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I viceré - Federico De Roberto, Appunti di Letteratura

Appunti, trama e rimandi sull'opera di Federico De Roberto. Descrizioni accurate.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 12/03/2021

janeyre98
janeyre98 🇮🇹

4.2

(9)

12 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica I viceré - Federico De Roberto e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! I VICERÈ Il capolavoro di Federico De Roberto, I vicerè, esce nel 1894. La critica si accorgerà dell’importanza del romanzo solo negli anni ‘60 del ‘900. Bennedetto Croce scriverà una stroncatura nella sua rivista riguardo il romanzo, che criticherà ferocemente e negativamente l’opera derobertiana. Dice che: De Roberto è abile nel maneggio della penna, uomo di cultura, ma la sua opera è pesante, non illumina l’intelletto e non fa battere il cuore. Agli occhi di Croce, il limite maggiore del romanzo è la mancanza di poesia, in esso prevale un intento dimostrativo di matrice zooliana. Questo giudizio sarà ribaltato anni più tardi da leonardo Sciascia sulle pagine di Repubblica, in cui lo scrittore mostrerà come Croce abbia avuto una vista poco acuta nel giudicare l’opera di De Roberto, non saputo valorizzare il romanzo. Sciascia formula dunque un giudizio positivo: dopo i promessi sposi, I vicerè, è il più grande romanzo che conti la letteratura italiana. Tra il giudizio di Croce 1938 e il giudizio di Sciascia 1977, si colloca un evento importante per I vicerè, ossia l’uscita dell’opera del gattopardo, si accendono i riflettori su I vicerè, considerato romanzo antecedente. I romanzi furono messi a confronto, valutando le somiglianze e non le differenze (che ci sono). La stagione critica degli anni ‘60 ci si riferisce a due interpreti: Carlo Alberto Matrignani, il curatore del meridiano dedicato a De Roberto, e Vittorio Spinazzola, autore di un importante saggio “il romanzo antistolico” incentrato su Pirandello, De Roberto e Tommasi Lampedusa. La linea interpretativa di questi due contributi: entrambi mettono in evidenza come De Roberto guardi con spirito critico al processo del Risorgimento e a come si è compiuto nel mezzogiorno d’Italia. De ROberto è legato alle vicende del Risorgimento, infatti è nato nel 1861. Protagonista de I vicerè è una famiglia aristocratica gli Uzeda di Francalanza, dietro cui si celano i principi Biscali, negli anni a cavallo dell’Unificazione nazionale. La narrazione prende le mosse nel 1855 e si concluso nel 1882. De Roberto è dunque critico severo del Risorgimento, dei suoi esiti fallimentari. È il tema del risorgimento mancato e tradito. L’autore ci fa vedere come le classi dirigenti dell’ancien regime borbonico riescono a conservare il potere anche dopo l’unità d’Italia. Ci riescono saltando sul carro dei vincitori, cambiando bandiera, ideologia politica, almeno apparentemente. De Roberto ci dice dunque che nella storia non contano le ideologia, ma solo l’esercizio del potere, cui le classi vi rimangono abbarbicate. Il suo è un antistoricismo. Dalla lettura del romanzo si ricava una lezione di antistoricismo (=guardare alla storia con scetticismo, in modo disincantato). Questo giudizio severo sul risorgimento mancato e tradito si lega ad uno scetticismo di fondo nei confronti di qualsiasi forma di progresso della storia (influenza di Leopardi). Per De Roberto la storia è una monotona ripetizione, un’incessante trasformismo che non cambia veramente le cose ai vertici del potere. Questa interpretazione scettica, negativa, antiprogressista della storia è una chiave di lettura che l’autore dà in prestito ai grandi scrittori siciliani venuti dopo di lui: - Pirandello dei “vecchi e giovani”, romanzo storico in cui Pirandello guarda alla storia in modo disincantato come De Roberto - Vitaliano Brancati in “il vecchio con gli stivali”, che si era laureato su De Roberto. I questo racconto legge un altro momento della storia italiana: il passaggio dal fascismo all’antifascismo con lo stesso atteggiamento politico demistificante lucidamente negativo. Mette in evidenza come un momento che avrebbe dovuto essere di svolta dell’Italia non lo era stato. Al centro del romanzo c’è un impiegato municipale, Aldo Piscitello, che è in disaccordo con l’ideologia fascista, anche se non ha maturato una consapevolezza teorica perché viene dal popolo. Negli ultimi anni è costretto a prendere l’odiata tessera del fascio (per non perdere il lavoro). Contemporaneamente arrivano gli alleati e crolla il regime, si insediano i comitati di epurazione, preposto all’estromissione dalle cariche pubbliche di coloro che si erano compromessi con il regime fascista. L’unico ad essere epurato era stato Aldo Piscitello, proprio l’unico che nell’animo non era fascista. Nl frattempo tutti gli altri che erano davvero fascisti erano saltati sul carro dei vincitori, diventando antifascisti. Aldo Piscitello non aveva fatto in tempo ad adeguarsi. - Leonardo Sciascia in “il quarantotto”, i cui si racconta la vicenda del barone Garziano e si seguono le tappe di un processo di opportunistica trasformazione del barone. - “Il Gattopardo”, in cui abbiamo una vicenda di trasformazione. Tancredi, il nipote del principe Salina, salta anche lui sul carro del vincitore, un aristocratico che combatte con Garibaldi, perché sa che quella è la carta vincente per il potere. Il motto del Gattopardo è “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” che Tancredi dice a Salina. Questa apparente continuità è contraddetta da un atteggiamento diverso di Lampedusa nei confronti dell’aristocrazia. Sia ne I vicerè che nel Gattopardo al centro protagonista è una famiglia aristocratica. I Salina in Tomasi e gli Uzeda in De Roberto. Tomasi di Lampedusa guarda all’aristocrazia con nostalgia, come se intonasse un requiem per un mondo che volge al termine. Questo perché Tomasi fa parte dell’aristocrazia, egli è un nobile. Ecco perché è nostalgico. Nel caso di De Roberto la presa di distanza dall’aristocrazia è assoluta, atteggiamento polemico, critico e negativo nei confronti dell’aristocrazia. Secondo Tomasi, De Roberto guarda all’aristocrazia “dal buco della serratura”, chiaramente in polemica con lui. Tale affermazione è corretta, rende giustizia a De Roberto, come un servo guarda con disprezzo il padrone. 1) va dal 1855 al 1861, è la più ampia perché comprende al suo interno delle digressioni retrospettive /lunghe analessi) con le quali il narratore ricostruisce gli antefatti. 2) va dal 1861 al 1870 3) va dal 1870 al 1882 Orizzonte spaziale L'orizzonte narrativo è circoscritto alla città di Catania. De Roberto usa la strategia di non inseguire i suoi personaggi fuori dalla città di Catania. La sede privilegiata è il palazzo patrizio degli Uzeda, il focolare domestico del clan. Vi abita il capo capocasata, il primogenito di teresa, Giacomo e i suoi figli; la sorella Lucrezia; lo zio Gaspare. Il doppione del palazzo degli Uzeda, ossia la residenza estiva del belvedere, in cui vi si recavano nella vacanze estive o in caso di calamità in città. Altri edifici urbani sono: il monastero dei benedettino e il municipio. Un polo religioso e un polo laico del potere. Sono due prolungamenti del palazzo Uzeda, perché vi esercitano il loro potere. Tutta l’azione si svolge prevalentemente in interni. Quasi un angustia soffocante. I protagonisti sono costretti ad abitare in ambienti chiusi e questo esaspera la loro pazienza, scoppiano delle risse, degli odi, delle rivalità. Leggere i primi due capitoli. In queste pagine De Roberto procede attraverso la dimensione polifonica, corale del narrato. La vicenda dei funerali di Teresa Uzeda viene raccontata dal punto di vista corale dei servitori e dei membri che vi partecipano. Il primo atto di questa commedia funeraria consiste nella notizia della morte della matriarca data da un cocchiere Salvatore Cerra ad altri servi. essa è morta a belvedere e lui reca la notizia al palazzo in città (pag.47). (pag. 48) frammento del dialogo tra servi. (pag. 50) un servo litiga con un altro servo, da cui si capisce il comportamento tirannico di Teresa, ciò giustifica la reazione dei figli. (pag. 51) lebanista ci ragguaglia sulla composizione della famiglia, fa il conteggio sui rimasti della famiglia. Sette figli di Teresa e quattro cognati (fratelli del marito). Vi è anche il ramo collaterale della famiglia Uzeda, una nobiltà minore, quello dei Radalì-Uzeda: il duca Radalì e i suoi due figli; la signora donna Graziella, nipote di Teresa; De Roberto scrive una lettera all’amico Di Giorgi nel 1891 quando sta concependo l’idea di scrivere I viceré (gestazione di tre anni) e gli comunica qualche contenuto: <<la storia di una gran famiglia, la quale deve essere composta di 14 o 15 tipi tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante dell’altro. Il primo titolo era “Vecchia razza” ciò ti dimostri l’intenzione ultima che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale di una stirpe esausta>>. Dalla lettera si evince un titolo antecedente e i due temi: il ​decadimento fisico e morale​ della famiglia e il tema della ​follia​, perché parla di “stravaganza” che può degenerare in follia. Il linguaggio della lettera ci impongono di prendere in considerazione il retroterra culturale de I vicerè, costituito dal sapere positivistico e dal naturalismo. Zola, che prende come modello filosofico Hippolyte Taine, teorico del naturalismo, che conia per prima l’espressione naturalismo. Ten mette a fuoco i fattori causali che determinano ogni fenomeno umano, si parla quindi determinismo positivistico nella sua teoria. Questi tre fattori: 1. ereditario (definisce la razza e il patrimonio genetico); 