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Il burnout nella professione di Assistente Sociale, Tesi di laurea di Scienze Sociali

In questo lavoro l’attenzione verrà rivolta alla sindrome del burnout come conseguenza delle condizioni di stress e che si possono manifestare nel contesto lavorativo dell’Assistente Sociale, derivando dall’interazione tra diverse variabili: di personalità, organizzative e sociali.

Tipologia: Tesi di laurea

2019/2020

In vendita dal 14/09/2020

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Scarica Il burnout nella professione di Assistente Sociale e più Tesi di laurea in PDF di Scienze Sociali solo su Docsity! UNIVERSITA DEGLI STUDI DI PARMA DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA, STUDI POLITICI E INTERNAZIONALI Corso di Laurea Triennale in Servizio Sociale IL BURNOUT NELLA PROFESSIONE DI ASSISTENTE SOCIALE Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Laureando: Anno Accademico 2018-2019 Con la pazienza e la perseveranza da parte sia dei singoli che dell’organizzazione, si può progredire verso un posto di lavoro del futuro più sano e più umano» (Maslach e Leiter) 5 INTRODUZIONE La società moderna, e con essa il mondo del lavoro, ha subito, nel corso degli ultimi anni, un profondo mutamento sotto la spinta dell’economia globalizzante e del repentino, quanto inevitabile, impatto dello sviluppo delle tecnologie. Le imprese di grande respiro multinazionale sono in costante evoluzione e la forte competizione le spinge a continue ridefinizioni degli obiettivi, tra l’altro sempre più complessi e innovativi, per potersi garantire la sopravvivenza nel mercato. Ciò comporta altrettante modifiche sia all’interno delle imprese più territoriali, sia nel modo di lavorare affinché il risultato possa essere in sintonia con gli obiettivi che l’organizzazione si è proposta di raggiungere. La pressione verso la riduzione dei costi e l’efficienza spesso comporta un ridimensionamento degli organici e, quindi, un aumento del carico di lavoro per singolo operatore, una dilatazione del tempo da dedicare alla propria attività, che oscilla tra casa e sede di lavoro e una conseguente diminuzione del tempo libero da deduicare a sé stessi. Inoltre, spesso, i dipendenti si alternano tra più aziende e più ambienti di lavoro, trovando difficoltà ad instaurare relazioni stabili nel tempo e di sostegno con i colleghi, anche perché il continuo cambiamento e le ridefinizioni impediscono le possibilità di poter trovare qualcuno di fiducia con cui confrontarsi. Gli individui tendono, dunque, a percepire il proprio ambiente di lavoro come altamente stressante, non riuscendo più a gestire, adeguatamente, le tensioni causate dall’intensa attività lavorativa. Ci si trova a lavorare in contesti nei quali i valori umani sono a grande distanza da quelli economici e quello che ci contraddistingue come esseri umani, quello che ci spinge a lavorare bene oltre che sodo viene ignorato oppure minimizzato, non ricevendo, quindi, la giusta considerazione. I rischi nella professione di aiuto che voglio esaminare, sono questioni che 6 necessitano di un’attenzione prioritaria perché chiamano direttamente in causa il Servizio Sociale che deve fare i conti con l’attuale complessità sociale che, a sua volta, accentua tali fenomeni: la crisi economica e sociale che produce rabbia e frustrazione negli utenti dato che non trovano un aiuto sufficiente ed operatori collocati in un’organizzazione lavorativa che, nell’attuale Welfare State, ha visto un incremento della complessità del lavoro a cui non ha corrisposto un’adeguata risposta dei servizi. Il tema che farà da filo conduttore nella mia tesi è l’importanza della conoscenza di tali fattori di rischio, allo scopo di mettere in atto comportamenti e atteggiamenti preventivi di fronte a tali fenomeni: conoscenza e consapevolezza del Servizio Sociale affinché non diventi una professione “usurante”. In questo lavoro l’attenzione verrà rivolta alla sindrome del burnout come conseguenza delle condizioni di stress e che si possono manifestare nel contesto lavorativo dell’Assistente Sociale, derivando dall’interazione tra diverse variabili: di personalità, organizzative e sociali. Inizialmente, questo costrutto è stato studiato in riferimento alle specifiche professioni sociosanitarie e come particolare conseguenza dell’eccessivo coinvolgimento emotivo dell’operatore nella sua professione. Questo tipo di attività implica un continuo contatto con l’utente in difficoltà ma, se lo stesso non riconosce gli eccessivi sforzi che l’operatore gli rivolge attraverso la relazione di aiuto, l’operatore attiverà, in risposta a questo stato di cose, una strategia di coping (fronteggiamento) a distacco emozionale dalle situazioni che richiedono un qualsiasi coinvolgimento emotivo, favorendo l’incontro con la condizione di burnout. Le ricerche successive hanno dimostrato che il burnout si può manifestare anche a causa di molteplici variabili e in altre situazioni di lavoro. Al giorno d’oggi, infatti, in conseguenza e come risultato dei cambiamenti socioeconomici, il burnout si è 7 diffuso maggiormente, divenendo un problema importante in tante altre professioni. Quindi, mentre in passato lo stress e il burnout erano collegati soprattutto con le caratteristiche individuali, con la scarsa capacità di gestione del cliente bisognoso e legati alle dinamiche specifiche della professione d’aiuto, oggi, a scatenare il fenomeno, si aggiungono altre variabili in altre situazioni di lavoro, sia nell’area delle aziende di servizio che in quella delle organizzazioni produttive. Il burnout, anche in questi contesti, e come successivamente sarà analizzato, può essere causato da un eccessivo carico di lavoro, dalla mancanza di controllo sulla propria attività, per un mancato riconoscimento dell’impegno profuso, dal crollo dell’integrazione fra i lavoratori, dalla mancanza di equità e per un conflitto tra i valori personali e quelli dell’organizzazione (Maslach, Leiter, 2000). Per questi motivi, appare chiaro che attribuire le cause di questa patologia al solo individuo costituisce una percezione errata della situazione e che impedisce di agire efficacemente sulla gestione e prevenzione del problema. Affinché si ottengano dei cambiamenti è necessario, infatti, lavorare sulle persone, ma anche sulla realtà dell’organizzazione stessa, la cui struttura disfunzionale può costituire un elemento che impedisce l’impegno dei singoli lavoratori, la realizzazione personale nel lavoro e, quindi, un efficace raggiungimento degli obiettivi preposti. Le attività di prevenzione devono, dunque, essere orientate sia alla trasmissione di modalità individuali di gestione del problema stress, sia al cambiamento delle situazioni ambientali, attraverso approcci organizzativi volti a trovare nuovi rapporti tra la persona e il lavoro, per aumentare la soddisfazione nelle attività, ostacolando in tal modo l’insorgenza del burnout. Questo lavoro ha l’obiettivo di presentare i principali approcci teorici allo stress e al job burnout, in riferimento alle helping professions, ma soprattutto in riferimento al lavoro dell’assistente sociale ed evidenziando, in un caso e nell’altro, i motivi che facilitano il manifestarsi di questo fenomeno patologico all’interno delle aziende. Le helping 8 9 CAPITOLO 1 - DALLO STRESS AL BURNOUT 1.1 STRESS E BURNOUT NEL CONTESTO ORGANIZZATIVO In questo primo capitolo vengono affrontate le problematiche dello stress e del burnout come princìpi del ‘disagio organizzativo’; ma cosa significa disagio organizzativo? In che modo questo tipo di problematiche sono connesse a questo fenomeno? Con il termine di disagio organizzativo oppure, meglio ancora, per patologia organizzativa si può intendere qualsiasi dinamica di natura personale, sociale o istituzionale che impedisca sistematicamente, anche se soltanto per un periodo di tempo limitato, la «buona convivenza e cooperazione nei luoghi di lavoro, ostacolando, di fatto, la promozione, il mantenimento e il miglioramento del benessere fisico, psicologico e sociale all’interno delle comunità lavorative»1. Questa definizione ci permette di capire che una patologia individuale, nonostante incida negativamente sulla salute psico-fisica del soggetto stesso, non sempre è la sola causa del mancato raggiungimento degli obiettivi organizzativi e, se ignorata, rischia di essere a lungo termine dannosa anche per l’organizzazione in cui opera il soggetto patologico. In che modo lo stress e il burnout si possono definire patologie organizzative? Come sarà trattato più avanti, il burnout è una forma esasperata dello stress occupazionale. Se il malessere degli individui nelle organizzazioni deriva, quindi, da un qualche malfunzionamento del sistema, allora anche il burnout non può non derivare da esso. Facendo riferimento alla definizione sopra citata, lo stress è una patologia organizzativa in quanto, se non accuratamente gestito e protratto nel tempo, può impedire il raggiungimento degli obiettivi aziendali o, quanto meno, 10 considerare i fattori interni all’individuo, e quindi le risposte biologiche di adattamento dell’organismo, iniziano a supporre anche l’esistenza di fattori stressanti che non producono solo un disadattamento ma che hanno la capacità di influenzare il sistema psicologico e quindi di avere un impatto emozionale oggettivo. Una situazione, quindi, può essere stressante a seconda della persona che vive quella data esperienza, delle sue caratteristiche soggettive, di personalità e psicologiche in relazione con il determinato contesto ambientale o sociale. L’attenzione si rivolge, quindi, ai: A. fattori psicologici: quali differenze individuali, esperienze soggettive ed emozionali rilevanti nel determinare la soglia, l’intensità e le forme delle diverse manifestazioni dello stress; B. fattori sociali: rilevanti in quanto influenzano la capacità individuale di adattamento alle situazioni percepite come stressogene. Gli stimoli sociali possono essere fonte di disagio nella misura in cui il soggetto attribuisce loro significatività e li percepisce come una minaccia al proprio equilibrio psicologico. Diventa, quindi, funzionale l’interazione tra fattori ambientali e psicologici nel determinare una situazione di stress. Rilevanti all’interno di questo approccio sono stati gli studi di R. S. Lazarus, professore di psicologia in California all’università di Berkeley, nell’evidenziare l’interazione tra processi cognitivi, emotivi ed ambientali. Secondo Lazarus l’interazione tra questi tre fattori si basa su una ‘reciprocità causale’, lasciando intendere che ogni individuo pensa e agisce e quindi trasforma la relazione persona-ambiente; l’informazione di ritorno che proviene dall’esterno (o feedback) su tale 2 Cox, 1989 cit in Magnani M., Majer V.: Rischio stress lavoro-correlato. Valutare, intervenire, prevenire. 11 trasformazione è rappresentata dalla persona attraverso i suoi processi cognitivi 3. Ciò significa che l’individuo interagisce con il suo ambiente attivamente e, in questo continuo processo di interscambio, diviene attore sia del cambiamento che nella ricerca di nuove modalità di adattamento. Di conseguenza, il processo di stress è direttamente influenzato dalla capacità di ‘interpretazione valutativa’ del soggetto che, essendo a diretto contatto con un flusso di eventi, li passa al setaccio, cercando di percepire in che grado questi possano essere minacciosi, sgradevoli o come una stimolazione positiva e costruttiva. Il processo di valutazione secondo l’autore può avvenire a due livelli4: A. valutazione primaria: il soggetto percepisce e valuta la situazione o l’evento potenzialmente stressante attraverso il proprio registro cognitivo ed emotivo, cercando di stimare l’eventuale danno; B. valutazione secondaria: il soggetto valuta le risorse che ha a disposizione per difendersi o affrontare l’evento e il potenziale danno, individuando delle strategie di coping più opportune e mettendole in atto per contrastare i problemi che emergono e, in questo caso, per superare la situazione stressante. Lo stress è così definito come un processo che coinvolge sia l’individuo che il suo ambiente. L’intensità con cui lo stress agisce non è uguale in tutti i soggetti, molto dipende dall’interpretazione e valutazione che l’individuo effettua nei confronti di un determinato evento. In altre parole, un evento sarà tanto più stressante quanto più le strategie di coping personali risulteranno inadeguate o insufficienti a fronteggiarlo. Per lo più le risposte disfunzionali, oltre a non riuscire a mitigare la portata stressogena, potrebbero amplificare lo stato di disagio. D’altro canto, se gli sforzi cognitivi e comportamentali del coping risulteranno funzionali alla situazione, si giungerà a un buon controllo delle richieste interne e/o esterne dettate dall’evento stressante. Un elemento essenziale per giungere ad un buon adattamento sarà, dunque, una certa flessibilità nell’uso delle strategie di coping, 12 qualora si dimostrino inefficaci o insufficienti, evitando di irrigidirsi su un’unica strategia, soprattutto nel caso di situazioni durature nel tempo. 