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Il Canzoniere: verso la chiusura - Paolo Cherchi, riassunto, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto completo per capitoli del saggio "Il Canzoniere: Verso la Chiusura" di Paolo Cherchi

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 30/08/2020

N.V.97
N.V.97 🇮🇹

4.3

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Scarica Il Canzoniere: verso la chiusura - Paolo Cherchi, riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Verso la chiusura: saggio sul canzoniere di Petrarca – Paolo Cherchi Introduzione: Il primo sonetto è fondamentale in quanto funge da prologo e anche da epilogo, annuncia l’opera, specifica alcune modalità di costruzione, i propositi, magari i destinatari con un giudizio benevolo, e come epilogo segna il distacco dell’autore dall’opera, trasmette un giudizio o indica il significato morale, coordinate necessarie per la sua interpretazione. Questa è cambiata nel corso dei secoli. Oggi l’opera appare come un corpus unitario e organizzato, con una tesi e un protagonista esemplare, preannunciato nel sonetto introduttivo. Essa è il risultato di redazioni diverse con finalità ogni volta diverse ma sempre vaghe tanto da non giungere mai a una chiusura precisa. La struttura serve a veicolare il significato, una sorta di itinerario morale del protagonista. Petrarca traduce spesso la letteratura in vita, che la vita in letteratura, dunque le testimonianze autobiografiche sparse nell’opera vanno prese con cautela. Le date di composizione delle poesie non corrispondono alla cronologia voluta del racconto. Il Canzoniere, insieme alle opere latine compongono un’autobiografia idealizzante ed esemplare. L’opera ha dimensione retrospettiva e struttura circolare, il primo sonetto assume toni penitenziali e le funzioni del prologo e dell’epilogo si incontrano e si sovrappongono e si necessitano reciprocamente. Il tema di tutta l’opera sembrerebbe dunque essere il pentimento, eppure questo è solo un espediente narrativo per narrare la storia di un protagonista che, tormentato nella divisione tra passioni terrene e saggezza, non si pente realmente, ma semplicemente abbandona una delle due. L’interpretazione non è certa. La conclusione non sarebbe quindi un lieto fine o tragico, ma un pentimento, un ripudio di tutto ciò che è stato appena raccontato. Segue il gusto popolare. L’opera ripudia, quindi, anche l’amore per Laura, salvo poi recuperarlo nel Triumphus eternitatis. Il pentimento è, però, un finale incompleto in quanto è un giudizio o sentimento, ma non un’azione. Alcuni interpreti sostengono che tale pentimento abbia riportato Petrarca verso la religiosità, ma è comunque una interpretazione banale e insoddisfacente. A fine opera, questo grande personaggio, non uno da nulla, si dice diverso da quello che era stato. Questo crea aspettative alte su ciò che possa essere accaduto. Per alcuni, l’opera lascia aperto il dissidio fra amore e religione, per altri trova conclusione nel Triumphus eternitatis, per altri l’opera si chiude solo a livello formale, ma i pareri sono discordi. Sicuramente le varie interpretazioni sono influenzate dal pregiudizio che Petrarca fosse un uomo moderno che ha riscoperto la dimensione terrestre contro l’ascetismo medievale che la rigettava. Comunque si può provare che la fine del Canzoniere è preparata sin dall’inizio e una volta raggiunta apparirà come una conquista e non come un compromesso. Dall’interpretazione della chiusura, di seguito trattata, dipende quella di tutta l’opera. Si parte dal sonetto proemiale, che è sia prologo che epilogo. Supponendo che l’epilogo sia positivo, il prologo dovrà indicare alcuni valori negativi che dovranno essere rovesciati, fra i quali “la vergogna”, “la vana speranza” e “il van dolore”, la prima sparirà poiché ne eliminerà la causa, e gli ultimi due si trasformeranno in “vera speranza” e “dolore verace” in quanto sacrificio o amore di carità. Anticipando alcune conclusioni possiamo dire che l’opera si chiude dopo che è avvenuta una mutatio animi del protagonista in seguito a una specie di illuminazione che rende attive in lui le virtù teologali e da saggio stoico che cercava nella ragione la felicità (dominando le passioni e ambizioni di