2. l’ambiente sociale; 3. il momento storico. Questi tre fattori condizionano il comportamento umano, individuale e sociale. Il positivismo di Taine viene assimilato da Zola, il quale riprende le sue idee e ci mostra come la originaria tara ereditaria, combinandosi con l’influenza dell’ambiente, spieghi e determini spieghi il comportamento di una famiglia, quella dei Rougon-Macquart. De Roberto, rispetto al naturalismo, tende a mettere tra parentesi l’approfondimento scientifico, ossia il tema della razza, affrontato in maniera minore rispetto a Zola; a de Roberto interessa maggiormente il funzionamento del potere. Il cambiamento del titolo da Vecchia razza a I vicerè evidenzia lo spostamento dal piano scientifico al piano politico. De Roberto visse e operò in Sicilia, dunque il naturalismo gli giunge filtrato dal Verismo, da Capuana che ne fu il teorico. Capuana prende il naturalismo e lo fa proprio concentrandosi sull’aspetto formale e stilistico. In Italia assume importanza il concetto della forma che deve adeguarsi al soggetto. Dunque, Verga ritiene che lo scrittore verista debba adeguare di volta in volta il linguaggio all’ambiente adeguato. Un altro aspetto che differenzia il naturalismo dal verismo è l'impegno sociale dello scrittore: i naturalisti sono socialmente impegnati, rappresentano la condizione cittadina delle classi meno abbienti, e rivendicano per queste classi un riscatto; impegnati in battaglie sociali e contro l’ingiustizia e le storture della società. De Roberto condivide con Capuana e Verga un’ideologia conservatrice, per cui non ci si può aspettare da lui un impegno socialista, il suo è un impegno di intellettuale diverso, si risolve nella contronarrazione del risorgimento de I viceré. Oltre a Zola e Taine, vi sono anche Lombroso autore del “genio e follia”, Nordeau autore di “generazione”. (pag. 63) Episodio successivo al funerale e del testamento di Teresa. Documento che legge l’amministrazione Marco. La contraddizione che si viene a creare tra la volontà di apparire umile e devota, dall’altra parte il carattere duramente imperativo con il quale formula queste disposizioni “voglio, ordino e comando”. Tale linguaggio ci fa capire il carattere dispotico e tirannico della donna, che ha istituito il matriarcato nella sua famiglia, ossia una forma di comunità umana in cui il potere è accentrato nella mani di una donna. L’operazione di imbalsamazione può essere riportata alla vanità di Teresa, al suo bisogno di eternità, una proiezione nel futuro della sua volontà dispotica su tutto il clan. (pag. 64) Episodio del funerale nella chiesa dei cappuccini, secondo quanto aveva disposto nel documento. La chiesa brulica di folla, tra cui vi è don Carlo Canalà, figura comica, appartiene alla nobiltà inferiore, definito il “lavapiatti”, appartiene ai nobili squattrinati che stanno alla mercé dei grandi signori. Don Canalà esagera nelle lodi e negli epitaffi di teresa, perché ha bisogno della protezione degli Uzeda. Entra in gioco la figura di un mendicante, simboleggia come i più bassi nella società cadano e non vengano aiutati dagli altri. Il lettore viene avvertito in tempo che l’epitaffio di don Cono non corrisponde a verità. L’immagine del servo che cada, a fronte dei presunti beneficiari della presunta carità di donna teresa ci stanno i mendicanti reali, che sono costretti a cadere, a strisciare per terra fino alla bara della defunta. (pag.68) L’atteggiamento adulatorio di don Cono trova un suo contraltare nei commenti malevoli fatti da coloro che partecipano al funerale. De Roberto sperimenta la tecnica del “contrappunto”, ossia fa in modo che gli epitaffi si contrappongono ai commenti malevoli. (pag.71) la “stravaganza” di donna Teresa detta a lei stessa delle decisioni che non seguono spesso il buonsenso e la ragione, bensì sono dei veri e proprio capricci. (pag.72) si nota come ci sia contraddizione tra le disposizioni del funerale di donna Teresa (la tegola, il rosario ecc…) e la sontuosità del funerale stesso, ma soprattutto il riferimento all’allegra vita della defunta (allusione ad una relazione extraconiugale di teresa). Il funerale diventa un evento, uno spettacolo, che ha una dimensione teatrale, come se l’aristocrazia con questo funerale in pompa magna volesse celebrare se stessa e la potenza della razza degli Uzeda. Quindi il funerale viene organizzato in funzione di questo scopo. Elementi che lo confermano: la musica, la coreografia cui presiede il maestro di casa (maggiordomo) che fa da regista. Il cadavere di donna <teresa non si trova all’interno del catafalco, bensì è già stato messo a disposizione dei benedettini che devono procedere all’imbalsamazione. Si vuole sottolineare il paradosso della maestosità del funerale in assenza del cadavere. I pettegolezzi sparsi sembrerebbero al lettore in un primo momento mossi da malanimo e risentimento, in realtà il romanzo dimostrerà come questi pettegolezzi corrispondano a verità (sembra quasi una anticipazione). (pag. 70) episodio del testamento. De Roberto crea un clima di suspance, non solo gli estranei sono all’oscuro delle decisioni nel testamento, ma anche gli stessi familiari lo sono. Vi sono alcuni che pensano che l’erede universale sarà il primogenito Giacomo, altri pensano che sia il terzogenito Raimondo (l’unico figlio da lei amato). (pag. 82) viene evocata una legge del tempo, la legge del “maggiorascato” che donna Teresa si lascia alle spalle. Storie di don Blasco e don Lodovico La tradizione dice che per ogni generazione uno dovesse entrare nel convento di san Nicola: Don Blasco e don Lodovico. Forte complicità tra il potere nobiliare e quello ecclesiastico. Infatti il monastero di san Nicola costituisce un prolungamento del palazzo patrizio degli Uzeda. La monacazione forzata affonda le sue radici nella tradizione letteraria italiana, soprattutto Manzoni e Verga. De Roberto costringe don Blasco a farsi monaco, così come Teresa impone la monacazione a don Lodovico. I due personaggi reagiscono in maniera diversa in base al carattere: da una parte l’atteggiamento ipocrita e la dissimulazione onesta di Lodovico, dall’altra parte l’atteggiamento vendicativo e rancoroso di don Blasco, che si rifà del torto subito adottando uno stile di vita edonistico, gaudente, sfarzoso. La contrapposizione si evince dalla prime pagine, dall’episodio della morte di teresa. (pag. 61) emerge che De Roberto proceda per coppie oppositive. Viene introdotta la figura di frate Carmelo, che è un fratellastro di don Blasco, figlio illegittimo di Giacomo XIII, come lo sarà Baldassarre, figlio di Consalvo VII. Fra Carmelo parla di don Lodovico, che si è distinto per un comportamento virtuoso (apparenza), diventato priore a trent’anni. Di don Blasco fra Carmelo glissa sui difetti di don Blasco. Egli si è dovuto sacrificare e diventare monaco lasciando il posto a Consalvo VII. Durante l’episodio del testamento di Teresa, don Blasco istiga i nipoti a impugnare e rifiutare il testamento perché ai suoi occhi loro sono stati defraudati dei loro diritti. Questo suo modo di fare è una strategia vendicativa, mettendo guerre fra gli Uzeda. (pag. 80) Lodovico non accetta il nuovo corso che si profila, ossia il tentativo di privare la chiesa del suo potere temporale, mentre don Blasco prende posizione contro i rivoluzionari e contro i liberali, posizioni che cambierà successivamente. Don Blasco, come Consalvo, esemplifica la tesi principale del romanzo: incarna quel trasformismo, quel camaleontismo cinico-opportunistico che per De Roberto rappresenta il cuore di tenebra del potere. (pag. 100) Don Blasco è abituato allo sfarzo, all’agiatezza nella sua famiglia. Questi privilegi vengono messi da parte a causa dell’imposizione a monacarsi, da qui l’odio che si porterà per sempre dentro. Anche se bisogna sottolineare che nei conventi si viveva la bella vita, ragion per cui don Blasco non avrebbe motivo di portare avanti il risentimento. De Roberto censura il linguaggio scurrile di don Blasco. Si profila il topos del monaco corrotto. (pag.105) Don Blasco presenta questi tratti caratteriali, da una parla l’​ignoranza​, dall’altra parte l’​attaccamento ai beni materiali​. È anche ​aggressivo​ e pronto allo scontro dato che sotto i panni porta il coltello, che usa quando gli insulti non gli bastano. Egli è ​bramoso di potere​, affine agli Uzeda. (pag.106) Sia don Blasco che don Lodovico, zio e nipote, in convento vogliono arrivare al priorato. La spunta don Lodovico, ecco che don Blasco si infuria mentre Lodovico si mostra umile. Don Blasco aveva dalla sua parte solo l’età, ma i suoi difetti lo avevano escluso dalla carica. Fra Cristoforo, in Manzoni, viene ricalcato al rovescio in don Blasco. Entrambi hanno lo stesso temperamento focoso, ma don Blasco è svuotato di ragioni ideali. Don Blasco non mette la sua “energia” al servizio dei bisognosi (come accade in fra Cristoforo), ma la scaglia e la usa per un tornaconto personale. Conduce una vita ​lussuriosa​, e vive spesso nel concubinato. È soggetto dunque di critiche da altri personaggi, dall’autore, dalla voce del popolo. Cade sempre in ​contraddizione ​e non ne ha paura, è un bastian contrario, lo fa pur di contrapporsi agli altri. (pag. 208) Sulla bocca di fra Carmelo si racconta la storia del convento e della sua vita gaudente. (pag. 214) Le ganze e la lussuria. (pag. decisioni politiche di don Blasco. La popolazione del convento era politicamente divisa nel partito politico dei liberali, dei dilo-piemontesi, dei rivoluzionari; dei borbonici, dei filo-napoletani, dei sorci. Don Blasco capitaneggia il secondo partito, strenuamente borbonico dunque. Don Blasco giudica Napoleone di infierire in affari e