1.2.2 Le teorie transazionali: il modello di Cooper e Marshall Il modello teorico sviluppato da Cooper e Marshall si pone sulla scia della corrente interazionale, privilegiando sia gli aspetti individuali e psicologici che le dinamiche sociali e ambientali5. Un passo avanti, rispetto alle teorie precedenti, è segnato dal fatto che gli autori, oltre a definire lo stress come uno stato psicologico negativo che coinvolge entrambi gli aspetti cognitivi ed emotivi, sottolineano che la rappresentazione interiore dell’evento è il risultato di uno spostamento (transaction) fra l’individuo e il suo ambiente. L’approccio, quindi, varia gradualmente da una visione interazionista ad una che privilegia l’aspetto ‘transazionale’, nato da un confronto fra le richieste dettate dall’ambiente e la capacità del soggetto di farvi fronte. Il modello di Cooper-Marshall può essere applicabile a molti di quei contesti 3 Lazarus, Folkman, 1984 cit in Dominici R.: Valutazione e prevenzione dello stress lavoro-correlato. Modelli e strumenti operativi per intervenire sul disagio lavorativo. 4 Lazarus, 1966 cit in Dominici R.: Valutazione e prevenzione dello stress lavoro- correlato. Modelli e strumenti operativi per intervenire sul disagio lavorativo. 5 Cooper, Marshall, 1976 cit in Magnani M., Majer V.: Rischio stress lavoro-correlato. Valutare, intervenire, prevenire. 15 sforzo-ricompensa), sostiene l’idea che una certa mancanza di reciprocità in termini di sforzi sostenuti (alti) e ricompense ricevute (basse) possa indurre nel lavoratore uno stato emotivo di segno negativo che ricorre e si prolunga nel tempo7. Un sistema di ricompense adeguate, oltre a quelle di carattere economico, prevede la stima nei confronti del soggetto e le opportunità di carriera che gli vengono concesse. Questo insieme di cose incide positivamente sul lavoratore e la sua attività promuovendo benessere, salute e sopravvivenza all’interno delle organizzazioni. 1.2.3 Stress e lavoro: effetti individuali e organizzativi Lo stress nei contesti lavorativi origina dall’interazione tra condizioni organizzative e caratteristiche psicologiche proprie del singolo dipendente. Nelle situazioni in cui l’individuo percepisca un grande squilibrio tra le richieste dell’organizzazione e le sue capacità di fronteggiarle, potrà attraversare uno stato di disagio da stress, in quanto non ha la sicurezza di riuscire a fronteggiare gli eventi per l’inadeguato bagaglio di risorse che ha a disposizione. Secondo il modello dell’European Agency for Safety and Health at Work, mutuato degli studi di Hacker (1991) e Hacker et al. (1983), a tutt’oggi universalmente riconosciuto, i fattori potenziali di rischio per l’insorgenza di una condizione di stress lavorativo possono essere suddivisi in tre macrocategorie8 : 1. contenuto del lavoro: ambiente e attrezzature del lavoro, disegno del compito lavorativo (monotonia, sottoutilizzo delle attitudini e capacità, incertezze...), carico/ritmo di lavoro, orari di lavoro senza pause, protratti ed inflessibili; 16 2. contesto del lavoro: organizzazione del lavoro (scarsa comunicazione, basso sostegno, obiettivi indefiniti), ruolo nell’ambito organizzativo (ambiguità, conflitti e responsabilità), opportunità limitate di carriera, controllo e/o libertà decisionale, rapporti interpersonali sul lavoro; 3. fattori legati al cambiamento: incertezze sulle aspettative e sulle prospettive occupazionali che caratterizzano il mondo del lavoro e i sistemi produttivi in questi ultimi anni. Occorre sottolineare che anche i fattori propriamente ‘fisici’, caratteristici di mansioni particolari, quali rumorosità, l’esposizione diretta a sostanze chimiche e/ o biologiche, l’alta o la bassa luminosità, il timore di danno fisico da onde elettromagnetiche o alta tensione, possono essere fonte di stress lavoro-correlato. Un’altra proposta teorica interessante ci viene offerta dal modello elaborato da Cooper che, occupandosi nuovamente delle specifiche dinamiche individuo - organizzazione e di come esse interagiscano nell’originare condizioni di rischio, individua cinque possibili fonti di stress lavorativo (www.disturbipsichici.info):  fonti intrinseche al Job: cioè tutti quei fattori fisici e ambientali che incidono negativamente sull’efficienza delle prestazioni lavorative come, ad esempio, rumorosità, vibrazioni, variazioni di temperatura, illuminazione, carenza di igiene ambientale; pressioni derivanti dal carico di lavoro: 7 Siegrist, 1996 cit in Magnani M., Majer V.: Rischio stress lavoro-correlato. Valutare, intervenire, prevenire. 8 European Agency for Safety and Health at Work, 2000 cit. in Dominici, 2011. 17 sia di tipo quantitativo (sovraccarico) che qualitativo (inefficienza); orari prolungati di lavoro, viaggi frequenti ecc;  ruolo nell’organizzazione: i già citati ‘conflitti di ruolo’ che portano il lavoratore a fronteggiare richieste tra loro incompatibili; le ‘ambiguità di ruolo’ quando vi è poca chiarezza rispetto ai compiti e alle mansioni da svolgere. Entrambe le situazioni possono essere fonte di stress;  lo sviluppo di carriera: quando le ambizioni soggettive di emergere, di avanzamento gerarchico all’interno della propria organizzazione vengono deluse o disattese; anche le sovrapromozioni possono essere rischiose se il soggetto si sente inadeguato a ricoprire il ruolo che gli è stato assegnato, causando frustrazione e caduta di autostima;  le relazioni di lavoro: cioè le difficoltà a relazionarsi con i colleghi, superiori o dipendenti. Cooper individua cinque stressors relazionali che risultano essere fondamentali: come l’incongruenza di posizione (tra il ruolo desiderato e quello realmente occupato); l’alta densità sociale (uno spazio vitale e psicologico insufficiente, può causare un abbassamento della soddisfazione); lo stile di leadership (se è di tipo ‘autoritario’ non riesce a soddisfare i bisogni dei singoli lavoratori, non li rende partecipi alle attività organizzative, può indurre gli stessi a sviluppare apatia, demotivazione e disturbi psicosomatici); la personalità abrasiva (tipica dei soggetti insensibili allo stato d’animo e alle emozioni dei colleghi, che possono rivelarsi fonte di stress per chi vi lavora a stretto contatto); le pressioni del gruppo a conformarsi alle proprie norme (se le norme non sono condivise, vanno contro i propri valori e credenze, possono causare disagi psichici che, se protratti nel tempo, possono tradursi in vere e proprie patologie); la struttura e il clima organizzativo: sono altre due variabili che, se non percepite come rassicuranti e positive, possono essere fonte di stress per il soggetto. Date le varie condizioni che possono incidere sullo stress, se l’individuo non 20 patologico. 1.3 IL FENOMENO DEL BURNOUT: ASPETTI TEORICI Lo stress e il burnout sono due fenomeni che potrebbero essere confusi in quanto presentano delle affinità ma, non essendo identici, è necessario chiarire il modo in cui differiscono: il burnout deriva sempre da una situazione di stress ma, mentre lo stress è un fenomeno individuale, il burnout è prevalentemente un fenomeno ‘psicosociale’ 10 . Lo stress, inoltre, spesso è vissuto come una momentanea inadeguatezza del soggetto nei confronti della situazione presente e non sempre assume un carattere negativo; il burnout, invece, essendo una conseguenza di uno stato di stress continuativo che opprime l’individuo, il quale non gode di un sufficiente sistema di sostegno e moderazione che possa aiutare a contrastarlo, tende a cronicizzarsi ed ha, quindi, una forte valenza negativa. Cosa si intende con il termine burnout? Quali significati assume? Mutuato dal gergo sportivo, indicava la condizione di quegli atleti che, dopo un periodo di successi, improvvisamente, entravano in crisi e non riuscivano più a fornire delle sufficienti prestazioni agonistiche. Il termine burnout, traducibile in italiano con ‘bruciato’, ‘esaurito’, ‘scoppiato’, esprime, con una certa efficacia e attraverso la metafora del bruciarsi, il cedimento psico-fisico di un operatore rispetto alle difficoltà quotidiane dell’attività professionale. Come afferma Pellegrino, il burnout offre una chiave di 10 Pellegrino F.: Oltre lo stress. Burnout o logorìo professionale? Ed. Centro Scientifico torinese, Torino, 2006. 21 lettura interessante alla comprensione dei motivi per cui «un professionista, ad un certo punto della sua carriera, perde la grinta e la motivazione al lavoro, rimanendo confinato in spazi angusti piuttosto che desiderare di crescere ed evolversi, talvolta fino a spegnersi del tutto»11 . Il campo d’indagine e ricerca, attraverso cui il fenomeno del burnout è stato inizialmente studiato e analizzato, ha interessato, in particolare, gli specifici ambiti sociosanitari ed educativi, in cui è centrale il rapporto con l’utente. Infatti, secondo la Maslach, tutti coloro che svolgono le helping professions possono confrontarsi con questa sindrome: essi sono il caso più tipico, l’esempio per eccellenza di un lavoro ad alto stress professionale12 . Nel corso dell’ultimo trentennio, l’attenzione degli studiosi si è estesa sino a comprendere i contesti organizzativi più differenziati. I mutamenti socioculturali che hanno caratterizzato la nostra società contemporanea, e che continuano a farlo, incidono profondamente sia sul modo di lavorare che su chi svolge le professioni. Oggi il posto di lavoro è spesso percepito come un ambiente freddo, ostile, esigente in termini sia economici che psicologici. Gli individui si sentono sfiniti a livello emozionale, fisico e spirituale. Le richieste quotidianamente avanzate da lavoro, dalla famiglia e da tutto il resto consumano la loro energia e il loro entusiasmo. La dedizione e l’impegno, allora, vanno affievolendosi rendendo molti individui più cinici, distanti e che cercano di evitare il coinvolgimento personale nelle proprie attività. Questo clima, poco funzionale, permette, quindi, a sindromi come quella del burnout, di mettere radici e raggiungere proporzioni epidemiche fra i lavoratori, specie nei Paesi occidentali e tecnologicamente avanzati. Un fenomeno sempre più diffuso e ubiquitario che interessa molteplici ambiti e che, sicuramente, va ben oltre il target delle professioni d’aiuto, estendendosi e colpendo non solo chi lavora in questi settori ma tutti quei contesti organizzativi che risentono delle problematiche generali causate dallo stress lavoro-correlato. In che modo l’attuale crisi delle dinamiche lavorative permette al 22 burnout di diffondersi? Occorre comprendere, anche se brevemente, come le moderne concezioni sul mondo del lavoro possano incidere sul rischio di insorgenza della sindrome del burnout. La visione generale delle organizzazioni e della loro amministrazione si sta trasformando ed orientando verso la ricerca di un rendimento sempre più a breve termine. L’impatto dell’economia globalizzata e il trasferimento della produzione fuori dalla comunità e verso i Paesi in via di sviluppo incrinano gli assetti all’interno delle aziende. L’ambiente di lavoro risente delle incertezze dei mercati e dei molteplici cambiamenti repentini, caratterizzandosi per alta competitività e scarso interesse per il singolo. Rapidi sistemi di trasporto, l’utilizzo di tecnologie sofisticate e le telecomunicazioni permettono che il lavoro venga svolto ovunque e da chiunque, condizionando di fatto il senso di appartenenza culturale e territoriale e la professionalità. La priorità diviene il raggiungimento del profitto e, nonostante le dichiarazioni di buoni intenti, la ricaduta sul settore delle risorse umane e quindi sugli utenti è gravosa ed inesorabile. I valori umani sono sempre più a grande distanza dietro a quelli economici. D’altra parte, il potere dei sindacati, che dovrebbero tutelare gli interessi dei lavoratori, va indebolendosi in quanto i loro iscritti hanno sempre meno voglia di mettere a rischio il proprio posto, in una situazione di continua incertezza e sfiducia nella possibilità di migliorare le condizioni di vita lavorativa. Questo clima permette al burnout di prosperare e il rischio di sviluppare una sindrome ha maggiori probabilità quando ci si trova in presenza di discrepanze fra la natura del lavoro e quella della persona che è 11 Pellegrino F. Oltre lo stress. Burnout o logorìo professionale? Ed. Centro Scientifico torinese, Torino, 2006: p. VII. 12 Maslach, 1982 cit. in Maslach, Leiter, 2000. 