gloria), diventerà un credente che trova felicità in Dio. Con la grazia conquistata (solo se la si cerca) riuscirà anche a capire il ruolo di Laura nella sua vita. Prende coscienza (scintilla conscientiae). I termini negativi dell’opera sono d’interpretazione non semplice. Petrarca lima e leviga i suoi testi con decoro formale, molti simboli, increspature anche che collegano più componimenti che sono interconnessi fra loro. L’opera nasce come raccolta di componimenti vari scollegati, ma poi nota un argomento affine, la vergogna, la speranza e il dolore, e rielabora la raccolta in modo unitario, rimaneggiando i lavori, operando modifiche varie, tagli, aggiunte, cambi di tono e registro, scelte semantiche. È un fine lavoro di autoanalisi di un animo complesso e contraddittorio. I (vergogna) Nel primo sonetto si attribuisce alla vergogna un ruolo importate nella genesi dell’opera e nella decisione di renderla pubblica, essa è legata al pentimento. Non è chiaro se siano sentimenti nuovi al momento del prologo o se abbiano già una preistoria, se siano un’illuminazione improvvisa o una conquista faticosa. Nel saggio si dimostrerà che sono frutto di un percorso lungo e travagliato grazie a una scintilla conscientiae nell’anima, senza la quale non ci sarebbe progresso. L’uso dei tempi fa capire che la vergogna è viva nel presente ma la sua causa è passata. L’autore parla di un “giovenil errore”, di essere stato “altr’uom” rispetto ad ora, di un errore fatto di “vane speranze” e “van dolore” e spera di ricevere pietà e perdono da chi legge. È consapevole di essere oggetto di “favola” fra la gente e spesso gli è motivo di vergogna, poi accenna a una vergogna più profonda davanti a sé e il suo pentimento, chiude con la consapevolezza della fugacità e vanità dei piaceri con l’implicita alternativa della vita eterna coi suoi beni eterni e veraci. L’autore distingue due vergone, una pubblica dovuta al giudizio della gente, che giustifica l’esemplarità dell’opera, l’altra personale, della propria coscienza che spinge al cambiamento. Sono vergone forti, perché non tutte le vergogne producono un cambiamento, e non sempre è chiara la distinzione poiché l’opera è una psicomachia dell’amore vero, e in quanto vero una certa ambiguità è normale. Ora ci interroghiamo sul significato di “vergogna” (verecondia) per gli auctores di Petrarca, per la tradizione per capire l’originalità dell’autore. La vergogna è alla base dell’apparente paradosso della sua opera: l’effetto sembrerebbe voler annullare la causa; la vergogna vuole far dimenticare la storia d’amore che l’ha causata, ma non per questo essa va omessa, anzi funge da confessione scandalosa (confessio oris, confessione cristiana) per provare l’autenticità del pentimento e fungere da esempio. La storia medievale si concentra a comprendere se la vergogna sia una virtù o una passione. Per Petrarca è una virtù, a patto che sia un habitus (modo di essere o stile di comportamento permanente) insieme al vizio che la causa. Aristotele invece sosteneva che fosse una passione, proprio perché riteneva che habitus non fosse e che si addicesse ai giovani che, vivendo secondo passioni, commettevano errori poi frenati dalla vergogna, e per questo lodati, ma non ai vecchi. Anche S. Tommaso era di quest’idea, sostenendo che essa, in quanto timore del disonore, che è una passione, sia anch’essa del genere delle passioni. Brunetto Latini pensava altrettanto come i due precedenti. Dante ugualmente dice che essa è una passione adatta a giovani e donne, ma non a vecchi e studiosi. Aristotele ne spiega il motivo: i giovani sono ancora in fase di definizione del carattere, dove la vergogna funge da correzione ai loro comportamenti; gli anziani invece sono già formati e dunque se sono virtuosi non commetteranno azioni che gli fanno sentire vergogna, mentre se sono impudenti non la sentiranno comunque perché l’impudenza è diventata loro habitus. L’altra corrente di pensiero sostiene che la vergona sia una virtù. Per Cicerone è un “ornamento della vita” insieme alla temperanza e alla modestia, per Valerio Massimo è “maestra di purezza” e insegna a trascurare le ricchezze, e per sant’Ambrogio è compagnia di pudicizia, castità e pudore. Coluccio Salutati, in un trattatello, mette a