situazioni in cui non ha diritto. Confisca dei beni ecclesiastici (spedizione garibaldina) Farmacie: luoghi di aggregazione in cui si discute di politica. Farmacie diverse a seconda dell’orientamento politico del proprietario. Don Blasco incolpa quei monaci che avevano abbracciato le idee del partito liberale perdendo i beni ecclesiastici. Quando il duca di Oragua si accinge a comprare una delle terre appartenute alla chiesa del convento di san Nicola, don Blasco di indigna ferocemente come se fosse un atto sacrilego. (pag. 417) Egli si erge a Savonarola, contro tutte le novità che attentato alla tradizione secolare della chiesa e ai suoi privilegi. La sua apostasia (rinnegamento delle idee borboniche) lo porta ad abbracciare le idee liberali e a comprare le terre del convento. Ciò che aveva ritenuto sacrilego da parte degli altri, ora lo commetteva egli stesso. (pag. 442) Don Blasco si difende dalle accuse di contraddizione dicendo che il fatto di aver acquistato le terre del san Nicola non sia un atto di incoerenza a sia un modo per riprendersi quello che gli era stato loro tolto. Giustificazione che non regge, il vero movente è quello opportunistico ed egoista. Alla fine della II PARTE capeggiava i cortei per la presa di Roma, esultava tra i liberali per la fine del potere temporale del papa. Il duca di Oragua ha ricevuto un telegramma dal prefetto in cui si annuncia la breccia di Porta Pia. Don Blasco in tripudio lo legge solennemente, si conferma come personaggio teatrale, icastico. (pag.455) Ferdinanda definisce il fratello don Blasco come cinico opportunista. (pag. 459) Don Blasco cambia farmacia, quella dei liberali, non più quella dei borboni. Visto il suo arricchimento dopo aver preso i possedimenti del san Nicola, i nipoti cercano di servirlo per poter ricevere una parte di quell’eredità. Ultimo atto della vita di don Blasco (III PARTE - CAP. III): muore per un colpo apoplettico (ischemia). Gli viene applicata la legge del contrappasso: ora appare come un otre…., appariva come immobile, tale immobilismo è il suo contrappasso perché era stato agitato, dinamico, smanioso. Qui si assiste ad un’altra commedia (pag. 511): quella ipocrita della pietà e del dolore, dietro cui c’è l'attaccamento al denaro di don Blasco. Ad un certo punto cala il sipartio sulla commedia della pietà, e allora Lucrezia vuole vedere se c’è testamento, l’unico motivo per il quale tutti si trovano lì (la scelta del verbo “parere” è ironia dell’autore). Questo consente a De Roberto di riattivare la commedia delle lacrime e del dolore (come con Teresa). La pietà e le lacrime sono solo apparenti, che non corrispondono al vero, il vero è l’interesse per l’eredità di colui che in vita avevano disprezzato. Il testamento in realtà non esiste perché don Blasco non lo ha mai redatto prima di morire. Eppure il Garino lo leggerà davanti agli altri parenti, con la speranza di poter ricavare un vantaggio economico da quel testamento. Si tratta di un falso fabbricato da lui stesso in collaborazione con Giacomo. Il presunto testamento nomina come unico erede Giacomo, concedendo una parte a don Matteo. Donna Ferdinanda e altri non subiscono l’inganno e impugnano il documento, ricorrendo ai tribunali dimostrando la non autenticità del testamento. Otterranno ragione in tribunale. Si vengono a formare due gruppi intorno al testamento, uno afferma la sua autenticità e l’altro la nega. All'interno di uno dei due gruppi si afferma il principio dominante della lotta di tutti contro tutti. Ossia, il fronte dei falsari che dovrebbe risultare unito si mostra diviso, perché Garino ha rubato a Giacomo portando il suo legato a duecento onze l’anno, fissato da Giacomo per una cifra molto inferiore. Un ladro dunque aveva rubato l’altro. Lodovico Il romanzo de I vicerè è policentrico perché affronta più personaggi e più vicende. Lodovico vive nel monastero di san Nicola (luogo non fittizio, luogo della biografia di De Roberto che vi aveva studiato e lavorato) come lo zio don Blasco. La reazione di Chiara si impunta e ostina a negare la sua mano, così rifiuta il partito del marchese. Con questa reazione si mostra la tipica rappresentanza della razza (cocciutaggine, caparbietà, testardaggine… caratteristiche degli Uzeda), ostinazione che ha del patologico, la prima manifestazione della sua pazzia. (pag. 109) Inizialmente rifiuta il marchese per il suo aspetto estetico, nonostante lei non sia bella. Ma la vera ragione è che entra in gioco il dato caratteriale comune agli Uzeda, la sua presa di posizione ostinata. Donna Teresa arriva a metterle le mani addosso pur di convertirla, giurando di lasciarla morire. (pag. 235) L’aspettazione di un figlio è diventata una manìa, un’ossessione. (pag. 237) La coppia si espone al dileggio della gente. Chiara si colpevolizza per la sua sterilità, la cosa la fa soffrire molto. I due coniugi si difendono dai pettegolezzi e sfogano il malumore attaccando briga con il prossimo. (pag. 278) La gravidanza sembra reale, si impone sotto gli occhi di tutti. C’è un eccesso di premura nella preparazione del corredo, sproporzionato rispetto alle esigenze del futuro. Chiara investe in maniera esagerata sul nascituro. Ennesima manifestazione di un amore materno parodiato (attraverso Chiara De Roberto ci presenta l’affetto materno deformato). (pag. 293) La gravidanza che promette bene si rivela per Chiara un fallimento, perché ella abortisce. Partorisce un figlio mostruoso. Si alternano due scene: una incentrata sulla vita pubblica (Unità di Italia) e l’altra che ci riconduce al privato (di Chiara e Federico). - La scena pubblica: prime elezioni politiche in Sicilia dopo l’unità d’Italia ​18 febbraio 1961​. Si vota per il ​primo parlamento nazionale​. Vengono nominati i Giulente che appartengono alla borghesia liberale, zio e nipote, Lorenzo e Benedetto. Sostengono la candidatura del duca di Oragua, Gaspare che per convenienza aveva aderito alla causa liberale. I Giulente ferventemente invitano il lettore a votare Oragua. - La scena privata: il marchese chiama il principe e la principessa annunciando il parto di Chiara. Federico, il marchese, smaniava come un pazzo. Segni di morbosità, patologia, pazzia perché non può entrare nella stanza della partoriente (visto che è un uomo, come da tradizione). Chiara invece era beata nonostante l’atto del parto, tale espressione vuole indicare la felicità di aver realizzato il suo sogno di diventare madre e si preoccupa di rassicurare il marito. Il mostro che Chiara partorisce è una massa informe. Secondo la critica non si tratta solo di invenzione, De Roberto si sarebbe ispirato ad una descrizione scientifica (in un trattato scientifico, riguardo il parto di un essere mostruoso). La reazione delle levatrici: impallidiscono, ma non per pietà e per compassione, ma perché intuiscono che non avrebbero ricevuto alcun regalo in cambio dei loro servigi. La loro è una spietata logica economica. Comunicano la situazione al marito che reagisce nella norma contrariamente alla reazione di Chiara una volta messa al corrente, non pianse e non si raccapriccia. La sua è un’osservazione fredda e scientifica, fuori dalla norma. Questo è il primo indizio di pazzia. (pag. 295) Entrano nella stanza i parenti, e ciò diventa un pretesto per il cambio di scena, si ritorna alla vita pubblica. Ma prima si condolevano, solo per formalità. Chiara ha in mente di conservare il feto in una boccia di strutto e spirito, come si trattasse di una reliquia. Consalvo reagisce paragonando il feto ad una capra. Chiara ha lo sguardo soddisfatto ora che questo viene introdotto nella boccia, ciò mette in evidenza l’insania mentale di Chiara. Il feto viene definito il prodotto più fresco della razza dei vicerè, ossia di quel processo di degenerazione della razza. Spia dell’avarizia degli Uzeda: Chiara tiene sotto il cuscino le chiavi della dispensa, per paura che gli altri potessero accedervi. I parenti andati da Chiara, tornano al palazzo Uzeda e trovano un raduno di gente per festeggiare il vincitore delle elezioni: il duca di Oragua. Il duca di Oragua è timido e non sa affrontare la folla, al suo posto parla Giulente. Il principe Giacomo fa la morale e addestra il figlio, è un commento al trionfo trasformistico dello zio, il duca di Oragua. I Vicerè erano al potere durante i Borbone e continuano a governare grazie ad un’abile azione trasformistica durante la monarchia parlamentare. Lo zio è stato eletto deputato al primo parlamento nazionale dell’Italia Unita. Significato simbolico del parto di Chiara: Perché De Roberto ha voluto incastrare le due scene, pubblica e privata? Per enfatizzare una corrispondenza: Chiara partorisce un mostro nello stesso momento con la nascita mostruosa dell’Italia che esce dalle elezioni all’insegna del più sfacciato trasformismo. Ad una scena mostruosa privata corrisponde una scena mostruosa pubblica. (pag. 338) Secondo falso parto di Chiara, meno drammatico del primo ma ugualmente importante perché conferma Chiara nel suo ruolo di madre mancata. Ella non vuole affidarsi alle cura di medici e levatrici. La gestazione si protrae oltre i 10 mesi, don Blasco commenta malamente. La situazione rivela che Chiara ha una ciste all’utero molto grande. Chiara procura al marito delle amanti per soddisfare le sue voglie e per avere un figlio da una di questi. Il dolore di lei era quella di non poter servire Federico, il marito. Così avvenne quando nasce il figlio bastardo. Chiara accoglie ben volentieri il bastardo e l’amante del marito, al contrario di come sarebbe normale agire. Tutte queste cure sono dovute al fatto che Chiara lo considera suo figlio naturale. La sua vita si concentra tutta su di lui, arrivando