25 1.3.2 Il modello teorico di Cherniss La sindrome del burnout, nel suo sviluppo, non insorge all’improvviso ma segue un percorso graduale, partendo dai primi episodi e sensazioni di sconfitta fino a giungere ad una condizione psicologica debilitante, causata dal sentimento di frustrazione lavorativa e che esita in ridotta produttività ed abbassamento dell’autostima. Partendo da questi assunti, Cherniss arriva a definire il job burnout come una particolare modalità di coping in reazione ad una situazione lavorativa non positiva che induce nell’individuo comportamenti peggiorativi, non volti a migliorare la persistente situazione di disagio percepito13. Rappresenta cioè «una risposta ad una situazione di lavoro intollerabile», una «ritirata psicologica dal lavoro in risposta ad un eccessivo stress o insoddisfazione» 14. Se il soggetto non si sente più in grado o capace di soddisfare le esigenze degli utenti, inizierà a percepirsi come frustrato, non appagato, deluso, ritirandosi psicologicamente per difendersi, perdendo l’interesse per la propria attività che, precedentemente, lo entusiasmava. Cherniss, riprendendo il modello di risposta allo stress di Selye (1956), ritiene che la sindrome del burnout segua un percorso graduale e possa essere reversibile, individuandone tre fasi di sviluppo: 1. stress lavorativo: si presenta sotto forma di disequilibrio tra la percezione delle richieste dell’ambiente organizzativo e degli utenti, e le risorse che l’operatore ha a disposizione per fronteggiarle; 2. esaurimento: lo stress attiva una condizione di allarme (risposta emotiva) che, se non gestita adeguatamente, induce l’operatore in uno stato di fatica psicologica, di tensione, di stanchezza e demotivazione, che lo porta verso una progressiva disillusione e frammentazione dei 26 propri ideali professionali; 3. conclusione difensiva: la risposta difensiva a questo punto è inevitabile e si manifesta attraverso il distacco emotivo per fronteggiare le tensioni. Una serie di cambiamenti negativi nell’atteggiamento verso i colleghi e l’utenza, attraverso i quali l’operatore rifiuta qualsiasi coinvolgimento, riservando alle persone con cui interagisce un trattamento di tipo meccanico e impersonale. Chi sperimenta questa sindrome non concepisce più la sua attività e il rapporto con l’utenza come affettivamente significativo. Il distacco emotivo e il pessimismo innescano il fallimento del mandato della professione d’aiuto e ciò conduce ad un ulteriore scoraggiamento che, in un processo a circolo vizioso, provoca una serie di effetti collaterali. Quando l’utente manifesta problemi richiede un aiuto consistente o mostra troppa resistenza all’essere aiutato, induce l’operatore a spendere un alto grado di energia psicologica, causandogli lo stato di stress che, a sua volta, è fonte di un ulteriore esaurimento energetico. Più stress l’operatore subisce, minore è l’energia che resta disponibile per l’impatto e per l’aiuto, provocando un vero e proprio distacco verso il lavoro e in particolare verso gli utenti. Le conseguenze sul piano clinico che vengono descritte da Cherniss sono significative ma, nell’analisi delle stesse, occorre prestare una particolare attenzione nel differenziarle da quadri clinici di stretta pertinenza psichiatrica. Gli effetti del burnout, dunque, sono molteplici ed interessano, oltre agli specifici sintomi legati al contesto lavorativo, anche altre sfere della vita quotidiana del 13 www.my-personaltrainer.it. 14 Cherniss, 1980 cit. in Pellegrino, 2006: p. 8. 27 lavoratore. Inoltre, secondo l’autore, è raccomandato, quasi indispensabile, il dover tener conto della specifica situazione contestuale e del momento temporale in cui il fenomeno si sviluppa in quanto, conoscere le vicissitudini e i trascorsi storici dell’individuo nell’ambiente lavorativo può risultare di sicuro ausilio nell’identificazione delle cause dell’insorgenza del burnout. Una rassegna dei segni e dei sintomi che, secondo l’autore, sono tipici della sindrome del burnout viene presentata in Tabella 1.1. Tabella 1.1 Segni e sintomi tipici del burnout secondo Cherniss15 Segni e sintomi della sindrome del burnout • Alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno • Sensazione di fallimento • Rabbia e risentimento • Senso di colpa • Bassa autostima • Negativismo • Isolamento sociale e ritiro • Senso di stanchezza ed esaurimento tutto il giorno • Perdita di sentimenti positivi verso i colleghi e verso l’utenza • Incapacità a concentrarsi • Problemi di insonnia • Frequenti raffreddori e influenze • Frequenti cefalee e disturbi gastrointestinali 30 riduzione della capacità empatica, per evitare, così, la sensazione di minaccia percepita nel rapporto con l’utente. L’operatore tenderà, quindi, a comportarsi in modo freddo e distaccato verso il proprio lavoro, mostrando un minimo coinvolgimento e abbandonando l’entusiasmo iniziale;  ridotta realizzazione professionale: l’operatore tende a sentirsi inadeguato nello svolgimento dell’attività subendo un calo di fiducia nella possibilità di sostenere in maniera efficace il proprio lavoro e, progressivamente, tenderà a sviluppare un consistente grado di insoddisfazione, la sensazione di insuccesso, un abbassamento dell’autostima verso le proprie capacità, percependosi ‘poco professionale’ nel prestare aiuto agli altri. Come già detto, chi svolge una helping profession lo fa, inizialmente, con tutti i presupposti di voler aiutare veramente gli altri ma, se i riscontri che si hanno sono negativi, sia da parte degli utenti (che non riconoscono l’appoggio e il sostegno degli operatori) sia da parte dell’organizzazione (paga a livelli minimi, straordinari non retribuiti, lavoro precario, prospettive di carriera nulle, ecc.), l’impegno iniziale va deteriorandosi. La relazione che gli individui instaurano con il proprio lavoro può essere rappresentata, secondo la Maslach, attraverso un ‘continuum’ che spazia dall’impegno sul lavoro alla condizione di burnout. Al polo positivo, naturalmente, verranno collocate le dimensioni di energia, coinvolgimento ed efficacia personale; al polo opposto, gli elementi sopra citati di esaurimento, disaffezione negativa ed inefficacia professionale incideranno sulla buona integrazione dell’operatore nel suo posto di lavoro, aumentando le probabilità di andare incontro al burnout. Il 16 Maslach C., La sindrome del burnout, Cittadella, Assisi, 1997: p.16. 17 Maslach, Jackson, 1986 cit. in Magnani, Majer, 2011. Esaurimento Depersonalizza zione Inefficienza 31 Energia Coinvolgimento Efficacia CONTINUUM Burnout Impegno - + continuum ipotizzato dall’autrice si focalizza sulla ‘sintonia’ fra individuo ed ambiente lavorativo; maggiori sono le possibilità d’integrazione fra le due parti, più probabile che l’impegno sia forte e continuativo e che si possa arrivare ad un rapporto ottimale con la propria attività; minore integrazione e sintonia conducono, invece, ad una percezione diffusa di malessere e a stati disadattivi (Maslach, Leiter, 2000). Una rappresentazione grafica del continuum Impegno-Burnout è visibile in Figura 1.3. Figura 1.3 Il continuum Impegno-Burnout ipotizzato dalla Maslach18 Una prospettiva completa sul contesto organizzativo del burnout, inoltre, deve tenere in conto la congruenza dei valori, come ipotizzato nel lavoro di Leiter. Egli ritiene basilare il processo per cui, nel monitorare la congruenza dei propri valori personali con quelli espressi dall’organizzazione, gli operatori possano trovare delle dispercezioni. I conflitti morali che ne possono scaturire esauriscono sia l’energia dedicata a svolgere il lavoro che il coinvolgimento stesso. Le ricerche hanno dimostrato, infatti, che sussiste una forte correlazione tra le incongruenze di 32 valori e l’insorgenza della condizione di burnout19 . Le professioni d’aiuto sono state il settore che maggiormente ha interessato gli studi e le ricerche sulla sindrome del burnout. Occorre, però, fare delle distinzioni sul grado di esposizione al rischio che ognuna di queste specifiche attività comporta. Risultano essere sicuramente più vulnerabili tutti gli specialisti che operano nell’ambito della medicina generale, della medicina del lavoro, della psichiatria, della medicina interna e dell’oncologia. I risultati sembrano, quindi, indicare una polarizzazione tra specialità ‘a più alto burnout’, dove spesso ci si occupa di pazienti cronici, incurabili o morenti, e specialità ‘a più basso burnout’, ove i malati hanno in generale una prognosi più favorevole. Secondo la Maslach, l’insorgenza della sindrome nello specifico contesto degli operatori sanitari si sviluppa, generalmente, attraverso quattro fasi20: 1. fase di entusiasmo idealistico: è caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale; ovvero motivazioni consapevoli come, ad esempio, migliorare il mondo e sé stessi, 18 Fonte: Elaborazione personale 19 Leiter, 2008 cit. in Magnani, Majer, 2011. 20 www.my-personaltrainer.it. 35 Politiche regionali e territoriali Organizzazioni locali Dipendenti Utenza Contesto geopolitico-economico generale da debolezze caratteriali del soggetto. È indispensabile, dunque, passare da una visione esclusivamente individualistica ad un approccio ‘situazionale’. Come analizzato in precedenza, i cambiamenti della società mettono a dura prova il sistema delle organizzazioni che sono forzate a aumentare la produttività e ‘rivedere’ la gestione delle risorse umane. Le tensioni e il logorìo derivanti da questi grandi mutamenti finiscono per scaricarsi, quasi inevitabilmente, nella mente e nel corpo dei lavoratori e, quando si affrontano i problemi, vengono chiamate in causa un pò tutte le parti in gioco. I primi a risentire dello stress saranno sicuramente coloro che siedono ai posti dirigenziali, dovendo occuparsi dei tagli o del budget, essi non possono tutelare completamente i dipendenti dalle conseguenze. Questi ultimi, subendo il processo di ridimensionamento forzato, devono giocoforza cercare di adattarsi, scaricando il peso della tensione più in basso e, quindi, sulla clientela che, ultimo anello della catena, è costretta a perdere tempo in lunghe attese o a rinunciare completamente al beneficio dei servizi. Il contesto situazionale ha innescato un effetto a cascata e le conseguenze sugli individui saranno evidenti (Figura 1.4). Figura 1.4 L’effetto a cascata di origine contestuale21 La sindrome del burnout ha maggiori probabilità di insorgere e svilupparsi in contesti organizzativi in cui è presente una forte discrepanza tra la natura e le 36 richieste del lavoro e le caratteristiche e le capacità della persona che lo svolge. Secondo la Maslach e Leiter, quindi, le cause sono da imputare a sei principali discrepanze tra persona e lavoro che si sviluppano nel corso della vita all’interno dell’organizzazione, specie quando: ‘siamo sovraccarichi di lavoro’; ‘non abbiamo il controllo di quello che facciamo’; ‘non veniamo ricompensati in modo adeguato per quello che facciamo’; ‘viviamo una crisi nel senso di comunità e di appartenenza’; ‘non siamo trattati equamente’; ‘viviamo valori contrastanti’. Queste sono le maggiori discrepanze che possono verificarsi in una determinata organizzazione e che possono incidere negativamente sul benessere dei lavoratori. Verranno descritti di seguito, più nel dettaglio, come questi sei motivi, analizzati dagli autori, risultino fondamentali sia per comprendere le basi dello sviluppo del burnout all’interno delle organizzazioni che il modo in cui questi problemi siano realmente sentiti dalle persone che operano in strutture mal organizzate e patologiche. 