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Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche., Appunti di Storia E Critica Del Cinema

Il documento contiene riassunti dettagliati e discorsivi dei primi sei capitoli della nuova edizione del volume “Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche”, pubblicato nel febbraio 2022 da Giulia Carluccio, Luca Malavasi e Federica Villa. Realizzato in relazione al corso di Storia e Critica del cinema A del professor Matteo Pollone presso l’Università del Piemonte Orientale nell’A.A. 2022/2023, il riassunto risulta ugualmente esaustivo per chiunque necessiti di una preparazione ad un esame di Storia del cinema inerente (anche) a questo volume.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 07/02/2024

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Scarica Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche. e più Appunti in PDF di Storia E Critica Del Cinema solo su Docsity! Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche Capitolo 1 — Dal cinematografo al cinema (pp. 19-47) 1. Attrazioni, spettacolo e racconto Come molte altre discipline — artistiche e non —, anche il cinema necessita di un momento simbolico che ne rappresenti la nascita. Sebbene essa venga fatta risalire alla prima proiezione pubblica del Cinématographe Lumière, avvenuta il 28 dicembre 1895, è importante considerare tale avvenimento all’interno di un contesto più ampio, che acquisisce senso solo se studiato attraverso altre invenzioni brevettate da pionieri europei ed internazionali. L’avvento del cinematografo, la sua diffusione ed il suo relativo utilizzo, quindi, si pongono come una realtà complessa e stratificata. Mentre il cinematografo realizzato dai fratelli Lumière consente la visione della pellicola da parte di un folto pubblico, il kinetoscopio inventato da Thomas Alva Edison (o, meglio, dal suo assistente William Kennedy Laurie Dickson) si limita a proiettarla attraverso un foro posto sopra lo strumento, facendo in modo che solo uno spettatore per volta possa goderne. L’utilizzo e lo sfruttamento commerciale del cinematografo sono, per un lungo periodo, accompagnati da una serie di discipline e arti differenti, come la letteratura e la musica, ma anche da altre forme di espressione come la lanterna magica, i giochi di ombre e i numeri da circo. Il mondo cinematografico dei primissimi anni, quindi, va a configurarsi come un elemento di accompagnamento piuttosto che come materia autonoma e a sé stante. La storiografia cinematografica propone una distinzione piuttosto netta tra le prime fasi del cinema e quelle successive. Una delle più importanti teorie in questo senso è rappresentata dalla formulazione di Noël Burch, che distingue Modo di rappresentazione primitivo (MRP) e Modo di rappresentazione istituzionale (MRI), in cui il primo non è legato a finalità narrative, mentre il secondo lavora sulla costruzione di un percorso lineare, continuo e pluripuntuale della narrazione. Altri studiosi introducono, invece, una terminologia ben precisa per distinguere le diverse fasi di sviluppo del cinema e le relative logiche e motivazioni. In particolare, ci si riferisce ad una prima e ad una seconda fase, rispettivamente dette delle attrazioni mostrative e dell’integrazione narrativa. Il sistema delle attrazioni mostrative, centrale tra il 1895 e il 1908 circa, si concentra sull’aspetto visivo piuttosto che su quello narrativo: non vi è alcun interesse, da parte dei registi mostrativi, di dare spazio alla narrazione e alla continuità degli eventi, anche quando la prospettiva unipuntuale viene sostituita da quella pluripuntuale (più inquadrature rimaste autonome). Il lato attrattivo del cinema mostrativo, infatti, sta proprio nella rappresentazione unipuntuale o pluripuntuale non continua. A tali caratteristiche si aggiunge il fatto che i film primitivi subiscono modifiche successive alla fase produttiva per accontentare determinate esigenze di distribuzione: alcune “vedute” delle pellicole, ad esempio, possono essere proiettate in un nuovo ordine, oppure con accompagnamenti musicali e verbali differenti. 