confronto la cosiddetta linea greca (passione) e quella romana (virtù) concludendo che appartenga a quest’ultima in quanto nota che si accompagna sempre a tutte le virtù e ne prepara loro la strada, individuandola, infine, nella sua forma più alta di coscienza, quasi maestra. In questa linea, la vergogna non è solo giovanile, ma forse più matura. Annibale Pocaterra sostien si rifà proprio a Petrarca per affermare l’esistenza di due tipi di vergogna, pubblica e privata, dalla cui prima si può fuggire rifugiandosi nei boschi lontano dalla gente (tema ricorrente), ma non dalla seconda, della coscienza. Petrarca è dunque inquadrato nella seconda linea, che la vede come passione, infatti questo sentimento sarà presente lungo tutta la vita dell’autore, ma in modo complesso e originale che non esclude talvolta il tipo di vergogna più occasionale. È chiaro che se la vergona non è propriamente virtù, è certamente “aurora di virtù” (A. Pocaterra), cioè l’anticipa, è una cerniera fra due modi di essere e sprona al cambiamento e il Canzoniere è in gran parte la storia della sua inefficacia. Le parole vergogna/vergognoso/vergognare appaiono circa 20 volte in tutta l’opera, quasi tutte all’inizio. In alcuni casi si riferisce a eventi o atti infamanti che non riguardano la sua personale storia d’amore (Babilonia 114, Cupido 151, Alessandro l’ira vinse 232). La prima riferita a sé stesso si trova, oltre al proemio, nel sonetto 20, nel quale si vergogna di non aver cantato prima quell’amore di cui poi si vergognerà = modo iperbolico per affermare l’inferiorità dei suoi strumenti rispetto alla donna. Il legame tra amore e poesia è inevitabile, deve celebrarlo, così è ancora più difficile trovare attenuanti per la sua colpa. Laura e per la fama abbiano dato solo delusioni e di come forse abbia illuso i suoi lettori dei componimenti giovanili ad amare e poi disamare viste le conseguenze. Poi riprende il tema nel son. 70, cruciale perché ammette la sua colpa: Dio ha creato cose belle e buone ma lui ha preferito guardare e amare Laura dalla prima volta che l’ha vista. Il trittico delle “canzoni degli occhi” riprende il tema della speranza e della fama (71), della reciprocità d’amore (72) e della speranza come fonte di poesia (73, 78) anche se ora è un desiderio cieco e inesaudibile. Cambia il registro, che parlando di emozioni è un cambiamento profondo e ora capisce che Laura ha avuto il compito di dischiudere in lui le bellezze del paradiso grazie ai suoi occhi che danno un’immagine della luce che brilla in paradiso. Questa genera speranza di sperare e di vivere in costante stato di illuminazione, di desiderio spirituale, aspirazione al bene. Ora quell’amore che è stato sofferenza diventa orgoglio, è una guerra ma dal premio inestimabile. È proprio lo sguardo il dono più grande che può dargli perché l’amore carnale si sta trasformando in spirituale, sta avvenendo il passaggio dalla fase petrosa a quella stilnovistica. Ma timori e dubbi continueranno… Nei componimenti che seguono si hanno varianti di questi stessi temi, e verso la fine della prima parte, il tema della speranza si avvicina a quello della morte e del timore, Laura gli dice di non sperare più, ma per lui la speranza è ragione di vita… si deduce quindi che sperare nell’amore può causare anche infelicità. Tutto sembra procedere in modo fin troppo lineare, senza quella scintilla conscientiae che è fondamentale, fino al son. 99 nel quale si ha uno scambio fra amici, di natura spirituale, essi sono uniti dalla delusione per le speranze avute e sono entrambi consapevoli che l’unica speranza verace sia nel Sommo Bene, ma ancora non capiscono come questa si ossa rimandare e non volere. La risposta sta nell’immagine del prato in cui si annida il serpente, ovvero le lusinghe del mondo, illusione di piacere, in cui si annidano le tentazioni mondane, dunque ci si allontana dal volere il Sommo bene perché è troppo facile sperare nelle cose terrene. Infine, una terza voce afferma che il poeta non ha alcuna autorevolezza in quanto egli stesso dovrebbe seguire il proprio consiglio dato che si trova nella stessa condizione dell’amico. Il son. Ci dice anche che per arrivare al Sommo bene dobbiamo ritirarci in solitudine, lontano da quel prato popolato da genti