anche ad allontanare il marito. L’amore materno viene ancora una volta parodiato. (pag. 565) Ora è il figlio a picchiarla di santa ragione (prima lo faceva Teresa per farla sposare), lo stesso che era stato amato ed educato in maniero eccessivamente permissiva. Terza figlia: Lucrezia Anche lei subisce le angherie di donna Teresa. La sua colpa è essere nata quando nessuno la aspettava. Nel III cap I parte ci viene offerto il punto di vista di don Blasco su Lucrezia, ai cui occhi sua nipote appare una marmotta, cioè selvatica, taciturna e tarda (scarse qualità intellettuali). Lucrezia è destinata ad essere zitellona, e così teresa vuole perché le elenca le motivazioni per cui deve restarlo: 1.La sua salute cagionevole (falso) 2.Per il bene della casa (così l'eredità sarebbe stata dei due maschi) portandole l’esempio della zia Ferdinanda 3.Il fatto di essere senza dote senza il quale non avrebbe trovato un partito conveniente 4.La sua bruttezza (verità) I familiari sui quali può contare sono il fratello Ferdinando che le assomigliava caratterialmente (chiusi, taciturni, introversi, selvatici) e donna Vanna, una cameriera. Confida loro le sue pene. Anche la servitù subiva la tirannia di donna Teresa, ma non si dimetteva perché aveva una valvola di sfogo, che era la possibilità di stabilire alleanze con gli altri parenti contro la padrona. Donna Vanna era stata solidale con Chiara e Lucrezia, e le sprona a ribellarsi alla volontà di Teresa. Le spronava a rivendicare i loro diritti, le rendeva coscienti. (pag. 121)Donna Vanna lascia intravedere a Lucrezia le possibilità di maritarsi, piano che si concretizza quando la famiglia Giulente vanno ad abitare vicino a loro. Le indica un giovanotto, Benedetto Giulente, che potrebbe fare per lei. Tra i due inizia una corrispondenza epistolare che donna Vanna si premura di portare da una parte all’altra. La famiglia Uzeda, ferocemente borbonica, era contraria a questa unione perché i Giulente erano fortemente liberali. C’è una differenza di fede politica, ma una differenza di ceto sociale: i Giulente sono nobili di toga (inferiore) rispetto agli Uzeda appartenenti alla nobiltà di spada. Ma Lucrezia di ostina a volerlo sposare, la sua caparbietà fa di lei una Uzeda. Per poterlo sposare decide di non dare ascolto a don Blasco che la invita a prendere in mano il testamento di Giacomo, ma a lei non interessa la questione patrimoniale, lei vuole solo spuntarla sul fronte sentimentale contro Teresa. Dubbio: Il suo è vero amore o si inserisce il desiderio di vincere il diktat di Teresa? Effettivamente più che amore, per lei è la volontà di contraddire la madre facendo valere la sua volontà. Lei stessa giurerà a donna Vanna che lo avrebbe sposato, mentre tutti gli altri familiari quel periodo la ingiuriarono. Benedetto le promette amore eterno dicendole che le sue passioni erano tre: la madre, lei Lucrezia e la patria (che vuole redimere). La sposerà quando otterrà la laurea in legge. Lucrezia da parte sua fa presente a Benedetto le tare di famiglia. (pag. 348) Garibaldi marcia verso Roma contro il papa nel 1862. Giulente quindi dovrebbe gioire con Garibaldi, eppure è combattuto tra le sue aspirazioni patriottiche e quelle nobiliari. Don Blasco incide sulla decisioni di Benedetto, portandolo a rinnegare quei princìpi liberali. (pag. 351) Benedetto è debole di carattere, si fa condizionare di don Blasco. Don Blasco convince Benedetto a persuadere Garibaldi ad uscire da Catania per il bene dei concittadini. Quindi Benedetto parte da un punto di vista liberale va contro Garibaldi. Il governo piemontese, ossia i Savoia, vogliono fermare la marcia di Garibaldi. Si conforma quindi ai consigli di don Blasco e del duca di Oragua. I motivi sono due: - diventare nobile tramite gli Uzeda - diventare deputato (posto che avrebbe ereditato dal duca di Oragua, come da quest’ultimo promesso), entrando così nella “grande politica”, ma nel frattempo si accontanta di giocare un ruolo di fantoccio, facendo il sindaco-fantoccio al posto del duca, nella “piccola politica” catanese. Ufficialmente il sindaco era Benedetto, ma di fatto era il duca stesso. Ciò significa che il municipio è un feudo degli Uzeda. La moglie Lucrezia disprezza Benedetto per essersi messo alla mercè del duca. Egli aveva l’ambizione così forte e perciò sopportava il municipio perché quello gli avrebbe consentito di arrivare al parlamento. Tale ambizione verrà frustrata, perché il duca al suo posto sceglierà Consalvo. (pag. 621-622) il duca fa presente a Benedetto che bisogna adeguarsi e rassegnarsi alla sconfitta. De Roberto mette in atto una feroce critica nei confronti della borghesia liberale attraverso la rappresentazione del destino di Benedetto Giulente, il potere liberale asservito agli Uzeda. Atteggiamento incapace di una classe sociale di proporsi come alternativa all’ancien régime. In Benedetto, De Roberto rappresenta il valore della fede politica, ma deformato e stravolto. La stessa cosa avviene con gli Uzeda che si dedicano alla politica, e sono Gaspare il duca d’Oragua (prima generazione), e il nipote Consalvo (terza generazione). Mentre Giulente ne esce perdente dalla lotta alla carica parlamentare. Anche attraverso gli Uzeda De Roberto rappresenta il fallimento dell’ideale, la sua involuzione, il suo capovolgimento in disvalore. Uzeda in politica Partendo dalla prima generazione: (pag. 140) Gaspare è un cadetto dopo il fratello Consalvo cui spetta il titolo di principe ereditario, ecco che per lui prova una comprensibile invidia. Il malcontento per la sua condizione che lo spinge a prestare ascolto alle lusinghe dei liberali, e quindi a girare le spalle alle idee borboniche della famiglia. I capi del partito dei rivoluzionari volevano avere dalla loro un rappresentante dell'aristocrazia, questi capi facevano leva sul malcontento dei cadetti penalizzati dalla legge del maggiorascato, e quindi più propensi al cambiamento. La scelta del duca di Oragua non è dettata da una vocazione, ma è frutto di un calcolo/convenienza. (pag. 145) I borbonici della famiglia non potevano sopportare un cambiamento di idee nella famiglia. La vera natura della scelta politica di don Gaspare non comprende nulla di idealistico. Egli dunque presta ascolto ai liberali, ma lo fa con prudenza senza esporsi troppo al pericolo, dando un colpo al cerchio e uno alla botte (proverbio). Un suo aspetto caratteriale è la paura(codardia che senza assenza di vocazione politica ne faranno un politicante, badando solo al suo tornaconto e non al bene della collettività. Quando scoppia la rivoluzione del ‘48, don Gaspare per paura non partecipa all’azione, si ritira in campagna motivando al partito dei liberali che il moto era intempestivo e sarebbe sicuramente fallito mentre ai borbonici annunciava la fine imminente della carnevalata. Si mostra quindi prudente colpendo il cerchio e la botte. Quando il governo provvisorio della rivoluzione si insedia, il duca torna in città ascoltando le lusinghe del partito liberale che gli prometteva tutto, ma non prevedeva che i moti del ‘48-’49 sarebbero stati spenti dalla reazione, non prevede l’arrivo del generale borbonico, il principe di Satriano, che sbarca in Sicilia e ottiene di reprimere l’insurrezione. In questa circostanza il duca si macchia di una grave colpa che gli sarà rimproverata dai liberali, cioè firma una carta in cui si invocava la restaurazione del potere legittimo. Il duca si lascia consigliare da Lorenzo Giulente. A Palermo il duca acquista la consapevolezza di non poter contare sulla fede o sul coraggio. Ma capisce che deve puntare sul denaro sonante. A Palermo conosce il barone Palmi (padre di Matilde, che doveva sposare Raimondo) che è un liberale esule per le sue idee politiche liberali, e quindi in quel caso egli doveva favorire il matrimonio del nipote Raimondo e Matilde, solo così avrebbe riottenuto credito tra i liberali. Il duca torna a Catania in occasione di quelle nozze e poi quando morirà Teresa la cognata. Egli si rende conto di esser stato perdonato dai liberali. (pag. 145) Veniva accolto in trionfo. In occasione della spedizione dei mille (sbarco di Garibaldi), il duca che dovrebbe impugnare le armi e combattere i nemici, si rintana nel monastero di san Nicola da codardo quale è. Ciò dà pretesto a don Blasco di dileggiarlo (pag. 264). Quando i Giulente, Lorenzo e Benedetto, lo invitano a recarsi al municipio dove si sta dando un assetto istituzionale alla rivoluzione. Don Gaspare accetta l’invito suo malgrado per paura. Egli è consapevole di essere codardo e teme che glielo rinfaccino. L’entusiasmo popolare che gli si dimostra è talmente grande che si arriva a fare del duca un vero e proprio eroe della libertà, ciò ci dice l’ingenua fiducia del popolo nella causa liberale. La storpiatura del nome in Oracqua è indice dell’ignoranza dei popolani. L’incapacità del duca di parlare in pubblico, si affida non all’eloquenza ma al denaro pagando ciò ordinato dai garibaldini. Dopo la spedizione dei mille, un altro importante avvenimento è la prima elezione politica dopo l’unità d'Italia in Sicilia, in cui don Gaspare avrà un ruolo importante. Don Gaspare si era candidato e riuscirà a farsi eleggere deputato. Benedetto Giulente, che aveva sposato Lucrezia, gli fa propaganda. Don Gaspare quindi sfrutta non solo il matrimonio del nipote Raimondo, ma anche il matrimonio di Lucrezia. (pag.285) articolo di Benedetto in favore del duca. (pag. 282-283) Benedetto e Lorenzo Giulente accompagnano una delegazione dei figli della nazione che propone al duca la candidatura al parlamento italiano. Egli esibisce la sua falsa modestia. Il sarto Bellìa subentra al Giulente... De Roberto mette in