...altri quattrini". L'attribuzione di titoli nobiliari a chi lo aveva pagato, suscita, oltre all'indignazione di Donna Ferdinanda, anche lo scandalo negli ambienti nobiliare. [Pag 576: "Era il cavaliere Don Eugenio. si era perduta per via" Nonostante i guadagni, finisce ugualmente in miseria per i debiti contratti. L'ultima apparizione del personaggio lo vede chiedere l'elemosina. [Pag 581-82: "E un giorno si diffuse per tutta la città. un soldo per favore"] Per procacciarsi il soldo dava spettacolo della sua pazzia elencando tutti i suoi titoli inventati. ["Certuni gli chiedevano chi era...Eugenio Consalvo Filippo Blasco. un soldo per comprarmi un sigaro"] Questa è la fine penosa di Don Eugenio. In particolare si evidenzia il contrasto umoristico tra l'estrema miseria e la sua boria, la sua vanagloria. RAIMONDO: Ci viene raccontata la storia pregressa attraverso il flashback del capitolo terzo. Raimondo è considerato il beniamino della madre e viene anteposto al primogenito Giacomo. [Pag 125: "Con gli anni la principessa chiuse a San Nicola. Giacomo non poté disporre di nulla.] Teresa è sfacciatamente affezionata al terzogenito Raimondo poiché Giacomo aveva avuto il torto di non nascere quando la madre lo aspettava (cioè, quando nacque Angiolina) e di mettere a rischio la vita di Teresa nella nascita. DR sottolinea la bellezza di Raimondo, tratto che lo pone in contrasto con la razza degli Uzeida, in cui prevale la bruttezza. Raimondo è un'eccezione nella galleria dei ritratti. È antitetico, si pone agli antipodi anche rispetto a Giacomo, in quanto questo è più che brutto. Coppia oppositiva. Ci viene spiegata la ragione di questa bellezza. [Pag 126: "I due fratelli, quantunque avessero la stessa area di famiglia...più che brutto. tra i progenitori più lontani...la bellezza del contino. era più manifesta (pag succ.) tratto tratto tra le generazioni successive. per la corta statura" (All'inizio dell'albero genealogico ci sono dei tratti di bellezza che poi tenderanno a scomparire). Contro le tradizioni familiari, Teresa decide di accasare il beniamino Raimondo e lo fa perché è previdente, in quanto se fosse rimasto scapolo non avrebbe avuto nulla, non sarebbe stato ricco. Si adopera per trovare una moglie conveniente, cioè con una dote cospicua. Però, in questa scelta, trova difficoltà, esita perché è gelosa del figlio, quindi non vuole che la nuora sia di Catania ma di altre città più lontane. In questo modo la gelosia sarebbe stata inferiore. [Pag 128: "Per questo, il giorno che. del marchese Gazzeri"]. Giacomo, di malavoglia sposa Margherita che gli ha imposto la madre, lui che, invece, aveva intenzione di convolare all'altare con la figlia di una sorella di Teresa (Graziella, sua cugina), Raimondo, invece, deciso a non ammogliarsi, viene costretto a maritarsi con Matilda, figlia del barone di Palmi. Le tradizioni familiari avrebbero voluto che si sposasse il solo primogenito. [Pag 137: "Le tradizioni di famiglia. il solo primogenito"] Nel corso di un discorso indiretto libero ci vengono riferite le parole con ciò Donna Teresa convince il figlio a cedere alla sua volontà e a sposare la figlia del barone di palmi [pag 130: Voleva egli divertirsi?...ogni cosa (Diceva che la dote)*...legato sul serio **. "Se ti secca la pianterai"***"] *Notiamo che l'indiretto libero restituisce le parole di Teresa al figlio, altre volte, invece (caso di Matilde) non restituisce le parole, ma pensieri e sentimenti interni all'io, quelli che il personaggio rivolge a sé stesso in muti colloqui (monologo interiore). In quest'ultimo caso il verbo sottinteso è "pensava" e non "diceva" **Qui interviene il narratore, discoso neutro del narratore. ***Discorso diretto. Teresa è ben felice dell'indifferenza di Raimondo verso la sposa. Raimondo è spinto a dire di sì per via del denaro ["E solamente quel linguaggio e quegli argomenti. opprimente protezione della madre"] Queste nozze imposte, pongono le premesse per la storia di una crisi coniugale che è al centro della vicenda di Matilde, moglie di Raimondo. MATILDE PALMI: Personaggio che si presenta come vittima nel romanzo, vittima del marito, del disamore, dell'astio dei parenti Uzeida. Un astio riassunto nel fatto che gli Uzeida quando parlano di lei la trattano da intrusa, da persona estranea. Nell'episodio dei Funerali della matriarca partecipa anche Matilde, in compagnia di Raimondo. Da parte di Riamondo c'è solo indifferenza e disamore, per quanto riguarda il trattamento da parte della servitù e del parentado, invece, bisogna leggere a pag 78. [Pag 78: "Verso sera, mentre la servitù...s'era maritata!" Dai commenti della servitù si nota la bellezza di Matilda, in contrasto con la bruttezza delle donne della famiglia Uzeida. Matilda sembra più afflitta del contino e, con gentilezza, pregava che portassero su i bagagli per la notte. La servitù si mostra