rozze. Alcuni passi del De vita solitaria confermano che per sperare nel Sommo Bene non è sufficiente questa consapevolezza che è conoscibile razionalmente e che viene dall’esterno come tentativo di persuasione, ma serve una convinzione personale interiore, bisogna sentire nel cuore che “ita est” ed essa deve giungere come una conquista. Per capire come si passi dalla speranza vana a quella verace dobbiamo capire innanzitutto cosa sia la speranza. La speranza intesa in senso medievale (expectatio beni) ai tempi di Petrarca era associata al timore (expectatio mali), e caratterizzata da attesa, pazienza e fiducia, ma soprattutto probabilità. La speranza nel Sommo Bene invece esclude questa componente in quanto il Sommo Bene è certo, e pertanto elimina anche quelle ansie tipiche delle speranze terrene, ma per ottenerla bisogna accettare la Fede. La speranza sembra essere sua unica ragione di vita e il sonnetto che precede immediatamente la morte di Laura (266) indica il movimento d’origine verso l’alto nel cuore dl poeta che non deriva dall’assenza dell’oggetto della speranza (Laura) che è sempre esterno, ma sempre da un movimento interiore, una volontà. Dopo la morte di Laura perde tutte le speranze che aveva nei suoi confronti, di essere amato, di morire prima di lei, di poterla rivedere ecc… sorge una nuova speranza, cioè che Laura possa intercedere per lui presso Dio, quindi ancora una speranza legata a Laura. Ora spera di sperare come nel passato e dunque ha nostalgia di come si era prima, quindi si ama l’ombra di sé stessi in senso narcisistico. I contenuti di gloria e bello rappresentati dall’amata appaiono ora vuoti ed è incapace di suscitargli volontà d’esistere, siamo in crisi. Subentra il pensiero della morte, Petrarca è confuso, privo di vitalità e le esortazioni dell’amata a sperare nel Sommo bene che gli giungono dal paradiso non servono perché come detto deve sorgere da lui tale volontà. Questo svuotamento rende possibile una svolta che personifica sé stesso e l’amore in personaggi che pone davanti alla ragione e nel son. 360 risolve l’impasse di tutto il canzoniere mettendolo in crisi. Essa è impostata come un processo in tribunale all’Amore che gli ha dato infelicità, e questi si difende fra i vari modi accusando il poeta di non aver capito che Laura era il mezzo verso Dio e non il fine della speranza, errore cruciale che ha reso vane tutte le altre speranze. È l’amore il tramite fra le due speranze in base a come esso viene vissuto, bene o male. Il verdetto viene lasciato alla Ragione che sorride e di fatto sospende il giudizio, quindi appare come una delle quaestiones insolubiles. Questo perché appare come una lite insolubile fra due contendenti che di fatto sono la stessa persona, e l’amante accusa l’Amore, ciò che lo rende tale. La ragione sa che non può essere lei a risolvere ciò, ma i due contendenti stessi, nel loro intimo, con la coscienza. Con la crisi della ragione comincia il viaggio del pentimento e qui ritorna la speranza che ora è vera speranza, finalmente vissuta senza timori perché è virtù teologale. Manca solo la Canzone alla Vergine, non una preghiera ma una dichiarazione della propria umanità, di figlio che deve liberarsi dal proprio corpo per poter accedere alla beatitudine eterna come Laura. Quel passaggio, la morte, come a ogni uomo fa paura anche a lui e dunque la sua speranza ora è che la Vergine lo aiuti in quel momento a non disperare. È come se avesse scoperto il vero amore in modo improvviso e lo sente con tutto sé stesso in modo sereno e con la certezza di ottenerlo. Essa è legata a carità e Fede e a differenza dello stoicismo che tenta di soffocare le passioni, essa le trasforma in qualcosa di più alto (es. la Ragione in Fede). Tuttavia, essa è ottenuta come dono solo da chi la vuole intensamente e non riesce da solo. III (il van dolore) Ora ci interroghiamo sulla natura di questo dolore che a primo impatto ci appare inutile e che è causato dal diniego dell’amata peggiorato dalla consapevolezza che esso lo stia distogliendo dal Sommo Bene. È possibile raggiungere la salvezza senza dolore? No, la tradizione cristiana dice di no. Esiste un amore-dolore che porti salute eterna? Forse modificando la natura dell’amore e del dolore. Questo è