21 Fonte: Maslach, Leiter, 2000. 24 1.4.1 Sovraccarico di lavoro Le imprese sono organizzate in modo tale da essere più efficienti, aumentare gli introiti riducendo le risorse, ridimensionando gli organici ed affidando, di conseguenza, più lavoro per ogni singolo dipendente. Da un punto di vista organizzativo, carico di lavoro significa produttività mentre, dal punto di vista dell’individuo, significa dispendio di tempo ed energie preziose. La Maslach scrive che: «nella loro lotta per aumentare la produttività, le organizzazioni pretendono dalle persone più di quanto esse riescano a sostenere»22. L’attuale crisi che interessa il mondo del lavoro incide sulla mole delle attività da svolgere in tre diversi modi: il lavoro è più intenso, richiede più tempo ed è più complesso. L’intensità aumenta in proporzione al lavoro che ognuno è chiamato a svolgere e il ridimensionamento degli organici prevede un numero minore di persone che svolgono una quantità maggiore di attività. Quindi, ad esempio, un insegnante si occuperà di più studenti iscritti; un infermiere sarà responsabile di più pazienti e così via. Spesso queste situazioni non coincidono con adeguati aumenti nelle retribuzioni e ciò concorre a provocare ulteriori disagi. Il tempo che viene dedicato al lavoro è sempre più in aumento, si richiedono più ore di straordinario, le settimane lavorative allungate sono ormai una realtà e con il telelavoro si assume una dimensione continuativa tra la vita privata e quella organizzativa riducendo, di fatto, le possibilità di tempo libero da poter dedicare ai propri interessi personali. La complessità di un lavoro si manifesta quando ai singoli sono affidati più ruoli e più compiti nella stessa organizzazione. Molti individui assumono incarichi multitasking (polivalenti) e questo tipo di tendenza è particolarmente evidente nel servizio pubblico. Il rischio è quello di andare incontro ad un esaurimento da sovraccarico, con 27 basso coinvolgimento, sintomi tipici del burnout. 1.4.4 Crollo del senso di appartenenza Nelle organizzazioni attuali il lavoro in squadra è sempre più cruciale e ricercato. Fondamentali diventano il sostegno reciproco, il rispetto tra colleghi e, quindi, il senso di appartenenza al team con il quale si lavora per riuscire a trovare sostegno, non solo nello svolgimento dei compiti, ma anche nei problemi e difficoltà quotidiane che essi comportano. Il problema sorge quando gli individui percepiscono debole il senso di appartenenza alla stessa organizzazione. La perdita del senso di sicurezza del lavoro e l’eccessiva focalizzazione solo sul profitto a breve termine causano una carenza nel senso comunitario. Quando il lavoro da svolgere è eccessivo, non si hanno margini di autonomia, mancano sia la soddisfazione personale che i riconoscimenti adeguati da parte dell’organizzazione, sono gli stessi rapporti interpersonali che ne risentono. Scegliere (o essere costretti a farlo) di lavorare separatamente invece che insieme induce ad un crescente isolamento, minore sostegno e rispetto reciproci. Il conseguente conflitto interno al gruppo di persone potrà compromettere, in maniera definitiva, il senso di appartenenza comunitario ed ognuno non avrà più motivazioni valide per voler lavorare in squadra, cercando di farsi coinvolgere il meno possibile nella vita degli altri, anche perché la stessa organizzazione riserva a tutto ciò una 28 scarsa attenzione. Ecco come si arriva alla frammentazione e al crollo dei rapporti interpersonali. 1.4.5 Assenza di equità La Maslach scrive che «una organizzazione si comporta in modo equo con i suoi collaboratori quando è in grado di trasmettere fiducia, lealtà e rispetto, permettendo a questi di percepire, a loro volta, quel posto di lavoro come soddisfacente»23. Gli individui confidano che l’impresa agisca sempre in un’ottica imparziale, valorizzando i contributi di ognuno nel giusto modo e riservando a tutti un pari trattamento. Come è possibile capire, sono notevoli le difficoltà nel tradurre in concreto questa prospettiva e le organizzazioni non sempre riescono a preservare il senso di fiducia, lealtà e rispetto che gli operatori ripongono in esse. Le conseguenze di questo tipo di carenze strutturali si ripercuotono sull’equilibrio fra soggetto e lavoro e possono contribuire all’incedere del burnout. Riuscire a dare, quindi, il giusto risalto a fiducia, lealtà e rispetto è essenziale per ogni contesto lavorativo in quanto l’organizzazione deve essere concepita come una comunità costruita su valori condivisi. 1.4.6 Valori contrastanti 29 I valori influenzano ogni aspetto del rapporto che si ha col lavoro. Quando un soggetto decide di inserirsi in una data organizzazione e, quindi, di collaborare con essa, lo fa perché ne condivide i valori a cui è orientata e che gli sono stati comunicati. Molto spesso succede, però, che le stesse imprese si discostino da tali valori, attuando delle scelte in netto contrasto con quanto dichiarato e, di conseguenza, in contrapposizione con il ‘credo’ dei singoli dipendenti. Le dichiarazioni sui valori non interessano solo i dipendenti, ma anche i clienti ai quali si vuole offrire la prestazione. Per riuscire a fornire un servizio eccellente, l’organizzazione deve essere guidata, secondo gli autori, da princìpi come ‘efficienza’, ‘accuratezza’, ‘contatto personale’ e ‘capacità di adattarsi’ agli individui. Come spesso accade nella realtà, le aziende devono compiere delle scelte di compromesso fra questi princìpi per poter sopravvivere alle richieste e alle pressioni esterne. Quando l’utenza si trova di fronte a questo stato di disservizio, percepisce una mancanza di sintonia tra ciò che è stato dichiarato e come realmente agisce l’organizzazione, facendo pesare le lamentele su chi si trova in diretta relazione e cioè sui dipendenti. Ci si trova in una situazione di disagio perché, spesso, quest’ultimi risultano sprovvisti delle risorse per potervi far fronte. Il conflitto di valori può avvenire anche all’interno del gruppo lavoro, in situazioni in cui il singolo segue un codice morale di base che differisce da quello condiviso dal resto dei colleghi. Se non si perverrà ad un accordo fra le parti, ne risentiranno la coesione e il senso comunitario, provocando isolamento e deficit di tipo relazionale che, come già visto, possono condurre a disadattamento e patologie lavorative. 23 Maslach, Leiter, 2000: p. 55. 32 CAPITOLO 2 – LE CONSEGUENZE DEL BURNOUT 2.1 BURNOUT: INTERAZIONE FRA FATTORI ORGANIZZATIVI ED INDIVIDUALI Nel primo capitolo si è visto come la persona, che sperimenta la condizione di burnout, percepisca un grande disequilibrio tra le proprie potenzialità e le aspettative dell’organizzazione nei suoi confronti. La Maslach descrive lo stato del burnout come «una malattia che si diffonde nel tempo con costanza e gradualità, risucchiando le persone in una spirale discendente dalla quale è difficile riprendersi» 24 . Con questa affermazione si può intendere come ci si trovi a confronto con una seria problematica, di cui prendere atto per avviare delle iniziative che la prevengano, agendo sulle cause che la determinano perché, quando la persona è stata ‘risucchiata’, è ancora più difficile intraprendere un processo di cura nel tentativo di farle riacquistare la fiducia nelle sue potenzialità e nell’ambiente in cui opera, ristabilendo un ‘status ante quo’. Le organizzazioni, quando non ignorano il fenomeno, tendono a pensare al burnout come ad una problematica strettamente personale, legata al carattere e alla personalità del soggetto stesso, non connessa all’ambiente lavorativo. Se l’individuo ha un calo di prestazioni e non adempie correttamente al suo lavoro è soltanto per un suo problema, sul quale l’organizzazione non ha il compito di intervenire se non attraverso dei provvedimenti disciplinari, nel tentativo di modificare il comportamento, e che possono arrivare persino al licenziamento del lavoratore. Le variabili di personalità sono sicuramente essenziali perché si 33 esperisca lo stato di disagio ma non sono sufficienti, da sole, per determinare il fenomeno. Come più volte accennato in precedenza, la sindrome del burnout dipende da una interazione tra fattori organizzativi e variabili di personalità e le molteplici conseguenze che comporta risultano dannose sia per l’organizzazione che per gli stessi soggetti coinvolti. Argomento di questo secondo capitolo sarà, quindi, approfondire innanzitutto questa tematica, specificando quali sono le variabili di personalità che entrano in gioco nel determinare il burnout. In seguito, verrà descritto il burnout nella professione di assistente sociale, professione con alto rischio di burnout per il forte coinvolgimento emotivo che tale attività comporta. Medici, infermieri, psicologi, insegnanti e, appunto, operatori sociali, sono categorie lavorative che hanno insite nel loro mandato una serie di variabili facilitanti per l’insorgere della sindrome del burnout e, quindi, strettamente connesse alle dinamiche di questo fenomeno. Il corpus di studi e ricerche sul fenomeno del burnout, in special modo negli ultimi anni, ha contribuito a sostenere l’idea che questa patologia, nonostante colpisca primariamente l’individuo, non sia un problema strettamente personale ma debba essere compresa alla luce del contesto sociale con cui ci si rapporta. Se l’organizzazione non rispetta, non valorizza, non riconosce gli aspetti più personali, la possibilità che si presenti la condizione di burnout cresce. Allo stesso tempo, ognuno risponde in modo diverso agli eventi stressanti, fornendo valutazioni della realtà e vivendo la situazione in modalità che sono strettamente specifiche. Occorre, allora, prendere in esame sia le dimensioni ‘soggettive’ che ci aiutano a cogliere le modalità di gestione della tensione emotiva e delle sensazioni correlate, sia le 24 Maslach, Leiter, 2000: p.23. 30 25 Pellegrino, 2006. condizioni più ‘oggettive’ legate al contesto e al contenuto del lavoro. D’altro canto, non bisogna tralasciare l’impatto dei fattori ‘sociali’ che caratterizzano l’ambiente generale, l’andamento della società e degli stili di vita di ognuno in maniera decisiva. Quali sono allora le variabili che, a livello individuale e a livello organizzativo, incidono maggiormente sul rischio di contrarre la sindrome del burnout e sul suo sviluppo? Saranno esaminati, di seguito, alcuni fattori di diversa natura e che, a vari livelli, risultano essere dei punti critici, incidendo sulla vulnerabilità del singolo allo sviluppo dello stato di malessere e che, rispetto ad altri lavoratori, lo espongono maggiormente alle patologie da stress lavoro-correlato. 2.1.1 Fattori individuali Secondo la letteratura sull’argomento, i fattori individuali sono associati a tutte quelle caratteristiche che incidono sulla vulnerabilità allo stress: variabili sociodemografiche, variabili di personalità, idealizzazione e motivazione individuale25.  