1 Il sistema dell’integrazione narrativa, che raggiunge l’apice del successo tra il 1908 e il 1914, risulta essere una fase intermedia tra il cinema delle origini e l’assetto cosiddetto “classico” della disciplina cinematografica, e trova nel racconto di una storia (più o meno lineare) il suo interesse primario. I principali autori che si destreggiano tra il cinema mostrativo e quello narrativo possiedono sia delle caratteristiche tra loro simili sia degli aspetti tra loro diversi. I fratelli Lumière e Georges Méliès, per esempio, pur appartenendo tutti al filone del cinema delle origini, sono esponenti rispettivamente di un cinema mostrativo e di un cinema narrativo: mentre i fratelli Lumière gettano le basi del genere realistico e del documentario mostrando, nelle loro pellicole, la quotidianità così come appare, l’operato di Georges Méliès è maggiormente improntato verso il futuro genere fantastico, così come suggeriscono la realizzazione e i soggetti di Viaggio nella Luna (1902). Differenze simili possono essere notate anche rispetto ai lavori proposti dagli esponenti della scuola di Brighton (tra gli altri, George Albert Smith e James Williamson) e da Edwin S. Porter: mentre le pellicole dei primi — sebbene articolino maggiormente la narrazione rispetto a quelle dei fratelli Lumière — vengono considerate mostrative, l’operato di Porter, ed in particolare il film The Great Train Robbery, si classifica come cinema narrativo, che racconta storie grazie all’utilizzo di una prospettiva pluripuntuale continua. L’autore che segna la fine dell’epoca delle origini e l’inizio del cinema cosiddetto “istituzionalizzato” è David Wark Griffith, regista della pellicola Nascita di una nazione (1915), opera dalla durata fuori dal comune — sia rispetto agli standard dell’epoca sia rispetto a quelli contemporanei — e dalla visione chiaramente razzista. Per quanto controverso, il film di Griffith rappresenta un tassello di grande rilevanza nella costruzione del cinema classico. 2. Il cinema muto italiano e Cabiria Il fenomeno cinematografico italiano dalle origini fino ai primi anni Dieci del secolo scorso può essere articolato in fasi tra loro differenti ma consecutive. In primo luogo, è di fondamentale importanza menzionare l’introduzione del cinematografo, avvenuta nel 1896, a cui alcuni pionieri rispondono attraverso la realizzazione di film artigianali e sperimentali. In secondo luogo, risulta scontato citare l’iniziale ruolo del cinematografo, e cioè quello di strumento di supporto alla spettacolarizzazione di altre arti e di altri metodi di espressione. In terzo luogo, consecutivamente e conseguentemente al secondo punto, il cinematografo si diffonde come evento spettacolare autonomo, grazie — anche e soprattutto — alla diffusione delle prime sale cinematografiche. In quarto luogo, infine, è importante menzionare e celebrare la nascita delle prime società cinematografiche, che prendono piede maggiormente in città come Roma e Torino, rispettivamente sedi dell’Alberini & Santoni (successivamente denominata Cines) e dell’Itala Film. Le società cinematografiche si diversificano tra loro in maniera netta in seguito alla crisi economica che colpisce l’Italia nel 1909: ciascuna di esse si specializza in un determinato genere, per riuscire ad aumentare la qualità delle proprie pellicole e il prestigio da esse portato. In particolare, il mondo cinematografico italiano si specializza in due generi distinti e tra loro diversissimi: il genere comico e il film d’arte. Mentre il primo rappresenta il cavallo di battaglia della società torinese Itala Film, 2 raffigurazione sempre più ampio e raffinato. Tra i registi che operano in questo senso si ricordano Allan Dwan, Cecil B. DeMille, John Ford, Raoul Walsh, Victor Fleming e Erich von Stroheim. 5. Dreyer e gli anni Venti: La passione di Giovanna d’Arco Grazie ad una serie di cinematografie nazionali e alle rispettive tecniche ed innovazioni, il cinema muto raggiunge alti livelli di ricercatezza e sofisticatezza. Tra le tante opere che rappresentano in maniera esaustiva la pienezza di questo periodo si è soliti menzionare la più celebre pellicola del regista danese Carl Theodor Dreyer, intitolata La passione di Giovanna d’Arco, realizzata nel 1928. Pur rappresentando un soggetto già incredibilmente noto e pur rimanendo fedele alle carte processuali che raccontano la vicenda da un punto di vista legale, Dreyer è in grado di rendere il film un’allegoria, in