affettuosa nei confronti di Matilde. Mentre gli Uzeida trattano la servitù con disprezzo, Matilda, invece, assume un atteggiamento tutt'altro che altero, ma gentile e interessato. Le distanze sociali sono ridotte in quanto Matilde è semplice, umile, dimessa, e quindi sentimentalmente disponibile verso tutti. Matilde è figlia del Barone di Palmi, appartiene ad una media nobiltà. Da questa scena capiamo che Raimondo trascura la moglie, ma che Matilde è un personaggio che non ha il temperamento e il carattere degli Uzeida, ma si mostra in un atteggiamento di umile disponibilità. In un'altra scena intravediamo quella che sarà poi l'amante di Raimondo, Isabella Sferzo. Pag 84: "Adesso i servi accendevano...di Parigi" [...] "Ad un tratto don Cono...Le solite smorfie!"] Si nota, soprattutto nella seconda parte, l'indifferenza di Raimondo davanti ai malori di Matilde. Malori provocati non dai capricci, bensì dalla gelosia. Probabilmente Matile si era già resa conto che il marito sta corteggiando donna Isabella. La chiusa è ancora più interessante, perché ci mostra utto il parentado contro Matilde. [Pag 99: "Pesavano sulla contessa Matilde...o un altro." ] Qui DR si riferisce a Matilde come "l'intrusa", lo stesso meccanismo di marginalizzazione di un personaggio che sconta un colpa verrà usato anche da Pirandello che definirà "Esclusa" per Marta Ajala. La colpa che Matilde è chiamata a scontare nel romanzo non è il fatto di appartenere ad una nobiltà inferiore, bensì quella di amare immensamente Raimondo, nonostante questo la tradisca non solo con Isabella. [Pag (Indiretto libero, monologo interiore, come se il personaggio stesso si presentasse al lettore attraverso i suoi stessi sentimenti, che condivide solo con altri 2 personaggi del romanzo, cioè con i figli di Giacomo, Teresa e Consalvo) 152: "Non le facevano festa in quella casa...l'amore che portava a Riamondo"] Questo amore è un amore smisurato, maniacale, patologico, masochistico che finisce con il fare di Matilde un personaggio affine agli Uzeida. DR si rende conto che, per quanto il personaggio abbia delle caratteristiche estranee agli Uzeida, è come se, tuttavia, fosse contagiata dalla razza con cui si è imparentata, chiama dunque il lettore a giudicarla con una certa severità. Personaggio per certi versi postivo ma non del tutto positivo. Nel monologo interiore di Matilde sono coinvolti i ricordi, ad esempio quelli relativi alle sue letture adolescenziali. C'è una componente Bovaristica del suo masochismo. ["Lo amava fin da quando lo aveva visto...e splendido"] Il suo amore è doppiamente mediato, da suo padre e dalle letture. Un altro ricordo di Matilde è quello dell'infanzia con la sua famiglia felice. Modello di famiglia patriarcale, basato su valori tradizionali e intimamente coeso che si contrasta con il modello Uzediano che si pone negativamente, in quanto esempio di egoismo e divisione. [La sua memoria le rappresentava...d'accigliato silezio"] D auna parte il ricordo benevolo della sua famiglia, dall'altro il clima di odio che regna in seno alla famiglia degli Uzeida. In questo monologo interiore si riassume la cattiveria che gli Uzeida le rivolgono contro. [Pag 153: "La madre di Raimondo...in lui e per lui"] Altri ricordi riguardano le visite che le coppie di sposi fanno alla casa di lei a Milazzo. Qui Raimondo si dimostra insensibile perché mette in evidenza le ristrettezze della provincia rispetto a quelle che sono le sue voglie di una vita piena di piaceri. Presto convincerà Matilde e si trasferirà, infatti, a Firenze imponendoglielo. I ricordi di Matilde la rendono sorda a quelle che sono le conservazioni da Giacomo. "Ella rammentava assiduamente...Brevi viaggi" matrimoniale, il contrasto tra il Barone e Raimondo viene visto ponendo una voce positiva anche verso il conte) *la versione menzognera di Pasqualino viene dunque smentita, non soltanto dalle voci provenienti di Milazzo e Palermo, ma anche dallo stesso Pasqualino quando, brillo, si faceva sfuggire la verità con gli intimo. La verità viene illustrata nei capitoli successivi. La descrizione, il ritratto di Isabella Fersa, ci viene fatto sin dalle immagini iniziali dalla stessa Matilde. [Pag 170:" Ella agitava con moto graziosamente indolente...non aspettar più nessuno?"] Attraverso questo indiretto libero, Isabella ci viene presentata come una sorta di Femme Fatale, un'ammaliatrice di uomini che ha il solo capriccio di conquistarli tutti e di entrare a far parte di una famiglia nobile. Ci riesce convincendo Raimondo a sposarla, ma i loro sentimenti sono completamente superficiali. Dopo averla sposata, Raimondo si stancherà presto di lei. In questo capoverso viene evidenziato anche l'abbigliamento di lei, e la sua eleganza (ventaglio di madreperla e merletti). Tanto Matilde è umile e sottomessa, quanto Isabella è amante del lusso. Tanto Isabella è amante della