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IL CERVELLO INFINITO, Dispense di Neuroscienze

ALLE FRONTIERE DELLA NEUROSCIENZA: STORIE DI PERSONE CHE HANNO CAMBIATO IL PROPRIO CERVELLO

Tipologia: Dispense

2018/2019
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Caricato il 13/05/2019

SofiaMarconi97
SofiaMarconi97 🇮🇹

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5 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica IL CERVELLO INFINITO e più Dispense in PDF di Neuroscienze solo su Docsity! Edward Taub: si sta dedicando alla cura del tinnitus, o ronzio auricolare, che può essere causato dai cambiamenti plastici nella corteccia uditiva. IL CERVELLO INFINITO ALLE FRONTIERE DELLA NEUROSCIENZA: STORIE DI PERSONE CHE HANNO CAMBIATO IL PROPRIO CERVELLO NORMAN DOIDGE Indice Prefazione 1… Una donna in perenne caduta salvata dall'uomo che scoprì la plasticità dei nostri sensi … Costruirsi un cervello migliore. Una donna considerata «ritardata» scopre come guarire se stessa …. Rimodellare il cervello Come uno scienziato trasforma il cervello per migliorare la percezione e la memoria, aumentare la rapidità di pensiero e per risolvere i problemi dell'apprendimento …. Acquisire gusti e passioni Cosa può insegnarci la neuroplasticità a proposito dell'attrazione sessuale e dell'amore . Sconfiggere 1'oscurità Come le vittime di ictus imparano a muoversi e a parlare di nuovo . Sbloccare il cervello Come usare la plasticità per fermare ansie ossessioni, compulsioni e cattive abitudini . Dolore Il lato oscuro della plasticità . Immaginazione Come il pensiero rende le cose reali . Trasformare i nostri fantasmi in antenati che insieme sono riusciti a produrre queste straordinarie trasformazioni: senza ricorrere a trattamenti chirurgici o farmacologici, si sono semplicemente affidati alla capacità, finora sconosciuta, del cervello di modificarsi. In alcuni casi si trattava di pazienti con problemi neurologici ritenuti incurabili, in altri di persone che non mostravano difficoltà specifiche ma che desideravano semplicemente migliorare il loro funzionamento cerebrale o preservarlo nel corso dell'invecchiamento. Per 400 anni una simile impresa è stata considerata inconcepibile: la medicina ufficiale e la scienza sostenevano la convinzione che l'anatomia del cervello fosse immutabile. Era opinione comune che, dopo l'infanzia, il cervello sarebbe andato incontro solamente ai cambiamenti dovuti a un lungo processo di deterioramento, e che non sarebbe stato possibile sostituire le cellule cerebrali quando queste non si fossero sviluppate in modo appropriato, si fossero deteriorate o fossero morte. Si riteneva anche che il cervello non avrebbe potuto alterare la propria struttura e individuare una nuova modalità di funzionamento nel caso in cui una sua parte fosse danneggiata. La teoria di un cervello immutabile decretava che le persone nate con problemi neurologici o mentali, o che avessero subito danni cerebrali, sarebbero rimaste invalide o menomate per tutta la vita. Il lavoro degli scienziati che si chiedevano se fosse possibile migliorare o mantenere in buona salute il cervello attraverso l'attività o l'esercizio mentale veniva considerato uno spreco di tempo. Nella nostra cultura si è radicato e quindi diffuso una sorta di nichilismo neurologico - l'impressione cioè che il trattamento di molti problemi cerebrali sia inefficace o persino privo di alcun fondamento - che impedisce anche alla nostra visione della natura umana di evolversi. Dal momento che il cervello non può cambiare, così anche la natura umana, che ha la propria origine dalla mente, sembrava altrettanto inalterabile. La convinzione secondo cui il cervello non sarebbe stato in grado di modificarsi si basava su 3 capisaldi: > il fatto che i pazienti con danni cerebrali raramente vanno incontro a una guarigione completa; > l'impossibilità di osservare a livello microscopico le attività del cervello in vivo; e infine > l'idea - risalente ai primordi della scienza moderna - secondo cui il cervello è simile a una macchina stupefacente. E se da una parte le macchine fanno cose straordinarie, dall'altra non possono cambiare e crescere. Iniziai a interessarmi all'idea di un cervello che si evolve a causa del mio lavoro di ricercatore in ambito psichiatrico e psicoanalitico. Quando i pazienti non vedevano i progressi psicologici sperati, spesso la spiegazione medica convenzionale era che i loro problemi erano «cablati» in un cervello immutabile. Il «cablaggio» era un'altra metafora che avvicinava il cervello alle macchine, in particolare all'hardware di un computer, con circuiti connessi in modo permanente, ciascuno progettato per svolgere una funzione specifica e immodificabile. Quando seppi per la prima volta che il cervello poteva non essere cablato, non potei fare a meno di condurre personalmente delle ricerche e di valutare le evidenze empiriche. Tali ricerche mi tennero lontano dall'ambulatorio in cui lavoravo. Così intrapresi diversi viaggi, durante i quali conobbi un gruppo di brillanti scienziati che, alle frontiere della neuroscienza, tra la fine degli anni ‘ e l'inizio dei ‘, erano giunti a una serie di scoperte inaspettate. Questi ricercatori mostrarono che il cervello modifica la propria struttura, a livello di ciascuna funzionalità specifica, perfezionando i propri circuiti in modo da adattarli più efficacemente al compito da svolgere di volta in volta. Se alcune «componenti» subivano un danno, in determinate circostanze altre avrebbero potuto sostituirle. La metafora della macchina, che vedeva nel cervello un organo dotato di componenti specializzate, non avrebbe potuto spiegare fino in fondo i cambiamenti che gli scienziati stavano osservando. Per indicare questa proprietà fondamentale del cervello si introdusse il termine di «neuroplasticità». Neuro sta per «neuroni», le cellule che compongono il cervello e il sistema nervoso umano. Plastico sta per «modificabile, flessibile, mutevole». All'inizio molti scienziati non osavano utilizzare il termine «neuroplasticità» nelle loro pubblicazioni, e il fatto che sostenessero una nozione tanto fantasiosa non era visto di buon occhio dai loro colleghi. Nonostante ciò quei ricercatori non desistettero e ottennero un graduale capovolgimento della dottrina del cervello immutabile. Mostrarono che i bambini non sempre sono legati alle abilità mentali di cui dispongono fin dalla nascita; che un cervello danneggiato spesso può riorganizzarsi in modo che, quando una parte smette di funzionare, un'altra la sostituisce; che talvolta, quando muoiono, le cellule cerebrali possono essere sostituite; che molti «circuiti», e persino riflessi fondamentali che pensiamo siano «cablati», non lo sono affatto. Uno di quei ricercatori arrivò a mostrare che il pensiero, l'apprendimento e l'azione possono «attivare» o «disattivare» i geni, modellando così l'anatomia cerebrale e il nostro comportamento. Si tratta senza dubbio di una delle scoperte più straordinarie del Novecento. Nel corso dei miei viaggi ho incontrato uno scienziato che permetteva a persone non vedenti dalla nascita di iniziare a vedere; ho parlato con pazienti, dichiarati incurabili dopo aver subito un ictus decine di anni prima, che sono stati aiutati a guarire con trattamenti neuroplastici; ho conosciuto persone che hanno superato disturbi dell'apprendimento e che hanno migliorato il proprio QI (quoziente d'intelligenza); ho raccolto evidenze secondo cui a 80 anni è possibile rendere più vivace la memoria in modo che funzioni come a 55. Ho visto pazienti «ri-cablare» il loro cervello attraverso i pensieri, per risolvere traumi e ossessioni in precedenza considerati insuperabili. Non sembra abbia semplicemente paura di cadere, piuttosto ha la sensazione di essere spinta. «È come se stesse per cadere da un ponte» le dico. «Sì, è come se fossi sul punto di saltare, anche se non ne ho nessuna intenzione». Osservandola più attentamente noto che, mentre tenta di rimanere in piedi, si muove a scatti, come se un gruppo di teppisti invisibili la stiano scuotendo e spingendo da una parte all' altra, cercando brutalmente di buttarla a terra. Ma quei delinquenti sono solo dentro di lei, ormai da 5 anni. Quando prova a camminare, deve appoggiarsi a un muro, e anche così barcolla come un ubriaco. Per Cheryl non c'è pace, neppure dopo essere caduta. «Che cosa prova dopo essere caduta?» le chiedo. «La sensazione di cadere se ne va quando è a terra? » «Certe volte mi è capitato» dice Cheryl «di non riuscire letteralmente ad avere la sensazione del pavimento... come se una botola immaginaria si aprisse e mi ingoiasse». Anche dopo essere caduta, Cheryl ha la sensazione di continuare a cadere, perennemente, in un abisso infinito. Il problema di Cheryl risiede nel fatto che il suo apparato vestibolare, l'organo sensoriale che garantisce il nostro equilibrio, non funziona come dovrebbe. Cheryl è esausta, e la costante sensazione di cadere la sta facendo impazzire, perché non può pensare ad altro. Ha paura per il proprio futuro. Poco dopo l'insorgere del problema, Cheryl ha perso il suo lavoro di rappresentante di commercio internazionale e ora vive con un assegno d'invalidità di mille dollari al mese. Ha scoperto la paura di invecchiare. E una rara forma di ansia. Un aspetto sottinteso, ma non per questo meno profondo, del nostro benessere consiste nell'avere un senso dell'equilibrio ben funzionante. Negli anni ‘ lo psichiatra Paul Schilder condusse delle ricerche su come il senso di benessere e un'immagine corporea «stabile» siano correlati all'apparato vestibolare. Quando diciamo di essere «stabili» o «instabili», «equilibrati» o «squilibrati», «radicati» o «sradicati», «con i piedi per terra» o «con la testa fra le nuvole», stiamo parlando il linguaggio del nostro apparato vestibolare, la cui verità è pienamente evidente solo a persone come Cheryl. Non sorprende il fatto che i pazienti affetti da questo disturbo vadano incontro a danni psicologici molto gravi, e che molti fra di loro siano arrivati al suicidio. Abbiamo sensi che non sappiamo di avere, almeno fino a quando non li perdiamo; di norma l'equilibrio funziona così bene, e senza che ce ne accorgiamo, che neppure Aristotele lo elencò fra i cinque sensi, e nei secoli successivi fu del tutto trascurato. Il sistema dell'equilibrio fornisce il senso dell'orientamento nello spazio. Il suo organo sensoriale, l'apparato vestibolare, consiste di 3 canali semicircolari situati nell'orecchio interno che ci dicono quando siamo in posizione eretta e in che modo la gravità agisce sul nostro corpo, rilevando i movimenti nello spazio tridimensionale. Due canali rilevano rispettivamente i movimenti sul piano orizzontale e verticale, mentre il terzo quelli in avanti e indietro. I canali semicircolari contengono delle cellule cigliate immerse in un fluido. Quando muoviamo la testa, il fluido muove le ciglia, le quali inviano un segnale al cervello informandoci che abbiamo aumentato la nostra velocità in una determinata direzione. Ogni movimento richiede un adeguato aggiustamento del resto del corpo. Se muoviamo la testa in avanti, il cervello fa in modo che una parte ben precisa del nostro corpo si disponga, in modo involontario, per compensare il cambiamento nel baricentro e mantenere l'equilibrio. I segnali provenienti dall'apparato vestibolare vengono trasmessi da un nervo fino a un gruppo di neuroni nel cervello, chiamato «nucleo vestibolare», il quale elabora quei segnali e invia i comandi ai muscoli. Un apparato vestibolare sano è in stretta relazione anche con il sistema visivo. Mentre correte per prendere l'autobus, e la vostra testa sobbalza avanti e indietro, riuscite a mantenere l'autobus in movimento al centro del vostro campo visivo perché l'apparato vestibolare invia dei messaggi al cervello informandolo della velocità e della direzione della vostra corsa. Questi segnali permettono al cervello di ruotare e adattare la posizione dei bulbi oculari in direzione del vostro obiettivo, in questo caso l'autobus. Cheryl e io siamo in compagnia di Paul Bach-y-Rita, uno dei più grandi pionieri nella comprensione della neuroplasticità, e del suo team di ricerca in uno dei suoi laboratori. Cheryl nutre molte speranze nell'esperimento di oggi, è coraggiosa e al tempo stesso non si fa illusioni sulla propria condizione. Yuri Danilov, il biofisico dell'équipe, sta elaborando i dati raccolti dal sistema vestibolare di Chery1. Yuri è russo ed è un uomo molto brillante. Con un forte accento spiega: «Il sistema vestibolare di Cheryl è compromesso tra il 95 e il 100%». Secondo gli standard convenzionali, il caso di Cheryl è senza speranza. E’ opinione comune che il cervello è costituito da una serie di moduli specializzati, geneticamente «cablati» per svolgere ed elaborare in modo esclusivo alcune funzioni specifiche. Ogni modulo si è sviluppato e perfezionato nel corso di un' evoluzione durata milioni di anni. Quando uno di questi moduli viene danneggiato, non può essere rimpiazzato. Ora che il suo modulo vestibolare è compromesso, le possibilità che Cheryl ha di recuperare il senso dell'equilibrio sono pari a quelle che una persona con un danno alla retina ha di tornare a vedere. Ma oggi questo punto di vista sta per essere messo in discussione. Cheryl indossa un elmetto da cantiere con dei fori sui lati e un accelerometro all'interno. Dopo averla leccata, mette una striscia di plastica con dei piccoli elettrodi sulla lingua. L'accelerometro nell'elmetto invia dei segnali alla striscia, ed entrambi sono collegati a un computer. Cheryl ride pensando a come deve sembrare combinata in quel modo: «Rido per non piangere!» Questa macchina è uno dei bizzarri prototipi messi a punto da Bach-y-Rita. La sua funzione è quella di sostituirsi all'apparato vestibolare di Cheryl e inviare dei segnali al suo cervello attraverso la lingua. Lo strano dispositivo dovrebbe far svanire l'incubo senza fine in cui Cheryl è precipitata. Nel 1997, dopo un normale intervento di isterectomia, la donna, che allora aveva 39 anni, contrasse un'infezione postoperatoria. Per questo le fu somministrata la gentamicina, un antibiotico che a dosaggi eccessivi è noto per provocare danni alle strutture dell'orecchio interno e che può portare a perdita dell'udito, acufeni (fischi e ronzii nelle orecchie) e gravi La prima volta che lo ha indossato, la perenne sensazione di cadere ha abbandonato Cheryl, ed è stata la prima volta in cinque anni. Il suo scopo oggi è rimanere in piedi, senza alcun sostegno, per venti minuti, con indosso l'elmetto, cercando di mantenere la concentrazione. Per chiunque - figuratevi per un wobbler - rimanere dritti in piedi per venti minuti richiede la preparazione e l'abilità di una guardia di Buckingham Palace. Cheryl appare tranquilla. Non si muove più a scatti, e i misteriosi demoni che la scuotevano e la spingevano sembrano svaniti. Il suo cervello sta decodificando i segnali provenienti dall'apparato vestibolare artificiale. Per lei questi momenti di pace sono un miracolo - un miracolo neuroplastico, poiché in qualche modo quel formicolio sulla lingua, che normalmente raggiunge la regione cerebrale chiamata corteccia sensoriale, ossia la sottile membrana che ricopre il cervello e che elabora le sensazioni tattili, arriva fino alla regione che elabora l'equilibrio lungo un nuovo percorso cerebrale. «Stiamo lavorando per rendere questo dispositivo abbastanza piccolo per essere nascosto nella bocca» dice Bach-y-Rita, «come un apparecchio ortodontico. E’il nostro obiettivo. Così Cheryl, e chiunque abbia il suo stesso problema, avranno di nuovo una vita normale: potranno indossare il dispositivo, parlare e mangiare senza che nessuno se ne accorga. «Ma non sarà utile solo a pazienti danneggiati dalla gentamicina» prosegue. «Ieri il New York Times ha pubblicato un articolo sulle cadute cui vanno soggetti gli anziani, i quali sono più spaventati dalla possibilità di cadere che di essere rapinati. Un terzo delle persone anziane cade e, poiché gli anziani hanno paura di cadere, rimangono in casa, non fanno attività fisica e fisicamente diventano ancora più fragili. Ma credo che il problema risieda anche nel fatto che il senso dell' equilibrio - proprio come l'udito, il gusto, la vista e gli altri sensi - si indebolisce con l'invecchiamento. Questo dispositivo li