cui è centrale lo scontro — non solo processuale ma anche morale — tra Giovanna d’Arco e i giudici che sono chiamati ad emettere la sua sentenza. Non si tratta, quindi, di un film puramente storico o di analisi psicologica dei personaggi da parte del pubblico. Dal punto di vista stilistico, il regista annulla la distinzione tra primo piano e piano medio (o generale), riducendo la messa in scena a due sole dimensioni invece che mantenere le tradizionali tre. Le inquadrature, gli sfondi e i movimenti della cinepresa risultano un elemento fondamentale anche per quanto riguarda la trama: mentre Giovanna d’Arco è inquadrata sempre frontalmente ed in primo piano, per fare in modo che il suo viso sconvolto sia chiaramente visibile, i giudici vengono solitamente ripresi dal basso, il che distorce i loro visi sia da un punto di vista fisico sia da un punto di vista morale. Giovanna d’Arco è una santa, la cui vita ruota intorno alla fede in Dio e al compito che Egli le ha affidato (quello di salvare l’umanità), mentre i giudici sono personaggi distorti, deviati, che la ritengono una bugiarda e che, per queste ragioni, la condannano al rogo. Gli sfondi, quasi sempre bianchi e semplici, accentuano ancora di più le caratteristiche sopra menzionate. Anche i movimenti della cinepresa possono essere associati alle caratteristiche psicologiche dei personaggi: mentre Giovanna viene sempre inquadrata in modo statico, fermo, la macchina di presa è in movimento quando riprende i giudici, e ciò contribuisce ad accentuare la loro funzione di maschere irrigidite e deformate dai loro ideali morali deviati. Tale pellicola, infine, risulta emblematica per quanto riguarda l’utilizzo del primo piano, che risulta una “conquista” da parte del cinema muto, che utilizza tale innovazione per un effetto drammatico. 6. Robert J. Flaherty e la nascita del documentario Il regista dilettante Robert J. Flaherty realizza, tra il 1913 e il 1918, circa 20.000 metri di pellicola durante due spedizioni nell’estremo Nord del pianeta. Il materiale raccolto viene distrutto da un incendio, ma tale incidente di percorso non ferma Flaherty dal realizzare — grazie a nuovi fondi — un nuovo progetto, il cui risultato è Nanuk l’esquimese, considerato il primo documentario della storia del cinema. Il film vede la luce l’11 giugno 1922 e, pur non ottenendo il successo sperato negli Stati Uniti, il pubblico e la critica europei mostrano grande interesse nei confronti di Nanuk. 5 La vicenda è incentrata sulla quotidianità dell’eschimese Nanuk e della sua famiglia, che vengono ripresi da Flaherty mentre compiono diverse attività svolte per la loro stessa sopravvivenza (attività di caccia alla foca, costruzione di igloo in cui rifugiarsi durante la notte, e così via). Il registra minimizza la trama e il copione in favore di una rappresentazione quanto più veritiera possibile. Capitolo 2 — I percorsi dell’avanguardia (pp. 49-70) 1. Arti e linguaggio Quello che Vasilij Kandinskij definisce «brontolio sotterraneo» è ciò che rappresenta la tendenza e il desiderio delle arti dei primi anni del XX secolo di distaccarsi dalle tradizioni e dalle istanze realistiche in favore di una produzione non lineare. Sul piano contestuale, l’età delle avanguardie artistiche si muove di pari passo con una profonda crisi sociale e con una politica di espansione aggressiva, una fase storica che va dagli ultimi anni dell’Ottocento sino agli anni Venti del secolo scorso e il cui apice è rappresentato dallo scoppio della Prima guerra mondiale. È in questo clima di profondi sconvolgimenti che, insieme ad altre discipline espressive, l’arte foto-cinematografica porta al quasi totale abbandono dell’orientamento rappresentativo realistico in favore di una rappresentazione maggiormente incentrata sul distacco tra realtà e natura. Sul medesimo piano, anche il ruolo dell’artista cambia radicalmente: egli ora si configura come uno sperimentatore in grado di relazionare teoria e pratica, prima con la resa pubblica di manifesti, saggi o interventi critici, poi con la scelta dei canali produttivi e distributivi. Le avanguardie (l’origine del termine è da ricercarsi nel vocabolario militare) si distaccano dal metodo accademico dell’imitazione, poiché essa non è più sufficiente per rappresentare il caos del mondo moderno, il