conservazione, tanto più Matilde si mostra intraversa e silenziosa. Sono agli antipodi. Il fatto di essere entrambe sposate, rende ancora più piccante la storia adulterina di Isabella e Raimondo, l'ostacolo aumenta il desiderio. Un altro momento importante della storia tra Raimondo e Isabella avviene prima che l'adulterio avvenga fattivamente. Il contesto è religioso, in quanto gli Uzeida sono riuniti in Chiesa e assiste alle funzioni della settimana santa. Isabella, presente alle cerimonie, viene condotta da Raimondo dalla panca in cui è seduta, sino a quella in cui siedono l'Uzeida. È come se Raimondo volesse imporre la scelta dell'amante alla famiglia. La famiglia deve accettare Isabella come sua compagna. [Pag 221: "Un mormorio venne in quel momento...accanto a quella di sua moglie...repentinamente"] Isabella riuscirà, alla fine, ad avere la meglio su Matilde sposando Raimondo. I due riescono a sposarsi dopo aver annullato i propri matrimoni. Per fare ciò, gli Uzeida non si preoccupano di portare in tribunale false testimonianze. Abbiamo già visto la falsa testimonianza di Don Eugenio. Questo duplice annullamento è oggetto di un indiretto libero da parte di Pasqualino che smentisce la falsità delle testimonianze, ma, nell'atto di smentile, non può fare a meno di dare voce anche agli altri personaggi. A lui, viene anche affidato il racconto della morte di Matilde, che si ammala di dispiacere. Della morte di Matilde se ne parla quasi en-passant, ed è coerente con il personaggio. È una morte umile, sottomessa, che passa in secondo piano. [Pag 384: "E certa gente, Pasqualino non se ne dava pace...la quale era in fin di vita...il genero diceva la verità." Il barone Plami non aveva smentito la tesi dell'Uzeida in cui si diceva che il matrimonio era stato contratto con la violenza. Tra l'Illusione e i Vicerè, Matilde, Raimondo e Teresa si ripresentano. Nell'Illusione viene raccontato l'epilogo della storia di Matilde, mentre, poi, il romanzo si incentra sulla storia di Teresa. Nei Vicerè, invece, si tratta la preistoria di Matilde. Questa preistoria scritta dopo, giustifica quello che è il comportamento adulterino di Teresa nell'Illusione, quasi come se Teresa voglia vendicarsi dell'amore della madre. Se, nell'Illusione Matidle è vista con gli occhi della figlia Teresa, nei Vicerè è Teresa ad essere vista con gli occhi della madre Matilde. GIACOMO: Hai il nome del nonno, Giacomo XII. Anche i figli di Giacomo avranno gli stessi nomi dei nonni Consalvo e Teresa (Consalvo VII e Principessa Teresa). Giacomo si sposa due volte, la prima volta con Margherita, la figlia del marchese Gazzeri in un matrimonio combinato, una seconda volta con la cugina Graziella, di cui era innamorato sin dalla giovinezza. Rimasto, dunque, vedovo di Margherita, si riposa con la cugina, il suo vero amore. Abbiamo già detto che giacomo si contrappone, per la sua bruttezza, al bellissimo Raimondo. Teresa, la madre, crudelmente gli appioppa dei soprannomi che fanno riferimento alle malformazioni fisiche di Giacomo (Pulcinella, Orso etc). Il ritratto morale del personaggio si ritrova all'interno delle pagine dedicate a Donna Ferdinanda. [Pag 132-133: " A quel modo che fisicamente gli Uzeida...come Donna Ferdinanda e come il principe Giacomo XIV] Il principe è tutto teso all'accumulazione del denaro, questa monomania, questa brama di ricchezza, questo desiderio di accentrare tutto il patrimonio familiare nelle sue mani, è messa in risalto quando figlio di Giacomo, Consalvo, inizia a spendere tutti i beni raccolti dal padre. [Pag 442: "Finché si era trattato della malavita del giovane...come di cosa propria"] Il principe è il più tipico rappresentate degli ingordi spagnoli intenti unicamente ad arricchirsi. Un'altra caratteristica del comportamento di Giacomo, condivisa con i capocasata precedenti, in particolare con la madre Teresa e con il nonno e che trasmetterà alla generazione successiva, è la tendenza a ristrutturare l'architettura delle proprie abitazioni, sia del belvedere, sia del palazzo cittadino. Questa ristrutturazione ha scopi ben precisi. [Pag 125: "Uno dei suoi più lunghi desideri (di Giacomo)...il palazzo (patrizio)...ella stessa aveva lavorato...neanche attaccare un chiodo."] Questa maniaca tendenza a portare modifiche si rinnova di generazione in generazione. [Pag 177-178:" La villa degli Uzeida (Belvedere) era tanto grande da...furono sacrificati alle viti (Teresa disfa quello che aveva fatto il suocero)...nel pozzo davvero...Ora appena aggiunto...porte e finestre"] Le motivazioni profonde di questo comportamento bizzarro si ritrovano nel volontà di fare atto di potere, atto di padrone, di affermare la propria autorità, di lasciare un'impronta visibile. Esibizione vanagloriosa della propria autorità. C'è poi il motivo del conflitto generazionale, le modifiche si compiono nella misura in cui il