evidenza l’ingenuità dei popolani, che credono che faccia davvero l’interessa della collettività. (pag. 447) Il duca, una volta eletto, esercita il mandato secondo criteri clientelari (quasi mafiosi), restituendo titoli onorifici ai suoi elettori. Il duca quindi strumentalizza la carica pubblica al suo tornaconto personale (per la ricchezza, nonostante sia aristocratico e quindi già ricco). In questo passo ci si riferisce alle legislature degli anni in cui la capitale d’Italia prima era Torino e poi Firenze, anni in cui il duca era rimasto a Torino mentre Garibaldi scese in Sicilia, scelta dettata dalla sua codardìa. I nemici lo attaccano nella misura in cui il collegio del duco sembrava loro un feudo personale. Successivamente non si muove dalla Sicilia verso il parlamento nonostante ci siano importanti questioni da discutere. A completare il quadro desolante si aggiungeva il suo motto cinico “ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri”, frase rivelatrice dell’ereditaria cupidigia viceregale. Tale motto è una storpiatura dell’espressione di D’Azeglio “purtroppo si è fatta l’italia ma non si sono fatti gli italiani”, al cui centro c’è la preoccupazione della formazione della coscienza degli italiano per il domani di unificazione. (pag. 449) L’opposizione al duca d’Oragua si inserisce in un malcontento più grande: la delusione post-risorgimentale per come si era realizzato in Italia e in Sicilia. Il duca è un personaggio vincente perché si fa eleggere per cinque legislazioni di seguito, e anche quando cade la destra storia non si converte alla sinistra, tale mossa gli assicura la rielezione. L’avvocato Molara si presenta come rivale del duca alle elezioni elettorali, con un programma quasi rivoluzionari. Il duca dedica una lettere ai suoi elettori (scritta da Benedetto). Ferdinando ed Eugenio: Ferdinando Eugenio appartiene alla prima generazione degli uzeda, Ferdinando invece alla seconda. Una coppia i cui due sono dislocati su generazioni diversi. Essi interpretano in modo stravagante il rapporto con la cultura e rappresentano il valore della cultura stravolto in disvalore, quindi svilito e deriso. Questo discorso, in termini diversi, vale anche per altri personaggi del romanzo: - La fede politica degradata in Benedetto Giulente e don Gaspare. - L’amore materno stravolto in Chiara. - L’amore romantico stravolto in Lucrezia. Per quanto riguarda il declassamento della cultura, questo appartiene anche a Benedetto Giulente che, con la sua campagna elettorale a favore dello zio Gaspare (duca di Oragua), utilizza la cultura per uno scopo meschino, quello di ingraziarselo, offrendogli favori come giornalista e oratore. Dunque la cultura viene venduta, viene strumentalizzata. ad essere copisti. E’ un’opera percorsa da una risentita vena polemica contro l’ottuso borghese dei tempi e le sue velleità culturali. De Roberto avrà attinto a questa opera per i suoi personaggi. Don Eugenio A differenza di Ferdinanda, nutre una fiducia nella scrittura (non nella lettura) a cui affida il compito di lustrare i suoi progetti culturali destinati a fallire. Egli era destinato al convento, ma riesce ad evitarlo grazie alle proprie inclinazione al mestiere delle armi, così lascia Catania per Napoli. A Napoli riesce ad entrare nella nobile compagnia delle guardie del corpo reali di Ferdinando II ma, non legando con gli altri compagni di milizia perché non sopportavano la sua millanteria e i suoi debiti che non pagava. Egli millanta ricchezze, ma in realtà è in rovina. Lascia il corpo delle guardie reali per essere nominato gentiluomo di camera alla corte di Ferdinando II (incarico a corte), ma anche in questo caso si crea dello scontento intorno a lui: una voce malevole parla di cose poco pulite combinate da don Eugenio con un fornitore della casa reale. (pag.140) Quindi lascia Napoli e torna a vivere a Catania con una nuova vocazione: l’archeologia e gli scavi. Egli si porta dietro dei rottami che si porta dietro i siti di Pompei ed Ercolano, si specializza nel collezionismo d’arte e nella vendita di oggetti d’arte. Egli voleva far passare per oggetti artistici di valore cose che non ne hanno. (pag. 167) Don Eugenio parla con donna Ferdinanda sul valore della cultura, le loro opinioni divergono sull’educazione di Consalvo. Egli vorrebbe imporre la sua educazione a Consalvo, mentre donna Ferdinanda è convinta che per il bene di Consalvo è meglio rimanerlo nell’ignoranza. Il partito di don Eugenio sembra quello vincente, eppure egli porta un esempio di cultura un esempio risibile e poco convincente, quello di don Ferrante, che aveva pubblicato libri, ma scritti da maestri di penna ben pagati. Don Ferrante voleva ottenere attraverso la letteratura fama e prestigio nella società del tempo. Don Ferrante rappresenta la cultura in maniera parodica e stravolta così come don Eugenio e don Calà che si rifanno al suo cattivo esempio, esempio di manipolazione e falsificazione di scrittura (libri scritti da altri ma con il suo nome). Così la scrittura di don Eugenio manipola la ricostruzione della storia delle famiglie nobiliari siciliane. Fanno un tentativo patetico di salvare il salvabile, di fare apparire don Ferrante un impostore a metà (aveva lasciato scrivere ad altri i suoi libri ma sotto sua dettatura, tant’è che aveva ricevuto dei riconoscimenti). (pag. 179-180) Il progetto di don Eugenio di disseppellire il villaggetto di Massa Annunziata sepolto dalle lave dell’Etna. Progetto che lo vede aggirarsi nelle campagna di Mon Pileri al Belvedere a prendere misure in vista dei prossimi scavi. Inizialmente chiede dei soldi al principe Giacomo ma, vedendosi respinto e deriso, pensa che sia lo stato a finanziargli l’impresa e spera che gli assegna la direzione degli scavi. (pag. 234) Il progetto prende corpo quando don Eugenio scrive una memoria su Massa Annunziata (che spedirà a Napoli, al governo dei Borbone per farsi finanziare l’impresa). Il titolo della memoria è lunghissimo, e per questo ridicolo che si presta alla satira, un titolo che la dice lunga sul tipo di intellettuale che è don Eugenio, che esaurisce la dimensione della cultura nell’erudizione e nello sfoggio del sapere erudito. Questa memoria è oggetto di lettura in famiglia e in società. Il suo linguaggio è arcaico e desueto. L’elemento di novità è costituito da una proposta di riforma della grammatica, cioè nella proposta di un uso universale dell’apostrofo che crea all’interno del periodare di don Eugenio qualcosa di illeggibile. Il fallimento di un progetto di don Eugenio coincide con l’inizio di una nuova manìa. Dagli scavi archeologici passa a voler essere professore di storia all’università. Così scrive una storia cronologica degli Uzeda che può aprirgli le porte. Il progetto di diventare professore fallisce a sua volta, e allora è la volta della passione per la poesia. Fonda così un’accademia dei quattro poeti, che ha bisogno di essere finanziata così invia delle richieste di sottoscrizioni in cambio di una medaglia di bronzo dell’accademia stessa. Non ci sono riscontri, per cui anche questo progetto fallisce. Di tale accademia egli ricopriva tutte le cariche possibile, il che era ridicolo. Nessuno abbocca alla sua proposta di finanziare. Don Eugenio gioca un ruolo anche nel matrimonio di Raimondo con Matilde. Don Eugenio accetta di testimoniare in suo favore per scioglierlo. Si maligna che don Eugenio abbia reso questa testimonianza falsa in tribunale pur di far qualche soldo. Tutte le sue aspirazioni sono superficiali. (pag. 396) Si dedica poi al commercio degli zolfi, passa dalle belle arti ad un’attività pratica. Tutto ciò per uscire dallo stato di miseria in cui versa. Anche il commercio fallisce perché si indebita a tal punto che è costretto a fuggire a Palermo. All’inizio della terza parte viene citato per esteso il piano della nuova idea di don Eugenio, l’Araldo siculo, che viene pubblicizzato. Del tempo che trascorre a Palermo di lui non si sa nulla. (pag. 478) L’Araldo siculo consiste nell’historia documentata delle origini delle nobili famiglie siciliani fino ai giorni suoi. Stessa cosa accade con il Mugnos che Ferdinanda legge con tanta passione. Don Eugenio arricchisce questo filone di pubblicistica con il suo contributo. L’Araldo sarebbe dovuto consistere in tre volumi (il primo occupato dal testo vero e proprio, il secondo dagli alberi genealogici delle famiglie gentilizie, il terzo dagli stemmi) che usciranno per dispense al mese, a puntate dunque. Ci sono dei vantaggi per le famiglie, come l’inserimento della famiglia nell’araldo. Questo chiarisce che i criteri adottati da don Eugenio non sono selettivi e seri, ma arbitrari in vista del guadagno. (pag. 662) Questa impresa, in tempi in cui la nobiltà è in crisi, si rivela fortunata perché vende tantissimo, presentato anche nelle biblioteche universitarie. Il mito della nobiltà resiste nonostante la crisi dell’aristocrazia. Questa fortuna è testimoniata dall’araldo siculo, che incontra successo. Abbiamo il paradosso di un’idea arretrata e non in sintonia con i tempi, ma vincente. Don Eugenio riesce a sfruttare la vanità aristocratica dei nuovi arricchiti, l’ambizione dei borghesi che non hanno titoli nobiliari ma lusingati di poter entrare nei ranghi della nobiltà. (pag. 479) Dopo alcuni anni torna decisamente invecchiato (60 anni) a Catania (vedere la descrizione). Abbiamo una ritrattistica derobertiana che sembra anticipare la violenza espressionistica della letteratura novecentesca. Invecchiato e imbruttito, malconcio nell’abbigliamento. Egli deve dunque accontentarsi di un albergo di bassa qualità. (pag. 484) Donna Ferdinanda è indignata, contraria all’araldo siculo. Don Eugenio ottiene