aiuterà ». «Abbiamo finito» dice Yuri spegnendo la macchina. Ma ecco la seconda meraviglia neuroplastica. Cheryl si toglie il «dispositivo linguale» e l'elmetto. Fa un gran sorriso, rimane in piedi con gli occhi chiusi e non cade. Poi riapre gli occhi e, sempre senza toccare il tavolo, solleva un piede dal pavimento, tenendosi in equilibrio con l'altro. «Amo quest'uomo» dice, va verso Bach-y-Rita e lo abbraccia. Poi viene verso di me. La sua emozione è incontenibile, per il fatto di sentire di nuovo la terra sotto i piedi, e abbraccia anche me. «Mi sento stabile, solida. Non devo pensare a dove si trovano i miei muscoli. Posso davvero pensare ad altre cose». Torna da Yuri e gli dà un bacio. «Voglio sottolineare che si tratta di un miracolo» dice Yuri che si considera uno scettico empirista. «Praticamente Cheryl non ha dei sensori naturali. Nei 20 min precedenti le abbiamo fornito dei sensori artificiali. Ma il vero miracolo è quanto sta accadendo ora, dopo aver staccato il dispositivo. Cheryl non ha un apparato vestibolare, artificiale o naturale che sia. Abbiamo risvegliato una qualche forza dentro di lei». La prima volta che provò l'elmetto, Cheryl lo indossò solo per un minuto. Subito dopo i ricercatori notarono un «effetto residuo» che era durato circa 20 sec, un terzo del tempo in cui Cheryl aveva tenuto il dispositivo. Poi lo indossò per 2 min, e l'effetto residuo durò 40 sec. Si arrivò così a 20 min, con la previsione di un effetto residuo di 7 min. Ma anziché prolungarsi per un terzo, durò il triplo del tempo, un'ora intera. Oggi, dice Bach-y-Rita, stiamo verificando se indossando la macchina 20 min in più si riesca ad arrivare a una sorta di «allenamento», in modo che l'effetto residuo si protragga anche di più. Cheryl inizia a scherzare e a far vedere quanto è brava. «Posso camminare di nuovo come una donna. Forse non interesserà a molti, ma significa molto per me non dover più camminare a gambe larghe». Cheryl sale su una sedia e salta giù. Si china a raccogliere degli oggetti dal pavimento, mostrando di essere capace di raddrizzarsi. «L'ultima volta riuscivo a saltare la corda». «La cosa stupefacente» dice Yuri, «è che Cheryl non si limita a mantenere la postura. Dopo aver indossato la macchina per un po', si muove quasi normalmente. Sta in equilibrio su una trave. Guida l'auto. La funzione vestibolare è stata recuperata. Quando muove la testa, è in grado di mantenere lo sguardo sull'obiettivo: anche il collegamento tra il sistema visivo e quello vestibolare è stato ripristinato». Alzo lo sguardo, e Cheryl sta ballando con Bach-y-Rita. È lei a condurre. Come può Cheryl ballare e aver recuperato un funzionamento normale senza l'ausilio della macchina? Bach-y-Rita ritiene che vi siano diverse ragioni. Innanzitutto, il sistema vestibolare danneggiato di Cheryl è disorganizzato e «rumoroso», ossia invia dei segnali senza senso. Inoltre, il rumore proveniente dal tessuto compromesso blocca anche qualunque segnale inviato dal tessuto sano. La macchina aiuta a rinforzare i segnali provenienti dai tessuti sani. Bach-y-Rita pensa che la macchina aiuti anche a ristabilire altri percorsi cerebrali, ed è qui che entra in gioco la neuroplasticità. Il cervello è costituito da numerosi percorsi neuronali, ossia neuroni connessi fra loro e che lavorano insieme. Se alcuni percorsi importanti sono bloccati, il cervello ne utilizza altri più vecchi per aggirarli. «Vi faccio un esempio» dice Bach-yRita. «Se state guidando da qui a Milwaukee, e il ponte principale è chiuso, all'inizio siete paralizzati. Poi prendete le vecchie strade secondarie attraverso la campagna. Infine, usando sempre di più queste strade, trovate dei percorsi più brevi per andare dove volete, e così iniziate a essere anche più veloci». Questi percorsi neuronali «secondari» vengono, per così dire, «smascherati» e scoperti e, attraverso l'uso, potenziati. Generalmente si ritiene che tale «smascheramento» sia uno dei modi principali con cui il cervello plastico riorganizza se stesso. Il fatto che Cheryl stia gradualmente prolungando la durata dell'effetto residuo suggerisce che il percorso «smascherato» sta diventando più efficace. Bach-y-Rita spera che con l'esercizio Cheryl riesca ad allungare ulteriormente 1'effetto residuo. Qualche giorno dopo Bach-y-Rita riceve un'e-mail in cui Cheryl riporta la durata dell'effetto residuo. «Il tempo residuo totale è stato di 3 ore e 20 min... il barcollamento inizia nella mia testa, come al solito... Faccio fatica a trovare le parole... Come se nuotassi nella mia testa. Stanca, esausta... depressa ». Tornare alla normalità è molto duro. La macchina di Bach-y-Rita, ormai dimenticata, è stata una delle prime e più coraggiose applicazioni della nozione di neuroplasticità: il tentativo cioè di utilizzare un senso per sostituirne un altro. E ha funzionato. Tuttavia fu ritenuta improbabile e venne ignorata poiché il punto di vista della scienza di allora presupponeva che la struttura del cervello fosse fissata una volta per tutte, e che i nostri sensi, ossia le strade che l'esperienza percorre per raggiungere la mente, fossero «cablati». Questa idea, che ha ancora molti sostenitori, è chiamata «localizzazionismo» ed è strettamente connessa all'idea che il cervello è simile a una macchina molto complessa, di cui ogni componente svolge una funzione mentale specifica e possiede una collocazione, o «localizzazione», geneticamente predeterminata o cablata. Un cervello cablato, e in cui ogni funzione mentale ha una localizzazione ben precisa, lascia ben poco spazio alla plasticità. L'idea del cervello-macchina ha ispirato e guidato le neuroscienze fin da quando fu concepita nel Seicento, prendendo il posto di nozioni dal significato più mistico come l'anima e il corpo. Gli scienziati, impressionati dalle scoperte di Galileo Galilei (1564-1462), il quale aveva mostrato che i pianeti potevano essere studiati come corpi inanimati mossi da forze meccaniche, si convinsero che tutta la natura funzionasse come un immenso orologio cosmico soggetto alle leggi della fisica, e iniziarono così a spiegare anche i singoli esseri viventi, e i nostri organi corporei, in termini meccanici, come se fossero delle macchine. L'idea secondo cui la natura sarebbe un unico grande meccanismo, e i nostri corpi simili a macchine, sostituì la nozione greca, antica di 2000 anni, secondo cui la natura è un grande organismo vivente, e i nostri corpi nient'altro che meccanismi inanimati. Questa nuova «biologia meccanicista» raggiunse alcuni risultati eccezionali. William Harvey (1578-1657), che studiò anatomia a Padova, dove insegnava Galileo, scoprì che il sangue circola nel nostro corpo e dimostrò che il cuore funziona come una pompa. Ben presto molti scienziati furono dell'opinione che, affinché una spiegazione fosse considerata scientifica, dovesse essere meccanicistica, ossia soggetta alle leggi meccaniche del moto. Sulla scia di Harvey, il filosofo francese Cartesio (1596-1650) sosteneva che anche il cervello e il sistema nervoso funzionassero come una pompa, che è chiaramente una macchina molto semplice. I nostri nervi sono in realtà dei tubi, argomentava Cartesio, che dagli arti raggiungono il cervello e viceversa. Fu il primo a teorizzare il funzionamento dei riflessi: quando la pelle viene toccata, una sostanza simile a un fluido che scorre nei nervi raggiunge il cervello e da qui viene meccanicamente «riflessa» in direzione opposta inducendo i muscoli a muoversi. Per quanto una teoria simile possa apparire grossolana, Cartesio non era poi così lontano dalla verità. Non molto tempo dopo, gli scienziati perfezionarono la sua rudimentale concezione, sostenendo che attraverso i nervi non scorresse un fluido, ma una corrente elettrica. La prospettiva cartesiana di un cervello assimilabile a una macchina molto complessa sarebbe culminata nel localizzazionismo e nell’attuale visione che associa il cervello a un computer. Come una macchina, il cervello viene così considerato costituito di parti, ciascuna con una collocazione predeterminata e una funzione ben precisa da svolgere: in questo modo, se una di quelle parti viene danneggiata, non è possibile sostituirla. Dopotutto, nelle macchine i «pezzi» danneggiati non ricrescono. Il localizzazionismo fu applicato anche ai sensi e si teorizzò che ciascuno di essi - vista, udito, gusto, tatto, olfatto, equilibrio disponesse di un tipo di cellula recettore specializzata nel rilevare ogni forma di energia intorno a noi. Quando vengono stimolati, questi recettori inviano un segnale elettrico lungo i nervi verso una regione specifica del cervello, dove il segnale viene elaborato. Molti scienziati credevano che ognuna di queste aree cerebrali fosse così specializzata da non poter svolgere la funzione di un'altra. Praticamente isolato dai suoi colleghi, Paul Bach-y-Rita rifiutava le tesi localizzazioniste. Egli scoprì che i nostri sensi hanno una natura inaspettatamente plastica, e che se uno di essi subisce un danno, talvolta un altro può prenderne il posto, in un processo che egli chiama «sostituzione sensoriale». Bach-y-Rita sviluppò dei modi per stimolare la sostituzione sensoriale e dei dispositivi che fornissero dei «supersensi». Con la scoperta che il sistema nervoso può adattarsi a vedere con una telecamera anziché con la retina, Bach-y-Rita pose le basi perché si realizzasse la speranza più grande per i non vedenti: impianti di retina, che possono essere introdotti chirurgicamente all'interno dell'occhio. Anziché dedicarsi a un unico campo, come la maggior parte degli scienziati, Bach-y-Rita è diventato un esperto in molti ambiti: medicina, psicofarmacologia, neurofisiologia oculare (lo studio della struttura muscolare dell'occhio), neurofisiologia visiva (lo studio della vista e del sistema nervoso) e ingegneria biomedica. Egli segue le sue idee ovunque lo portino. Parla 5 lingue e ha vissuto per lunghi periodi in Italia, Germania, Francia, Messico, Svezia e in vari luoghi negli Stati Uniti. Ha lavorato nei laboratori dei più grandi ricercatori e di scienziati insigniti del premio Nobel, ma non ha mai dato molta importanza a quello che pensavano gli altri, e non partecipa ai giochi politici, come molti suoi colleghi, per poter proseguire il suo lavoro. Dopo essere diventato dottore, abbandonò la medicina e passò alla ricerca di base. Si pose delle domande che sembravano sfidare il senso comune, come ad es.: «Gli occhi sono necessari per vedere, o le orecchie per ascoltare, la lingua per gustare, il naso per annusare?» In seguito, all'età di 44 anni, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, tornò alla medicina e divenne un medico ospedaliero. Affrontava giornate interminabili e lunghe notti insonni in uno dei rami meno appassionanti della medicina riabilitativa. La sua ambizione era quella di trasformare una palude intellettuale in una scienza, attraverso l'applicazione di ciò che aveva imparato sulla plasticità. Bach-y-Rita è un uomo senza alcuna pretesa. Se non è la moglie a impedirglielo, per lui non è un problema indossare abiti da 4 soldi o comprati dall'Esercito della Salvezza. Sua moglie guida l'ultimo modello di Audi Passat, lui si accontenta di un'auto arrugginita vecchia di 12 anni. Ha una capigliatura grigia, folta e ondulata, parla a voce bassa e speditamente, ha una carnagione piuttosto scura, mediterranea, per via delle sue origini di ebreo spagnolo, e dimostra molto meno dei suoi 69 anni. Ovviamente ha l'aspetto di un intellettuale, ma dimostra un affetto caloroso nei confronti della moglie, Esther, una messicana di origini maya. E’ abituato al ruolo di outsider. E cresciuto nel Bronx, e all’inizio del liceo era alto appena un 1.40 a causa di una misteriosa malattia che per 8 anni ne aveva bloccato la crescita. Per 2 volte ricevette una diagnosi preliminare di leucemia. Ogni giorno veniva picchiato dagli studenti più grandi e nel corso di quegli anni sviluppò una soglia del dolore straordinariamente elevata. All'età di 12 anni la sua appendice esplose, e la malattia misteriosa da cui era come a ogni funzione cerebrale corrispondesse un'unica collocazione «cablata». Questa idea era riassunta dall'espressione «una funzione, una localizzazione»: se una parte era danneggiata, il cervello non avrebbe potuto riorganizzarsi o recuperare la funzione compromessa. Iniziò così l'epoca oscura della neuroplasticità, e qualunque eccezione al motto del localizzazionismo veniva ignorata. Nel 1868 Jules Cotard studiò il caso di alcuni bambini che avevano subito un danno cerebrale precoce ed esteso, e in cui l'emisfero sinistro (fra cui l'area di Broca) era seriamente compromesso. Nonostante ciò, questi bambini parlavano normalmente. Questo significava che, anche se il linguaggio tendeva a essere elaborato nell'emisfero sinistro, come affermava Broca, in caso di necessità il cervello era abbastanza plastico per riorganizzarsi. Nel 1876 Otto Soltmann rimosse la corteccia motoria - la regione del cervello che si riteneva responsabile del movimento - da alcuni cuccioli di cani e conigli, e scoprì che questi erano in grado di muoversi. Simili risultati vennero sommersi dall'entusiasmo per il localizzazionismo. Bach-y-Rita cominciò a dubitare del localizzazionismo mentre si trovava in Germania all'inizio degli anni Sessanta. Si era unito a un gruppo di ricercatori che stava studiando il funzionamento della vista attraverso la misurazione, tramite degli elettrodi, delle scariche elettriche prodotte nella corrispondente area cerebrale di un gatto. L'équipe si aspettava che, quando all'animale veniva mostrata un'immagine, gli elettrodi avrebbero rilevato un picco di corrente elettrica, mostrando che quella regione cerebrale stava elaborando quell'immagine. E così fu. Ma quando qualcuno toccò accidentalmente la zampa del gatto, l'area visiva si attivò ugualmente, indicando che stava elaborando pure le sensazioni tattili. Si scoprì poi che l'area visiva era attiva anche quando il gatto udiva dei suoni. Bach-y-Rita iniziò a pensare che l'idea localizzazionista «una funzione, una localizzazione» non poteva essere corretta. L'area «visiva» del cervello del gatto stava elaborando almeno altre due funzioni, tattile e uditiva. Cominciò a ritenere che varie aree del cervello fossero «polisensoriali», ossia che le regioni sensoriali fossero in grado di elaborare i dati provenienti da più di un senso. Questo può accadere perché tutti i nostri recettori sensoriali traducono vari tipi di energia proveniente dal mondo esterno, non importa di quale origine, in segnali elettrici che vengono inviati lungo i nervi. Tali segnali elettrici costituiscono il linguaggio universale « parlato» nel nostro cervello: non ci sono immagini, suoni, odori o sensazioni che si muovono all'interno dei neuroni. Bach-y-Rita comprese come le aree che elaborano questi impulsi elettrici siano assai più omogenee di quanto i neuroscienziati pensino. Questa convinzione trovò ulteriore sostegno quando il neuroscienziato Vernon Mountcastle scoprì che i vari tipi di corteccia - visiva, uditiva e tattile - presentano tutte una struttura simile a 6 strati. Per Bach-y-Rita ciò significa che ogni parte della corteccia dovrebbe poter elaborare qualunque segnale elettrico riceva, e che i moduli del cervello, dopotutto, non sono poi così specializzati. Nel corso degli anni successivi Bach-y-Rita iniziò a studiare tutte le eccezioni al localizzazionismo. Grazie alla sua conoscenza delle lingue, indagò a fondo nella letteratura più datata e mai tradotta e riscoprì alcuni lavori scientifici condotti prima che si affermassero le versioni più ortodosse del localizzazionismo. Bach-y-Rita scoprì l'opera di Marie-Jean-Pierre Flourens, il quale negli anni Venti dell'Ottocento mostrò che il cervello può riorganizzare se stesso. Inoltre lesse gli scritti di Broca in francese, citati spessissimo ma raramente tradotti, e trovò che perfino il medico francese non aveva escluso del tutto la neuroplasticità come invece avrebbero fatto i suoi seguaci. Il successo del dispositivo per la visione tattile indusse Bach-y-Rita a reinventare la sua visione del cervello umano. In fondo, il miracolo non era la sua macchina ma il cervello con la sua vitalità, flessibilità e adattabilità a nuovi segnali artificiali. Come parte del processo di riorganizzazione, egli suppose che i segnali tattili (inizialmente elaborati nella corteccia sensoriale, nella parte superiore del cervello) venissero dirottati verso la corteccia sensoriale nella parte posteriore del cervello per un'elaborazione ulteriore: in altre parole, era possibile sviluppare qualunque percorso neuronale che andasse dalla pelle alla corteccia visiva. Quarant'anni fa, proprio quando il localizzazionismo era all'apice dei suoi successi scientifici, Bach-y-Rita avanzò le proprie critiche. Riconosceva i meriti del localizzazionismo, ma sosteneva che «un ampio corpo di evidenze indica come il cervello mostri una plasticità sia motoria sia sensoriale». Uno dei suoi articoli venne respinto per la pubblicazione ben 6 volte, e non perché l'evidenza presentata venisse messa in discussione, ma perché l'autore era arrivato a usare il termine «plasticità» nel titolo. Dopo la pubblicazione dell'articolo su Nature, il sdo amato mentore, Ragnar Granit, che nel 1967 ricevette il premio Nobel per la medicina grazie al suo lavoro sulla retina e che aveva fatto in modo che la tesi di laurea del suo allievo venisse pubblicata, invitò Bach-y-Rita per un tè. Granit chiese alla moglie di lasciare la stanza e, dopo aver elogiato il lavoro di Bach-y-Rita sui muscoli dell'occhio, gli chiese - per il suo bene - perché stesse sprecando il suo tempo con quel «giocattolo per adulti». Nonostante ciò Bach-y-Rita proseguì sulla sua strada e tracciò, in una serie di libri e in centinaia di articoli, le evidenze a sostegno della neuroplasticità, sviluppando una teoria che ne spiegasse il funzionamento. L'interesse principale di Bach-y-Rita divenne spiegare la nozione di plasticità, ma continuò a inventare dispositivi per la «sostituzione sensoriale». Lavorò con degli ingegneri per rendere più maneggevole la macchina per la «visione tattile». La scomoda e pesante piastra di stimolatori vibranti che era applicata allo schienale venne sostituita da una striscia di plastica ricoperta di elettrodi, sottile come un foglio di carta e del diametro di una moneta. La striscia andava collocata sulla lingua, che Bach-y-Rita considera l'«interfaccia macchina-cervello» ideale, un eccellente punto d'accesso al cervello, poiché sulla lingua non c'è uno strato di pelle morta e insensibile. Anche il computer venne drasticamente ridimensionato, e la telecamera, che prima era grande quanto una valigia, ora poteva essere fissata alla montatura degli occhiali. Bach-y-Rita lavorò anche ad altri dispositivi per la sostituzione sensoriale. La NASA lo finanziò per mettere a punto un guanto elettronico «tattile» destinato agli astronauti. Il lavoro li impegnava per molte ore al giorno, ma gradualmente Pedro riuscì a muoversi sulle ginocchia, poi ad alzarsi in piedi e infine a camminare normalmente. Pedro si sforzò da solo di recuperare la capacità di parlare, e dopo circa 3 mesi si videro i primi risultati. Dopo diversi mesi volle riprendere a scrivere. Si sedeva davanti alla macchina da scrivere, metteva il dito medio su un tasto e lo schiacciava con il peso di tutto il braccio. Quando fu padrone di questa tecnica, iniziò a lasciar cadere solo il polso, poi solo le dita, una alla volta. Alla fine riprese a battere a macchina normalmente. Dopo un anno il recupero di Pedro, che aveva compiuto 68 anni, era tale da permettergli di tornare a insegnare al City College di New York. Ne fu felice, e lavorò fin quando non andò in pensione, all'età di settant'anni. Poi accettò un incarico alla State University di San Francisco, si risposò e continuò a lavorare, fare passeggiate e viaggiare. Dopo l'ictus, fu attivo ancora per 7 anni. Nel corso di un'escursione con degli amici di Bogota, in Colombia, a più di 2700 metri d'altitudine ebbe un attacco di cuore. Morì poco dopo. Aveva 72 anni. Ho chiesto a George se avesse intuito quanto era inusuale un simile recupero dopo l'ictus subito dal padre, e se avesse pensato che fosse il risultato della neuroplasticità. «Per me si trattava semplicemente di prendermi cura di papà. Ma Paul, negli anni successivi, ne parlò in termini di neuroplasticità. Non subito, però. Fu dopo la morte di nostro padre ». La salma di Pedro fu portata a San Francisco, dove Paul lavorava. Era il 1965, e all'epoca, prima del neuroimaging, le autopsie erano una procedura normale, poiché erano l'unico modo in cui i medici potevano imparare qualcosa sulle lesioni cerebrali, e capire il motivo della morte di un paziente. Paul chiese alla dottoressa Mary Jane Aguilar di eseguire l'autopsia. «Qualche giorno dopo Mary Jane mi chiamò e mi disse: 'Paul, vieni da me. Devo mostrarti qualcosa'. Quando andai al vecchio Stanford Hospital, lì, sparpagliate sul tavolo, c'erano alcune fette del cervello di mio padre su dei vetrini». Paul era senza parole. «Provai un senso di disgusto, ma potevo vedere anche l'eccitazione di Mary Jane: ciò che i vetrini mostravano era che l'ictus aveva provocato un'ampia lesione e che questa non era mai guarita, malgrado mio padre avesse recuperato molte funzioni. Ero sconvolto, scioccato. Pensavo al danno cerebrale subito da mio padre. Mary Jane disse: 'Come ci si può riprendete in seguito a una lesione simile?'» Guardando con più attenzione, Paul vide che la lesione, risalente a 7 anni prima, riguardava principalmente il tronco encefalico - la parte del cervello più vicina al midollo spinale – e che anche gli altri centri cerebrali più importanti della corteccia legati al controllo del movimento erano stati distrutti. Il 90% dei nervi che vanno dalla corteccia cerebrale al midollo spinale erano danneggiati: era stata questa lesione catastrofica a causare la paralisi di Pedro. «Ciò significava che, in qualche modo, il suo cervello si era totalmente riorganizzato attraverso il lavoro condotto insieme a George. Non conoscevamo l'entità del suo recupero fino a quel momento: allora non disponevamo delle tecniche di neuroimaging e per questo non avevamo idea di quanto fosse estesa la lesione. Quando un paziente riusciva a recuperare, tendevamo a presumere che in realtà non doveva trattarsi di un danno grave. Mary J ne voleva che comparissi fra gli autori di un articolo che lei avrebbe scritto sul caso. Non potei accettare». La storia del padre di Paul costituiva un'evidenza diretta di come fosse possibile un recupero «tardivo» anche nel caso di una lesione molto grave in un paziente anziano. Ma dopo aver esaminato la lesione e passato in rassegna la letteratura scientifica, Paul riscontrò ulteriori evidenze secondo cui il cervello può riorganizzarsi per recuperare le sue funzioni dopo lesioni cerebrali devastanti: scoprì ad es. che nel 1915 uno psicologo americano, Shepherd Ivory Franz, aveva mostrato come pazienti rimasti paralizzati per vari anni andavano incontro a un recupero tardivo attraverso esercizi di stimolazione cerebrale. Il «recupero tardivo» del padre indusse Bach-y-Rita a una svolta nella sua carriera. All'età di 44 anni, tornò alla medicina e lavorò nei reparti di neurologia e riabilitazione. Capì che per recuperare i pazienti bisognava motivarli, come era accaduto a suo padre, con esercizi che si avvicinassero il più possibile alle normali attività quotidiane. Bach-y-Rita rivolse la sua attenzione al trattamento dell'ictus, concentrandosi sulla «riabilitazione tardiva», aiutando i pazienti a superare gravi problemi neurologici anni dopo la loro insorgenza, e sviluppando dei videogame per allenare pazienti colpiti da ictus a muovere di nuovo le braccia. Così iniziò a integrare le sue conoscenze sulla plasticità nell'ideazione degli esercizi. I tradizionali esercizi riabilitativi terminavano normalmente dopo qualche sett, quando i pazienti non miglioravano più o avevano raggiunto una stabilità, e i medici perdevano la motivazione a proseguire. Ma Bach-y-Rita, basandosi sulla sua conoscenza della crescita dei nervi, iniziò a supporre che queste stabilità nel recupero delle funzioni fossero temporanee, ossia che facessero parte del ciclo riabilitativo basato sulla plasticità, in cui le fasi di apprendimento sono seguite da periodi di consolidamento. Malgrado non vi fosse un progresso apparente nel corso della fase di consolidamento, man mano che le nuove capacità si perfezionavano e acquisivano un maggiore automatismo, internamente si stavano però verificando delle modificazioni biologiche. Bach-y-Rita sviluppò un programma per pazienti con lesioni ai nervi motori facciali, che, non essendo in grado di muovere i muscoli del viso, non potevano chiudere gli occhi, parlare correttamente o esprimere emozioni, cosa che li faceva sembrare dei mostruosi automi. Bach-y-Rita collegò chirurgicamente uno dei nervi «supplementari» che normalmente fanno capo alla lingua ai muscoli facciali del paziente. Quindi sviluppò un programma di esercizi cerebrali per allenare il «nervo linguale» (e in particolare la regione del cervello che lo controlla) a comportarsi come un nervo facciale. Questi pazienti recuperarono l'espressività del volto, tornarono a parlare e a chiudere gli occhi. L'ennesimo es. dell'abilità di Bach-y-Rita nel «collegare qualunque cosa». Trentatré anni dopo l'articolo di Bach-y-Rita pubblicato su Nature, gli scienziati che utilizzano la versione moderna e più compatta della sua macchina per la visione tattile hanno sottoposto i loro pazienti al neuroimaging, e hanno confermato che le immagini tattili acquisite dai pazienti attraverso la lingua vengono poi elaborate nella corteccia cerebrale. Uno dei più incredibili esperimenti sulla plasticità di questi anni ha dissipato ogni ragionevole dubbio sul fatto che i sensi possano essere «ricablati». In questo caso non sono stati ricostruiti i percorsi relativi al tatto e alla vista, problemi cerebrali, ma ci sono delle eccezioni. Barbara Arrowsmith Young è una di queste. «Asimmetria» è il termine che meglio di ogni altro descrive la sua mente quando era una studentessa. Nata a Toronto nel 1951 e cresciuta a Peterborough, Ontario, da bambina Barbara ottenne risultati molto brillanti in alcune aree - la memoria uditiva e visiva raggiungeva punteggi nel 99esimo percentile. I suoi lobi frontali erano notevolmente sviluppati, rendendola tenace e determinata. Ma il suo cervello era asimmetrico, nel senso che queste abilità eccezionali coesistevano con altre scarsamente sviluppate. Tale asimmetria mostrò i suoi effetti anche sul corpo di Barbara. Sua madre ci scherzava sopra: «L'ostetrica deve averti tirato fuori per la gamba destra», che era più lunga della sinistra, e si era prodotto uno spostamento del bacino. Il braccio destro non si raddrizzò mai, l'occhio sinistro era meno vigile, e tutto il lato destro del suo corpo era sproporzionato rispetto al sinistro. La colonna vertebrale era asimmetrica e soffriva di scoliosi. Barbara andò incontro a una serie di gravi disturbi dell'apprendimento. L'area cerebrale dedicata al linguaggio, l'area di Broca non funzionava correttamente, e dunque Barbara aveva difficoltà nella pronuncia delle parole. Inoltre non era in grado di ricorrere al «ragionamento spaziale». Quando muoviamo il nostro corpo nello spazio, usiamo il ragionamento spaziale per costruire nella nostra testa un percorso immaginario prima di eseguire i movimenti. Il ragionamento spaziale è importante per un bambino che gattona, per un dentista che sta trapanando un dente, per un giocatore di hockey che sta preparando le proprie mosse. Un giorno, quando aveva tre anni, Barbara decise di giocare alla corrida. Lei era il toro, e l'auto sulla strada era la muleta del matador. Barbara caricò, pensando che sarebbe riuscita a evitarla, ma valutò male la distanza e corse incontro all'auto, provocandosi una ferita molto grave alla testa. La madre si era rassegnata all'idea che Barbara non potesse vivere più di un anno. Il ragionamento spaziale è necessario anche per formare una mappa mentale degli oggetti. Utilizziamo questo tipo di ragionamento per mettere ordine sulla nostra scrivania, o per ricordare dove abbiamo lasciato le chiavi. Barbara perdeva sempre tutto. Non disponendo di una mappa spaziale degli oggetti, ciò che si trovava fuori dal suo campo visivo letteralmente non esisteva nella sua mente. Doveva ammucchiare di fronte a sé tutto ciò con cui stava giocando o lavorando, e tenere armadi e cassetti aperti. Fuori casa si perdeva sempre. Aveva anche un problema «chinestesico». La percezione chinestesica ci permette di conoscere la posizione del nostro corpo nello spazio, consentendoci di controllare e coordinare i movimenti e di riconoscere gli oggetti al tatto. Barbara non sapeva dire di quanto si allontanassero dal suo corpo il braccio e la gamba sinistra. Sebbene per natura fosse un maschiaccio, era davvero maldestra. Non riusciva a tenere un bicchiere di succo di frutta con la mano sinistra senza rovesciarlo. Inciampava o incespicava molto spesso. Per lei le scale erano pericolose. Nel lato sinistro del corpo la sensibilità era minore, e spesso si procurava dei lividi a causa degli urti. Imparò a guidare ma inevitabilmente ammaccava la fiancata sinistra dell'auto. Aveva anche un difetto alla vista. Il suo campo visivo era così ristretto che, quando guardava una pagina scritta, riusciva a cogliere solo poche lettere senza spostare lo sguardo. Ma questi non erano i problemi più invalidanti. Dato che la regione del cervello che permette di capire le relazioni simboliche non funzionava correttamente, Barbara aveva problemi a comprendere la grammatica, i concetti matematici, la logica e i nessi di causa ed effetto. Non riusciva a distinguere tra «il fratello del padre» e «il padre del fratello». Per lei era impossibile decifrare una doppia negazione. Non sapeva leggere l'orologio, poiché non capiva la relazione tra le lancette. Non sapeva letteralmente distinguere la mano destra dalla sinistra, non solo perché non disponeva di una mappa spaziale, ma perché non comprendeva la relazione tra «destra» e «sinistra». Solo con uno straordinario sforzo mentale e un esercizio costante riusciva a mettere in relazione un simbolo con un altro. Barbara rovesciava la b, la d, la q e la p, scambiava «ero» con «ore», e leggeva e scriveva da destra a sinistra, un disturbo chiamato «scrittura a specchio». Era destrimana, ma poiché scriveva da destra a sinistra sbavava ogni parola. I suoi insegnanti pensavano che fosse troppo vivace. Essendo dislessica, commetteva molti errori di lettura, e questo poteva costarle caro. I suoi fratelli misero dell'acido solforico per un esperimento nella sua vecchia boccetta di gocce nasali. Quando decise di utilizzarle per curare il raffreddore, Barbara lesse male l'etichetta che i suoi fratelli avevano attaccato sulla boccetta. Sdraiata sul letto con l'acido che le scendeva nelle narici, si vergognava troppo per dire a sua madre dell'ennesimo incidente. Barbara era incapace di cogliere i nessi di causa ed effetto, e per questo si comportava in modo bizzarro, non riuscendo a collegare le proprie azioni con le loro conseguenze. All'asilo non riusciva a capire perché, se i suoi fratelli frequentavano lo stesso istituto, non poteva lasciare la sua classe e andarli a trovare nella loro ogni volta che voleva. Era in grado di memorizzare i procedimenti matematici, ma non capiva i concetti. Sapeva che cinque volte cinque fa venticinque, ma non capiva il perché. I suoi insegnanti le davano dei compiti extra, e suo padre passava molte ore ad aiutarla, ma senza alcun risultato. Sua madre appendeva dei cartelloni che illustravano dei semplici problemi matematici. Poiché non riusciva a capirli, Barbara trovò un punto in cui sedersi dove il sole rendeva la carta traslucida, in modo da poter leggere le soluzioni sul retro del foglio. Tutti i tentativi di porre rimedio alla situazione non coglievano la radice del problema, e la facevano soffrire ancora di più. Cercando disperatamente di fare bene, Barbara passò gli anni delle elementari a imparare tutto a memoria durante il pranzo e dopo la scuola. Alle superiori il suo rendimento era estremamente incostante. Imparò a usare la memoria per coprire i suoi limiti, e con la pratica riusciva a ricordare pagine intere di nozioni. Prima dei compiti in classe Barbara pregava che fossero nozionistici, perché avrebbe ottenuto il punteggio più alto; ma se avessero richiesto la comprensione di relazioni, probabilmente avrebbe raggiunto un punteggio fra i più bassi. Barbara non riusciva a capire nulla immediatamente, ma