cui esempio più eclatante e significativo è rappresentato dalla metropoli. In linea generale, per raggiungere l’obiettivo del totale distacco con il mondo artistico-culturale pre- esistente, le avanguardie storiche operano principalmente in due sensi e su due fronti: • fronte del linguaggio: il linguaggio diviene fine a sé stesso, distaccandosi dalla visione tradizionale (secondo la quale il linguaggio ha scopo puramente narrativo) e compiendo un lavoro sulla grafia, sul colore, sulla tela, sulla presenza delle lettere sulla pagina, sullo scorrere della pellicola, sul suono che si fa immagine; • fronte del dialogo delle arti: si diffonde la consapevolezza dell’insufficienza dei singoli mezzi di espressione, ed è per questo che artisti di ogni calibro si riuniscono per lavorare a progetti comuni, che presentano nuove forme tecniche e artistiche. L’interesse delle avanguardie si sposta sulla nuova disciplina cinematografica perché essa ha la capacità di porsi come sintesi sia delle discipline legate allo spazio (architettura, pittura e scultura) sia delle discipline legate al tempo (musica e danza). Gli avanguardisti, però, ragionano «non sul cinema come è, ma sul cinema come potrebbe essere», poiché si tratta di un’arte basata sull’immagine e sul movimento che, però, è ancora un orizzonte da scoprire e da esplorare. Il cinema viene, quindi, percepito dalle avanguardie come uno strumento in grado di riunire esigenze artistiche, poetiche e materiali. 6 Le avanguardie cinematografiche non sono la manifestazione di una singola esperienza, quanto piuttosto l’immagine ramificata di un’esperienza molteplice: risulta possibile, quindi, effettuare una distinzione tra le avanguardie su base geografica. 2. Italia: dinamismo, colore, performatività L’esigenza del rinnovamento delle arti, in Italia, viene introdotta dal Manifesto che il poeta Filippo Tommaso Marinetti pubblica sul quotidiano francese Le Figaro, all’interno del quale vengono elogiati i principi della modernità, della novità e della velocità e, al contempo, disprezzate le idee di antichità e di classicità. A tale appello rispondono numerosi esponenti di altre forme d’arte: mentre Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini firmano il Manifesto dei pittori futuristi, volenterosi di dare all’arte statica della pittura una dimensione dinamica, altri artisti redigono manifesti sia inerenti al mondo teatrale che a quello architettonico. Il rapporto tra avanguardia futurista e cinematografia si instaura a partire dal 1916, anno in cui viene pubblicato il Manifesto della cinematografia futurista, sottoscritto, oltre che da Marinetti e Balla, anche da Emilio Settimelli, Bruno Corra e Arnaldo Ginna. Il Futurismo cinematografico italiano, che celebra la velocità, la modernità e la tecnologia allo stesso modo delle altre arti, si configura, quindi, come prima avanguardia pre-bellica all’interno del macro-contesto europeo, influenzando notevolmente le avanguardie cinematografiche nate successivamente. Il mondo del cinema futurista è pervenuto sino a noi più dal punto di vista teorico che dal punto di vista pratico: attraverso lo studio di alcuni contributi esterni alla disciplina cinematografica è possibile delinearne le caratteristiche principali. Primo fra gli altri è il contributo di Umberto Boccioni, che teorizza una nuova concezione del movimento, percepito come dinamismo universale, secondo cui ogni oggetto possiede sia un moto assoluto (potenzialità dinamica dell’oggetto) sia un moto relativo (movimento fisico dell’oggetto). Il fotografo Anton Giulio Bragaglia propone una visione teorico-pratica in cui tenta di superare un’idea cronofotografica attraverso la traduzione del concetto di tempo in spazio e attraverso l’idealizzazione delle forme. Infine, Bruno Corra — con l’ausilio del fratello Arnaldo Ginna — realizza, prima di aderire alla poetica futurista, Musica cromatica (1912), in cui propone la pittura come arte temporale e non più spaziale attraverso l’incontro tra forme colorate e ritmo musicale. Caratteristica comune di queste e di altre teorie è il fine per il quale viene impiegato il cinema: esso viene utilizzato come un’estensione di altre arti, come musica e pittura, piuttosto che come arte autonoma e a sé stante. 