capocasata vuole osteggiare l'operato della precedente reggenza, vuole opposi al potere del genitore o dell'avo. Ancora, c'è la componente irrazionale, sono interventi per lo più gratuiti, che finiscono con il produrre disordine. All'interno di questa irrazionalità, si individua una volubilità tipica Uzediana, l'incostanza, l'incapacità di portare a termine i lavori. Porte murate e scale interrotte ci danno l'idea di lavori iniziati e mai finiti, a conferma di questa volubilità. La bramosia di Giacomo deve incontrarsi con le disposizioni testamentarie di Teresa, che priva a Giacomo del privilegio di poter godere dell'intero patrimonio universale. Tutta la prima parte del romanzo vede Giacomo adoperarsi per vanificare queste disposizioni, operazione di spoliazione fraudolento e compiuta in maniera segreta, con manovre accorte. L'operazione giugne ad una risoluzione positiva. Giacomo si riappropria di quello che gli era stato accolto. Con il compimento di questa operazione si esaurisce con una linea d'intreccio ben precisa all'interno del romanzo. Questa linea si trova nel centro matematico del romanzo, alla fine del quinto capitolo della seconda parte. L'importanza è data da una collocazione temporale ben precisa. Siamo nell'ultimo giorno dell'anno del 1865, sono passati ben 10 anni da quando è morta donna Teresa. [Pag 401-403: "Ora, un giorno che fu giusto il 31 dicembre 1865...Del signor Marco"] Marco Loscitano: Il notaio della madre di Giacomo di cui Teresa si fidava tantissimo. il Biglietto è il benservito, il licenziamento del notaio. Apparentemente senza motivazione. Nella reazione al licenziamento abbiamo la conferma da parte di Marco del fatto che giacomo ha rubato ai suoi fratelli vanificando le decisioni prese da Teresa. In quest'opera ha avuto come complice proprio il signor Marco. Sopraggiunge il notaio e cerca a sua volta di calmare il Singor Marco ["Di Grazia, Signor Marco. fare il nido!"] Marco non era stato beneficiato dalle decisioni testamentarie di Teresa, con lui gi Uzeida si erano sempre dimostrati avidi e meschini. Un passo del testamento lo esclude dalla trasmissione di qualsiasi legato dell'eredità. Un gesto che compie al culmine di questa scenata ci sconvolge: ["E spalancando gli armadi e le cassette riprendeva. nelle catacombe dei cappuccini." Il gesto simbolico di buttare le chiavi del catafalco della principessa Teresa consente simbolicamente di far uscire dalla scena del romanzo il fantasma di Teresa. Finora, il principe Giacomo aveva lottato con un fantasma, un conflitto generazionale in absentia. D'ora in poi, la vecchia principessa esce definitivamente di scena e il principe Giacomo si propone non più come figlio ribelle, ma come padre che deve a sua volta fronteggiare la ribellione del figlio Consalvo. Nella seconda parte del romanzo assistiamo ad un nuovo conflitto generazionale, simmetrico al primo. Giacomo padre si sconterà con Consalvo figlio. La vendetta che Giacomo consuma nei confronti del fantasma materno, si da anche sul terreno matrimoniale, oltre che su quello patrimoniale. Ciò è comprensibile dal commento che la gente fa sul secondo matrimonio di Giacomo che Teresa aveva proibito. La ragione profonda che lo spinge a compiere questo passo, non è l'amore per Graziella, ormai spento, ma è il desiderio di vendicarsi della madre, di farle un dispetto postumo. [Pag 428: "E tutti riconoscevano che Giacomo sposava Graziella...del coerede?"] Il secondo conflitto generazionale si consuma, come nel primo caso, nellastipulazione del testamento. Come Teresa penalizza il primogenito designando il terzogenito Raimondo come co- erede, allo stesso tempo Giacomo disereda il figlio Consalvo a favore della sorella Teresa. I due conflitti si corrispondono. Le differenze, tuttavia, sono plurime. La prima consiste nel fatto che l'ostilità dimostrata da Giacomo nei confronti della madre morta è dissimulata dietro a maneggi sotterranei, sfrottando il ricatto, ade sempio, nei confronti di Raimondo e così via. Nel caso di Consalvo e della sua rivalità con il padre, non c'è occultamento, ma, anzi, ostentazione. A Consalvo serve, questo sentimento antipaterno, come credenziale da poter esibire per la sua presunta fede democratica, per dimostrare la sincerità delle sue ideologia anti- aristocratiche. C'è, da considerare, poi, la ragione che sta a monte dell'ostilità dei genitori. Da una parte c'è Teresa il cui comportamento si spiega, sì, per una vena di follia che scorre nel sangue degli Uzeida, ma che si giustifica anche sentimentalmente, in quanto mossa dall'amore provato per il figlio Raimondo. D'altra parte, invece, l'ostilità di Giacomo si spiega sulla base del comportamento sconsiderato di Consalvo che sperpera il patrimonio dandosi ai folli divertimenti, rifiutandosi di sposarsi secondo l'ordine di Giacomo, ma è un rancore che, aldilà di queste motivazioni