solo in ritardo, quando tutto era già accaduto. Non rendendosi conto di cosa stesse accadendo intorno a lei in un dato momento, passava ore a ricostruire il compensare i deficit. Poiché era riuscita a sviluppare così bene la memoria, Barbara disse a Joshua che doveva esserci un sistema migliore. Un giorno Joshua le suggerì di dare un'occhiata ad alcuni libri di Aleksandr Lurija che stava leggendo. Barbara li affrontò, ritornando innumerevoli volte sui passaggi più difficili, in particolare una sezione dei Problemi fondamentali di neurolinguistica che riguardava individui che avevano subito ictus o altre lesioni e che presentavano problemi con la grammatica, la logica e la lettura dell'orologio. Lurija, che era nato nel 1902, crebbe nella Russia rivoluzionaria. Era profondamente interessato alla psicoanalisi, teneva contatti epistolari con Freud, e scrisse articoli sulla tecnica psicoanalitica della «libera associazione», in cui i pazienti dicono qualunque cosa venga loro in mente. Il suo scopo era sviluppare dei metodi oggettivi per valutare le idee di Freud. Non aveva ancora 30 anni quando mise a punto il prototipo della macchina della verità. Quando iniziò l'era delle grandi purghe staliniane, la psicoanalisi divenne scientia non grata, e Lurija fu denunciato. Rilasciò una pubblica ritrattazione, ammettendo di aver commesso alcuni «errori ideologici». Quindi, per sottrarsi alla pubblica attenzione, intraprese gli studi di medicina. Tuttavia non smise di occuparsi di psicoanalisi. Senza attirare l'attenzione sul suo lavoro, Lurija integrò alcuni aspetti del metodo psicoanalitico e psicologico alla neurologia, diventando così il fondatore della neuropsicologia. I resoconti dei suoi casi clinici, anziché essere delle semplici illustrazioni di sintomi, descrivevano i pazienti in maniera completa. Come scrisse Oliver Sacks, «i casi clinici di Lurija possono quindi essere paragonati solo a quelli di Freud per la loro precisione, vitalità, ricchezza e profondità nei dettagli». Uno dei libri di Lurija, Un mondo perduto e ritrovato, era il resoconto, e al tempo stesso il commento, del diario di un paziente con una condizione davvero singolare. Alla fine di maggio del 1943 il «compagno» Lijova Zasetskij, un uomo dall'aspetto di un ragazzino, si presentò nell'ufficio di Lurija presso la clinica riabilitativa dove lavorava. Zasetskij era un giovane tenente che era rimasto ferito nella battaglia di Smolensk, quando le truppe sovietiche male equipaggiate erano state mandate allo sbaraglio contro la terribile macchina da guerra nazista. Il militare fu colpito alla testa da un proiettile, che provocò una profonda lesione nell'emisfero cerebrale sinistro. Rimase in coma per diverso tempo. Zasetskij si risvegliò presentando sintomi molto strani. Lo shrapnel si era fermato nella regione del cervello dedicata alla comprensione delle relazioni simboliche. Non riusciva più a capire la logica, i nessi causali e le relazioni spaziali. Non distingueva la sinistra dalla destra. Non comprendeva gli elementi grammaticali di tipo relazionale: avverbi come «dentro», «fuori», «prima», «dopo», preposizioni come «con» e «senza» non avevano più alcun significato per lui. Non poteva comprendere una parola o una frase intera, né richiamare alla mente un ricordo completo, poiché ognuna di queste cose richiedeva la capacità di mettere in relazione dei simboli. Tutto ciò che era in grado di capire erano solo dei frammenti confusi. D'altra parte i lobi frontali - che gli consentivano di individuare cosa fosse importante, di elaborare piani, strategie, intenzioni, e di metterli in atto - erano stati risparmiati, dandogli così la possibilità di riconoscere i propri problemi e di volerli superare. Malgrado non riuscisse a leggere, che è in larga parte un'attività percettiva, poteva però scrivere, essendo questa un'attività intenzionale. Cominciò così un diario piuttosto frammentario che intitolò Continuerò a combattere e che raggiunse le 300 pagine. «Sono stato ucciso il 2 marzo 1943» scrisse, «ma grazie a qualche potere vitale del mio organismo, sono miracolosamente sopravvissuto». Nei 30 anni successivi Lurija tenne sotto osservazione Zasetskij, riflettendo su come la ferita aveva influito sulle sue funzioni mentali. Assistette così alla lotta accanita di Zasetskij «per vivere, e non semplicemente per esistere». Leggendo il diario di Zasetskij, Barbara pensò: «È il racconto della mia vita». Zasetskij scrisse: «Conoscevo il significato delle parole 'madre' e 'figlia', ma non dell'espressione 'figlia della madre' [...] Le espressioni 'figlia della madre' e 'madre della figlia' per me non avevano alcuna differenza. Mi trovavo in difficoltà anche con frasi come: 'Un elefante è più grande di una mosca?' Tutto ciò che riuscivo a intuire era che una mosca è piccola e che un elefante è grande, ma non capivo le parole 'più grande' e 'più piccolo' ». Assistendo a un film, Zasetskij osservò: «Prima che riesca a capire cosa dicono gli attori, sta già iniziando un'altra scena». Lurija cominciò a comprendere il problema. Il proiettile si era introdotto nell'emisfero sinistro, dove si incrociano 3 importanti aree percettive: ⇒ il lobo temporale (che normalmente elabora il suono e il linguaggio), ⇒ il lobo occipitale (che si occupa dei segnali visivi) e ⇒ il lobo parietale (che di norma elabora le relazioni spaziali e integra fra loro le informazioni dai vari sensi). In questa connessione gli input sensoriali provenienti dalle 3 aree vengono uniti e sintetizzati. Lurija si rese conto che, se da una parte Zasetskij non presentava problemi percettivi, dall'altra non riusciva a mettere in relazione fra loro le varie percezioni, o la parte con il tutto. Ancora più importante, aveva una grave difficoltà a mettere in relazione un certo numero di simboli con un altro, come facciamo normalmente quando pensiamo tramite il linguaggio. Per questo Zasetskij spesso parlava storpiando le parole. Era come se non avesse una rete abbastanza grande per catturare e trattenere le parole e il loro significato, e non riuscisse a stabilire una relazione tra loro. Tutto ciò che gli rimaneva erano dei frammenti: «Mi trovo in una specie di pesante dormiveglia L.,] balenano soltanto nel ricordo alcune figure, torbide visioni che appaiono fugacemente e altrettanto rapidamente scompaiono L..] e non sono in condizione di capire o di ricordarne nemmeno una». Per la prima volta, Barbara capì che il suo principale deficit mentale aveva una causa. Tuttavia, ciò che Lurija non le suggerì era l'unica cosa di cui aveva bisogno: una cura. Quando si rese conto di quanto fosse realmente grave la sua situazione, si sentì ancora più esaurita e depressa, e pensava che così non sarebbe potuta andare avanti. Dalla banchina della metropolitana cercava un punto da cui saltare per ottenere l'impatto più violento. Fu a questo punto della sua vita, quando aveva 28 anni e frequentava ancora la scuola di specializzazione, che giunse sulla sua scrivania un articolo. Mark Rosenzweig, un ricercatore dell'Università della California di Berkeley, aveva studiato dei ratti in ambienti stimolanti e non, e aveva trovato nell'indagine post mortem che i cervelli dei ratti stimolati avevano maggiori quantità di neurotrasmettitori, erano più pesanti e mostravano una circolazione sanguigna migliore rispetto ai ratti che avevano vissuto in ambienti non stimolanti. Fu uno dei primi scienziati a provare la neuroplasticità mostrando come l'attività possa produrre dei cambiamenti nella struttura del cervello. secondi, ma anche per altre suddivisioni, come giorni, mesi e anni) in pochi secondi. Stanno lì seduti tranquilli, concentratissimi, finché non raggiungono un numero di risposte corrette sufficienti per passare al livello successivo: allora gridano «Sììì!» e il monitor si illumina per festeggiarli. Quando avranno concluso l'esercizio, saranno in grado di leggere orologi ben più complessi di qualunque persona «normale». Altri bambini stanno studiando le lettere dell'alfabeto urdu e persiano per rinforzare la memoria visiva. Le forme delle lettere sono inconsuete, e l'esercizio mentale richiede che gli studenti imparino a riconoscere rapidamente queste forme così strane. Bambini simili a piccoli pirati portano una benda sull'occhio sinistro e con una penna tracciano con cura linee intricate, scarabocchi e ideogrammi cinesi. La benda limita l'input visivo all'occhio destro, e quindi all'emisfero cerebrale menomato. Questi bambini non stanno semplicemente imparando a scrivere meglio. La maggior parte di loro presenta problemi in 3 aree correlate: parlare in modo fluido e armonioso, scrivere chiaramente, leggere. Barbara, seguendo Lurija, è convinta che tali difficoltà siano causate da un difetto nella funzione cerebrale che normalmente ci permette di integrare e coordinare una serie di movimenti che compiamo svolgendo queste attività. Quando parliamo, il nostro cervello converte una sequenza di simboli - le lettere e le parole che abbiamo pensato - in una sequenza di movimenti prodotti dalla lingua e dai muscoli delle labbra. Barbara ritiene, ancora seguendo Lurija, che la regione del cervello che coordina tali movimenti sia la corteccia premotoria sinistra. Personalmente ho indirizzato alla scuola molte persone con un deficit simile. Un ragazzo con questo problema si sentiva costantemente frustrato, poiché i suoi pensieri erano più rapidi di quanto lui stesso riuscisse a esprimerli, trascurando spesso una parte delle informazioni, incontrando difficoltà nel trovare le parole e divagando. Era una persona molto socievole ma non era in grado di esprimersi, e così rimaneva quasi sempre zitto. Quando in classe doveva rispondere a una domanda, pur conoscendo la risposta impiegava un tempo dolorosamente lungo per esprimerla: appariva così molto meno intelligente di quanto non fosse, e iniziò a nutrire seri dubbi sulle proprie reali capacità. Quando mettiamo per iscritto un pensiero, il cervello converte le parole - che sono simboli - in movimenti delle dita e delle mani. Il ragazzo a cui abbiamo appena accennato aveva una calligrafia terribile poiché la sua capacità di elaborazione e conversione dei simboli in movimenti si sovraccaricava facilmente: ecco perché doveva scrivere con movimenti brevi e separati anziché con un unico movimento fluido. Nonostante gli fosse stato insegnato a scrivere in corsivo, lui preferiva lo stampatello. (Fra gli adulti, le persone con questo problema spesso possono essere identificate dal fatto che preferiscono scrivere in stampatello o a macchina. Nel caso dello stampatello, scriviamo una lettera alla volta, con pochi movimenti della penna, che è meno impegnativo per il cervello. Nel corsivo scriviamo diverse lettere insieme, e il cervello deve elaborare movimenti più complessi.) Scrivere era particolarmente penoso, dato che spesso conosceva le risposte corrette ai test, ma essendo lento non riusciva a scriverle tutte. Oppure pensava a una parola, una lettera o un numero ma ne scriveva altri. Questi bambini vengono spesso accusati di essere distratti: in realtà il loro cervello sovraccarico invia segnali motori errati. Gli studenti con questo problema hanno anche problemi di lettura. In condizioni normali il cervello legge una parte della frase, poi dirigere gli occhi attraverso la pagina in modo che ne inquadrino la parte successiva, richiedendo una sequenza continua di precisi movimenti oculari. La lettura di questo ragazzo era molto lenta poiché saltava le parole, perdeva il segno e quindi la concentrazione. Leggere era deprimente e sfiancante. Agli esami spesso leggeva male le domande e, quando cercava di ricontrollare le risposte, saltava intere sezioni. Nei suoi esercizi presso la Arrowsmith School questo ragazzo doveva ricalcare dei tracciati complessi per stimolare i neuroni nell’area premotoria menomata. Barbara ha scoperto che gli esercizi di ricalco consentono ai bambini di migliorare in tutte e tre le aree: parlare, scrivere e leggere. Nel frattempo il ragazzo si è diplomato e ha imparato a leggere meglio dei suoi compagni e una volta è riuscito a leggere per il piacere di farlo. Ha imparato a parlare con più spontaneità e a esprimersi con frasi più lunghe e complete, e anche la sua calligrafia è migliorata. Alla scuola di Barbara alcuni studenti ascoltano dei CD e imparano a memoria delle poesie per migliorare la memoria uditiva. Questi bambini spesso dimenticano le istruzioni che vengono date loro e vengono ritenuti indisciplinati o pigri, quando in realtà hanno una difficoltà mentale. Laddove una persona riesce a ricordare mediamente 7 elementi distinti (ad es. un telefonico di 7 cifre), chi ha questo tipo di problema può ricordarne al massimo 2 o 3. Alcuni prendono appunti in modo compulsivo, così da non dimenticare nulla. Nei casi più gravi, questi soggetti non sono in grado di seguire le parole di una canzone dall'inizio alla fine, e possono raggiungere un tale livello di sovraccarico che perdono semplicemente il controllo. Alcuni hanno difficoltà a ricordare non solo il linguaggio parlato ma anche i loro stessi pensieri, a causa della loro lentezza nel pensare con le parole. Questo deficit può essere trattato esercitando la memoria meccanica. Barbara ha sviluppato anche degli esercizi mentali per i bambini che, a causa di un difetto nella funzione cerebrale che dovrebbe consentire loro di interpretare correttamente i segni non verbali, hanno difficoltà a socializzare. Altri esercizi sono stati pensati per chi ha un deficit nel lobo frontale e che perciò è eccessivamente irriflessivo o ha problemi nella pianificazione e nello sviluppo di strategie, nello stabilire delle priorità, nel prefiggersi uno scopo e nel perseguirlo. Queste persone appaiono come disorganizzate, incostanti e incapaci di imparare dai propri errori. Barbara è convinta che molti soggetti etichettati “isterici” o «antisociali» abbiano proprio questo tipo di problema. Gli esercizi mentali trasformano la vita di chi li pratica. Un diplomato statunitense mi disse che all'età di 13 anni le sue capacità matematiche e di lettura erano quelle di un bambino di terza elementare. In seguito ad alcuni test neuropsicologici presso la Tufts University gli fu detto che non sarebbe mai migliorato. Sua madre provò a inserirlo in 10 scuole specializzate per allievi con disturbi dell'apprendimento, ma senza alcun risultato. mentale che ci permette di parlare in modo scorrevole e di comprendere il linguaggio simbolico. Per tutti noi, la loro scomparsa ha contribuito al declino generalizzato dell'eloquenza, che richiede memoria e un livello di capacità uditiva a noi sconosciuto. Nel 1858, durante i famosi dibattiti tra i candidati al senato americano Abraham Lincoln e Stephen A. Douglas, i 2 oratori erano in grado di parlare per un'ora o più senza ricorrere ad appunti ed esponendo a memoria interi paragrafi; oggi molti fra i più istruiti di noi, educati nelle scuole più prestigiose dagli anni Sessanta in poi, preferiscono utilizzare l'onnipresente Power Point, la forma più recente di compensazione per le difficoltà della corteccia premotoria. Il lavoro di Barbara Arrowsmith Young ci induce a immaginare quali ottimi risultati si potrebbero ottenere se ogni bambino venisse sottoposto a una valutazione mentale mirata e, nel caso vengano riscontrati dei problemi, venisse impostato un programma personalizzato per rinforzare le aree essenziali fin dai primi anni di vita, quando la neuroplasticità è molto forte. Sarebbe molto meglio stroncare sul nascere i problemi anziché lasciare che il bambino si convinca di essere «stupido», cominci a odiare la scuola e l'istruzione, e smetta di lavorare nelle aree compromesse, vanificando così le proprie potenzialità. Attraverso gli esercizi mentali, i bambini più piccoli spesso progrediscono più rapidamente degli adolescenti, forse perché in un cervello immaturo il numero di connessioni neuronali, o sinapsi, è superiore del 50% rispetto a un cervello adulto. Quando raggiungiamo l'adolescenza, il cervello mette in atto un'operazione di radicale «potatura»: le sinapsi e i neuroni che sono stati utilizzati in maniera limitata improvvisamente muoiono, secondo il principio use it or fase it, «usalo o lo perderai». Probabilmente la cosa migliore è rinforzare le aree più deboli finché queste risorse corticali sono ancora