variabili sociodemografiche: le ricerche hanno dimostrato che tra uomini e donne non sussistono differenze significative per l’insorgere del burnout anche se le donne, in genere, investono maggiormente sulle emozioni rispetto agli uomini. Questo fa sì che gli operatori di sesso femminile risultino più esposti e possano sperimentare maggiormente lo stato di esaurimento emotivo. Una particolare influenza sembra anche avere lo stato civile e il contesto relazionale del soggetto. Gli studi, infatti, 32 26 Maslach, 1982 cit. in Pellegrino, 2006. spesso all’ostilità e all’aggressività verso gli altri; ‘il locus of control’, che si distingue in ‘interno’, che permette un maggior controllo del flusso di eventi e delle situazioni lavorative, ed ‘esterno’, tipico invece di chi trova difficoltoso dominare le situazioni e quindi affrontare lo stato di burnout; ‘il grado di flessibilità’, di coloro che si adattano alle situazioni di stress senza cercare di farvi fronte e che possono sperimentare maggiormente situazioni di conflitto all’interno delle organizzazioni, che provocano loro il malessere; ‘l’introversione’, che può influenzare direttamente la risposta individuale allo stress e, in genere, i soggetti introversi percepiscono i possibili conflitti lavorativi come logoranti, scegliendo di ritirarsi dinanzi alla situazione problematica;  forte idealizzazione e motivazione individuale: in genere, all’inizio di una carriera professionale, i soggetti intraprendono il percorso con sentimenti di entusiasmo e gioia, spesso idealizzando il proprio lavoro. Purtroppo, un eccesso di idealizzazione potrebbe risultare rischioso in quanto più una attività è vista con occhio positivo, ignorandone le difficoltà (previste o impreviste) che può comportare, più i problemi che emergono nel corso del tempo possono esporre la persona al rischio di una condizione di malessere lavorativo. D’altro canto, anche un eccessivo coinvolgimento nelle attività potrebbe risultare dannoso per la salute dell’operatore, soprattutto per chi lavora nelle professioni di aiuto. Infatti, coloro che svolgono mansioni a stretto contatto con le persone, come l’assistente sociale, spesso scelgono queste attività per la volontà di aiutare e sostenere chi si trova in uno stato di bisogno, ritenendo le proprie caratteristiche adatte ad affrontare queste 32 27 Horney, 1981 cit. in Pellegrino, 2006. 28 Maslach, 1982 cit. in Pellegrino, 2006: p. 19. situazioni. Il desiderio di prestare aiuto implica un forte coinvolgimento personale e motivazionale, oltre alla volontà di riuscire veramente a gestire le situazioni e i disagi degli utenti ma, quando ci si rende conto che non sempre è possibile aiutare tutti o farlo nei modi in cui si vorrebbe, la motivazione iniziale può cedere il posto all’insoddisfazione e alla perdita di entusiasmo. Quella che era stata la forte spinta idealistica dei primi anni di lavoro gradualmente lascia il posto al crescente disagio emotivo, ad una condizione di insoddisfazione personale e professionale e alla depersonalizzazione che trasforma in modo radicale la maniera di comportarsi nei confronti degli utenti. Come appena analizzato, le caratteristiche e i fattori individuali predisponenti all’insorgenza della sindrome del burnout sono molteplici e diversificati. A questi potrebbero essere aggiunti altri profili che possono risultare disadattivi in un contesto lavorativo quali, ad esempio, i tipi ‘espansivi’, ovvero soggetti che spesso ipervalutano la propria attività, non accettano critiche e non apprezzano il lavoro altrui; i tipi ‘narcisisti’ che, spesso, mostrano un rifiuto pregiudizievole nell’ammettere i propri limiti, nel mostrarsi uguali agli altri e, complice una capacità empatica scadente, non si impegnano in sforzi affettivi verso il prossimo. Queste due tipologie si collocano entrambe ad un polo ‘high’ di un ipotetico continuum dell’impegno e delle energie spese; al polo opposto, invece, possiamo raggruppare tipologie come i ‘remissivi’, dominati da sentimenti di impotenza e futilità, con scarse aspettative di carriera e che tendono a soddisfare le richieste di tutti; e i tipi ‘rinunciatari’, caratterizzati da uno stato inerzia e staticità che va oltre il contesto lavorativo, pervadendo tutti gli aspetti globali della vita. Questi specifici profili si collocano al polo ‘down’ in quanto individui difficili da stimolare e motivare nel tirar fuori le energie e l’impegno nelle loro attività, e che 33 27 Horney, 1981 cit. in Pellegrino, 2006. 28 Maslach, 1982 cit. in Pellegrino, 2006: p. 19. cercano, così, la possibilità di evitare di disperdere gli sforzi inutilmente o verso obiettivi poco funzionali al lavoro stesso27. L’elenco potrebbe continuare ancora ma, nel quotidiano, risulta assai difficile identificare uno specifico profilo che espone in maniera diretta allo stato di burnout. Infatti, come afferma ancora la Maslach «tutti siamo a rischio in una certa misura, se lo stress emozionale del lavoro raggiunge livelli eccessivi e non viene mediato nei modi opportuni»28 ma, come appena detto, alcune caratteristiche personali risultano più di altre determinanti sia nella vulnerabilità rispetto a condizioni di stress lavoro-correlato, sia nel rendere gli individui più forti e determinati. 2.1.2 Fattori organizzativi I fattori organizzativi sono costituiti dall’insieme di tutte quelle variabili connesse all’organizzazione del lavoro, esaminate nel primo capitolo, sulle quali le caratteristiche del lavoratore non incidono in modo determinante ma, per gli effetti diretti sull’individuo, possono indurre allo stato disfunzionale e quindi alla patologia da burnout. La struttura del ruolo e il sovraccarico di lavoro; la retribuzione e le possibilità di fare carriera; il clima organizzativo; i valori contrastanti e l’assenza di equità sono tutti fattori che dipendono dalle dinamiche organizzative ma, se risultano relazionati alle variabili di tipo più individuale, precedentemente illustrate, potrebbero causare delle discrepanze, veri e propri 34 2.1.3 Fattori socioculturali Una terza area d’interesse, che non dev’essere trascurata nello studio dei fattori predisponenti all’insorgenza del burnout, riguarda le dinamiche del contesto sociale e culturale. Il peso della moderna e profonda crisi, infatti, si ripercuote inevitabilmente sul mondo del lavoro, sulla visione generale delle organizzazioni e sui lavoratori. L’ambiente, sempre più ostile e competitivo, spinge le imprese a concentrarsi su obiettivi di profitto a breve termine, imponendo loro una serie di profonde innovazioni e strategie di adattamento. Le conseguenze gravano sui lavoratori che operano in condizioni di incertezza costante e che, spesso, si vedono costretti a ridisegnare i loro stessi stili di vita. Le esigenze del mercato globale, l’impatto delle nuove tecnologie, il telelavoro incidono fortemente nel ‘modus operandi’ del singolo che deve ripensarsi e riconfigurare il proprio rapporto con il lavoro. Questo stato di cose priva l’individuo di quella serenità necessaria a svolgere bene la propria attività, di pianificare la vita e gli interessi extra-lavorativi, sia in termini di tempo speso che di aspettative future. Un interessante contributo su questi temi ci viene fornito dal lavoro e dagli studi di Cherniss che individua alcuni fattori critici, di natura socioculturale, che possono indurre a sviluppare patologie correlate ad attività lavorative31:  incremento della domanda: la disgregazione del tessuto della società comporta un grave aumento delle varie forme di disagio psicosociale e, quindi, un incremento della domanda ai servizi di supporto. Gli operatori, che svolgono questo tipo di attività, si trovano a fronteggiare un maggior numero di utenti con diverse problematiche, spesso senza un proporzionale aumento delle risorse a loro disposizione oppure trovandosi 35 impreparati a causa di carenze nei percorsi formativi o di aggiornamento. Entrambe le situazioni contribuiscono ad alzare il livello di stress percepito;  sfiducia da parte degli utenti: gli utenti, d’altro canto, risentono delle difficoltà degli operatori e sono costretti a lunghe attese o a ricevere servizi scadenti o addirittura inesistenti. Ne consegue che coloro che necessitano di assistenza perdono il senso di fiducia nei confronti dell’organizzazione, delle prestazioni offerte e dei loro addetti. La fiducia è un prerequisito essenziale in questo tipo di rapporto di lavoro e chi si trova nella condizione di ricorrervi in maniera continuativa vi si rivolge con astio e aggressività sempre maggiori, spesso con la consapevolezza che si giungerà ad un nulla di fatto. Questo stato di malessere dell’utenza viene percepito dagli operatori e va a sommarsi al carico di stress specifico della professione;  valutazione del lavoro in sé stesso: un terzo aspetto, sul quale si può riflettere, è la svalutazione sociale del lavoro in sé stesso a favore del successo personale e del guadagno economico. Ne consegue che quasi tutte le professioni di aiuto e che forniscono sostegno sociale, notoriamente poco retribuite, risentano di questa considerazione negativa che porta all’allontanamento dal mandato e dai princìpi guida propri di questi servizi. Da qui sorge un conflitto di aspettative che è causa di stress. In questo paragrafo si è posta l’attenzione su determinate caratteristiche e profili individuali di vulnerabilità, sulle disfunzioni a livello organizzativo e gli aspetti sociali e ambientali che possono essere fonti di stress lavoro-correlato. Una serie di fattori molteplici e differenti per natura e livello di azione, spesso determinanti 36 31 www.disturbipsichici.info. 39 farsi carico della sofferenza dell’altro, dal punto di vista emotivo, è molto dispendioso e una cattiva gestione delle energie psicofisiche può sbilanciare la relazione a favore della persona assistita. Il carico emotivo, quando risulta troppo gravoso, rischia di sommergere l’operatore, condizionandone la prestazione lavorativa e il vissuto personale. Competenza significa, quindi, non solo professionalità ma anche il sapersi relazionare con gli altri e saper lavorare all’interno del rapporto duale ed in gruppo. Infatti, un concetto che sta entrando attualmente in maniera prepotente nelle dinamiche delle organizzazioni si basa sulla condivisione delle conoscenze e delle emozioni con gli altri. Nella relazione di aiuto, in particolare, si stabilisce un complesso processo di integrazione, di abilità ed attitudini tra operatore e/o gruppo di operatori e utente. Risulta importante non sottovalutare, inoltre, le variabili legate al controllo, cioè quali e quante sono le dinamiche contestuali che ogni operatore riesce a controllare e quali di esse invece gli sfuggono, su quali aspetti della vita dell’utente si può o si vuole esercitare un effettivo controllo. In un’interessante ricerca condotta da Baiocco sulle tipologie di assistenza sociale, si fa riferimento a come il contesto ambientale in cui questi operatori svolgono l’attività professionale possa influire, e non poco, sulla percezione di benessere o malessere individuale. In particolare, si vuole porre l’attenzione, in questo studio, agli assistenti domiciliari, agli operatori che lavorano in comunità e agli assistenti sociali propriamente detti. Presupposto del lavoro di tutti questi professionisti è il mettere in gioco, quasi in modo globale, la propria persona nell’aiuto e nel sostegno dei bisognosi; e l’influenza del contesto organizzativo può risultare determinante allorché questa non conceda il giusto credito alla dimensione prettamente umana del servizio, orientandosi prevalentemente su di un obiettivo di guadagno. Di conseguenza, gli operatori tenderanno sempre più a diffidare della stessa organizzazione e ad offrire standard di servizio inadeguati sia ai bisogni delle persone che alle proprie capacità e aspirazioni professionali. Baiocco, dai 40 risultati di questo studio, arriva ad affermare che gli operatori sociali, impegnati a far fronte alle continue richieste della propria utenza, sono più esposti al rischio di stress e burnout, soprattutto se vengono a mancare le condizioni minime per rispondere, in modo adeguato, alle aspettative personali come pure a quelle dell’utenza che si rivolge al loro servizio professionale32. La ricerca, condotta su un campione di operatori sociali, appartenenti alle tre categorie precedentemente elencate, ha avuto l’obiettivo principale di verificare se il sovraccarico di lavoro e le eccessive richieste che vengono rivolte agli operatori dall’organizzazione e dall’utenza, ed altri tipi di variabili, come, ad esempio, quella relativa a caratteristiche proprie di personalità, in qualche modo influiscano sullo stato di esaurimento emozionale e sul ritiro motivazionale tipici dello stress lavorativo e del burnout. Dai risultati dell’indagine è emerso che la categoria professionale degli assistenti domiciliari risulta essere la più vulnerabile e, quindi, maggiormente soggetta a sviluppare una patologia lavorativa, seguono gli assistenti sociali e gli operatori di comunità. L’assistente domiciliare è più a rischio di percepire uno stato di esaurimento emotivo perché l’insieme delle energie psicofisiche spese nel contatto e nella relazione con l’utenza sono nettamente superiori rispetto a quelle dalle altre due categorie di operatori. Infatti, molti degli utenti che richiedono un’assistenza a domicilio presentano un grave stato di disagio, come la disabilità fisica, psichica, la mancanza di autonomia, le difficoltà di gestione dell’igiene personale e della casa 32 Baiocco R., Crea G., Laghi F., Provenzano: Il rischio psicosociale nelle professioni d’aiuto- la sindrome del burnout negli operatori, medici, infermieri, psicologi e religiosi. Trento, 2004. 