razionali, si alimenta della nevrosi del personaggi. C'è un supplì di follia nel passaggio da Teresa a Giacomo padre, provocato da un cedimento psichico causato da questo suo muoversi nell'ombra. Tutto ciò ha provocato una fobia della iettatura. Giacomo diventa estremamente superstizioso, fino al punto in cui crede il figlio Consalvo come principale suo nemico Iettatore, tant'è che assegna a Consalvo il sopranome apotropaico "Salute a noi". C'è questo presupposto clicnico che incide maggiormente in questo secondoconflitto generazionale. Il conflitto di Giacomo e Consalvo esplode in occasione dell'imposizione di Giacomo al figlio di sposarsi. [Pag 602: "Quel giorno il principe Giacomo...persuadete quel pazzo." Il fatto di negare i diritti del primogenito appare una vera e propria follia al notaio. La disposizione testamentaria non si spiega con l'amore eccessivo verso la figlia Teresa, bensì con l'odio smisurato verso il figlio maschio. Un altro aspetto che coincide con il primo scontro generazionale è quello dell'annullamento del testamento, ma a differenziarsi sono le tempistiche con cui questo annullamento avviene. [Pag 614: "Ascolta, Consalvo...quel che ho avuto in tali condizioni"] Se per Giacomo c'erano voluti anni per riottenere il patrimonio che la madre gli aveva negato, per Consalvo ci vogliono poche settimane, in quanto è la stessa sorella che, pacificamente, decide di non accettare il testamento del padre. I due arrivano ad una divisione equa del patrimonio. TERESA E CONSALVO. Questa lettura le ripropone un modello di santità, di sacrificio portato sino alla santità, sino all'eroismo. DI questa esaltazione mistica i parenti approfittono per indurla per sposare Michele. [Pag 563: "E quella lettura...ogni ricompensa terrena e celeste."] Teresa cede, sposa Michele ma chiede che il padre faccia padre con il fratello Consalvo, e che questi sia presente al proprio matrimonio. [Pag 564: "Farò quel che vorrete...tra tutti!"] Il matrimonio con Michele no significa l'eliminazione dell'amore per il secondogenito Giovannino, ma, anzi, quest'amore, questa passione si ridesta quando Giovannino si ammala. Giovannino si era recato in campagna per dimenticare Teresa, alla notizia della malattia per Giovannino, la giovane si interroga su quali sono i propri veri sentimenti. [Pag 589: "Tornando in camera sua...a lui e a lei stessa!"] Teresa crede di essere la responsabile per la malattia di Giovannino. Tuttavia, il secondogenito guarirà, ma porterà per sempre i segni della malattia. Ad avvertirla di ciò è Consalvo. [Pag 593: "Erano soli. Ella chinò il capo...prima che succeda una disgrazia."] Questa disgrazia si compie, Giovannino, ormai impazzito, si suicida. Questo suicidio è frutto di una serie di concause. Non solo la malattia, e quindi le conseguenze della malattia, ma anche la tara generica, il fatto che Giovannino è pur sempre il figlio del pazzo Radalì, ed, infine, la delusione amorosa. Il suicidio avviene in contemporanea con la morte del principe Giacomo. [Pag 610: "Eccellenza, venga qui...il braccio al servo"] Consavlo, alla notizia della morte tragica di Giovannino, si sente morire dentro, si sente assalire da sentimenti angosciosi. Giovannino Radalì era stato compagno di vita di Consalvo, erano cresciuti insieme nel convento di San Nicola, ma è il suicidio che lo sconfolge, in quanto gli fa venire in mente il determinimso della razza, la tara ereditaria, si sente addosso questa spada di damocle. Questo smarrimento non era nuovo a Consalvo, in quanto si era già affacciato nella mente di Consalvo al cospetto del padre morente. [Pag 608: "Consalvo non diceva nulla...pensava!" Il fatto di essere un Uzeida gli aveva consentito di avere fortune che gli altri non potevano disporre, ma questo portava anche dei tratti negativi. "Ma piuttosto che dare...non egli era minacciato." A questo punto della storia, ora che l'angoscia si è ormai insidiata nello spirito di Consalvo, a salvarlo è una decisione che gli fa riguadagnare quella fiducia che aveva perso. La decisione p quella di far passare il suicidio di Giovannino come una disgrazia. Solo vincendo la paura della morte, Consalvo riuscirà, alla fine, a vincere diventando deputato. In questo momento, con questa scelta, si salva dal baratro ponendo le premesse per lo slancio necessario ad imporsi nell'agone politico. [Pag 610: "Sentiva di dover far qualcosa...in mano al cadavere...la ricchezza e la potenza"] La decisione presa di far passare il suicidio per una disgrazia, è anche un modo per proteggere la famiglia e la sorella dai propri sensi di colpa, ma non solo. È anche un modo per proteggere sé stesso. (DR è autore anche di un romanzo giallo di nome "Lo spasimo"). Dopo la morte di Giovannino, Teresa si da ad un forte bigottismo religioso, chiamato da Consalvo, severamente, "misticismo isterico". Pag 637: "Questa qui adesso si chiamava