disponibili. Inoltre, le valutazioni mentali possono essere utili lungo l'intera carriera scolastica, quindi anche all'università, quando molti studenti, che pure hanno raggiunto dei buoni risultati negli anni della scuola superiore, sono in difficoltà poiché le loro funzioni mentali sono sovraccaricate dalle maggiori prestazioni richieste. Anche al di là di queste crisi, gli adulti possono trarre beneficio da una valutazione cognitivo-mentale, una sorta di fitness test cognitivo, per aiutarli a comprendere meglio il proprio cervello. Sono passati molti anni da quando Mark Rosenzweig realizzò per la prima volta l'esperimento sui ratti che ispirò Barbara mostrandole che gli ambienti ricchi di stimoli contribuiscono alla crescita del cervello. Nel corso degli anni le sue ricerche di laboratorio hanno evidenziato come la stimolazione del cervello fa sì che questo si sviluppi in quasi ogni modo possibile. Animali cresciuti in ambienti stimolanti - circondati da altri animali, oggetti da esplorare, giochi da far rotolare, scale su cui arrampicarsi, ruote - imparano meglio di esemplari identici dal punto di vista genetico allevati in ambienti poveri. I livelli di acetilcolina, un neurotrasmettitore essenziale per l'apprendimento, sono più alti nei ratti allenati a risolvere problemi spaziali più complessi. Negli animali l'esercizio mentale o un ambiente stimolante aumentano il peso della corteccia cerebrale del 5% e del 9% nelle aree direttamente interessate dagli stimoli. I neuroni sottoposti a esercizi o a stimolazioni presentano uno sviluppo dendritico superiore del 25%, un aumento delle dimensioni, delle connessioni per singolo neurone e dell'afflusso sanguigno. Questi cambiamenti possono presentarsi anche nelle fasi avanzate della vita, sebbene negli esemplari più anziani non si verifichino con la stessa rapidità di quelli più giovani. Simili effetti di arricchimento sull'anatomia cerebrale sono stati riscontrati in tutte le specie animali testate fino a oggi. Nell'uomo, le indagini post mortem hanno mostrato che l'educazione aumenta le connessioni interneuronali. Un maggior numero di dendriti accresce la distanza tra i neuroni, aumentando così il volume e la densità del cervello. L'idea che il cervello sia simile a un muscolo che cresce attraverso l'allenamento non è più solo una metafora. In alcuni casi non è possibile recuperare ciò che è stato perduto. I diari di Lijova Zasetskij non andarono oltre una serie di pensieri frammentari. Aleksandr Lurija, pur riuscendo a coglierne il significato, non poté aiutarlo. Ma il racconto della vita di Zasetskij permise a Barbara Arrowsmith Young, e oggi ad altre persone, di guarire se stessa. Oggi Barbara Arrowsmith Young è intelligente e spigliata, senza intoppi apparenti nei suoi processi mentali. Passa tranquillamente da un'attività all'altra, da un bambino all'altro, padroneggiando svariate attività. Barbara ha dimostrato che i bambini affetti da disturbi dell'apprendimento spesso riescono ad andare oltre la semplice compensazione e risolvere i problemi sottostanti. Come tutti i programmi di esercizi mentali, quello elaborato presso la Arrowsmith School porta a risultati migliori e più rapidi nei casi in cui le aree disfunzionali sono limitate. Ma avendo lei stessa sviluppato esercizi adatti a molti problemi cognitivi, è in grado di aiutare i bambini con diversi disturbi dell'apprendimento - bambini proprio come lei, prima che si costruisse un cervello migliore. 3. Rimodellare il cervello Come uno scienziato trasforma il cervello per migliorare la percezione e la memoria, aumentare la rapidità di pensiero e per risolvere i problemi dell’apprendimento Michael Merzenich è un protagonista di spicco delle innovazioni e dei successi legati alla neuroplasticità, e ora mi sto dirigendo a Santa Rosa, in California, per incontrarlo. Il suo è il nome che gode di maggiore considerazione fra i neurologi dinamici. Solo quando scoprii che sarebbe stato presente a una conferenza nel Texas, mi recai là, mi sedetti accanto a lui e finalmente riuscii a fissare un appuntamento a San Francisco. «Mi scriva a questo indirizzo e-mail» mi disse. «E se non mi risponde ancora?» «In realtà, la corteccia cerebrale» spiega Merzenich a proposito dello strato più esterno del cervello, «perfeziona selettivamente le proprie capacità di elaborazione per adattarsi di volta in volta al compito da svolgere». Non si limita a imparare, ma a «imparare come imparare». Il cervello descritto da Merzenich non è un recipiente vuoto che noi mano a mano riempiamo, ma è più simile a una creatura vivente dotata di volontà, in grado di crescere e modificarsi attraverso il nutrimento e 1'esercizio appropriati. Prima delle ricerche di Merzenich il cervello era considerato una macchina complessa, con limiti ben definiti in termini di memoria, velocità di elaborazione e intelligenza. Merzenich ha dimostrato che ciascuna di queste assunzioni è priva di fondamento. Capire come si trasformasse il cervello non era il suo scopo. Si rese conto per caso che il cervello poteva riorganizzare la propria mappa. E, pur non essendo stato il primo a dimostrare la neuroplasticità, fu attraverso gli esperimenti da lui condotti all'inizio della sua carriera che i neuroscienziati più tradizionalisti finirono per accettarne le implicazioni più importanti. Per comprendere come sia possibile intervenire sulle mappe mentali, dobbiamo prima farcene un'idea. Il primo a darne una descrizione efficace fu, negli anni ‘, il neurochirurgo Wilder Penfield del Neurological Institute di Montreal. Per Penfield, «mappare» il cervello di un paziente significava individuare l'area cerebrale in cui erano rappresentate le varie parti del corpo e dove venivano elaborate le rispettive attività - un progetto tipicamente localizzazionista. I localizzazionisti avevano scoperto che i lobi frontali erano la sede del sistema motorio, che induce e coordina i movimenti dei muscoli. I 3 lobi situati dietro il lobo frontale, ossia i lobi temporale, parietale e occipitale, comprendono il sistema sensitivo, che elabora i segnali inviati al cervello dagli organi di senso: occhi, orecchie, recettori tattili, e così via. Penfield lavorò diversi anni alla mappatura cerebrale del sistema sensitivo e motorio, nel corso di operazioni chirurgiche condotte su malati di tumore o epilessia non anestetizzati, dato che nel cervello non vi sono recettori del dolore. La mappa sensoriale e quella motoria fanno parte entrambe della corteccia cerebrale, la quale ricopre la superficie del cervello ed è quindi facilmente accessibile con una sonda. Penfield scoprì che, toccando con la sonda la mappa sensoriale, innescava sensazioni che il paziente avvertiva nel proprio corpo. Una sonda elettrica gli consentiva di distinguere il tessuto sano da quello patologico e dai tumori che andavano rimossi. In condizioni normali, quando una mano viene toccata, un segnale elettrico percorre il midollo spinale fino al cervello, dove attiva le cellule della mappa che a loro volta suscitano la sensazione tattile. Penfield scoprì che poteva anche far sentire al paziente che la sua mano veniva toccata attivando elettricamente l'area corrispondente nella mappa cerebrale. Quando era un altro punto a essere stimolato, il paziente poteva avvertire la sensazione tattile nel braccio, oppure nel viso. Ogni volta che stimolava un'area, Penfield chiedeva ai suoi pazienti cosa sentissero, per assicurarsi di non asportare del tessuto sano. Dopo molti interventi chirurgici di questo tipo, fu in grado di indicare a quali punti della mappa sensoriale cerebrale corrispondessero le varie parti della superficie corporea. Quindi fece lo stesso per la mappa motoria, la parte del cervello che controlla i movimenti. Toccando vari punti della mappa, poteva indurre il movimento in una gamba, in un braccio, nel volto o negli altri muscoli del paziente. Una delle sue grandi scoperte fu che le mappe sensitiva e motoria, come quelle geografiche, sono topografiche, nel senso che ad aree adiacenti sulla superficie del corpo corrispondono zone adiacenti sulle mappe cerebrali. Di più: scoprì che toccando determinate parti del cervello, suscitava nel paziente lontani ricordi d'infanzia o immagini oniriche - il che stava a significare che anche le attività mentali più elevate erano mappate nel cervello. Le mappe di Penfield influirono su generazioni di studiosi. Ma poiché gli scienziati erano convinti che il cervello non potesse modificarsi, essi presupposero, e insegnarono ai loro allievi, che le mappe erano fisse, immutabili e universali - cioè uguali in tutti gli esseri umani - malgrado lo stesso Penfield non avesse mai fatto un'affermazione simile. Merzenich scoprì che le mappe non erano né immutabili né universali, ma che i loro confini e le loro dimensioni variavano da individuo a individuo. Tramite una serie di brillanti esperimenti mostrò che la forma delle nostre mappe cerebrali si modifica a seconda di ciò che facciamo nel corso della nostra vita. Ma per dimostrarlo Merzenich aveva bisogno di uno strumento assai più sofisticato degli elettrodi di Penfield, in grado di rilevare dei cambiamenti in pochi neuroni per volta. Quando era ancora studente all'Università di Portland, Merzenich, insieme a un amico, utilizzò le attrezzature elettroniche di laboratorio per mostrare l'intensa attività elettrica nei neuroni degli insetti. Questi esperimenti colpirono l'attenzione di un professore che ammirò il talento e la curiosità di Merzenich, raccomandandolo ad Harvard e alla Johns Hopkins. Entrambe le università lo accettarono. Merzenich scelse la Johns Hopkins per conseguire il dottorato di ricerca in fisiologia sotto la guida di uno dei più grandi neuroscienziati dell'epoca, Vernon Mountcastle, che negli anni ‘ aveva dimostrato come fosse possibile descrivere nel dettaglio l'architettura cerebrale attraverso l'analisi dell'attività elettrica neuronale ricorrendo a una tecnica innovativa, la mappatura con microelettrodi ad aghi. I microelettrodi sono così piccoli e sensibili che possono essere inseriti all'interno o in corrispondenza di un singolo neurone, e sono in grado di rilevare quando un singolo neurone invia un segnale elettrico ad altri neuroni. Il segnale passa dal microelettrodo a un amplificatore e quindi a un oscilloscopio, sul cui schermo viene visualizzato un picco d'onda. Merzenich avrebbe condotto le sue scoperte più importanti proprio grazie a tale tecnologia. critico, o finestra temporale, durante il quale era particolarmente plastico e sensibile all'ambiente, mostrando una crescita rapida e flessibile. Lo sviluppo del linguaggio, ad es., ha un periodo critico che inizia nell'infanzia e si conclude tra gli 8 anni e la pubertà. Terminato questo periodo, la capacità di imparare una seconda lingua senza accento è limitata. Infatti, altre lingue oltre alla propria, se acquisite dopo il periodo critico, non vengono elaborate nella stessa regione cerebrale della lingua madre. La nozione di periodo critico supportava anche le osservazioni dell'etologo Konrad Lorenz, secondo cui gli anatroccoli, se esposti alla presenza di un essere umano per un breve periodo di tempo compreso tra le 15 ore e i 3 gg di vita, si legavano per tutta la vita a quella persona anziché con la madre biologica. Per provarlo, Lorenz fece in modo che degli anatroccoli si legassero a lui e ne seguissero gli spostamenti. L'etologo austriaco chiamò questo fenomeno imprinting. La nozione psicologica di periodo critico va fatta risalire a Freud, il quale sosteneva che le fasi del nostro sviluppo corrispondono ad alcune brevi finestre temporali, nel corso delle quali dobbiamo vivere determinate esperienze perché la nostra crescita sia sana. Questi periodi, diceva Freud, sono profondamente formativi, e si ripercuotono sul resto della nostra vita. Le nozioni di plasticità e periodo critico trasformarono la pratica medica. Grazie alla scoperta di Hubel e Wiesel, i bambini affetti da cataratta congenita non avrebbero più dovuto rassegnarsi alla cecità: ora venivano sottoposti a chirurgia correttiva in età molto precoce, ossia durante il periodo critico, in modo che il cervello potesse ricevere la luce necessaria per stabilire le connessioni fondamentali. La tecnica dei microelettrodi aveva mostrato la neuroplasticità come un aspetto incontestabile dell'età infantile. La ricerca sembrava aver dimostrato anche che, come l'infanzia, questo periodo di flessibilità era piuttosto breve. La prima intuizione di Merzenich a proposito della plasticità nell'adulto fu casuale. Nel 1968, dopo aver concluso il dottorato, intraprese il post- dottorato sotto la guida di Clinton Woolsey, un ricercatore di Madison, nel Wisconsin, collega di Penfield. Woolsey chiese a Merzenich di supervisionare 2 neurochirurghi, Ron Paul e Herbert Goodman. Insieme a loro decise di osservare cosa accade nel cervello quando uno dei nervi periferici della mano viene reciso e quindi inizia a rigenerarsi. È importante chiarire che il sistema nervoso è diviso in 2 parti. La prima è costituita dal sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale), il centro di comando e di controllo del sistema. In passato si riteneva che il sistema nervoso centrale non potesse essere plastico. La seconda parte è il sistema nervoso periferico, che trasmette i messaggi provenienti dai recettori sensoriali al midollo spinale e al cervello, per poi inviare i segnali dal cervello e dal midollo spinale ai muscoli e alle ghiandole. Da tempo era nota la plasticità del sistema nervoso periferico: se si taglia un nervo della mano, questo è in grado di «rigenerarsi» e guarire da sé. In ogni neurone è possibile distinguere 3 parti. I dendriti sono simili a rami che ricevono segnali da altri neuroni. I dendriti convergono nel corpo cellulare, che provvede alla vita della cellula e ne conserva il DNA. Infine, l'assone è una sorta di «cavo vivente» di lunghezza variabile (da lunghezze microscopiche nel cervello a più di 1 m nel caso del nervo sciatico). Gli assoni vengono spesso paragonati a dei cavi elettrici perché conducono impulsi elettrici ad altissima velocità (da 3 a 320 km/h) verso i dendriti dei neuroni adiacenti. Ogni neurone può ricevere 2 tipi di segnali: quelli che lo eccitano e quelli che lo inibiscono. Se un neurone riceve un numero sufficiente di segnali eccitatori da altri neuroni, invierà a sua volta un segnale. Quando riceve dei segnali inibitori, è meno probabile che emetta un segnale. Gli assoni non sono a contatto diretto con i dendriti vicini, ma sono separati da questi da uno spazio microscopico chiamato sinapsi. Quando un segnale elettrico raggiunge l'estremità dell'assone, viene rilasciato un messaggero chimico, ossia un neurotrasmettitore, nella sinapsi. Il neurotrasmettitore raggiunge il dendrite del neurone adiacente, eccitandolo o inibendolo. Quando diciamo che i neuroni si «ricablano» autonomamente, intendiamo dire che le alterazioni sinaptiche rinforzano e aumentano, oppure indeboliscono e diminuiscono il numero di connessioni interneuronali. Merzenich, Paul e Goodman intendevano indagare su un'interazione ben nota, ma altrettanto misteriosa, tra il sistema nervoso centrale e quello periferico. Quando un grande nervo periferico, con un numero molto alto di assoni, viene reciso, talvolta «i fili si incrociano». Quando gli assoni ristabiliscono il collegamento con gli assoni del nervo lesionato, il soggetto può sperimentare delle «false localizzazioni»: ad es., toccando il dito indice si avverte una sensazione tattile nel pollice. Gli scienziati presumevano che le false localizzazioni si verificassero perché il processo di rigenerazione «rimescolava» i nervi, ad es. inviando il segnale proveniente dall'indice alla mappa cerebrale del pollice. Il modello del cervello e del sistema nervoso a cui si rifacevano gli scienziati prevedeva che a ogni punto sulla superficie corporea corrispondesse un nervo che inviava il segnale direttamente a un punto specifico nella mappa cerebrale, anatomicamente cablata fin dalla nascita. Quindi la diramazione nervosa del pollice inviava sempre il proprio segnale direttamente al punto corrispondente nella mappa sensoriale. Merzenich e il suo gruppo condividevano questo modello e, senza sapere cosa avrebbero scoperto, si proposero di documentare cosa accade nel cervello quando i nervi vengono