paragonato al van dolore che nei suoi confronti appare, appunto, inutile. Questo amore-dolore appare già all’inizio così come alla fine dell’opera. Nella canzone finale avviene la cessazione del dolore poiché subentra la salvezza, dunque se c’è uno non può esserci l’altra, ci deve essere un rapporto causativo fra i due. Petrarca conosceva varie tradizioni che legavano la sofferenza all’amore: quella amorosa cavalleresca che , paradossalmente, non sperava mai nell’amore ricambiato poiché era proprio il desiderio amoroso che li portava a migliorarsi e raffinare il proprio spirito per essere degni d’amore, il mezzo diventava il fine; poi quella cristiana che vede la sofferenza come prova di fede per meritare la salvezza, e infine quella classica che invoca la volontà come rimedio al dolore e alle passioni. La sofferenza vana è quella che perpetra sé stessa mentre quella utile ha un fine diverso dalla sua causa. Dobbiamo capire come Petrarca tratta e affianca le varie tradizioni. Nel son. 3 paragona il suo dolore appena vede la donna amata, personale e terreno, a quello di Cristo morente, universale. Questo paragone oltre a dare indicazioni sulla data d’inizio del suo amore (Venerdì Santo 1327, si piange la passione di Cristo) deve essere inteso come modello da imitare che l’autore però non coglie nonostante gli venga ripetuto più volte nell’opera, era un segnale. Ciò inaugura il tema cristologico come esempio di amore-sofferenza per la salvezza eterna nel Canzoniere. Nel secondo millennio la morte di Cristo, da sacrificio di Cristo per l’umanità passa ad essere vista come Cristo- uomo, sempre più umano che si sacrifica per ottenere la salvezza. Con questo sacrificio Dio intende salvarci dall’Adamo che c’è in noi, peccatore e superbo di cui parla anche l’apostolo Paolo (in romani 7-8??), è l’uomo che vive la contraddizione di essere nato per la libertà ma schiavo della propria carne, di sentire la chiamata dello spirito ma assecondare la carne perché preso dal peccato e dalla morte. Eppure, io ha donato la scappatoia poiché in quanto creato a sua immagina e somiglianza, l’uomo tenderà verso il suo simile, Dio, fino a ricongiungersi (conversione) e il primo gesto di questo amore è proprio il sacrificio di Cristo, che da parte di quest’ultimo è invece il culmine del suo percorso di prova d’amore verso il Padre. Gli elementi del tema cristologico appaiono nei son. 30 e 52 dell’”anniversario” e nel 62 che ricorda la passione di Cristo e anche l’”aversio” del poeta. Poi riappare nel 275 quando Laura muore, ma anche qui appare non abbastanza forte da produrre un cambiamento in lui. Nel son. 366 è chiaro il riferimento cristologico, dice alla Vergine di non guardare lui, ma chi l’ha creato, di riconoscere in lui le sembianze del Creatore. Qui egli ritorna a partecipare al divino e la aversio diventa “conversio”, ora vive in Dio e vorrebbe lasciarsi dietro il suo essere adamitico. In quest’ultimo componimento il Padre e il Figlio, l’Uomo e Dio si riuniscono in un rapporto di amore eterno nella resurrezione (Pasqua). La liberazione dal peccato, però, non può avvenire senza confessione e pentimento, e questa è esattamente la funzione del sonetto precedente. Qui “vana stanza” allude all’iniziale “van dolore”, che qui dichiara essere stato quello verso beni terreni, eppure anche il dolore per beni terreni in tanti modi può essere trasformato in virtù (es. miglioramento personale nell’amor cortese, virtù nello stoicismo ecc.) dunque perché dovrebbe essere inutile? Perché di fronte alla passione di Cristo lo diventa, dato che solo la Carità, virtù teologale, può portare alla salvezza, il suo van dolore gli ha impedito di concentrarsi sul dolore che è sacrificio per ottenere salvezza. La conversio è sofferenza perché vuol dire lasciare un modo d’essere. Nella fase stilnovistica l’amore per Laura sembra transitare verso il celeste ma in realtà si rafforza. Esso è sì, un ostacolo per l’amore divino ma è anche grazia a Laura, che sarà beata, che questo amore una volta raggiunto sarà irreversibile. Il processo è graduale e lungo, dunque non c’è un singolo momento di svolta, ma tanti. Uno di questi è la morte di Laura in cui l’autore capisce ciò che non aveva capito con la morte di Cristo: ella sta andando in