in casa...Tutti a un modo, tutti!" Il segno della pazzia prende, dunque, anche Teresa. Nelle pagine finali Consalvo emette un giudizio senza appello contro la pazzia della sorella. [Pag 664: "Guardiamo in un altro senso la stessa Teresa...del povero cugino"] CONSALVO: Erede del principato, Consalvo non è un personaggio inventato, è, infatti, stato costruito sulle sembianze di un vero personaggio storico, Marchese Antonino da San Giuliano, discendente dalla famiglia nobiliare Catanese. Le imprese politiche di Consalvo, possono essere sovrapposte a quelle del Marchese. Anche Antonino diviene, come Consalvo, prima consigliere comunale, poi sindaco, quindi deputato nel governo Giolitti ed, infine ministro. DR prende a modello la figura di Antonino per proiettare su Consalvo una luce negativa, quasi caricaturale, perché agli occhi di DR Consalvo rappresenta il campione del trasformismo politico, trasformismo che è l'idolo polemico, la testa di turco di DR, Consalvo quindi non è affatto l'eroe di DR, bensì l'antieroe negativo. Donna Ferdinanda e don Eugenio danno al piccolo Consalvo un'educazione iniziale tutta improntata sull'esaltazione dell'aristocrazia, pregna di idee retrive. Ma questa educazione verrà accompagnata da quella avuta nel convento di San Nicola, ove Consalvo trascorrerà i suoi anni del noviziato. Al monastero, abbiamo già visto come i monaci si dividono tra Liberali e Borboni, qui il piccolo Consalvo, da buon aristocratico,si schiererà dalla parte dei conservatori, al punto da esserne una spia. Emblematico è il momento in cui il piccolo Consalvo denuncerà allo zio Blasco il liberale Fra Cola che vuole ricominciare la giocata del '48. [Pag 219: "Uno, specialmente, Fra Cola...in mezzo alla malaria"] Un altro episodio è costituito dalla predica natalizia che Consalvo fa nel 1861. Ogni anno, infatti, i padri assegnavano ad un novizio la predica Natalizia. In questo caso Cosnalvo si dimostra essere un vero e proprio attore, istrione, possiamo dire che in questa occasione fa le prove per quello che poi sarà il suo comizio elettorale a fine romanzo. [Pag 340: "La predica di Natale toccava...sul palcoscenico".] Dopo circa 15 anni, finita la vita del noviziato, Consalvo torna alla vita mondana. Qui, Consavlo inizia ad avere una vera scellerata, ricca di vezzi e viziosità. In particolar modo arriva, addirittura, quasi a morire per mano dei fratelli di una ragazza che aveva corteggiato che lo accoltellano. Nasce dunque lo scontro con il padre Giacomo, preoccupato per la dilapidazione dei suoi averi da parte di Consalvo. La mania tipica di Consalvo, ereditata dalla madre, si manifesta in un discorso avuto con il padre. La mania è ereditata dalla madre, cioè la paura del contatto fisico con gli altri. La mania di Cosnalvo è, tuttavia, destinata a sparire alla fine del romanzo. [Pag 451: "Il principe che...evitare di prenderla"] La lettera è quella di un creditore. Dopo questo conflitto con il padre, Consalvo inizia un viaggio d'istruzione nelle capitali europee, nelle principali città italiane (il classico tour dei giovani aristocratici). Questo viaggio fa ciambiare radicalmente Consalvo, in particolare l'incontro con l'onorevole Mazzarini che gli fa maturare la passione per la politica. Ma ancor prima dell'incontro con Mazzarini, Consalvo comprende che il nome degli Uzeida, fuori dalla Siclia, non è poi così importante. Prova per la prima volta un senso di inferiorità, e capisce che solo la politica può riscattare questo senso di inferiorità. [Pag 500: "Il nome di principino di Mirabella...una rivoluzione] Incontro con Mazzarini ->[ Pag 503: "Finito il pranzo...Vicerè per Davvero!"] Comprende che è tempo di assumere come modello il trasformismo dello zio Duca di Oraua. Il principe Giacomo, alla fine della prima parte gli aveva commentato l'elezione del Duca D'oraua-> [Pag 299: "Quando c'erano i Vicerè,eravamo Vicerè, adesso che abbiamo il parlamento lo zio è deputato."] Questa abilità politica Consalvo prende a modello. [Pag 504: "Fino a quel momento era stato borbonico...Come Mazzarini"] Il viaggio dura più del dovuto, e, quando torna, Consalvo è profondamente cambiato. Non sperpera più i danari del padre, ma anzi, si chiude in biblioteca a studiare. Tuttavia, questo aspetto della vita di Consalvo, svilisce la cultura, poiché essa non è usata per un arricchimento personale, per amore verso gli scritti, ma per riempire i discorsi politici di Consalvo di citazioni edulcorate. In ciò possiamo riconoscere l'antipatia di DR verso questo personaggio tutt'altro che positivo. Le tappe dell'ascesa politica sono diverse. In queste tappe si dimostra sempre molto abile, diplomatico, capace di indossare una maschera, di subordinare tutto quanto a quello che è il suo scopo principale, l'esercizio del potere. Pur avendo allora professato idee liberali, non esita a parteggiare per i clericali