3. Francia: impressione, fotogenia, visionarietà La Francia si configura come il Paese che, nell’Europa del dopoguerra, più si cimenta nella sperimentazione avanguardista. Già centrali nel panorama cinematografico delle origini, le case di produzione francesi subiscono un rallentamento in concomitanza con lo scoppio della Prima guerra mondiale, dovuto anche alla necessità di fronteggiare l’importazione crescente di film esteri. È in 7 Symphonie, all’interno della quale viene compiuto un esperimento grafico per immagini astratte, che vengono concepite dal regista come il corrispettivo di una composizione musicale. Hans Richter è sia artista che teorico, e si concentra sullo studio delle superfici piuttosto che su quello delle forme grafiche e degli elementi lineari, e lo fa attraverso la realizzazione di lunghe strisce di carta su cui si alternano diverse forme pittoriche. Tale studio è alla base di una serie di opere cinematografiche intitolate Rhythmus, iniziata nel 1921. Walter Ruttmann e Oskar Fischinger rappresentano altri due poli fondamentali all’interno del panorama cinematografico d’avanguardia. Il primo, che lavora come pittore e grafico nei primi anni Dieci del secolo scorso, è principalmente conosciuto per la realizzazione del ciclo Opus, realizzato tra il 1919 e il 1925 e di cui fa parte, tra le altre, l’opera Lichtspiel Opus I. Pur focalizzandosi — come le opere degli altri registi nominati sopra — sul binomio movimento-musicalità, Ruttmann non si concentra sulle linee o sulle superfici, bensì sulla molteplicità di strutture astratte che possono essere tra loro combinate in molti modi differenti. Il secondo, inizialmente collaboratore di Ruttmann, si focalizza sull’idea del cinema d’animazione, vocazione che persegue negli Stati Uniti in seguito all’avvento del nazismo. Trasferitosi in America nel 1936, Walt Disney lo convoca nel 1940 per realizzare alcune sequenze del film Fantasia. 5. L’avanguardia sovietica: il primato del montaggio L’industria cinematografica sovietica è parte di una realtà largamente nazionalizzata dal 1919, che va contestualizzata all’interno di un panorama detto dell’”Ottobre delle arti”, ma che giunge ad una fase di intenso sviluppo solo a partire dagli anni Venti. All’idea del cinema come simbolo di rivoluzione artistica si uniscono, inoltre, le possibilità narrativo-semantiche del montaggio. Sono numerose le figure di spicco all’interno del panorama cinematografico sovietico: Lev Kulešov, Vsevolod Pudovkin e Sergej Ejzenštejn rappresentano solamente alcuni dei personaggi centrali di tale realtà artistica, ciascuno dei quali riconosciuto per il suo valido e ricco operato. Kulešov, docente oltre che scenografo e regista, è anche e soprattutto conosciuto per i suoi scritti teorici e per i suoi saggi incentrati sul tema del montaggio. In relazione a questo, di estrema importanza nel mondo del cinema è il cosiddetto “effetto Kulešov”, secondo cui le emozioni che un’inquadratura riesce a suscitare nello spettatore sono strettamente legate alle inquadrature precedenti e/o successive. Per dimostrare tale teoria, Kulešov alterna il volto in primo piano di un attore sovietico a, rispettivamente, un’inquadratura di un piatto di minestra, di una donna in una bara e di una bambina che gioca, affermando che ogni volta che il volto ricompare sullo schermo, questo suscita un’emozione diversa in chi guarda, e cioè fame, tristezza e gioia. Vsevolod Pudovkin è il secondo grande protagonista dell’avanguardia sovietica e, oltre che a raggiungere la fama sia come attore sia come aiutoregista di Kulešov, egli si configura come uno dei massimi autori di opere politicamente impegnate: è attraverso l’utilizzo di un impianto realistico-descrittivo che Pudovkin vuole trasmettere un messaggio politico-ideologico, volontà che lo convertirà in uno dei massimi esponenti del Realismo socialista durante il regime. 