paradiso, verso la sua sembianza (Dio) più vicina, la perdita di vita dunque acquista un’accezione positiva, poiché è passaggio alla pienezza della vita spirituale. Il “voi” con cui si apre l’opera in un certo senso reintegra l’autore, dopo anni di solitudine, con tutta la comunità di Credenti, figli di un solo Padre. IV (Laura e l’onestade) Nel son. 264 Petrarca cita per l’ultima volta la durata del suo amore, 31 anni, che erano tanti anche all’epoca. Il suo è un amore mutevole per via della parte subjecti cioè il modo in cui l’amante vede l’amata e la parte objecti, particolarmente quando Laura muore, prendendo parte ancora più attiva nella storia. L’amore non cambia necessariamente in intensità, ma nel modo, infatti prima viene cantata alla maniera “petrosa”, poi “stilnovista” = funzione perfettiva dell’amore. Nel son. 262 Laura afferma che l’onestà va oltre la vita e lo prova con l’esempio di Lucrezia, violentata che perciò perde non la castità come volontà di astinenza, ma l’onestà. Laura innalza il termine a tutto ciò che è caro e bello e che porta onore. Nel son. 260 Laura viene elevata sopra a tante altre donne che hanno subito esperienze tragiche come Polissena che si copre le parti intime anche al momento di essere sacrificata sulla tomba di Achille (e altre citate). Quindi cos’è questa onestade che sembrerebbe castità, ma in realtà supera essa e anche la fedeltà? Il termine compare spesso associato alla bellezza, l’onore, la gloria, dolce, cortese… e compare centinaia di volte in varianti diverse. Nel Convivio Dante ci dice che l’onestà è la cortesia, e l’onestà è il fine morale degli Stoici, in particolare lo stoico Panezio parla di sommo bene ed è questo concetto alla base dell’etica cortese. Petrarca si rifà a questa tradizione e nell’opera l’onestade funge da ponte fra le due parti (In vita e in morte) e indica il bello fine a sé stesso che è la virtù che porta alla felicità mentale e spirituale. Laura è la bellezza stessa e incarna tutte le virtù perché l’honestum le comprende tutte. Petrarca supera anche Dante nella esaltazione di Laura perché la slega da un contesto cortese. Nei son. 260-265 (“ciclo della lode”) gli occhi passano a indicare la dimensione di vero modello morale di Laura. L’amante non ricava più desiderio sessuale, ma sommo diletto che deriva dalla contemplazione del bello e la natura di tale bellezza viene spiegata proprio a confronto con altre eroine (citate sopra). La sua bellezza non suggerisce realtà metafisiche o divine ma celebra la Natura, il regno in cui si realizzano le virtù cardinali. Il son. 261 sostiene che ogni donna che voglia ottenere gloria, onore e senno, e valore e cortesia deve ispirarsi a Laura, ovvero ogni donna che voglia realizzare a pieno il valore dell’onestade. Nella chiusura Laura parla di onesta castità che non indica illibatezza, ma il punto più alto di integrità morale, dominio perfetto delle proprie facoltà e della volontà. Laura non è più erotizzata e l’autore si rammarica di non aver capito questo prima. Ella diventa l’ideale di onestà e castità, pur sempre valori terreni che verranno superati non senza fatica, e in quanto ideale sopravvive alla sua morte (son. 315), Nel son. 228 l’autore vede “l’albero vittorioso” ma quella nota trionfale è seguita da tono di sconfitta in apertura della seconda parte (264) in cui l’autore si rammarica per aver perso tempo ad amare coi sensi un oggetto mortale, qui torna il tema del pentimento e della vergogna in parallelo con il sonetto proemiale, ma qui, che siamo a metà opera, è una vergogna diversa, legata alla perdita di tempo che lo ha distolto dal vivere secondo Ragione così da ottenere il pregio (pretz provenzale, ovvero onore e onorabilità) per morire con onore, ma non è facile come afferma nel son. 265. Tuttavia questa virtù dell’onestà costituirà anche l’ostacolo maggiore per l’autore. Si conclude così il ciclo della lode (o dell’onore), e il sonetto che segue annuncia la morte di Laura, evento cruciale che sembra voluto dalla provvidenza proprio per far imboccare all’autore quella strada dato che con la morte, dovrebbe essere più facile controllare i sensi carnali, controllo che era ideale del saggio stoico. Ma il percorso è
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