41 e, accade spesso, che le richieste dell’assistito vadano al di là delle mansioni ed esulino dalle funzioni proprie che dovrebbe svolgere tale figura professionale. Per quanto riguarda la variabile ‘anzianità di servizio’, gli assistenti sociali e gli operatori di comunità sembrano sperimentare condizioni legate al burnout solo dopo diversi anni di attività professionale rispetto agli assistenti domiciliari che sembrano essere soggetti al rischio più precocemente, soprattutto nei primi anni di professione svolta. I ricercatori spiegano questa differenza in base al diverso grado di stabilità che caratterizza queste tre categorie professionali: l’assistente sociale e l’operatore di comunità sperimentano un esordio più tardivo perché sono inseriti in maniera precisa e continuativa all’interno di una specifica organizzazione, trovandosi a svolgere, tendenzialmente, sempre lo stesso lavoro e, generalmente, con lo stesso tipo di utenza. L’assistente sociale domiciliare, invece, recandosi direttamente a casa dell’utente entra in contatto sempre con sistemi ed ambienti diversi e non sa mai quale tipo particolare di situazione lo attenda; inoltre, raramente, può contare sul sostegno di un collega o dei membri della famiglia dell’assistito. Come ampiamente dimostrato dalle ricerche in materia, anche all’interno di queste professioni le ‘variabili di personalità’ sembrano incidere in maniera significativa sulle manifestazioni dello stress e del burnout. Gli operatori che affrontano la situazione di malessere sono stati descritti, in genere, come instabili dal punto di vista emotivo, poco empatici nel fornire supporto agli altri, restii ai cambiamenti e alle nuove esperienze, mostrando sentimenti di tipo depressivo come stanchezza psicofisica, senso di scoraggiamento e di avvilimento, una crescente aggressività e una minore capacità di gestire le proprie emozioni. Esiste una sorta di preconcetto legato all’attività assistenziale che è quello di considerarsi dei ‘missionari’. Una persona va incontro alla sofferenza degli altri con l’atteggiamento salvifico di chi si approccia alla realtà pensando di voler salvare il mondo. Nell’interazione tra operatore e utente possono emergere una o più componenti di malessere condiviso, che non sempre risultano di facile 44 un apparato dirigenziale e amministrativo che oggi vede come unico obiettivo il budget e non la qualità di vita e del lavoro del singolo. Questa attenzione esclusiva sull’individuo rispecchia anche le varie teorie che hanno cercato di spiegare la causa del disagio. Infatti, inizialmente, la causa del disagio è essenzialmente centrata sull’individuo. Lo sviluppo dei modelli successivi hanno invece privilegiato gli eventi esterni e sociali, dove sono i fatti della vita e le situazioni esterne la causa principale della condotta stressante della persona. Una ulteriore interpretazione pone l’accento sull’aspetto multidimensionale ovvero integrazione dei fattori individuali ed ambientali. Il modello che prevale oggi è quello multifattoriale che, applicato all’ambito del Servizio Sociale, in questo caso alla sindrome del burnout, ha un significato ben preciso: riflessione sul proprio agire ma anche riflessione all’interno dell’organizzazione. Dunque, possiamo ben capire che nella prassi si resiste molto a questa constatazione e che la bilancia pende maggiormente sulla persona ma non a suo vantaggio ma, in questo caso, a vantaggio dell’organizzazione che evita di avviare un processo di revisione critica sul proprio operato. Definire l’argomento di studio non è facile dato che il burnout è un nuovo termine americano, difficilmente traducibile nella lingua italiana, in quanto manca una parola che sia esattamente corrispondente al termine inglese. A tale proposito G. Contessa ha proposto di tradurre burned out con “cortocircuitato”, “fuso” o “cotto”, indicando con questo termine l’operatore che alla domanda se sarebbe disposto ad essere tra dieci anni allo stesso posto a fare lo stesso lavoro, risponde: “preferirei essere morto”. Quindi in italiano la traduzione letterale di burnout syndrome è “sindrome del bruciarsi”, anche se questa definizione appare riduttiva in quanto 33 www.educatoriuniticontroitagli.noblogs.org 45 tende a privilegiare un’ottica individuale: sembrerebbe che l’operatore burned out si bruciasse da solo per una propria nevrosi caratteriale. Invece, come abbiamo visto nel capitolo precedente, vi concorrono numerose variabili esterne e quindi è un fenomeno comprensibile solo considerandolo nelle sue molteplici dimensioni. Un’analogia con la lingua italiana può aiutarci a capire, almeno in via intuitiva, il significato dell’espressione americana: quando diciamo che un giovane dopo mesi di duro lavoro si è bruciato, esprimiamo lo stesso concetto che la Maslach ha utilizzato per definire tale sindrome, manifestando un atteggiamento o di nervosismo e irrequietezza oppure di apatia, indifferenza nei confronti del suo lavoro. Anche se esistono diversi orientamenti teorici sul significato di questa sindrome, il burnout appare oggi: <<come la sindrome tipica di chi si esaurisce senza darlo a vedere, con comportamenti che si trasformano facilmente nel senso di insoddisfazione, nella facile e continua irritabilità, nella tensione verso i destinatari del proprio aiuto, i quali il più delle volte vengono definiti (o anche solo pensati) come incapaci, scansafatiche, rompiscatole. È la sindrome di chi si esaurisce “a tutto campo”, senza una precisa sintomatologia psicosomatica ma in maniera più sottile, quasi impercettibile e soprattutto con tempi molto lunghi>>.34 Questa parentesi circa le teorie del burnout rappresenta la base sulla quale ora andremo ad affrontare il tema del servizio sociale italiano (per quel che riguarda questo studio) come sistema lavorativo; in tale ambito sono quattro le idee-guida che scaturiscono dalle teorie prima evidenziate e che ci aiutano ad inquadrare meglio l'argomento: 1. Il servizio sociale italiano è storicamente incamerato nella burocrazia pubblica, sebbene l'ovvio obiettivo da perseguire sia lo stesso del no- profit (perseguimento di azioni di solidarietà). Ciò non significa assolutamente che il servizio sociale debba avere gli stessi connotati del no-profit (in Italia il servizio sociale è professionale mentre il no-profit ha forti connotazioni di volontariato), significa però che l'obiettivo 46 perseguito dal no-profit va a coincidere con quello del servizio sociale, sebbene detti obiettivi siano diversamente codificati da parte dei rispettivi attori. 2. Il servizio sociale viene gestito, oggi più di ieri, in termini di impresa (contenimento dei costi), sebbene gestito da una burocrazia pubblica. 3. In particolare l'assistente sociale italiano, ancora in maggioranza dipendente pubblico, è formato dall’Università per un'operatività di solidarietà, ma si trova a lavorare in Enti burocratici autoreferenziali; egli quindi ha una "mission" vicina al no-profit, ma è inserito in strutture aventi una "mission" ben diversa (le ultime indicazioni politiche riguardo alle politiche sociali in Italia non parlano più di prestazioni e di tutela di diritti, ma di coesione sociale e contenimento/riduzione di spesa). Quanto sopra già citato evidenzia dei “nodi critici" alla base del servizio sociale e cioè: A. una mission di solidarietà difficilmente conciliabile con gli obiettivi di una burocrazia tra l'altro gestita (oggi più che mai) in chiave di forte risparmio; B. la coincidenza della mission con quella del no-profit banalizza il ruolo stesso del servizio sociale, in quanto i contenuti operativi vanno in realtà a definirsi su tutt’altri obiettivi rispetto al volontariato. Il servizio sociale italiano, quindi, condivide oggi di fatto le caratteristiche di diverse tipologie di organizzazione (secondo Bonazzi): è allocato nella burocrazia pubblica la quale è oggi gestita secondo criteri di impresa e trova la sua mission nel 34 Baiocco R., Crea G., Laghi F., Provenzano: Il rischio psicosociale nelle professioni d’aiuto- la sindrome del burnout negli operatori, medici, infermieri, psicologi e religiosi. Trento, 2004. 41 professionale: risulta infatti che proprio gli assistenti sociali pubblici dipendenti con consolidata professionalità (a 40 anni di età) optino per la libera professione, considerato che con questa scelta essi si liberano dai limiti dati dall'indisponibilità delle risorse e dalla poca autonomia nell'organizzazione del proprio lavoro, caratteristiche dell'attuale pubblico impiego. Lo "sganciamento" dell'assistente sociale dalle "catene" del pubblico impiego avviene ovviamente a seguito di opportunità lavorative createsi o indottesi dal mercato; questo sganciamento è oggi possibile con le opportunità connesse alla Legge-quadro di Riforma dei servizi Sociali, la L.n. 328 dell'8 novembre 200036. Detta Legge infatti (tra le tante altre cose) crea sia un flusso finanziario considerevole per la gestione delle politiche sociali che una legittimazione di fondo ad un sistema detto Welfare-Mix o Welfare-community. Detto "sistema integrato di interventi e servizi sociali", recuperando la centralità del cittadino e della comunità locale, mira a concetti di personalizzazione, prevenzione e responsabilizzazione dell'intervento sociale e può quindi rappresentare (lo sostiene il Rapporto Censis di cui sopra) l'ambito entro cui l'assistente sociale può recuperare le sue funzioni più vere, depurato dai limiti dell'ente pubblico. Nelle intenzioni della Legge di Riforma non c'è solo uno spostamento del baricentro (di erogazione delle prestazioni) dal pubblico al privato, ma anche un nuovo ruolo di programmazione e gestione dell'Ente Pubblico. Queste indicazioni avvalorano pertanto un dato circa una "discrasia di ruolo", ovvero una divergenza tra ruolo "pensato" su cui si è sviluppata la formazione accademica e quello "agito", permesso cioè dall'organizzazione di lavoro. Questa discrasia ipotizza quindi un malessere lavorativo da parte del gruppo professionale in questione per palese contrasto tra l'identità di ruolo e gli ambiti di azione che il mondo lavorativo permette all'assistente sociale. Quanto finora analizzato ha già evidenziato alcune criticità di fondo della 42 professione dell'assistente sociale italiano, criticità che minano l'esercizio del ruolo professionale nel lavoro quotidiano ed indirettamente ledono il benessere lavorativo di questo professionista. Riassumendo i dati di fondo rilevati: discrasia fra obiettivi della professione ("mission" stabilita addirittura per Legge dello Stato) e collocazione in burocrazie pubbliche a forte tendenza autoreferenziale; limitazioni del ruolo per esclusione da funzioni di vertice; basso riconoscimento economico e di funzioni; cultura "burocratica" delle prestazioni alla persona (anonimità, parcellizzazione, spersonalizzazione, standardizzazione...). 2.3.1 Il malessere lavorativo nel Servizio Sociale italiano Altre indicazioni bibliografiche evidenziano la difficoltà di riconoscimento del ruolo da parte del contesto extraprofessionale: la professione dell'assistente sociale in Italia, sebbene abbia avuto negli ultimi anni una serie di riconoscimenti pubblici, si trova ancora in una fase di ricerca di identità e di senso di agire; viene evidenziata la necessità da parte del gruppo professionale di gestire una diversa immagine collettiva al fine di mantenere un minimo livello di riconoscimento identitario della professione. Vacilla anche il binomio assistente sociale-Ente Pubblico: sembra ormai scontata la crisi di un servizio sociale pubblico gonfio ed inefficace, il quale provoca 36 G.U. - serie generale - n.265 del 13/11/2000. 