10 Sergej Ejzenštejn, altro regista di spicco del panorama del cinema sovietico, unisce soggetti di umili origini, come operai e proletari, ad un profondo studio stilistico, proposto sia in chiave pratica sia in chiave teorica. Se, per Kulešov, collegare due inquadrature significa andare avanti nel racconto aggiungendovi un significato ulteriore rispetto a quello che le immagini già possiedono, Ejzenštejn ritiene che il medesimo collegamento tra le due inquadrature sia da valutare come un conflitto, da cui sgorga una “terza immagine” percepita come il superamento delle precedenti due inquadrature. Capitolo 3 — Il cinema classico hollywoodiano (pp. 71-102) 1. Nascita di una istituzione La pellicola Nascita di una nazione, opera magna di David W. Griffith, rappresenta un punto di svolta nell’industria cinematografica dell’epoca, sia dal punto di vista narrativo sia produttivo, poiché si configura come l’unione di nuove strutture distributive e di inediti spunti di narrazione. A metà degli anni Dieci del secolo scorso, infatti, gli assetti produttivi cambiano notevolmente: l’insieme delle case di produzione al di sotto del marchio Motion Picture Patent Company (MPPC) non riesce a contrastare l’avvento di una nuova generazione di distributori indipendenti come Adolph Zukor, il fondatore della Famous Players in Famous Plays, che celebra il ruolo e il valore degli attori all’interno delle pellicole in cui recitano. L’industria cinematografica preponderante si sposta da New York alla West Coast, in particolare nel distretto di Hollywood, per due ragioni principali: la prima riguarda la necessità della troupe di lavorare in piena luce; la seconda si concentra sulla possibilità di realizzare grandi scenografie e di ambientare le vicende in ampi paesaggi naturali. Inoltre, al cambiamento radicale dell’industria cinematografica contribuisce l’introduzione del cosiddetto block booking, che consiste nella prenotazione da parte degli esercenti di pellicole di grande spessore, a cui sono annesse pellicole di minore entità ed importanza, inserite per permettere alla casa di produzione di rientrare nei costi. David Wark Griffith si rivela una figura fondamentale nel superamento dei principi che guidano il cinema primitivo: le sperimentazioni narrative e di messa in scena dell’epoca trovano una sintesi perfetta all’interno della pellicola Nascita di una nazione, considerata come il punto di partenza del cinema hollywoodiano nonostante le numerose accuse di razzismo che ruotano intorno al film e al suo regista. Pur trattandosi di un’opera controversa, essa si impone in maniera definitiva come modello spettacolare, narrativo ed espressivo per il cinema successivo. In risposta alle critiche ricevute, David W. Griffith risponde attraverso il rilascio della monumentale pellicola Intolerance, il cui tema centrale è l’immutabilità dell’intolleranza. Un altro elemento che contribuisce alla modifica radicale del panorama cinematografico del primo secolo scorso è rappresentato dalla fondazione della United Artists Corporation, i cui creatori (David W. Griffith, Charlie Chaplin, Douglas Fairbank e Mary Pickford) hanno l’obiettivo di dare ai creatori delle pellicole anche un ruolo importante dal punto di vista produttivo, oltre che di dare credito agli attori che recitano in tali pellicole (a cui, grazie all’uso del primo piano, gli spettatori rispondono riconoscendoli e affezionandovisi). L’adesione a tali scopi, però, è ridotta, e tale esperienza rimane marginale e isolata all’interno dell’assetto cinematografico del tempo. 11 2. Il trionfo dello stile classico Rispetto alle fasi di transizione dal cinema primitivo a quello classico, preponderanti durante gli anni Dieci del secolo scorso, gli anni Venti sono caratterizzati da una maggiore stabilità dei nuovi assetti narrativi e produttivi del cinema: è a questo punto che si assiste ad un aumento del pubblico, del capitale investito e del numero di sale cinematografiche. Riguardo a queste ultime, è possibile denotare la crescente presenza dei cosiddetti movie palaces, veri e propri edifici dedicati alla proiezione di spettacoli ambiziosi, la cui efficacia e qualità risultano ormai indiscutibili. A partire da queste dichiarazioni, risulta chiaro che il cinema si configura come l’arte principale del Novecento. La macchina del cinema di Hollywood è in grado di influenzare la società da un punto di vista culturale attraverso la creazione di miti e assetti definiti “classici”. Tale influenza viene celebrata anche da Michael Wood: «Il cinema offriva strutture di pensieri e di sentimenti a una quantità quasi inimmaginabile di persone, e noi viviamo della loro eredità in maniere di cui abbiamo appena cominciato a renderci conto». La realtà