invertiti. I ricercatori micro-mapparono la mano nel cervello di alcune scimmie adolescenti. Per fare ciò tagliarono un nervo periferico nella mano, per poi riavvicinare subito le due estremità ma facendo in modo che non si toccassero, nella speranza che i numerosi assoni si incrociassero nel nervo mentre questo si rigenerava. Dopo 7 mesi ripeterono la mappatura cerebrale. Merzenich pensava che si sarebbero trovati di fronte a una mappa molto di sturbata, caotica. Quindi, se i nervi del pollice e dell'indice si fossero incrociati, si aspettava che toccando l'indice si sarebbe attivata l'area cerebrale del pollice. Ma non vide nulla di tutto ciò. La mappa era quasi normale. «Ciò che vedemmo» dice Merzenich «era assolutamente sbalorditivo. Non riuscivo a capire». La mappa si era riordinata topograficamente, come se il cervello avesse interpretato in modo corretto i segnali provenienti dai nervi, nonostante questi fossero incrociati. Il lavoro di quella settimana cambiò la vita di Merzenich. Si rese conto e insieme a lui la neuroscienza ufficiale, di aver interpretato in modo diverse specie animali, contribuendo all'invenzione e al perfezionamento dell'impianto cocleare. La coclea è il microfono che si trova nelle nostre orecchie. Si trova accanto all'apparato vestibolare, che elabora il senso dell'equilibrio e che, come abbiamo visto, era all'origine del problema di Cheryl, la paziente di Paul Bach-y-Rita. Quando nel mondo esterno si producono dei suoni, ogni frequenza fa vibrare determinate cellule cigliate della coclea. Vi sono 3000 cellule di questo tipo, che convertono il suono in schemi di segnali elettrici i quali a loro volta percorrono il nervo uditivo fino alla corteccia uditiva. I ricercatori che hanno condotto la micromappatura della corteccia uditiva hanno scoperto che le frequenze sonore sono rappresentate tono-topicamente, ossia come i tasti di un pianoforte: le frequenze più gravi si trovano a un' estremità della tastiera, quelle più acute all'altra. Un impianto cocleare non è un apparecchio acustico. Questo si limita ad amplificare il suono e viene utilizzato da chi ha problemi di udito o una coclea parzialmente funzionante, in grado comunque di identificare alcuni suoni. Chi ricorre all'impianto cocleare è sordo a causa di un grave danno alla coclea. L'impianto sostituisce la coclea convertendo i suoni in impulsi elettrici che vengono inviati al cervello. Dal momento che Merzenich e i suoi colleghi non potevano certo sperare di ricostruire la complessità di un organo naturale dotato di 3000 cellule cigliate, il problema era: può il cervello, che nel corso dell'evoluzione ha acquisito la capacità di decodificare i segnali complessi provenienti da un numero così alto di cellule, decodificare gli impulsi generati da un dispositivo assai più semplice? Se fosse stato in grado di farlo, questo avrebbe significato che la corteccia uditiva era plastica, cioè in grado di modificarsi e di rispondere a input artificiali. L'impianto consiste di un ricevitore, un convertitore che traduce il suono in impulsi elettrici, e di un elettrodo inserito chirurgicamente nei nervi che collegano l'orecchio al cervello. Verso la metà degli anni Sessanta alcuni scienziati erano ostili all'idea stessa di impianto cocleare. Alcuni dicevano che il progetto era irrealizzabile. Altri sostenevano che i pazienti sarebbero stati esposti al rischio di ulteriori danni. Nonostante ciò, alcuni pazienti si sottoposero volontariamente all'impianto. All'inizio alcuni udivano solo rumori; altri qualche suono, oppure sibili o scoppiettii. Merzenich sfruttò ciò che aveva imparato mappando la corteccia uditiva per determinare il tipo di input che l'impianto avrebbe dovuto fornire ai pazienti per permettere loro di decodificare i suoni e per individuare dove impiantare gli elettrodi. Collaborò con degli ingegneri del suono alla progettazione di un dispositivo che potesse tradurre un suono complesso in un numero limitato di frequenze e tuttavia in modo intelligibile. Svilupparono un impianto a più canali molto sofisticato, che permetteva ai non udenti di sentire. Il progetto divenne la base per uno dei 2 principali impianti cocleari disponibili attualmente. Ma il suo obiettivo principale era, naturalmente, condurre delle ricerche sulla plasticità. Alla fine decise di condurre un esperimento semplice quanto radicale, in cui avrebbe isolato la mappa cerebrale da qualunque input sensoriale e osservato il modo in cui il cervello avrebbe reagito. Così si recò dall'amico e collega neuroscienziato Jon Kaas, della Vanderbilt University di Nashville, che lavorava con scimmie adulte. La mano di una scimmia, come quella umana, ha 3 nervi: radiale, mediano e ulnare. Il nervo mediano raccoglie le sensazioni soprattutto dalla zona centrale della mano, gli altri 2 da ciascun lato. Merzenich recise il nervo mediano di una scimmia per osservare come la mappa cerebrale corrispondente avrebbe risposto all'assenza di qualunque input. Tornò a San Francisco e aspettò. Due mesi dopo si recò di nuovo a Nashville. Quando condusse la mappatura sulla scimmia, vide, come si aspettava, che la porzione di mappa cerebrale relativa al nervo mediano non mostrava alcuna attività quando veniva toccata la parte centrale della mano. Ma fu qualcos'altro a sorprenderlo. Quando toccava l'esterno della mano - ossia le aree che inviavano i loro segnali attraverso i nervi radiale e ulnare - si attivò la mappa del nervo mediano! Le mappe cerebrali dei nervi radiale e ulnare avevano quasi raddoppiato la loro estensione e avevano invaso quella che normalmente è la mappa del nervo mediano. E le nuove mappe erano topografiche. Questa volta Merzenich e Kaas, annotando i risultati, parlarono di cambiamenti «spettacolari» e usarono il termine «plasticità», anche se tra virgolette, per spiegare il cambiamento. Da qui all’infinito attivo, LIA L'esperimento dimostrò che se il nervo mediano veniva reciso, gli altri nervi, ancora percorsi dagli impulsi elettrici, prendevano il controllo della porzione di mappa inutilizzata. Quando si tratta di assegnare le zone per l'elaborazione degli input sensoriali, le mappe cerebrali entrano in competizione fra loro per quelle preziose risorse, secondo il principio use it or lose it. La natura competitiva della plasticità ci riguarda tutti. Nel nostro cervello i nervi combattono una guerra senza fine. Se smettiamo di esercitare le nostre facoltà mentali, non le dimentichiamo e basta: la parte di mappa cerebrale per quelle funzioni viene affidata ad altre che invece continuiamo a svolgere. Quando vi chiedete: «Quanto devo studiare per parlare il francese, o suonare la chitarra, o esercitarmi in matematica e essere sempre al meglio?», vi state riferendo proprio alla natura competitiva della plasticità. Vi state chiedendo quanto frequentemente vi dovete esercitare in un'attività per essere certi che la mappa cerebrale corrispondente non venga occupata da un'altra funzione. Tale competitività spiega alcuni limiti presenti in età adulta. Pensiamo alla difficoltà che la maggior parte degli adulti incontra nell'imparare una seconda lingua. Secondo il punto di vista più diffuso, questo problema insorge perché il periodo critico per l'apprendimento linguistico si è concluso, rendendo il nostro cervello troppo rigido per modificare su larga scala la propria struttura. Ma la scoperta del carattere competitivo della plasticità suggerisce che c'è qualcosa di più. Invecchiando, più usiamo la nostra lingua nativa, più questa domina la mappa linguistica. Perciò è anche perché il cervello è plastico - e poiché la plasticità è competitiva - che è così difficile imparare una nuova lingua e mettere fine alla «tirannia» della lingua madre. Ma se ciò è vero, perché è più facile imparare una seconda lingua quando siamo giovani? Non c'è competizione anche prima dell'età adulta? Non esattamente. Dato il carattere processuale della plasticità, Merzenich si rese conto che avrebbe potuto comprendere realmente il fenomeno solo se avesse potuto osservarne il decorso. Così recise il nervo mediano di una scimmia e durante i mesi successivi eseguì delle mappature multiple. La prima mappatura, effettuata immediatamente dopo la rescissione del nervo, mostrava, com'era nelle sue aspettative, che la mappa cerebrale del nervo mediano era del tutto inattiva quando veniva toccata la parte centrale della mano. Ma quando a essere toccata era la parte della mano percorsa dagli altri nervi, la mappa relativa al nervo mediano si attivava immediatamente. Le mappe dei nervi ulnare e radiale ora si trovavano nella mappa del nervo mediano. Queste mappe si attivarono molto rapidamente, come se fossero state nascoste da sempre, fin dall'inizio del loro sviluppo, e fossero state «smascherate» solo in quel momento. Merzenich procedette a una nuova mappatura 22 giorni dopo. Le mappe dei nervi radiale e ulnare, all'inizio scarsamente definite, si erano raffinate e dettagliate, oltre ad aver occupato quasi interamente la mappa del nervo mediano. (Una mappa grossolana ha una bassa definizione; una mappa dettagliata ha una definizione molto maggiore e perciò trasmette una quantità superiore di informazioni.) Dopo 144 gg la mappa aveva raggiunto una definizione normale. Eseguendo delle mappature multiple nel corso del tempo, Merzenich osservò che le nuove mappe modificavano i propriconfini, miglioravano la propria definizione e si spostavano nel cervello. In un caso osservò anche una mappa scomparire del tutto, come Atlantide. Sembrava ragionevole presupporre che, se si formavano mappe completamente nuove, allora si dovevano essere formate delle nuove connessioni interneuronali. Merzenich contribuì alla comprensione di questo processo rifacendosi alle idee di Donald O. Hebb, uno psicologo comportamentista canadese che aveva lavorato con Penfield. Nel 1949 Hebb propose che l'apprendimento produceva nuovi legami tra i neuroni: quando 2 neuroni si attivano insieme e ripetutamente (oppure quando se ne attiva uno, inducendo l'altro ad attivarsi), in entrambi si verificano delle reazioni chimiche per cui il legame tra i 2 tende a essere più forte. L'idea di Hebb - in realtà proposta già da Freud 60 anni prima - venne riassunta molto chiaramente dalla neuroscienziata Carla Shatz: Neuroni che si attivano simultaneamente si legano fra loro. La teoria di Hebb portava a supporre che la struttura neuronale potesse essere alterata dall'esperienza. Sulla scia di Hebb, la nuova teoria di Merzenich sosteneva che i neuroni nelle mappe cerebrali sviluppavano potenti connessioni reciproche quando venivano attivati simultaneamente. E se le mappe potevano essere modificate, pensava Merzenich, allora c'era motivo di sperare che chi aveva problemi congeniti in determinate aree cerebrali - disturbi dell'apprendimento, problemi psicologici, ictus o lesioni cerebrali - avrebbe potuto sviluppare nuove connessioni neuronali, inducendo i neuroni sani ad attivarsi simultaneamente e quindi a legarsi fra loro. A partire dalla fine degli anni ‘, Merzenich elaborò o partecipò a importanti ricerche che si proponevano di verificare se le mappe cerebrali avessero una base temporale e se i loro confini e il loro funzionamento potessero essere manipolati «giocando» sulla sincronizzazione degli input sensoriali. In un esperimento ingegnoso, egli mappò la mano di una scimmia in condizioni normali, quindi legò insieme 2 dita della mano, in modo che non potessero muoversi indipendentemente l'una dall'altra. Dopo alcuni mesi, la mano venne nuova mente mappata. Le mappe relative alle 2 dita originariamente separate ora si erano unite in un'unica mappa. Toccando un punto qualunque di entrambe le dita, si attivava la nuova mappa. Dato che tutti i movimenti e le sensazioni nelle 2 dita avvenivano simultaneamente, si era sviluppata un'unica mappa. L'esperimento mostrò che la sincronizzazione degli input sensoriali era la chiave per lo sviluppo della mappa - neuroni che si attivano insieme e nello stesso momento si legano fra loro per formare un'unica mappa. Altri scienziati verificarono le scoperte di Merzenich sull'uomo. Alcune persone nascono con una condizione nota come «sindattilia», cioè le dita sono fuse tra loro. Due soggetti affetti da questa malformazione vennero sottoposti a mappatura, e il neuroimaging evidenziò che avevano un'unica grande mappa per entrambe le dita anziché una per ciascun dito. Dopo che le dita vennero separate chirurgicamente, i cervelli dei 2 soggetti vennero sottoposti a una nuova mappatura. Emersero così 2 mappe, una per ciascun dito. Poiché le dita potevano muoversi indipendentemente l'una dall'altra, i neuroni non si attivavano più simultaneamente; fu così illustrato un altro principio della plasticità: se si separano segnali neuronali simultanei, si creano mappe cerebrali distinte. Oggi i neuroscienziati riassumono questa scoperta così: Neuroni che non si attivano insieme non si legano fra loro, oppure Neuroni non sincronizzati non si connettono fra loro. Nell'esperimento successivo, Merzenich «creò» una mappa per quello che potrebbe essere chiamato un dito «fantasma», disposto perpendicolarmente rispetto alle altre dita. L'équipe stimolò simultaneamente la punta delle 5 dita della mano di una scimmia, 500 volte al giorno per un mese, impedendo all'animale di usare le dita singolarmente. Ben presto si evidenziò una nuova mappa cerebrale, di forma allungata, in cui le punte delle 5 dita erano fuse insieme. La nuova mappa, disposta perpendicolarmente rispetto a quella delle dita, includeva la punta e non parte delle mappe relative a ciascun dito, che al contrario stavano scomparendo a causa dell'inattività. Nell'ultimo, e più brillante, esperimento Merzenich e la sua équipe provarono che le mappe non possono avere una base anatomica. Venne prelevata da un dito una piccola porzione di pelle, che - qui sta la chiave dell'esperimento -, con il nervo ancora collegato alla rispettiva mappa cerebrale, venne trapiantata chirurgicamente sul dito adiacente. Ora la porzione di pelle e la sua innervazione venivano stimolati ogni volta che il dito a cui erano stati collegati veniva mosso o toccato nel corso delle normali attività quotidiane. Secondo il modello anatomico di cablatura, i segnali avrebbero dovuto essere inviati ancora dalla pelle attraverso il proprio nervo alla mappa cerebrale relativa al dito originario. Invece, quando l'équipe stimolò la porzione di pelle trapiantata, fu la mappa del nuovo dito a rispondere. La mappa di quella porzione di pelle si era trasferita dal dito originario a quello nuovo, dato che la porzione di pelle e il dito su cui era stata trapiantata venivano stimolati simultaneamente. l'esercizio il pianista in erba smette di utilizzare i muscoli che non servono allo scopo e ben presto impara a usare solo il dito giusto per suonare la nota, sviluppando così un «tocco più leggero». Se diventerà bravo, saprà suonare con «grazia» e in modo rilassato: il bambino non userà più moltissimi neuroni come all'inizio, ma pochi e appropriati per quel compito. Questo uso più efficiente dei neuroni si verifica quando padroneggiamo una certa abilità e spiega perché lo spazio a disposizione per le mappe non si esaurisce rapidamente man mano che ci esercitiamo o impariamo nuove abilità. Merzenich e Jenkins mostrarono anche che con l'esercizio i singoli neuroni diventavano più selettivi. Ogni neurone ha un «campo recettivo» nella mappa tattile, un segmento sulla superficie della pelle a cui fa riferimento. Man mano che la scimmia imparava a toccare il disco, i campi recettivi dei singoli neuroni si restringevano, attivando si solo quando porzioni sempre più piccole della punta del dito toccavano il disco. Perciò, nonostante la mappa cerebrale si fosse estesa, ogni neurone era diventato responsabile di una parte più piccola della pelle, consentendo all'animale una discriminazione tattile più fine. In generale, la mappa aveva una definizione maggiore. Merzenich e Jenkins scoprirono anche che se i neuroni venivano esercitati e diventavano più efficienti, potevano elaborare i dati più rapidamente. Questo significa che anche la velocità del nostro pensiero è plastica. La rapidità del pensiero è essenziale per la nostra sopravvivenza. Le cose spesso accadono all'improvviso e se il cervello è lento può perdere delle informazioni importanti. In un altro