43 l'allargarsi della forbice tra riconoscimento ed esercizio dei diritti sociali e quindi anche un ripensamento della allocazione lavorativa di questo professionista. Interessante anche l'analisi del "equivoco di tipo culturale" derivante dall'accostamento dell'assistente sociale al termine "sociale" in Italia; il sociale diventa sinonimo, nell'immagine collettiva, di solidarietà, beneficenza, carità, ragion per cui i requisiti di queste azioni risiedono sempre nell'immaginario collettivo nella buona volontà e nella capacità di maternage, caratteristiche di un tradizionale stereotipo del volontariato37. Potrebbe sembrare a prima vista preponderante il "problema" dell'operatività nell'Ente Pubblico, ma c'è chi mette in guardia da problemi simili anche nel settore privato, come quello della cooperazione, ove precise esigenze economiche sacrificano al ribasso moli professionali e livelli economici 38 . Anche nella cooperazione sociale, infatti, si rilevano i problemi del modello organizzativo e dello stile gestionale tipici dell'ente pubblico, al di là delle apparenze "idealistiche" della cooperazione stessa. L'assioma "pubblico frustrante contro privato ideale" è quindi un falso problema: riproponendo entrambi i settori elementi diversi di coinvolgimento dei lavoratori, pare opportuno ragionare più in termini di contenuti organizzativi che non in termini di ragione giuridica dell'organizzazione stessa. Occorre quindi definire se l'organizzazione del lavoro permetta l'esercizio della mission professionale dell'assistente sociale, e, se sì, in che misura ben focalizzando il collegamento tra il riconoscimento delle prerogative professionali dell'assistente sociale stesso ed il benessere lavorativo percepito da questo professionista; ciò induce infatti a riflettere su nozioni di qualità del lavoro, qualità non solo prestata (all'utenza, ma anche all'organizzazione) ma anche percepita (dal lavoratore in relazione alla organizzazione stessa). L'accostamento qualità percepita-benessere vuole essere un’ipotesi di connessione fra il benessere lavorativo (mi sento bene al lavoro) e l'azione percepita dal contesto (il lavoro mi 46 dipendente pubblico, possiamo affermare che la ricerca di cui sopra conferma tutte le indicazioni prima esposte, e cioè che il benessere lavorativo dell'assistente sociale e la sua percezione sono in stretta connessione al contesto-lavoro: una collocazione prevalentemente pubblica , che prevede livelli remunerativi più alti , di fatto causa tutta una serie di fattori (maggior tendenza a rapporti lavorativi a tempo determinato, organizzazioni gerarchiche a bassa qualità relazionale interna e basso coinvolgimento democratico, percezione della soddisfazione più bassa, dubbia equità percepita, dubbio equilibrio nella relazione tra i contributi dati e le ricompense ricevute, bassa fedeltà e forte tendenza alla fuga) che amplificano il rischio di malessere. Le conclusioni stesse della ricerca di Borzaga lanciano un allarme sulla salute del dipendente pubblico in generale (e quindi dell'assistente sociale in particolare): egli è meno motivato, guadagna certamente di più del dipendente privato, ma è scontento delle condizioni di lavoro, si assenta più frequentemente ed apprezza in misura minore la sicurezza del posto di lavoro, non è soddisfatto della propria organizzazione ed è più propenso a cambiare attività alla ricerca di una collocazione più gratificante. Se quindi il benessere/malessere lavorativo dell'assistente sociale italiano è in stretta connessione al tipo di organizzazione, è ai livelli organizzativi che occorre intervenire per eliminare o ridurre gli elementi causanti malessere; si tratta quindi di permettere lo sviluppo di una maggiore soddisfazione lavorativa agendo sull'organizzazione, la quale deve consentire e non bloccare l'esercizio del ruolo professionale dell'assistente sociale. Si tratta quindi di intervenire sull'organizzazione del lavoro nel suo complesso al fine di modificare, in primo luogo, gli aspetti relazionali e motivazionali interni all'organizzazione che 47 sembrano essere la vera causa del basso livello di soddisfazione complessiva. Si tratta poi di effettuare tutti i riconoscimenti (di ruolo, di autonomia) che permettano a questo professionista l'esercizio della sua professionalità, in primo luogo agendo sui meccanismi interni di sovraordinazione/subordinazione. Se quindi nel caso del servizio sociale italiano l'assistente sociale e l'Ente Pubblico tendono ad avere missions differenti, è proprio attorno a questa inconciliabilità che può essere letto il malessere di questo professionista; questa inconciliabilità produce sul lungo periodo due conseguenze: 1. malessere diffuso e conflitti potenziali, con conseguenze estreme sulla salute del lavoratore con sintomi collegabili al burnout; 2. dissonanza cognitiva iniziale e successivo "adattamento" comportamentale e di atteggiamento del lavoratore in questione rispetto a quanto richiesto dall’Organizzazione. 2.3.2 Dal malessere lavorativo al burnout Nella logica del Sapere circa il lavoro, se consideriamo l'evoluzione delle teorizzazioni già espresse, dovremmo concepire nell'era post-moderna, almeno nella nostra cultura, come scontato il dato dell'attività lavorativa non disumanizzante, bensì creativa, appagante, realizzante; grazie all'evoluzione tecnologica e a quella culturale il lavoro dovrebbe ai nostri giorni fungere da aspetto profondo e personale dell'identità dell'individuo, così come affermava Weber, eppure paradossalmente non è così. Nell’era post-moderna l'evoluzione culturale del significato del lavoro per il singolo individuo è sul piano teorico il frutto delle teorie anzidette (lavoro 48 umanizzante, creativo, appagante, realizzante, socializzante, comunicativo, democratico) mentre per le organizzazioni lavorative semplicemente non lo è, o comunque lo è di meno. Ciò significa che il dato del quale bisogna prendere atto è il minor valore intrinseco dato al lavoro nelle odierne organizzazioni (C. Maslach e P. Leiter): la priorità delle organizzazioni post-moderne si sposta dalla qualità dei processi produttivi (il cui motore era la capacità di coinvolgimento del collaboratore) ai bisogni di budget (per cui il collaboratore è utile solo se funzionale agli obiettivi di bilancio). Sempre Maslach e Leiter affermano che se a ciò si aggiunge la forte tecnologizzazione dei processi, ne consegue che si riducono le prerogative dei collaboratori e quindi, nel complesso dell'economia dell'organizzazione, diminuiscono il ruolo ed il significato, e quindi il bisogno di valorizzazione delle risorse umane. Di conseguenza si assiste all'arretramento del "senso di appartenenza" all'organizzazione, il cui obiettivo non è più il lavoro di team o di equipe in sinergica, bensì l'utilizzo del collaboratore per soli obiettivi, spesso di budget, del sistema lavorativo. Questa prima analisi di Maslach e Leiter, condotta sul contesto statunitense, è calzante anche per il contesto italiano, e, in specifico, per la Pubblica Amministrazione, la quale è l'organizzazione ove l'assistente sociale opera. Si consideri che se Maslach e Leiter analizzano l'evoluzione del mondo lavorativo riguardo al sistema "impresa", determinato prevalentemente da dinamiche di profitto, l'organizzazione lavorativa dell'assistente sociale italiano, la Pubblica Amministrazione, è comunque interessata fortemente da logiche di razionalizzazione e spinta da significative riduzioni di bilancio. L'analisi è calzante sul contesto pubblico italiano per tanti motivi: per la diminuzione del debito pubblico il Legislatore italiano interviene già da diversi anni 46 39 Albano U.: Il burnout dell’Assistente Sociale. Roma, definiscono il ruolo, al fine di evitare rapporti di aiuto patologici (sostituzione, proiezione, delega, ...); requisiti di un buon assistente sociale sono quindi sia una buona preparazione di base che un buon equilibrio personale. Egli non è un essere perfetto, ma un essere come gli altri; essendo egli "operatore" di benessere, deve però essere prima di tutto equilibrato ed attento al proprio star bene per saper poi gestire il benessere altrui. Importante per raggiungere questo obiettivo è la formazione, intesa non solo come l'acquisizione di tecniche, bensì come la capacità di saper gestire il ruolo professionale, mediare con l'organizzazione, codificare la professione in modo attivo, dinamico, anche teorico, con forte attenzione ai propri vissuti personali 39 . L'eventuale bum-out personale, se si ha almeno consapevolezza di esserne vittima, richiede, per essere superato, interventi di supervisione, se non di psicoterapia individuale.  connesso all'organizzazione l'assistente sociale è spesso inserito in una organizzazione, egli quindi è coinvolto nelle dinamiche interne (funzioni, rapporti con la gerarchia) ed esterne (immagine pubblica, prestazioni agli utenti) e ne vive conseguentemente in modo più o meno passivo le difficoltà. Egli vive di fatto una discordanza tra la natura del lavoro (esecuzione delle politiche dell’Ente) e la natura della professione (autonomia gestionale negli interventi di aiuto). Lamenta sofferenza per sovraccarico di lavoro a fronte di un aumento di attività, limitazioni di risorse e diminuzione di colleghi; esplicita mancanza di controllo sull'attività svolta, venendo spodestato dai processi decisionali e frustrato nelle sue capacità; recrimina di non essere opportunamente ricompensato per il lavoro svolto sia sul piano economico che su quello di riconoscimento del ruolo, così 46 40 Albano U.: Il burnout dell’Assistente Sociale. Roma, come si diceva prima; vive una crisi del senso di comunità e di appartenenza con i colleghi di lavoro; lamenta una non equità nel trattamento da parte dell'organizzazione, vivendo egli quindi una disconferma del suo valore, vive un conflitto di valori tra i requisiti del lavoro offerto ed i valori personali e della professione. Un tale burnout, sostengono Maslach e Leiter, è imputabile al cattivo funzionamento dell'organizzazione, la quale deve farsi carico del problema semplicemente perchè è suo e specialmente perchè il suo persistere comporta comunque elevati costi che ad ogni modo si ripercuotono negativamente sul sistema stesso. E' impressionante comunque notare come gli indicatori posti da Leiter e Maslach per la definizione del rischio di burnout (sovraccarico di lavoro, non coinvolgimento nei processi, non ricompensa, crisi dell'appartenenza, non equità, contrasto di valori fra organizzazione e professionista) trovi una pressochè totale corrispondenza con le indicazioni della letteratura già illustrati precedentemente a proposito del rapporto tra assistente sociale italiano e sistema pubblico dei servizi sociali; personalmente non sottovaluterei la variabile "personale" del burnout dell'assistente sociale, su cui è già stato detto sopra, appare però evidente che, a livello macro, il burnout di questo lavoratore è connesso alle condizioni lavorative imposte dall'organizzazione . È opportuno, per completezza di trattazione, analizzare più da vicino gli elementi del burnout come componenti di una sofferenza non solo dell'assistente sociale, ma dell'oggetto dell'attività svolta, che è la relazione con l’utente del servizio, che è quindi lo scopo dell'attività stessa. 