per muoversi in controtendenza rispetto al suo programma di sinistra, pur di conquistare una fetta importante dell'elettorato. La scelta del luogo, dà la possibilità a Consalvo di rimarcare al popolo che lo ascolta durante il comizio il suo orientamento di uomo nuovo, al passo con i tempi [Pag 647: "La mia fede data dall'alba nella mia vita...fra questi muri."] Sempre in questo contesto, Consalvo usa anche i ricordi, ed in particolare un ricordo su Garibaldi che dimorò nel convento nel passaggio a Catania, per rimarcare questa nuova posizione sociale che ha assunto. ["Erano i tempi in cui Garibaldi...Viva Francalanza!"] Questo aneddoto strappa un'ondata di applausi dalla folla, e questo affetto della folla Consalvo lo aveva già immaginato sin dall'inizio. Garibaldi qui viene raffigurato non come guerriero, ma come Cincinnati che coltiva le rose. Abile mossa di Consalvo che fa leva sull'eroe dei due mondi per riscuotere successi e approvazioni. DR però non si limita alla registrazione impersonale, neutra, del successo di Consalvo oratore, in realtà, sappiamo che DR non condivide il punto di vista di Cosnalvo, ne prende le distanze condannandone l'istrionismo, la falsità. Questa condanna morale, traspare attraverso piccole spie annidate nel testo e attraverso l'analisi di brani che sono sovrapponibili tra loro. Un esempio è proprio quello del ricordo di Garibaldi, che Consalvo volutamente mistifica. L'episodio relativo alla presenza di Garibaldi e al dono della rosa non si svolge nella maniera in cui Consalvo la racconta. [Pag 271: "Bixio e Menotti erano alloggiati alla foresteria...ti taglino la coda?"] Fu Menotti, che ebbe in dono da Giovannino la rosa. Questa manipolazione del ricordo serve a Consalvo per portare acqua al mulino della tesi secondo cui la sua fede liberale abbia fatto la sua prima apparizione nella sua coscienza da ragazzino. Simo di fronte ad una scena corale, di massa, e questo ci riporta, ciclicamente, alle prime pagine del romanzo, ai funerali della principessa Teresa. Come per i funerali, dobbiamo sottolineare, anche per quest'ultimo evento in cui accorre tanta gente, il carattere teatrale, spettacolare della cerimonia. Questa massa di gente fa da pubblico e da elemento coreografico. Tanto il meeting elettorale, quanto il funerale di Teresa, è un evento spettacolare, in cui l'aristocrazia celebra sé stessa. Consalvo, aspirante deputato aristocratico, mascherato da liberale, impone la sua immagine cercando di venderla nella migliore delle maniere per assicurarsi il seggio a Montecitorio. Queste componenti spettacolari dell'evento sono accuratamente studiate dallo stesso Consalvo, che decide la musica da suonare al momento dell'ingresso, quali festoni, addobbi, debbano essere adoperati per rendere suggestivo l'evento stesso. L'apparato scenografico serve a gettare polvere negli occhi della gente. Apparato scenografico e il lunghissimo comizio che mette a dura prova la resistenza fisica degli uditori, corrispondono al principio delle convergenze parallele, cioè, al principio secondo cui bisogna venire incontro a tutti i gusti, a tutte le esigenze. Pag 643: "Trofei di bandiere abbracciavano le colonne...la destra e la sinistra"] Nell'allestimento dell'apparato scenografico si afferma la volontà di prendere in considerazione tutti i componenti politici, per far sì che il risultato del consenso sia pieno. Anche sul piano dei contenuti veicolati avviene. In questo caso si tratta di una sorta di enciclopedia dei più vari programmi politici. Questa strategia sacrifica una seria e univoca programmazione, sacrifica l'appartenenza ad una specifica ideologia politica per entrare nelle grazie di tutti i cittadini. [Pag 649: "Permettetemi dunque di dirvi le mie idee in proposito...(applausi generali)"] L'ironia del narratore si esercita in maniera sottile quando si tratta di mettere in evidenza una manipolazione della memoria (ez. episodio di Garibladi). Questa ironia è valida agli occhi di un lettore avveduto. La stessa ironia sottile si dà sul versante della ricezione, cioè quando si tratta di rappresentare le reazioni del pubblico accorso al meeting. In generale la reazione è positiva, più volte, infatti, gli stenografi registrano applausi e consensi, tuttavia il lettore non può fare a meno di notare una reazione in controtendenza,a una voce stonata, disorientata e disorienta il giudizio del lettore. Questa reazione mira ad azzerare la forza del comizio di Consalvo. Sono gli studenti canzonatori a dar voce a questa critica isolata, che hanno la forza di demistificare il quadro, di farci vedere quanto quel discorso si sostanzi di falsità, di vuote chiacchiere, roboante prolissità e di pretenziose insulsaggini. [Pag 654-55:" Mentre la marcia... che ha detto?"] Sotto una luce caricaturale è messa anche la stessa mimica facciale del principe. La bocca che si apre e si