esperimento Merzenich e Jenkins riuscirono a insegnare a delle scimmie a distinguere dei suoni in intervalli di tempo sempre più brevi. I neuroni interessati si attivavano più rapidamente in risposta agli stimoli sonori, li elaboravano in un tempo minore e richiedevano un intervallo di riposo minore tra un'attivazione e l'altra. Fondamentalmente, neuroni più veloci consentono di pensare più velocemente - non è cosa da poco poiché la rapidità del pensiero è un aspetto cruciale dell'intelligenza. I test per il quoziente d'intelligenza, come d'altronde la vita, non misurano solo se si è in grado di rispondere in modo corretto, ma di quanto tempo abbiamo bisogno per riuscire a farlo. I 2 scienziati scoprirono pure che, insegnando un'attività a un animale, si ottenevano neuroni più veloci e segnali più chiari. Era probabile che neuroni più veloci fossero capaci di attivarsi simultaneamente - diventando una squadra migliore - e di legarsi maggiormente fra loro, formando gruppi di cellule in grado di emettere segnali più chiari e potenti. Si tratta di un punto cruciale, perché un segnale potente ha un impatto maggiore sul cervello. Quando vogliamo ricordare qualcosa che abbiamo ascoltato dobbiamo averla ascoltata con chiarezza, poiché un ricordo può essere chiaro al massimo come il segnale originale. Infine, Merzenich scoprì che l'attenzione è essenziale per cambiamenti neuroplastici a lungo termine. In numerosi esperimenti trovò che i cambiamenti duraturi avvenivano solo quando le scimmie erano molto concentrate. Quando gli animali svolgevano i loro compiti in modo automatico, senza porvi attenzione, le mappe cerebrali si modificavano ma con risultati a breve termine. Spesso apprezziamo la capacità di «lavorare in multitasking». Ma se da una parte è possibile imparare dividendo la nostra attenzione, d'altra parte in questo modo non si ottengono cambiamenti stabili nelle mappe cerebrali. Quando Merzenich era un ragazzo, una cugina della madre, una maestra elementare del Wisconsin, venne eletta miglior insegnante di tutti gli Stati Uniti. Dopo la cerimonia alla Casa Bianca, fece visita ai Merzenich, nell'Oregon. «Mia madre» ricorda Merzenich «fece la tipica domanda senza senso che si fa tanto per dire qualcosa: 'Quali sono i principi più importanti nell'insegnamento?' E sua cugina rispose: 'Be', si mettono alla prova i bambini all'inizio della scuola, e allora si capisce se sono validi. E se lo sono, ti concentri su di loro, senza perdere tempo con quelli che non ce la fanno'. Ecco cosa disse. E si sa che, in un modo o nell'altro, è così che sono stati trattati i bambini con qualche problema, da sempre. È davvero assurdo immaginare che le nostre risorse neurologiche siano permanenti ed eterne e che non sia sostanzialmente possibile accrescerle o migliorarle». Merzenich venne a conoscenza del lavoro di Paula Tallal alla Rutgers University, che aveva iniziato a studiare le cause delle difficoltà dei bambini nell'imparare a leggere. In una percentuale che varia dal 5 al 10% dei bambini in età prescolare è stata riscontrata una disabilità linguistica che rende difficile leggere, scrivere e perfino seguire delle istruzioni. Talvolta questi bambini vengono definiti dislessici. I bambini cominciano a parlare esercitandosi con delle semplici combinazioni di consonanti e vocali, come «da, da, da» e «ba, ba, ba ». In molte lingue le loro prime parole consistono di combinazioni di questo tipo, e spesso si tratta di «mamma», «dada», e così via. La ricerca della Tallal mostrò che i bambini con disabilità linguistiche avevano dei problemi a elaborare i suoni delle combinazioni più comuni di vocali e consonanti, che sono pronunciate rapidamente e che sono chiamate «parti veloci del discorso». I bambini non le udivano correttamente e, di conseguenza, non riuscivano a riprodurle in modo appropriato. Merzenich riteneva che i neuroni della corteccia uditiva di questi bambini si attivassero troppo lentamente, così da impedire loro di distinguere 2 suoni molto simili, oppure di stabilire l'ordine di 2 suoni molto vicini fra loro. Spesso questi bambini non udivano l'inizio delle sillabe o le differenze sonore tra esse. In condizioni normali i neuroni, dopo aver elaborato un suono, sono in grado di attivarsi nuovamente dopo circa 30 msec. Nell'80% dei bambini con disabilità linguistiche questo intervallo di tempo è 3 volte più ampio: ecco perché perdono grandi quantità di informazioni linguistiche. Quando vennero esaminati i loro schemi di attivazione neuronale si notò che i segnali non erano chiari. «Erano confusi sia in entrata che in uscita» dice Merzenich. Un udito che non funziona bene provoca difetti in tutte le abilità linguistiche: povertà lessicale, difficoltà di comprensione, problemi nell'esposizione, nella lettura e nella scrittura. Poiché consumavano così tanta energia nel decifrare le parole, questi bambini tendevano a usare frasi più brevi e non riuscivano a esercitare la memoria per formulare periodi più lunghi. L'elaborazione linguistica era infantile, o «ritardata», e avevano ancora bisogno di esercizio per distinguere «da, da, da» da «ba, ba, ba». Quando la Tallal scoprì tali problemi, inizialmente temeva che «questi bambini fossero ‘guasti’ e che non si potesse fare nulla» per ovviare ai loro deficit cerebrali. Ma questo fu prima che lei e Merzenich unissero i loro sforzi. Lo studio mostrò che nella maggior parte dei casi l’abilità nella comprensione linguistica si era normalizzata dopo l’uso di Fast ForWord. In molti casi, le capacità di comprensione erano al di sopra della norma. Mediamente i bambini che utilizzarono il programma avanzarono di 1,8 anni nello sviluppo linguistico nel giro di 6 sett, un progresso davvero notevole. Un'équipe della Stanford University eseguì delle scansioni cerebrali di 20 bambini dislessici, prima e dopo l'uso di Fast ForWord. I primi risultati mostravano che questi bambini usavano per leggere parti del cervello differenti rispetto ai bambini normali. Dopo l'uso di Fast ForWord le scansioni mostrarono i primi segni di normalizzazione.36 (Ad es., mostravano un incremento dell'attività cerebrale, mediamente, nella corteccia temporo-parietale sinistra, e iniziavano a indicare schemi simili a quelli di bambini senza problemi di lettura.) Willy Arbor è un bambino di 7 anni del West Virginia. Ha i capelli rossi e le lentiggini, è un boy scout, gli piace andare al centro commerciale e, sebbene sia alto appena un metro e 20, pratica il wresding. Ha appena utilizzato Fast ForWord ed è letteralmente cambiato. «Il problema principale di Wil1y era udire chiaramente quello che gli altri dicevano» spiega sua madre. «Capiva sempre una cosa per un'altra. Se c'era qualche rumore in sottofondo, per lui diventava molto difficile sentire. L'asilo fu un'esperienza deprimente. Potevi vedere la sua insicurezza. A scuola iniziò a essere nervoso, si masticava i vestiti, o le maniche, perché tutti gli altri sapevano rispondere correttamente, e lui no. La maestra paventò la possibilità di riportarlo in prima elementare». Willy non leggeva bene, sia in silenzio che ad alta voce. «Willy» prosegue sua madre, «non riusciva a percepire correttamente i cambiamenti d'intonazione. Non sapeva dire se chi parlava stava facendo un'esclamazione, o un'affermazione generale, e non riusciva ad afferrare l'inflessione delle frasi, cosa che gli rendeva difficile capire le emozioni delle persone. Non sapendo distinguere l'altezza dei suoni, non percepiva l'eccitazione nelle parole della gente. Era come se non ci fosse nessuna differenza ». Willy fu portato da uno specialista, che gli diagnosticò un problema dell'udito dovuto a un disturbo nell'elaborazione uditiva a livello cerebrale. La sua difficoltà a ricordare una sequenza di parole era dovuta al sovraccarico del sistema uditivo. «Se gli davi più di 3 istruzioni, come 'per favore porta di sopra le scarpe - mettile nel ripostiglio - poi scendi per la cena', lui se le dimenticava. Si toglieva le scarpe, saliva le scale e mi chiedeva: 'Mamma, cosa mi hai detto di fare?' Gli insegnanti dovevano sempre ripetergli le istruzioni». Malgrado sembrasse un ragazzino dotato e andasse bene in matematica, con il tempo i suoi problemi lo fecero regredire anche in quella materia. Sua madre protestò contro la decisione di far ripetere a Willy la prima elementare, e durante l'estate lo mandò a lavorare con Fast ForWord per 2 mesi. «Prima di usare Fast ForWord» ricorda la donna, «dovevi costringerlo a mettersi al computer, e finiva per agitarsi parecchio. Con questo programma, invece, ha trascorso ogni giorno un' ora e quaranta minuti al computer, per due mesi. Gli piaceva, e il punteggio lo divertiva, perché vedeva i propri progressi» dice sua madre. Gradualmente Willy divenne capace di cogliere l'inflessione della voce, imparò a leggere le emozioni altrui, e divenne un bambino meno ansioso. «Cambiarono molte cose. Quando portò a casa la pagella di metà anno mi disse: 'Vado meglio dell'anno scorso, mamma'. Prendeva quasi sempre bei voti, una bella differenza... Ora è abituato a pensare: 'Posso farcela. Posso fare di meglio'. Mi sento come se le mie preghiere siano state esaudite, hanno fatto così tanto per lui. È incredibile». A distanza di un anno, Willy continua a migliorare. L'équipe di Merzenich venne a sapere che Fast ForWord stava mostrando numerosi casi di spillover, ossia sembrava produrre effetti positivi non previsti. La calligrafia dei bambini migliorava. Molti genitori riferivano che i ragazzi mostravano maggiore attenzione e concentrazione nelle attività scolastiche. Merz ritenne che questi effetti sorprendenti fossero dovuti a un miglioramento generale dei processi mentali. Una delle attività cerebrali più importanti - a cui molto spesso non pensiamo - è l'elaborazione temporale, che ci permette di stabilire la durata di quello che accade. Non potremmo muoverci, percepire o fare previsioni in modo corretto se non fossimo in grado di stabilire la durata di un evento. Merzenich scoprì che una persona allenata a distinguere sulla pelle delle vibrazioni molto rapide, della durata di appena 75 msec, è in grado di distinguere pure suoni della stessa durata. Fast ForWord sembrava stesse migliorando la capacità complessiva del cervello di misurare il tempo. In qualche caso tali miglioramenti riguardavano anche l'elaborazione visiva. Prima di utilizzare Fast ForWord, quando a Willy veniva dato un gioco in cui doveva dire quali oggetti fossero fuori posto - uno stivale su un albero, o una scatola sul soffitto - i suoi occhi vagavano per tutta la pagina, cercando di guardarla nella sua interezza anziché concentrarsi su una piccola parte alla volta. A scuola, quando leggeva saltava le righe. Dopo l'uso di Fast ForWord, i suoi occhi non vagavano più qua e là, e era in grado di focalizzare la propria attenzione visiva. Numerosi bambini sottoposti a test standardizzati subito dopo aver completato il percorso previsto da Fast ForWord mostrarono dei miglioramenti non solo nel linguaggio, nell'eloquio e nella lettura, ma anche in matematica e scienze. Probabilmente sentivano meglio cosa succedeva in classe, oppure leggevano meglio. In realtà Merzenich pensava che la questione fosse più complessa. «Vedi» dice, «il quoziente intellettivo sale. Abbiamo usato il test delle matrici, che è un test di tipo visivo per misurare il QI, e il QI aumenta». Il miglioramento nella componente visiva del quoziente intellettivo non era legato semplicemente al fatto che Fast ForWord esercitasse l'abilità nel leggere le domande di un test verbale. Erano migliorate le capacità mentali complessive dei bambini, probabilmente perché era migliorata l'elaborazione temporale. E ci furono altri benefici inaspettati. Alcuni bambini affetti da autismo diedero i primi segni di un generale miglioramento. L'autismo - una mente umana che non può concepire altre menti - è uno dei misteri più sconcertanti e commoventi in campo psichiatrico e uno dei disturbi più gravi dello sviluppo infantile. Viene considerato un «disturbo pervasivo dello sviluppo», essendovi coinvolti molti aspetti della crescita: intelligenza, percezione, abilità sociali, linguaggio ed emozioni. La maggior parte dei bambini autistici ha un quoziente intellettivo inferiore a 70. Questi bambini hanno grossi problemi a interagire socialmente con gli Per approfondire la comprensione dell'autismo e dei molti ritardi nello sviluppo provocati dalla malattia, Merzenich avrebbe dovuto tornare in laboratorio. Pensò che la cosa migliore da fare prima di tutto era produrre un «animale autistico», un animale cioè con diversi ritardi nello sviluppo, proprio come i bambini autistici. Poi avrebbe potuto studiarlo e provare a trattarlo. Iniziò a riflettere su ciò che lui chiama la «catastrofe infantile» dell'autismo e ritenne che la causa andasse ricercata nell'infanzia: in questo periodo si colloca la maggior parte dei periodi critici, la neuroplasticità è ai suoi massimi livelli e si dovrebbe verificare uno sviluppo notevole. Ma l'autismo è una condizione ereditaria. Se di 2 gemelli identici uno è autistico, la probabilità che anche l'altro lo sia va dall'80 al 90%. Nei casi di gemelli non identici, di cui uno solo è autistico, l'altro gemello presenta spesso qualche problema linguistico e sociale. D'altro canto l'incidenza dell'autismo ha avuto un aumento così sconcertante da non poter essere spiegato esclusivamente su basi genetiche. Quando la malattia venne individuata per la prima volta più di 40 anni fa, colpiva un bambino su 5000. Oggi i bambini colpiti sono 15 su 5000. Il numero è salito in parte perché questo problema viene diagnosticato più spesso, in parte perché alcuni bambini ricevono una diagnosi di autismo moderato in modo da ottenere le sovvenzioni pubbliche per la cura. «Ma» spiega Merzenich «anche considerando tutto ciò, risulta comunque un incremento pari a 3 volte nel corso degli ultimi 15 anni. C'è un'emergenza mondiale collegata ai fattori di rischio per l'autismo». Merzenich è arrivato a pensare che i circuiti neurali di questi bambini subiscano l'influenza di un fattore ambientale: ciò farebbe concludere in anticipo i periodi critici, prima che le mappe cerebrali si siano differenziate pienamente. Alla nascita le mappe spesso sono solo abbozzate, scarsamente dettagliate, indifferenziate. Nel periodo critico, quando la struttura delle mappe cerebrali viene letteralmente «informata» dalle prime esperienze del mondo esterno, normalmente l'abbozzo iniziale diventa più dettagliato e differenziato. Merzenich e la sua équipe utilizzarono la micromappatura per mostrare come le mappe di alcuni topi appena nati si formassero nel periodo critico. Subito dopo la nascita, all'inizio del periodo critico, le mappe uditive sono indifferenziate e sono costituite unicamente da 2 ampie regioni nella corteccia. Metà della mappa risponde a tutte le frequenze sonore più alte, l'altra a tutte quelle basse. Quando l'animale venne esposto a una frequenza specifica durante il periodo critico, quella semplice organizzazione cambiò. Se l'animale veniva ripetutamente esposto a un «do» acuto, dopo pochissimo tempo si attivavano solo alcuni neuroni, che diventavano selettivi per quel «do» acuto. Lo stesso accadeva quando l'animale veniva esposto a un «re», un «mi», un «fa» e così via. Ora la mappa, anziché essere strutturata in 2 aree più ampie, presentava molte aree più piccole, ciascuna delle quali rispondeva alle varie note. In altre parole, si era differenziata. Ciò che è notevole della corteccia durante il periodo critico è che la sua plasticità è tale che la sua struttura può essere modificata semplicemente con l'esposizione a stimoli nuovi. Tale sensibilità permette ai neonati e ai bambini molto piccoli che si trovano nel periodo critico dello sviluppo del linguaggio di raccogliere parole e suoni nuovi senza fatica, semplicemente ascoltando i genitori parlare; la semplice esposizione agli stimoli fa sì che le mappe cerebrali «cablino» i cambiamenti. Dopo il periodo critico i bambini più grandi e gli adulti possono, naturalmente, imparare le lingue, ma devono veramente sforzarsi per mantenere la concentrazione necessaria. Secondo Merzenich, la differenza tra la plasticità tipica del periodo critico e quella dell'adulto è che nel primo caso le mappe cerebrali possono essere modificate semplicemente con