l’anticipo delle spese da parte di Giacomo. (pag. 544) L’araldo siculo ha anche un suo supplemento. Don Eugenio si indebita con Giacomo che gli aveva anticipato le spese, non gli resta granché nelle mani. Vuole tentare così di scrivere il supplemento all’araldo, sempre più disposto a mercanteggiare con chi voleva titoli nobiliari, voleva metterci non solo i dimenticati ma anche i nuovi nobili. (pag. 576) L’attribuzione di titoli nobiliari da parte di don Eugenio a chi lo aveva pagato suscita l’indignazione di donna Ferdinanda, ma anche lo scandolo degli ambienti aristocratici tradizionali. (pag. 581-582) Don Eugenio, nonostante i guadagni, finisce ugualmente in miseria per i debiti contratti. L’ultima immagine del personaggio compare mentre chiede l’elemosina. Dell’uomo di cultura non rimane che un questuante. Emerge così il contrasto umoristico tra l’estrema miseria e la sua boria (vana gloria) che si risolve nell’elencazione grottesca delle benemerenze ottenute nel campo della cultura. Raimondo E’ il beniamino della madre, viene anteposto nell’affetto al primogenito Giacomo. (pag. 125) Raimondo aveva solo il torto di non essere nato a tempo, la prima infatti era stata Angiolina. Differenza di trattamento rispetto a Giacomo. (pag. 126) La sua bellezza lo pone in contrasto con gli Uzeda, in cui prevale la caratteristica della bruttezza. Differenza tra Raimondo e Giacomo, altra coppia oppositiva. All’inizio della razza degli Uzeda vi erano dei tratti di bellezza che tenderanno a lasciare il posto ad aspetti brutti e deformi. Tali tratti saranno ereditati a distanza di generazioni dal conte Raimondo. I tratti della bellezza quindi saltano delle generazioni. Reazione della principessa quando lo guardava, era estasiata e contenta, gli faceva complimenti e lo perdonava sempre. Mentre a Giacomo lo soprannominava tante volte per quanti difetti aveva, poco alto e naso deforme. Quando si presenta l’occasione di tornare in Sicilia per il funerale di Teresa, Matilde crederà essere un’occasione per interrompere le relazioni adulterine di Raimondo. Quando lo vede restìo a tornare, ha la conferma dei tradimenti e del legame forte che lo trattiene a Firenze. (pag. 159) Disinteresse economico di Raimondo, volto molto più al piacere delle donne. Matilde non gioisce quando scopre di essere incinta per la seconda volta di Lauretta, l’amore materno passa in secondo piano. Successivamente assisterà alla consumazione dell’adulterio con Isabella Fersa, avvenuto sotto i suoi occhi. Al tempo del colera, Raimondo si rifiuta di andare a Milazzo come le sue bambine avevano trovato rifugio dal nonno. Egli preferisce trovare riparo alla villa del Belvedere, ma questo perché è un’occasione per rivedere Isabella Fersa. La sua decisione insospettisce Matilde, verrà poi confermata la relazione con la Fersa. Ella soffre molto di più perché egli non si cura neppure di nascondersi, non ha pudore per le sue tresche; Matilde è costretta a fare da spettatrice dell’infamia. Nel corso di questo matrimonio tormentato, il barone Palmi mette il dito nella piaga di questo amore malato. Egli rimprovera alla figlia che il suo è l’amore del cane che lecca la mano di chi lo ha battuto, dello schiavo per il padrone. Ella sacrifica l’amore per le figlie, specialmente per la piccola Lauretta di salute cagionevole. Egli spera che questa si ammali nuovamente per far tornare Raimondo da lei. Una svolta nella relazione adulterina di Raimondo e Isabella Fersa si ha all’inizio della III parte, in una camera d’albergo, quasi volendo fuggire di casa. La gente comincia a vociferare sulla sua vita privata come se fosse un avvenimento pubblico. Si narrava che egli aveva lasciato Matilde. Scoppia così uno scandalo nei cittadini di Catania, che non pensano alla rivoluzione politica avvenuta (passaggio dai borboni alla monarchia costituzionale) ma sono presi dalla vita privata di Raimondo. Tra le tante dicerie, si impone la versione di Pasqualino Riso (servo di Raimondo) che giustifica in tutto e per tutto il suo padrone dando una versione a lui favorevole e incolpando Matilde. Se mentre all’inizio i servi erano benevoli nei confronti di matilde, ora che si tratta della reputazione del conte, le si schierano contro. (pag. 357) Un lungo indiretto libero su Pasqualino Riso. Gli fanno tante domande una volta tornato da Firenze. Egli dice a chi lo interroga che il matrimonio non poteva durare ulteriormente. Pasqualino capovolge i ruoli: il contino aveva resistito a lungo con Matilde per amore dei figli. Il suo discorso è intriso di misoginia, la sua diventa una natura maschilista. Matilde avrebbe dovuto sopportare i tradimenti come tutti perché gli uomini non possono stare sempre attaccati alle moglie. Viene sottolineato il carattere insopportabile di Matilde, che imprigionava il marito e gli faceva continue scenate, ora piangendo ora rimproverandolo. Riferendosi al barone Palmi, Pasqualino lo reputa un villano (il suo è il giudizio di tutti gli Uzeda). Il contrasto tra questo e Raimondo mette in luce favorevole Raimondo. Pasqualino conclude dicendo che era Matilde a spassarsela da donna frivola in città. Ma non la accusa, ammette che questa non ha fatto nulla, la critica per le gentilezze che porgeva vedendoci dietro altro, la crede un’amante di divertimenti che voleva andare al teatro. La storia correva così di bocca in bocca, anche se tale versione viene smentita, non soltanto dalle voci che arrivavano da Firenze e da Milazzo, ma da Pasqualino stesso quando un po’ brillo si lascia scappare la verità. Isabella Fersa (pag. 170) piccolo ritratto nell’ottica di Matilde, la rivale. Isabella appare come una maliarda che seduce gli uomini, soprattutto Raimondo, che non ama, è solo un suo capriccio. Il suo sentimento superficiale è come quello di Raimondo, l’uno per l’altro sono solo un’avventura. I due si sposeranno, Raimondo si stancherà presto di lei perché è nella sua natura dongiovannesca. Si parla del suo modo di vestire, la sua figura appare elegante: merletti, ventaglio di perle. Quanto più Matilde è dimessa, tanto più Isabella appare come esibizionista, amante del lusso e della mondanità. Isabella è loquace, amante della conversazione; Matilde invece è silenziosa e introversa. Sono dunque agli antipodi. In comune hanno che sono entrambe sposate, ostacolo che renderà la relazione adulterina più interessante. (pag. 221) Siamo in un contesto religioso, gli Uzeda sono in chiesa per le funzioni della settimana santa. Isabella è presente, Raimondo la conduce alla sua panca, gesto carico altamente simbolico, come se Raimondo volesse imporre la scelta dell’amante alla famiglia, proprio vicino a Matilde. Alla fine donna Isabella avrà la meglio su Matilde perché sposerà Raimondo. Usciranno vincenti anche tutti gli Uzeda che otterranno l'annullamento del matrimonio di Isabella con il marito, e quello di Raimondo e Matilde. Gli Uzeda, per ottenere tale risultato, portano in tribunale false testimonianze. Pasqualino smentisce la falsità delle testimonianze, ma contemporaneamente dà voce anche al punto di vista degli altri. Il lettore capisce che quelle testimonianze sono davvero false. A Pasqualino viene anche affidato il racconto della morte di Matilde che si ammala dal dispiacere. Il modo in cui se ne parla è coerente con il personaggio di Matilde in tutto il romanzo, ossia come una figura discreta, estranea ai modi brutali degli Uzeda. (pag. 384) Pasqualino porta l’attenzione del lettore su quelle testimonianze quasi a insinuare il sospetto che siano false. In barone Palmi non aveva smentito la tesi degli Uzeda, secondo cui il matrimonio tra i due era stato strappato con la violenza. Tutto ciò per amore della figlia che era in fin di vita. Il barone non aveva parlato perché, secondo Pasqualino, acconsentiva alla versione degli Uzeda. Nel ciclo romanzesco degli Uzeda i personaggi che si ripresentano sia nell’Illusione che ne I viceré sono: Matilde, Raimondo e Teresa la figlia. Nell’Illusione, riguardo questo nucleo familiare, viene raccontato l’epilogo della storia di Matilde incentrandosi poi sulla figlia teresa. Ne I Viceré viene scritta la preistoria della storia di Teresa. E’ una preistoria scritta dopo, che quasi giustifica il comportamento adulterino di Teresa nell’Illusione, quasi che Teresa volesse inconsciamente rifarsi dell’amore coniugale mortificato che ha vissuto la madre. Nell’Illusione Teresa vede Matilde con gli occhi di Figlia, ne I vicerè Teresa è vista con gli occhi di madre da Matilde. Giacomo il primogenito Egli ha il nome del nonno Giacomo XIII. Anche I figli di Giacomo, Teresa e Consalvo, hanno i nomi dei nonni consalvo VII e della principessa Teresa. Egli si sposerà due volte: 1) con Margherita la figlia del marchese Grazzeri, è un matrimonio combinato, per accontentare il volere della madre Teresa, e quindi senza amore. 