cinematografica è estremamente complessa e stratificata, ed è il risultato dell’interazione dei cosiddetti “sistemi”, organizzazioni che uniscono l’industria, l’arte, la retorica, la linguistica e la narrazione. Essendo i sistemi numerosi, questi danno vita ad un universo plurale e multiforme, il cui esempio più emblematico — e che sta, di conseguenza, alla base di tutti gli altri sistemi — è lo studio system, legato ai modi di produzione e diffusione delle pellicole. La Famous Players-Lasky di Zukor non si distacca in maniera così evidente dalle grandi case di produzione precedenti. Per perfezionare il sistema di integrazione verticale, infatti, essa fa uso delle medesime tecniche tipiche dei conglomerati cinematografici, strategie illecite che sono alla base della causa contro la casa di produzione da parte della Federal Trade Company, che accusa la Famous Players-Lasky e, di conseguenza, i suoi proprietari, di violazione delle leggi antitrust. Sebbene le accuse risalgano al 1921, risultati chiari e tangibili si ottengono sono nel 1948, anno in cui la Corte Suprema emette un verdetto di colpevolezza che porta la casa di produzione di Zukor e Lasky a perdere la proprietà delle sale e il diritto alla vendita dei pacchetti. La lentezza con cui si svolge il processo contro la Famous Players-Lasky contribuisce ad aumentare il potere delle già esistenti majors e a darne altrettanto a quelle appena fondate: dalle “Big Three” degli anni Venti (Paramount-Publix, Metro-Goldwyn Mayer [MGM] e First National) si passa alle “Big Five” degli anni Trenta (Metro-Goldwyn Mayer, Paramount, 20th Century Fox, Warner Bros e Radio-Keith-Orpheum), ciascuna delle quali possiede un gran numero di sale cinematografiche e di contratti stipulati con il proprio personale, dalle star ai tecnici alle maggiori testate giornalistiche. Al successo della MGM all’interno del panorama cinematografico corrisponde anche — ma non solo — il perfezionamento dello studio system, che passa dall’utilizzo di pratiche appartenenti al central producer system all’uso del producer-unit system: mentre il primo prevede la presenza di un central producer, che supervisiona ciascuna fase del lavoro, il secondo coinvolge un maggior numero di unità, ciascuna delle quali specializzata in un determinato ambito della produzione. 12 Mentre alcune case di produzione rispondono alla concorrenza televisiva sottomettendosi ad essa, altre tentano un approccio più aggressivo, proponendo nuove tecniche spettacolari e visive. Un altro importante elemento della modifica riguardante il sistema classico del dopoguerra è rappresentato dalla progressiva perdita di potere del Production Code Office di William Hays, apertamente sfidato da Otto Preminger, regista della pellicola La vergine sotto il tetto, distribuita senza censura nonostante le scene di nudo. Tale modifica della percezione e del rispetto nei confronti della censura confluisce nella trasformazione radicale del sistema censorio. Anche lo star system è il centro di un profondo cambiamento, dovuto alla fondazione, a New York, dell’Actors Studio da parte di Elia Kazan, Cheryl Crowford e Lee Strasberg, che dà vita ad una nuova generazione di attori, i cosiddetti “attori del metodo”. Essi (i cui nomi più celebri sono, ad esempio, Marlon Brando, James Dean e Paul Newman) sono chiamati a fondersi con il proprio personaggio, in maniera molto più profonda ed incisiva rispetto a quanto ci si aspettasse dagli attori delle generazioni precedenti. In aggiunta, anche i modelli narrativi e i dispositivi di messa in scena cambiano notevolmente, come spiega Veronica Pravadelli: Rispetto al cinema degli anni Trenta, quello dei due decenni successivi mostra dispositivi narrativi e modelli di messa in scena profondamente mutati. Nel cinema degli anni Quaranta e Cinquanta le storie diventano complesse e confuse, i nessi di causa ed effetto non sono più rigorosamente rispettati e il racconto riesce solo faticosamente a spiegare, a risolvere, i conflitti della story. Spesso, è così contorto e inverosimile da risultare contraddittorio. Ma è il livello stilistico, o meglio l’eccesso stilistico, che rivelerebbe le contraddizioni del racconto stesso e quindi, questo è il punto fondamentale, dell’ideologia veicolata. Numerosi sono i generi di spicco negli anni