l'esposizione al mondo esterno, poiché «la macchina dell'apprendimento è sempre accesa». C'è un buon motivo biologico perché questa «macchina» sia sempre accesa: con ogni probabilità i neonati non sanno cosa sarà importante nella vita, così fanno attenzione a ogni cosa. Solo un cervello già in qualche modo organizzato potrebbe selezionare ciò su cui vale la pena concentrarsi. L'indizio successivo di cui Merzenich aveva bisogno per comprendere l'autismo venne da una linea di ricerca che ebbe origine durante la Seconda guerra mondiale, nell'Italia fascista, grazie a una giovane donna ebrea, Rita Levi Montalcini, mentre si nascondeva per sfuggire alle leggi razziali del regime. Rita Levi Montalcini nacque nel 1909 a Torino, dove compì gli studi di medicina. Nel 1938, quando Mussolini bandì gli ebrei dalla pratica medica e dalla ricerca scientifica, la Montalcini fuggì a Bruxelles per proseguire gli studi. Quando i nazisti invasero il Belgio, fece ritorno a Torino e costruì un laboratorio segreto nella sua camera da letto, dove studiava la formazione del sistema nervoso, ricavando il proprio armamentario microchirurgico dagli aghi da cucito. Quando nel 1940 gli Alleati bombardarono la città, fuggì nelle campagne piemontesi. Viaggiando su un carro bestiame trasformato in una normale carrozza ferroviaria, seduta sul pavimento, lesse un articolo scientifico di Viktor Hamburger, il quale aveva condotto delle ricerche pionieristiche sullo sviluppo neuronale negli embrioni di pollo. Decise di ripetere ed estendere questi esperimenti, lavorando sul tavolo di una baita di montagna con le uova fornite da un allevatore locale. Quando finiva un esperimento, si mangiava le uova. Nel dopoguerra Hamburger la invitò a unirsi a lui e ai suoi ricercatori a St. Louis per lavorare sulle loro scoperte, i cui risultati dicevano che le fibre nervose dei pulcini crescevano più rapidamente in presenza di tumori provocati dai topi. La Montalcini ipotizzò che il tumore probabilmente induceva la secrezione di una sostanza che promuoveva la crescita dei nervi. Insieme al biochimico Stanley Cohen isolò la proteina responsabile di questo fenomeno e la chiamò «fattore di crescita del sistema nervoso» o NGF (nerve growth factor). Per questa scoperta la Montalcini e Cohen ricevettero il premio Nobel nel 1986. Il lavoro di Rita Levi Montalcini portò alla scoperta di diversi fattori di crescita, uno dei quali, il «fattore neurotropico cervello derivato», o BDNF (brain-derived neurotropic factor), catturò l'attenzione di Merzenich. Il BDNF gioca un ruolo fondamentale nel rinforzare i cambiamenti plastici prodotti nel cervello durante il periodo critico. Secondo Merzenich, questo avviene in 4 modi diversi. Quando svolgiamo un'attività che richiede che alcuni neuroni specifici si attivino insieme, questi rilasciano il BDNF. Tale fattore di crescita consolida Il rumore bianco è dato dalla somma di molte frequenze e costituisce uno stimolo molto potente per la corteccia uditiva. «I neonati vengono allevati in ambienti che sono sempre più immersi nel rumore costante» dice Merzenich. Oggi il rumore bianco è ovunque, proviene dalle ventole degli apparecchi elettronici, dai condizionatori, dal riscaldamento, dai motori delle macchine. Come influisce questo rumore sullo sviluppo del cervello? Per verificare la sua ipotesi, l'équipe di Merzenich espose dei cuccioli di ratto a impulsi di rumore bianco per tutta la durata del periodo critico, e trovò che la corteccia dei cuccioli era devastata. «A ogni impulso» spiega Merzenich «viene eccitata tutta la corteccia uditiva, ogni singolo neurone». Una tale attivazione neuronale porta a un rilascio abnorme di BDNF. E come il modello di Merzenich aveva predetto, questa esposizione conduce a un termine prematuro del periodo critico. Agli animali rimanevano mappe cerebrali indifferenziate e neuroni che si attivavano in modo del tutto in discriminato in risposta a qualunque frequenza. Merzenich scoprì che i cuccioli di ratto, come i bambini autistici, erano predisposti agli attacchi epilettici che venivano indotti esponendoli a semplici voci umane. (Nell'uomo, le crisi epilettiche possono essere scatenate dalle luci stroboscopiche utilizzate nei concerti rock, che consistono di luce bianca pulsata formata da numerose frequenze luminose.) Ora Merzenich aveva un modello animale di autismo. Recenti studi di neuroimaging confermano che i bambini autistici elaborano gli stimoli sonori in modo anormale. Merzenich pensa che l'indifferenziazione della corteccia aiuti a spiegare i problemi di apprendimento, in particolare perché un bambino con una corteccia indifferenziata abbia seri problemi a mantenere la concentrazione. Quando viene chiesto loro di concentrarsi su qualcosa, questi bambini sentono delle esplosioni o dei ronzii - ragione per cui spesso si isolano dal mondo e si costruiscono una corazza. Merzenich ritiene che questo stesso problema, in una forma meno grave, possa contribuire ai più comuni disturbi dell'attenzione. Ora il problema per Merzenich era: sarebbe stato possibile fare qualcosa per riportare nella norma le mappe cerebrali indifferenziate dopo il periodo critico? Se Merzenich e la sua équipe fossero riusciti in questo, avrebbero potuto offrire una speranza ai bambini autistici. Innanzitutto utilizzarono il rumore bianco per «de-differenziare» la mappa uditiva dei ratti. Quindi, una volta prodotta la lesione, normalizzarono e «ri- differenziarono» le mappe ricorrendo a suoni molto semplici, uno alla volta. Con l'esercizio, infatti, le mappe vennero riportate al di sopra della norma. «E questo» dice Merzenich «è esattamente ciò che stiamo cercando di fare con questi bambini autistici». Attualmente Merzenich sta sviluppando una versione di Fast ForWord pensata per l'autismo, un perfezionamento del programma che ha aiutato Lauralee. E se fosse stato possibile riaprire il periodo critico per la plasticità, in modo che gli adulti potessero imparare le lingue come i bambini, semplicemente venendovi a contatto? Merzenich aveva già mostrato che la plasticità si estende nell'età adulta, e che attraverso l'esercizio - e con una notevole concentrazione - possiamo «ricablare» il nostro cervello. Ma ora si chiedeva: è possibile estendere il periodo critico dell'apprendimento spontaneo? Nel periodo critico l'apprendimento non richiede alcuno sforzo perché il nucleo basale è sempre attivo. Così Merzenich e il suo giovane collega Michael Kilgard prepararono un esperimento in cui il nucleo basale di alcuni ratti adulti veniva attivato artificialmente assegnando loro dei compiti di apprendimento che avrebbero potuto svolgere senza sforzo e per cui non avrebbero ricevuto un premio. Merzenich e Kilgard impiantarono dei microelettrodi nel nucleo basale dei ratti e per attivarlo vi applicarono una corrente elettrica. Quindi esposero i ratti a un suono della frequenza di 9 Hz, per verificare se fossero stati in grado di sviluppare spontaneamente una mappa cerebrale specifica, proprio come i cuccioli durante il periodo critico. Dopo una sett i 2 ricercatori scoprirono di poter estendere notevolmente la mappa cerebrale per quella particolare frequenza sonora. Avevano trovato un modo per riaprire artificialmente il periodo critico nel cervello adulto. Quindi usarono la stessa tecnica per accelerare il tempo di elaborazione cerebrale. Di norma i neuroni della corteccia uditiva di un ratto adulto possono attivarsi in risposta a un massimo di 12 impulsi sonori al secondo. Stimolando il nucleo basale, era possibile «educare» i neuroni a rispondere a input ancora più rapidi. Queste ricerche aprono la possibilità di un apprendimento molto veloce anche in età adulta. Il nucleo basale può essere attivato da un elettrodo, da microiniezioni di sostanze specifiche, oppure da farmaci. È difficile immaginare che le persone - nel bene e nel male - non si lasceranno attirare da una tecnologia che consentirebbe loro di padroneggiare i fatti della scienza, della storia, o una professione in modo relativamente spontaneo, semplicemente attraverso una breve esposizione. Immaginiamo degli immigranti in una nazione straniera, capaci di imparare una nuova lingua, con naturalezza e senza accento, nel giro di qualche mese. Immaginate come potrebbe trasformarsi la vita delle persone anziane costrette a lasciare il proprio impiego, se fossero in grado di imparare un nuovo lavoro con la stessa rapidità di quando erano ragazzi. Queste tecniche verrebbero senza dubbio utilizzate nelle scuole superiori e nelle università per sostenere gli studi e i competitivi esami d'ammissione. (Molti studenti che non soffrono di un deficit dell'attenzione usano già gli stimolanti per studiare.) Naturalmente, interventi così aggressivi potrebbero avere effetti avversi non previsti sul cervello - per non parlare della nostra capacità di disciplinarne l'uso - ma sarebbero probabilmente pionieristici in casi di gravi problemi medici, laddove le persone siano disposte ad assumersene i rischi. La riattivazione del nucleo basale potrebbe aiutare i pazienti con lesioni cerebrali, molti dei quali non possono più re-imparare le funzioni compromesse, come leggere, scrivere, parlare o camminare, poiché non riescono a concentrarsi a sufficienza. In primo luogo perché, come sappiamo, tutto progressivamente si deteriora. Ma «la ragione principale dell'aumento del rumore è che il cervello non è abbastanza allenato». Il nucleo basale, che lavora producendo acetilcolina - la quale, come abbiamo detto, aiuta il cervello a «sintonizzarsi» e a formare ricordi chiari - viene del tutto abbandonato. In un soggetto con una lieve disabilità cognitiva l'acetilcolina prodotta nel nucleo basale non è neppure misurabile. «L'infanzia è un periodo di intenso apprendimento. Ogni giorno impariamo qualcosa di nuovo. Poi, al nostro primo impiego, dobbiamo imparare e acquisire nuove capacità e abilità. E man mano che procediamo nella vita padroneggiamo sempre meglio le nostre capacità ». Dal punto di vista psicologico, la mezza età è spesso piacevole, poiché, a meno di imprevisti, può essere un periodo relativamente tranquillo se paragonato a quelli precedenti. Il nostro corpo non subisce più le trasformazioni dell'adolescenza; probabilmente abbiamo le idee chiare sulla nostra identità e sulla carriera da intraprendere. Ci consideriamo ancora attivi, ma abbiamo la tendenza a illuderci quando pensiamo di imparare come prima. Raramente ci impegniamo in attività in cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione come facevamo quando eravamo più giovani, come imparare una nuova lingua o nuove abilità. Attività come leggere il giornale, svolgere una professione per molti anni, parlare la propria lingua sono per larga parte la ripetizione di abilità già acquisite, non apprendimento. Prima di raggiungere i ‘anni’, potremmo non aver impiegato pienamente per 50 anni i sistemi cerebrali che regolano la plasticità. Ecco perché imparare una lingua in età avanzata è un ottimo sistema per migliorare e mantenere la memoria in generale. Poiché richiede un'intensa concentrazione, lo studio di una lingua attiva il sistema di controllo della plasticità e lo mantiene in buona forma trattenendo ricordi precisi di ogni genere. Senza dubbio Fast ForWord è responsabile di molti miglioramenti nel ragionamento, in parte perché stimola il sistema di controllo della plasticità mantenendo alti i livelli di acetilcolina e dopamina. Qualunque attività richieda un alto livello di concentrazione sarà d'aiuto a quel sistema - imparare nuove attività fisiche che richiedono concentrazione, risolvere puzzle complicati, cambiare lavoro e quindi dover padroneggiare una serie di abilità e materie nuove. Lo stesso Merzenich è un sostenitore dell'idea di imparare una lingua in età avanzata. «Renderete tutto di nuovo più chiaro, e questo sarà per voi un grande beneficio ». Lo stesso vale per il movimento. Limitarvi a eseguire i passi di danza che avete imparato anni fa non aiuterà la vostra corteccia motoria a rimanere in forma. Per mantenere viva la mente è necessario imparare qualcosa di veramente nuovo e con grande concentrazione. Ciò vi permetterà di fissare nuovi ricordi, e il vostro sistema sarà in grado di preservare e accedere facilmente ai ricordi del passato. I 36 scienziati della Posit Science stanno lavorando su 5 aree che tendono a distruggersi con l'invecchiamento. La chiave nell'elaborazione degli esercizi è fornire al cervello i giusti stimoli, nel giusto ordine e con la giusta sincronia per guidare il cambiamento plastico. Una parte della sfida scientifica consiste nel trovare il modo più efficiente per allenare il cervello, individuando le funzioni mentali che si possano applicare alla vita reale. Merzenich mi disse: «Tutto ciò che vedi accadere in un cervello giovane, può accadere in un cervello più vecchio». L'unico requisito è che il soggetto deve ricevere una ricompensa, o una penalità, sufficiente per mantenere viva l'attenzione nel corso di quella che altrimenti potrebbe diventare una noiosa seduta di esercizi. In questo modo, spiega Merzenich, «i cambiamenti possono essere rilevanti esattamente come in un neonato». Posit Science propone esercizi di memoria per le parole e il linguaggio che prevedono l'utilizzo di Fast ForWord - fra cui esercizi d'ascolto e videogame pensati per allenare la corteccia uditiva del cervello adulto. Anziché dare alle persone con problemi mnemonici degli elenchi di parole da ricordare, come raccomandano molti libri di auto-aiuto, questi esercizi ricostruiscono la capacità di base del cervello di elaborare i messaggi sonori attraverso l'ascolto di suoni selezionati e rallentati. Merzenich non crede che si possa migliorare la memoria chiedendo alle persone ciò che non sono in grado di fare. «È inutile accanirsi con l'allenamento» dice Merzenich. Questi esercizi portano gli adulti ad ascoltare come non facevano da quando si trovavano nella culla e cercavano di distinguere la voce della mamma dal rumore di fondo. Gli esercizi aumentano la velocità di elaborazione e rendono i segnali di base più forti, chiari e precisi, mentre il cervello viene stimolato a produrre dopamina e acetilcolina. Varie università stanno valutando gli esercizi per la memoria, utilizzando dei test standardizzati, e Posit Science ha pubblicato il suo primo studio di controllo. Alcuni adulti di età compresa tra i 60 e gli 87 anni utilizzarono il programma per la corteccia uditiva per un'ora al giorno, cinque giorni a settimana, per un periodo da 8 a 10 sett, per un totale da 40 a 50 ore di esercizi. Prima dell'allenamento, i soggetti si erano sottoposti a dei test standard, mostrando dei livelli di memoria nella norma per la loro età. Dopo gli esercizi, i punteggi ottenuti ai test rientravano nella fascia d'età tra i quaranta e i sessant'anni. Perciò, molti di loro avevano riportato la memoria indietro di almeno dieci anni, e in alcuni casi fino a venticinque anni. Questi miglioramenti si sono mantenuti in unfollow-up a tre mesi. Un'équipe della University of Southern California, guidata da William Jagust, eseguì una PET (positron emission tomography, tomografia a emissione di positroni) su persone che si erano sottoposte agli esercizi, prima e dopo il trattamento, e trovò che il loro cervello non mostrava segni di «declino metabolico» - i neuroni diminuiscono progressivamente la loro attività - che si osserva tipicamente nelle persone anziane. Lo studio inoltre confrontò soggetti di settant' anni che avevano usato il programma con soggetti coetanei che avevano trascorso la medesima quantità di tempo nella lettura di quotidiani, nell'ascolto di audiolibri oppure in giochi al computer. Coloro che non avevano utilizzato il programma mostravano i segni di un costante declino metabolico nei lobi frontali, a differenza di coloro che lo avevano usato. Anzi, questi ultimi mostravano un incremento dell' attività metabolica nel lobo parietale destro e in un certo numero di altre regioni cerebrali: questo dato si correlava con risultati migliori nei test di memoria e d'attenzione. Questi studi mostrano che gli esercizi per il cervello non solo rallentano il declino cognitivo correlato all' età, ma anche che possono portare a un miglioramento funzionale. Si tenga presente che tali cambiamenti vennero
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