2) con la cugina Graziella, figlia della sorella della madre Teresa, di cui era innamorato da giovane, amore che aveva dovuto assecondare. Si sposa con lei dopo che è rimasto vedovo di Margherita. Per l’aspetto fisico egli si contrappone a Raimondo. La madre Teresa lo umiliava affibbiandogli dei soprannomi che evidenziavano i suoi difetti fisici (orso, pulcinella ecc..) (pag. 132, 133) Il suo ritratto morale fa parte di quella categoria degli Uzeda di avari e spilorci. Egli è teso all’accumulazione del denaro, tale monomanìa è messa in risalto (pag. 452) quando deve contrastare il figlio Consalvo che è spendaccione e con le mani bucate (come Raimondo e il nonno Consalvo VII). La sua brama di ricchezza, il suo desiderio di accumulare le ricchezze della famiglia lo rendono ingordo. Egli condivide una caratteristica con la madre Teresa e con il nonno Giacomo XIII, e che trasmetterà a Consalvo suo figlio. Si tratta della tendenza a ristrutturare l’architettura delle proprie abitazione, sia del palazzo patrizio cittadino, sia della villa del Belvedere in campagna. Si tratta di una tendenza a riorganizzare la struttura della proprietà immobiliare. (pag. 125 -126) Teresa proibisce al figlio di modificare l’architettura a Giacomo, ma ella stessa si era premunita di fare le sue modifiche. (pag. 177-178) La villa del belvedere era grande tanto da ospitare un reggimento. Il risultato di queste continue modifiche dei capi famiglia a loro piacere, aveva reso il tutto solo più disordinato: porte murate, scale che non portavano a nulla. Tutte le modifiche apportate da Giacomo XIII erano state disfatte e messe sottosopra dalla nuova Teresa che aveva votato tutto all'insegna del guadagno (no fiori perché non producono profitto, sì alle viti e ulivi). A sua volta tutto quello che aveva fatto Teresa ora veniva modificato da Giacomo. nel carattere, anche se sua figlia era più vivace e irrequieta (che la porterà al tradimento, nel romanzo L’illusione), mentre l’altra più obbediente e tranquilla. Le due sono state educate diversamente, Raimondo non c’era mai e perciò era cresciuta irrequieta, mentre Giacomo era fin troppo presente e perciò era cresciuta remissiva. Lodavano tutti la saggezza di Teresa, per la sua tendenza ad assecondare la volontà altrui, è condizionata dal desiderio di essere lodata e compiacere gli altri. Questo sarà il difetto di Teresa, ossia la virtù narcisistica per essere additata come modello di bontà estrema. La sua educazione fu religiosa, le incute paura e soffoca i suoi desideri naturali. (pag. 396-397) Teresa ha dodici anni e viene introdotta nel convento con le sue gambe e non più con il rito della ruota. Viene introdotta al rito del parlatoio dove potrà parlare con la zia attraverso la grata. Ogni anno, alla vigilia della commemorazione dei defunti, ella viene portata nelle catacombe dei cappuccini per visitare le tombe degli avi (nonna Teresa e beata Ximena). Teresa tremava da capo a piedi dallo spavento e dall’orrore. La famiglia ci teneva a questi rituali non per amore o religiosità, ma solo per celebrare la propria stirpe e le proprie origini (vanagloria). La bambina dissimulava i propri sentimenti. Mentre la nonna è tuta nera per l’imbalsamazione, la beata Ximena si è mantenuta bianca come fosse morta da poco. Ella sopporta tutto pur di essere avvicinata al modello della beata Ximena. (pag. 398) Teresa ricevette una educazione consona al suo ceto, per questo fu mandata in collegio. C’è la voce maligna di chi crede che l’aver mandato Teresa in collegio dipenda dall’incidente che abbia sorpreso il padre in atteggiamento affettuoso con la cugina Graziella. Teresa ha un comportamento irreprensibile, pur di lasciarsi ammirare e lodare, anche in occasione della morte della madre Margherita. Mentre è in collegio, viene a sapere tramite una lettere dal padre che sta per risposarsi con la cugina Graziella, dopo poco tempo la morte della prima moglie. Ciò la addolora ma dissimula anche questo. (pag. 427) Invia una lettere al padre e a Graziella ormai diventata sua madre, in cui ringrazia loro per la loro responsabilità e per quello che fanno per lei. (pag. 534) Consalvo e il padre sono ai ferri corti, Consalvo ha abbandonato la dimora paterna. La sua estrema docilità e la sua educazione religiosa sono messe alla prova quando esplode il sentimento amoroso. Classico conflitto tra il dovere filiale e la passione amorosa. Il padre Giacomo ripaga la figlia della sua obbedienza organizzando il matrimonio con il brutto e goffo Michele Radalì. (pag. 518) La storia Michele è particolare. Egli era brutto, la madre era affezionato a lui e non lo aveva ammogliato. Mentre il fratello Giovannino era più bello, ma lasciato libero dalla madre. Gli Uzeda approvavano che Teresa si ammogliasse con Michele. Però Teresa era innamorata di Giovannino, il quale le si dichiara. Ella si illude che Giovannino le sia stato destinato dalla famiglia. A disilluderla ci pensa donna Graziella. (pag. 551-552) Graziella le dice che diventerà duchessa sposando Michele Radalì. La duchessa finge di non sapere che Teresa si fosse innamorata di Giovannino. A Teresa è concesso l’aspetto del monologo interiore, attraverso l’indiretto libero, come a Matilde. Graziella utilizza diversa argomentazioni per convincere Teresa ad accettare le decisioni paterne, le dice che la disubbedienza comporterebbe l’aggravarsi delle condizioni di Giacomo già ammalato, le dice che Lucrezia era stata l’esempio di come la disubbedienza poteva costare caro, le diceva che Giovannino era fragile di nervi. Tutte queste argomentazioni vengono impugnate nella mente di teresa, che vengono presentati al lettore ma non a Graziella. (pag. 557) Emergono i pensieri di Graziella in reazioni a ciò che Graziella le diceva ogni giorno. Teresa si rende conto che la malattia del padre è un’arma nelle mani di Graziella, si chiedeva perché se loro si preoccupavano della salute psichica di Giovannino la obbligavano a sferrargli un colpo così duro. Di tutte queste argomentazioni non ne fa nulla, perché subentra il sentimento di ubbidienza e di peccato inculcatole. Baldassarre aveva puntato sul matrimonio di Teresa con il secondogenito Giovannino, e rimane male quando viene a sapere delle nozze combinate, al punto che si licenzia. Teresa cede alle volontà dei familiari. (pag. 563) Teresa leggerà dell’opuscolo che racconta la leggenda della santa Ximena, letta in occasione del terzo centenario della canonizzazione della beata. Il feretro viene scoperchiato. Questa lettura le propone un modello di santità, di modello, di sacrificio fino all’eroismo della santità. I parenti approfittano della sua esaltazione mistica per indurLa alla decisione di sposare Michele. (pag. 564) Alla fine Teresa cede e sposa Michele, alla condizione della riconciliazione del padre con Consalvo (il suo rientro a casa). iL MATRIMONIO CON mICHELE NON SIGNIFICA LA DISTRUIONE DEL SENTIMENTO PER L’ALTRO FRATELLO, INR EALTà L’AMORE PER gIOVANNINO COVA SOTTO LA CENERE DEL MATRIMONIO CON mICHELE. qUESTO FUOCO DELLA PASSIONE SI RIDESTA QUANDO gIOVANNINO SI AMMALA CH ESI ERA RECATO IN CMAPAGNA PER DIMENTICARE L’AMRE INFELICE. aLLA NOTIZIA DELLA MALATTIA DI gIOVANNINA, ELLA SI INTERROGA SUI SUOI REALI SENTIMENTI, E CAPISCE DI AVERE UNA RESPONSABILITà NELLA SOFFERENZA DI gIOVANNINO. (pag. 589) Teme che la malattia lo abbia condotto a morte. Lei si sente colpevole. Il sentimento per lui non è morto, e si risveglia con il senso di colpa. Giovannino guarisce ma rimane segnato dalla malattia: squilibrio mentale. Lo dice Consalvo a Teresa (pag. 593-594) di come sta messo Giovannino, impazzito. Succederà poi una disgrazia perché Giovannino si suiciderà. Il suicidio è il frutto di una serie di concause che determinano l’esito fatale. Non solo la malattia, lo struggimento per l’amore, la tara ereditaria (figlio del pazzo Radalì)...tutto ciò lo conduce al suicidio. La sua morte avviene in contemporanea con la morte di Giacomo. (pag. 610) Il portinaio comunica a Consalvo della morte di Giovannino per un colpo di pistola autoinflitto. Consalvo a questa notizia egli si sente morire dentro, lo assalgono pensieri angoscianti. Giovannino era stato suo compagno di vita ai tempi del noviziato al san Nicola, quindi erano particolarmente affezionati. Ma soprattutto è il tipo di morte che lo angoscia, gli fa venire in mente la tara ereditaria, cioè il determinismo legato al patrimonio genetico della razza. Pensiero che gli era venuto già al cospetto del padre morente. (pag.608) Consalvo pensava che lo stesso male del padre un giorno sarebbe passato a lui, uccidendolo. Si chiedeva se sarebbe stato vittima della tara del male e della pazzia già manifestati nel parentado (Ferdinando, Eugenio, duca Radalì). Lo paralizzano. Il fatto di appartenere agli Uzeda gli aveva consentito di godere dei privilegi e farsi strada nel mondo, ma a questo c’era un costo da pagare, ossia l’ereditarietà di tratti anche negativi, come per esempio la possibilità di morire giovane precocemente come il padre. Ne valeva la pena vivere una vita da signore pur sapendo che ciò gli sarebbe costato la ragione o la vita? Si chiede. I conti non tornano, perché essere gli Uzeda diventa una sfortuna. Cerca di esorcizzare il pensiero di questa prospettiva, anche se l’angoscia lo assale, che crescerà alla notizia della morte di Giovannino. Così Consalvo si sarebbe arreso al determinismo della razza se non intervenissi in questo punto della trama una decisione improvvisa che lo riscatta come personaggio angosciato, rassicurandolo. Decide di far passare il suicidio di Giovannino per un incidente, una disgrazia. Si salva in questo modo dal rischio della paralisi, riprende fiducia nelle sue possibilità, al riparo dal determinismo. La sua decisione presa è anche un modo per se stesso, per tranquillizzarsi. (pag. 610) La messa in scena: decisione di Giacomo. Si apre una nuova era per Consalvo, ha superato il momento difficile e può guardare al futuro con speranza. La conclusione di Teresa si dà all’insegna di una religiosità bigotta, che Consalvo giudica severamente definito “misticismo isterico”. (pag. 637) Monologo interiore di Consalvo che giudica Teresa. Il destino finale di Teresa è dunque la pazzia, anche lei vittima del determinismo. (pag. 664) Conferma della pazzia di Teresa Uzeda Radalì. Consalvo Edere del principato. Viene fustigata la vocazione di Consalvo a buttare la polvere negli occhi della gente, priva di sostanza, solo un’arte incantatoria. Questa capacità si traduce in alcune riforme