47 40Albano U.: Il burnout dell’Assistente Sociale. Roma, 2000. Maslach e Leiter, nel testo citato, fanno un'analisi ben precisa sul malessere psicologico del lavoratore in burnout focalizzando lo stesso su tre aree di sofferenza: A. deterioramento dell'impegno nei confronti del lavoro; B. deterioramento delle emozioni; C. adattamento tra persona e lavoro. Per quanto riguarda il deterioramento dell'impegno nei confronti del lavoro va detto che questo aspetto presuppone un inizio di attività con aspettative importanti, ricche di significati, ed un seguito connotato da frustrazione dovuta semplicemente alla mancata realizzazione delle iniziali aspettative; nel caso specifico dell'assistente sociale detto deterioramento è da mettere in connessione ad iniziali "atteggiamenti valoriali" di solidarietà e di altruismo, caratteristiche che, pur venendo rafforzate nella formazione accademica, trovano una realtà lavorativa che tende invece ad offuscarle40, con conseguenze di frustrazione e successivo disimpegno, come un meccanismo di autodifesa dalla frustrazione stessa. L'iniziale passione fa posto all'insoddisfazione di sé in rapporto all'attività svolta; il lavoro viene vissuto come sofferenza per il sovraccarico di lavoro (si diceva prima che se da una parte le tendenze gestionali nel pubblico impiego italiano evidenziano una riduzione di risorse di personale, dall'altra le problematiche afferenti all’attenzione dell'assistente sociale diventano sempre più numerose e sempre più complesse). Si percepisce un senso di mancanza di controllo sull'attività svolta, si vive passivamente uno spodestamento dai processi decisionali, ci si sente al centro di mille responsabilità civili e penali (in quanto pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), ma si vive la frustrazione di non essere opportunamente ricompensati. 49 necessario considerare l'importanza dell'adattamento, non lasciandolo al caso. Se di adattamento si tratta e se consideriamo sia i contenuti che i "nodi" operativi riguardo all'assistente sociale italiano già illustrati prima, ne consegue che è nell'organizzazione stessa del lavoro che vanno cercate le risposte: un adattamento ottimale richiede non una logica gerarchica ma un sistema a responsabilità condivise, richiede un "patto" chiaro tra richieste (flessibilità, complessità, responsabilità, ....) ed offerte (livello economico, autonomia....) in una logica di "mission" condivisa. L'adattamento è reciproco, si diceva, e se manca genera molto probabilmente burnout, così come ben dimostrato da Maslach e Leiter. Concludendo, quindi, a seguito delle interpretazioni derivanti dalla Letteratura finora considerata, è più che confermato il dato del forte malessere dell'assistente sociale italiano; è un malessere non temporaneo ma strutturale, riveste i caratteri del burnout e dipende principalmente dal rapporto con l'organizzazione, la quale tende a contrastare la mission professionale. 50 CAPITOLO 3 – GRUPPI DI SOSTEGNO E SUPERVISIONE 4.1 STRUMENTI DELL’ASSISTENTE SOCIALE PER SUPERARE IL BURNOUT L’assistente sociale che svolge il proprio lavoro all’interno di un’organizzazione è coinvolto nelle dinamiche interne ed esterne proprie di quest’ultima vivendone le difficoltà. Il professionista avverte un contrasto tra la natura del suo lavoro (autonomia gestionale negli interventi di aiuto) e la natura del lavoro (esecuzione delle politiche dell’Ente). Su di lui pesano carichi di lavoro eccessivi dovuti ad un incremento di attività, carenza di risorse e personale, ciò genera in lui frustrazione, scarsa fiducia, sensazione di non aver una giusta ricompensa al proprio lavoro sia in termini economici che per ciò che concerne il riconoscimento del ruolo. L’assistente sociale denuncia una non equità nel trattamento da parte dell’organizzazione, vede il suo ruolo intaccato, vive una crisi del senso di comunità e di appartenenza con i colleghi di lavoro. Di tale forma di burnout ne è responsabile l’organizzazione. È proprio quest’ultima a dover fronteggiare il problema sia per il benessere del professionista ma anche per il proprio stesso interesse in quanto il perdurare di tale crisi genera costi elevati che in un modo o nell’altro si riflettono negativamente sul sistema stesso. È comprensibile dunque capire perché la risoluzione del fenomeno dovrebbe essere affrontata sia a livello organizzativo che a livello individuale. In letteratura ci sono molte strategie per la prevenzione del burnout, molto conclamate sono quelle della Maslach che indica la necessità di focalizzarsi sia sull’individuo sia sul luogo di lavoro. La tesi che accomuna tali teorie è quella che sostiene la necessità di puntare sulla promozione 51 dell'impegno nel lavoro, non solo riducendo gli aspetti negativi presenti sul posto di lavoro stesso ma tentando di incrementare quelli positivi. Tra le strategie note per aumentare l’impegno ricordiamo quelle che accrescono l’energia, l’efficacia e quelle che rimandano ai lavoratori l ’autonomia delle decisioni da prendere. A livello individuale invece risulta produttivo rivolgersi da parte della singola persona ad un professionista in grado di fornire gli strumenti idonei per giungere ad una corretta consapevolezza del problema, per poter aiutare a comprendere le relazioni esistenti tra il comportamento personale, il proprio vissuto ed il contesto di vita e lavorativo, al fine di modificare il proprio comportamento e avviarsi verso una soluzione del problema. Per prevenire la Sindrome di burnout, si rende opportuno ottimizzare la gestione del tempo dei lavoratori, affinché essi possano rigenerarsi dal punto di vista fisico ed emotivo. È necessario il sostegno dell’equipe, interagire e confrontarsi con la stessa, così come è di vitale importanza l’intervento, il supporto e la vicinanza della famiglia, da realizzarsi tramite una corretta comunicazione. Nel momento in cui un operatore è affetto da tale sindrome è necessaria altresì una variazione radicale nella propria vita professionale. Nel campo dei servizi sociali è suggerito cambiare il tipo di utenza, dedicarsi all’organizzazione, diventare formatori, iscriversi ad una scuola di formazione, divenire supervisori e scrivere testi. Uno strumento molto utile è la respirazione, circolare e connessa, valida per portare la consapevolezza al proprio corpo, rigenerarsi, scaricare le tensioni, la rabbia, il senso di nullità, le delusioni, il senso di insoddisfazione prodotte del lavoro. Tale forma di respirazione aiuta ad aumentare la consapevolezza su ciò che è la propria situazione attuale, permette di comprendere che è necessario “abbandonare” un po’ quell’ambiente per prendersi cura di sé e poter recuperare le energie. Un altro modo utile per scaricare ansia e stress tramite il proprio corpo è 54 porta a sottovalutare i fattori che concorrono alla formazione della sintomatologia. D’altro canto, anche la scarsa formazione, o meglio una formazione che non tiene conto dell’attuale complessità dell’odierna società, con l’aumento delle problematiche sociali, di conseguenza di ripercuote sugli operatori che non sono in possesso delle competenze adeguate per rispondere, in modo professionale, alle richieste degli utenti. Infatti, molto spesso, ritornando all’immagine sociale della professione, si considera l’assistente sociale come una persona di buon cuore e quindi ciò porta a pensare che basti la sua bontà per risolvere i problemi. Invece, la professione dell’assistente sociale, è un’attività professionale e, come tale, fa riferimento ad approcci teorici e quindi a conoscenze che sono suscettibili di continui rimaneggiamenti. In altre parole: la formazione continua. Le esperienze che operatori, con diverse qualifiche e professionalità, incontrano in strutture e Servizi alla persona di diversa tipologia possono essere accomunate dalla centralità della persona, intendendo in questo caso non solo colui, che per diversi motivi si trova in uno stato di bisogno e difficoltà, ma anche la centralità dell’operatore e del gruppo di lavoro di cui fa parte (equipe), ovvero il corpo curante che interagisce con i soggetti a cui esso rivolge i propri sforzi all’interno di un setting organizzato. La centralità dell’operatore, del suo equilibrio e conseguentemente del suo benessere, passano attraverso uno strumento di contenimento, di formazione continua, di supporto ed eventualmente di “cura”. Tale strumento è la supervisione, intesa non solo come forma di “manutenzione” degli operatori, ma anche come importante strumento di prevenzione del burnout e di miglioramento della qualità dei servizi. Un ulteriore obiettivo della supervisione deve essere il miglioramento della qualità di vita e del benessere dell’operatore stesso, evidenziando come l’identità di “lavoratore” venga consolidata dall’espressione di unità e condivisione degli aspetti emotivi e cognitivi del gruppo di lavoro. Tra tali aspetti ne ricordiamo alcuni: sentirsi aiutati nella difficoltà, riconosciuti nelle capacità, ben regolati dalle 55 norme condivise dal gruppo, stimolati verso la solidarietà, la partecipazione, l’autonomia e la creatività. All’interno del gruppo, grazie alla supervisione, possono essere definiti e condivisi gli aspetti emotivi che possono tanto logorare quanto rinforzare il gruppo di lavoro. La differenza tra questi due processi risiede nell’elaborazione degli affetti, nella condivisione delle diverse realtà soggettive, nello sforzo di trovare obiettivi comuni verso cui tendere. Braidi, per esempio, descrive un moto degli affetti di riscontro frequente nel corpo curante41 che vede il susseguirsi di due fasi, ovvero la fase proiettiva, in cui gli operatori ‘buttano fuori’ le parti ostili e negative (il cui riconoscimento comune riduce il senso di colpa, inadeguatezza e solitudine dell’operatore), e la fase identificativa, in cui invece il gruppo inizia a riconoscere che vi sono parti simili, comuni, che possono risuonare in modo sintonico per la soddisfazione dei bisogni, sia dell’utente che degli operatori (all’interno del corpo curante si percepisce una condivisione di sentimenti, di interpretazioni della realtà). Il passaggio attraverso queste fasi consente successivamente la migliore formulazione di un progetto di intervento in cui le azioni dei singoli risultino pianificate in vista di una finalità unica e condivisa, rispetto alla quale si crei motivazione e senso di appartenenza. Quindi all’interno del processo di supervisione è possibile contenere ed elaborare sentimenti ed immagini della realtà per i quali è possibile costruire degli spazi specifici di confronto, grazie ai quali ogni operatore può riconoscere, descrivere, condividere emozioni e stati d’animo che, se adeguatamente gestiti, rappresentato una ricchezza ed uno stimolo per l’equipe. Dall’esperienza del singolo come da quella di sottogruppi o dell’intera equipe è possibile apprendere ed elaborare 41Braidi G., Cavicchioli G., 2006 cit in www.narrareigruppi.it 56 modalità funzionali di presa in carico, attraverso il miglioramento ed adeguamento delle azioni quotidiane a partire dalle esperienze vissute e dalle sensazioni percepite. Nel percorso di condivisione e sostegno che il gruppo si trova ad attraversare, nella molteplicità e complessità di esperienze e professionalità, giocano un ruolo importante gli obiettivi sociali identificati dai singoli e dall’intero gruppo. È possibile distinguere diversi tipi di obiettivi sociali42. Un primo tipo si caratterizza per essere orientato al Sé e comprende obiettivi di appartenenza, ad esempio essere approvati (approval) ed essere considerati come bravi e capaci (compliance). Un secondo tipo è maggiormente orientato agli altri e riguarda obiettivi di appartenenza ad un gruppo con cui ci si identifica (solidarity) e quello di essere membro degno e produttivo del gruppo (welfare). Entrambi gli obiettivi elencati concorrono alla formazione di una buona immagine di Sé. Secondo Ainley43, ai fini di una buona prestazione, in senso generale, è importante che l’individuo si ponga obiettivi di diversa natura e sappia associarli, operando una sorta di circolo virtuoso: ad esempio uno studente dovrebbe riuscire a sviluppare buone relazioni con compagni ed insegnanti ottenendo risultati ritenuti validi dal contesto sociale, quali l’apprendimento ed il buon rendimento scolastico. Ciò può avvenire concretamente attraverso la scelta di frequentare compagni che valutino positivamente l’apprendimento, piuttosto che compagni con carriere scolastiche più stentate. Allo stesso modo per un operatore potrà essere motivo di impegno verso una buona prestazione il porsi positivamente ed in modo assertivo nei confronti di colleghi e superiori, ottenendo prestazioni lavorative buone e qualificanti, che lo identifichino all’interno di un gruppo sociale dedito al lavoro, competente, motivato. In tale circolo è possibile identificare un processo di empowerment personale in grado di allargarsi a tutto il gruppo, intendendo per empowerment il “potere personale”, che risiede dentro ciascun individuo e cerca di occuparsi delle lacune,
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