chiude come masticando appare oggettivamente ridicola. [Pag 648: "Le parole dei principe...per finire l'aneddoto"] Possiamo altresì notare come, a causa della sua prolissità, il pubblico si spazientisce e, ad un certo punto si addormenta, manifestando più volte la propria insofferenza, tant'è che, senza ascoltare la fine dell'intervento, il pubblico tenta di svignarsela prima della fine dello stesso discorso. (inutile prolissità dell'oratore) [Pag 653:"Ma questo non è un programma elettorale...a tacere un momento"] L'ironia si esercita anche nei confronti di un personaggio ben preciso, che interviene nel comizio al fianco del principe prima per aiutarlo nei preparativi e poi in qualità di regista cerimoniere cioè Baldassarre, ex maestro di casa del palazzo patrizio degli Uzeida, prima del licenziamento a causa del matrimonio di Teresa con Michele. Qui lo ritroviamo nelle vesti di liberale, presidente di una società operaia di mutuo soccorso. [Pag 638: "Una sera, facendo il giro delle sale...gruzzolo di voti" pAG 643: "Baldassarre, redingotte...per un'idea"] (Indiretto libero) Qui ci vengono illustrate quali sono le ideologie di Baldassarre non più servo ma libero cittadino, sostenitore della candidatura democratica del'ex padroncino Cosnalvo. Baldassarre si è convinto che la storia ha mutato corso, tant'è che ora appoggia il principe non per quattrini ma per servire un'idea a cui crede. La storia è mutata perché ora i due, servo e padrone, siedono allo stesso tavolo, si danno del lei, lottano entrambi per un'idea. Questo è il convincimento di Baldassarre (veicolato dall'indiretto libero). Questo convincimento di Bladassarre, secondo cui la storia ha cambiato corso, è screditato, irriso, dal narratore nella misura in cui il narratore insiste su alcuni dettagli che mettono in ridicolo Baldassarre, sconfessando le illusioni dell'ex maggiordomo. Baldassarre ci viene presentato come un personaggio poco credibile, al limite del ridicolo (coccarda grande come una ruota di mulino e linguaggio approssimativo). In questo modo DR ci dice che Baldassarre rappresenta l'elemento che garantisce la continuità della sicilia pre e post unitaria. Il ritratto di Bladassarre si pone come una premessa per la pagina finale, dove proprio Consalvo esclama "La storia è tutta una ripetizione" a dispetto dell'illusorie convinzioni di Bladassarre. Consalvo riesce a vincere le elezioni, viene eletto deputato. Questo successo elettorale l inorgoglisce, rendendolo in un certo senso un uomo nuovo, un uomo che riesce a superare le proprio manie. Pag 656: "Era notte altra, ma il palazzo...del popolo (votazione plebiscitaria del popolo)...del magnifico trionfo"] l successo pubblico ha esorcizzato la debolezza dell'uomo privato. Nelle ultime pagine del romanzo, il lettore assiste al dialogo tra Consalvo e la prozia borbonica Ferdinanda. Questo incontro finale si pone in un rapporto di simmetria con l'incipit del romanzo. Ferdinanda è ammalata (freddatura) ma questa infreddatura rappresenta un pericolo di morte, è vicina all'ora della morte (il romanzo inizia con i funerali della principessa Teresa). Altre ragioni che ci inducono a parlare di circolarità sono, ad esempio, il fatto che il finale, così come l'incipit, si sdoppia in un avvenimento privato e in un avvenimento pubblico, l'avvenimento privato smentisce quello pubblico. Nell'incipit c'è l'episodio del funerale in cui si celebra l'armonia apparente della famiglia Uzeida, ma subentra poi un episodio della vita privata, la lettura del testamento, dove viene sconfessato quel precedente messaggio. Il testamento scatena gli appetiti e i contrasti tra gli Uzeida. Analogamente, nelle pagine finali, il comizio elettorale di Consalvo (avvenimento pubblico) è sconfessato dalla stessa Ferdinanda. Il comizio si rivolge a sinistra, al popolo per convincerlo della fede democratica di Consalvo, ma, nel discorso con la zia, il principino si toglie la maschera e afferma che in realtà lui non è affatto dalla parte del popolo, si è convertito solo per poter continuare ad esercitare il potere (opportunismo). La terza ragione è che Consalvo si reca dalla prozia allo scopo di usufruire in un futuro abbastanza imminente, dell'eredità di Ferdinanda. L'interesse è venale, la visita non è dettata del sentimento. Lo stesso motivo ricorre spesso nel romanzo, tra l'altro Ferdinando va a visitare Ferdinanda dopo essere passato dallo zio Duca D'Oraua e dalla sorella Teresa. Fa il giro del parentado per racimolare quanto più denaro possibile per poter vivere da signore a Roma. [Pag 657: "Cominciò dal duca che veramente stava male...l'eredità...nella capitale."] Il duca lo invidia sia per i risultati politici che per la giovinezza del nipote. Anche nel caso del Duca la visita è d'interesse in quanto vuole vivere da signore nella capitale.
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