superficiali apportate in qualità di assessore, che lo rendono un candidato vincente per la carica di sindaco. Le riforme erano consistite nelle nuove divise per pompieri e vigili del fuoco, divise fiammante e molto vistose. Riforme che non intaccano la vita sociale nella sostanza, ma mosse politiche per ottenere consensi popolari. (pag. 549) In queste pagine si inserisce la paura del contatto con la gente. Indossava i guanti in caso dovesse dare la mano alle persone, poi li gettava via. (pag. 569) Consalvo è già sindaco, mostra attenzioni agli aspetti esteriori della sua politica, e non ai programmi. Fa costruire un’aula per le riunioni consiliari, al posto della piccola saletta precedente, per affermare la grandiosità dei dibattiti che vi si svolgono, di fondo una megalomania, una volontà di esaltare la grandezza. Vi troneggia il seggiolone riservato al sindaco, dorato e scolpito. Il commento a questa riforma (“un parlamento in miniatura”) ci rivela chiaramente la megalomania che vuole emulare la politica nazionale, modella in consiglio sull’esempio del Parlamento (adunanza di montecitorio). (pag. 573) Viene intercettata una conversazione del nuovo sindaco con alcuni rappresentanti del governo consiliare nell’aula nuova, conversazione in cui Consalvo mette in evidenza le sue peculiarità di politico ciarlatano, la cui politica è ambigua. Consalvo sposa la strategia delle convergenze parallele, fa coabitare elementi contraddittori nello stesso discorso, questo per assicurarsi il consenso di tutti. Abbraccia così più fedi e più programmi politici. In uno stesso discorso fa convergere sia elementi democratici che conservatori. Gli astanti sono disorientati perché egli concilia l’inconciliabile. (pag. 627-628) Consalvo non si accontenta di rimanere sindaco, così si candida a deputato nel 1882 alle 14esima legislatura. In vista di questo obiettivo ambizioso egli preare meticolosamente la sua campagna elettorale, per ottenere campagne. Egli addirittura sopporta la strette di mano callosa dei popolani, accettava rinfreschi, sedeva tra loro. Nessuno avrebbe sospettato nulla a giudicare dalla sua faccia. (pag. 642) Lo vediamo impegnato in un comizio elettorale, che ha sede nella palestra ginnastica dell’ex convento dei benedettini, il luogo è stato voluto da Consalvo. Egli sceglie di parlare al suo pubblico in quella sede dove si era svolto il suo noviziato monastico, roccaforto dei privilegi aristocratici e di orgoglio nobiliari; ciò per dimostrare che egli si fosse lasciato alle spalle i privilegi della sua classe, è una strategia per ottenere il consenso. (pag. 647) Consalvo ricorda gli avvenimenti che lo avevano visto cresce tra le mura di san Nicola e che per la prima volta aveva scelto un partito politico, quello conservatore della propria famiglia. Consalvo sceglie la palestra dell’ex convento, sceglie di impegnarsi nella performance politica perché ha la possibilità di dare enfasi al tema della rinnegamento dei suoi pregiudizi e idee da ragazzino verso il partito dei sorci. La sua nuovo orientamento di uomo nuovo, al passo con i tempi, avrebbe reso maggiore risalto. Narra un aneddoto infantile, il periodo era quello in cui Garibaldi, sbarcato in Sicilia, si era rifugiato in convento. Siamo ai tempi della spedizione dei mille. E’ un aneddoto che strappa l’applauso della folla. Tale effetto Consalvo lo aveva previsto, perché Garibaldi riscuote entusiasmo. Egli viene ritratto nelle vesti di Cincinnato che coltiva le rose in giardino, altra tecnica che gli riscuote ammirazioni. (pag. 271) De Roberto non si limita alla registrazione impersonale del successo riscosso da consalvo, in realtà De Roberto non condivide le idee di Consalvo, prende le distanze dal suo personaggio,ne condalla la superficialità, la falsità, l’istrionismo. Tale condanna al personaggia traspare attraverso spie annidate nel testo oppure può essere percepito dal lettore da un’attenta analisi ad alcune parti che non sono sovrapponibili. Per esempio, l’aneddoto di Garibaldi non viene raccontato in maniera veridica da Consalvo, egli volutamente ricorda male e mistifica i fatti quindi. Se si va a leggere nella parte prima l'episodio di Garibaldi al convento al tempo della spedizione dei mille e al dono della rosa fatto all'eroe dei due mondi, ci rendiamo conto che le cose non sono come le racconta Consalvo. Egli quindi ha manipolato nel ricordo l’episodio. Il figlio dell’anticristo è Menotti, e Menotti è il figlio di Garibaldi. A coltivare le rose è quindi Menotti. Consalvo o ricorda male finge di ricordare male. Ad avere il pensiero gentile di offrirgli la rosa non è Consalvo, ma il cugino Giovannino. La manipolazione della memoria serve a Consalvo a portare acqua al suo mulino. Siamo di fronte ad una scena corale, per via del pubblico che assiste al comizio di Consalvo. Ciò ci riporta al funerale di Teresa, altro evento pieno di gente. Abbiamo così una struttura circolare romanzesca in De Roberto. Il primo e l’ultimo episodio sono entrambi eventi pubblici pieni di gente, quindi scene corali. Ai funerali di teresa bisogna sottolineare il carattere teatrale e spettacolare della cerimonia, questo perché c’è una massa di gente che fa da pubblico e da elemente coreografico. Tanto il meeting elettorale quanto il funerale di Teresa è un rito-spettacolare, riti in cui l’aristocrazia celebra se stessa. Nell’ultima scena abbiamo un Consalvo deputato aristocratico mascherato da liberale che impone al pubblico la sua immagine, vuole venderla nel modo migliore in modo da assicurarsi il seggio a Montecitorio. Queste componenti spettacoli dell’evento sono accuratamente studiate dallo stesso Consalvo, che decido perfino quale tipo di musica debba essere suonata al suo ingresso, quali addobbi, quali trofei per rendere suggestivo e coinvolgente l’evento. E’ un apparato scenografico di cattivo gusto ma che ha una sua indubbia efficacia propagandistica nella misura in cui serve a gettare polvere negli occhi della gente, è una parata fastosa che deve suggestionare la gente a sentirsi d’accordo con Consalvo. Sia le parole di Consalvo nel corso del lungo comizio (che mette a dura prova la resistenza fisica), sia l'apparato scenografico rispondono al principio delle convergenze parallele, secondo il quale bisogna venire in contro a tutti i gusti pur di riscuotere il consenso universale. Sul versante scenografico: (pag. 643) si osserva il criterio di prendere in considerazione tutti gli orientamenti politici. Il principio secondo cui è strategicamente conveniente abbracciare l’intero spettro della vera politica del tempo, affinché il risultato sia pieno e soddisfacente. E così sul piano delle parole che veicolano i contenuti. (pag. 649) Consalvo annuncia le sue linee guide della sua politica. Si tratta di una enciclopedia dei più svariati programmi politici, ed è proprio per questo eclettismo, per questo qualunquismo che Consalvo si assicura l’unanimità dei consensi. L’ironia del narratore si esercita in modo sottile per mettere in evidenza la manipolazione della memoria, tale ironia è valida agli occhi solo di un lettore avveduto. La stessa ironia sottile si dà quando si tratta di percepire le reazioni al meeting politico. In generale le reazioni sono positive e animate da entusiasmo: assensi, applausi, approvazioni, complimenti, incitamenti. (pag. 655) Il lettore però può notare una reazione in controtendenza, una voce stonata che è disorientata e disorienta a sua volta il giudizio del lettore. Tale reazione negativa mette in evidenza la vuotaggine e l’insensatezza del discorso di Consalvo, lo riduce a comunicazione svuotata di senso. E’ una voce isolata che ha la forza di mettere in discussione il quadro generale. (pag. 648) viene messa sotto una luce caricaturale la mimica facciale dell’oratore: la bocca che si apre e si chiude come masticando, appare ridicola. E’ una nota satirica, un modo per screditare il personaggio. (pag. 653) A causa della sua prolissità, il pubblico ad un certo momento si spazientisce, è insofferente, si addormente, alla fine del discorso svuota via senza ascoltare la fine. Ciò mette in evidenza l’inutile prolissità della sua orazione. L’ironia si esercita anche nei confronti di un personaggio preciso, al fianco del principe, prima nell’organizzazione poi come regista cerimoniere: Baldassare. Egli era stato il maestro di casa, prima del licenziamento di Teresa con giovannino. Lo troviamo nelle vesti di liberale, presidente di una società operaia di mutuo soccorso. (pag. 638) Baldassarre sostiene la candidatura di Consalvo. (pag. 643) Ci vengono illustrate le convinzioni di Baldassare divenuto libero cittadino, attraverso l’indiretto libero. Egli è convinto che la storia ha mutato corso, infatti ora appoggia il principe non per quattrini ma per servire un’idea. I due ora siedono allo stesso tavolo, si danno del lei, lottano entrambi per un’idea. Baldassarre pensava che un tempo era stato stipendiato, ora era un libero cittadini. Questo convincimento di Baldassarre secondo cui la storia è mutata, è screditato e irriso dal narratore in maniera sottile nella misura in cui il narratore insiste su alcuni dettagli che mettono in ridicolo Baldassarre e sconfessano le sue illusioni sul conto del suo nuovo ruole. Egli ci viene presentato come personaggio poco credibile, improbabile, ridicolo con quella sua coccarda grande come una ruota di mulino (effetto satirico) e quel suo linguaggio approssimativo. De Roberto ci dice che Baldassare rappresenta l’elemento di continuità della Sicilia pre e post unitaria e garantisce la continuità tra i funerali di Teresa e il meeting elettorale di Consalvo.
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