Cinquanta, e altrettanto numerose sono le modifiche e le innovazioni che tali generi subiscono: mentre alcuni vengono reinventati e adattati ai nuovi gusti del pubblico (come il melodramma) altri raggiungono il successo e la maturità tematica ed espressiva proprio durante questi anni (come il genere western). La fine dell’era del predominio delle majors favorisce l’introduzione di novità, portate alla luce principalmente dalle minors e da produttori indipendenti: il cinema americano si arricchisce e si rinnova grazie all’arrivo di alcuni nuovi generi, popolari altrove, che vengono pubblicizzati in maniera accattivante ed innovativa, come il Neorealismo italiano e il cinema orientale. Tra le molte case di produzione indipendenti del periodo, la più celebre è senza dubbio l’American International Pictures (AIP, ma nata come American Releasing Corporation, ARC), fondata da James H. Nicholson e Samuel Z. Arkoff e incentrata su pellicole controverse nei temi e violente nella realizzazione. Il produttore e regista di spicco dell’AIP è Roger Corman, i cui lavori sono spesso dei successi realizzati a basso costo, e la cui guida può risultare un’esperienza altamente formativa per i registi in erba. I film da lui prodotti, spesso destinati a circuiti secondari, appartengono ai generi più disparati, come fantascienza, commedia, western, spionaggio, avventura 15 e, soprattutto, horror. Tali produzioni a basso costo, poi, sono accompagnate da strategie promozionali fuori dal comune, come dimostrato da quelle realizzate da William Castle. Rispetto alla televisione, agguerrita concorrente, il cinema può offrire delle fantasiose gimnicks, delle valide esperienze sensoriali e delle storie dai contenuti espliciti, erotici e violenti. Regista di spicco in questo senso è Russ Mayer, inizialmente fotografo per la rivista Playboy, poi divenuto autore dei cosiddetti “nudies”, termine con cui al tempo erano conosciuti i film erotici. 4. Persistenza del classico Il periodo che segue le modifiche e le innovazioni citate precedentemente è riconoscibile al di sotto del significativo nome di New Hollywood. Tale espressione indica il cinema postclassico, che raggruppa una serie di tendenze diverse e varie, come l’indie e il rollercoaster. Gli studi più recenti si prefissano l’obiettivo di non definire il cinema americano contemporaneo né come totalmente distaccato e, quindi, contrapposto al cinema classico, né come immagine della sua piena continuità. Quando si fa riferimento alla classicità all’interno dell’ambito industriale, è necessario che emerga l’espressione classicismo eccessivo, che può manifestarsi in diverse forme, come il continuo inserimento di deviazioni rispetto alla trama principale, il rifiuto alla linearità del racconto, la richiesta che lo spettatore possieda delle competenze al di fuori del testo, la dilatazione delle sequenze spettacolari e l’aumento esponenziale della componente autoriflessiva. Da un punto di vista stilistico, tale classicità viene resa da quella componente che David Bordwell definisce intensified continuity, che rappresenta una caratteristica fondamentale del cinema hollywoodiano, e che consiste nell’intensificazione dell’utilizzo delle tecniche cinematografiche stilistiche tipiche degli anni Dieci. Qualsiasi siano le tecniche usate, la finalità è sempre la medesima: accompagnare lo spettatore durante la visione della pellicola, guidandolo nella scoperta di risposte emotive e psichiche relative ai personaggi. 16 Capitolo 4 — La modernità e il cinema (pp. 103-139) 1. Il cinema, l’individuo, la società Tra l’arte cinematografica e il Novecento in quanto secolo vi è, soprattutto secondo la ricerca italiana, un rapporto molto stretto: il cinema viene definito come «occhio del Novecento», poiché ne ha registrato tutti i massimi eventi e ha, di conseguenza, stabilito il modo in cui il mondo novecentesco deve essere percepito. Secondo Francesco Casetti, il cinema può essere caratterizzato da tre funzioni principali: • il cinema non soltanto come arte ma anche come medium; • il cinema come disciplina in grado di cogliere le contraddizioni del proprio tempo e di mostrarle ad un largo pubblico come reinterpretate e investite di nuovi significati; • il cinema come disciplina in grado di «mettere in forma» il tumulto delle percezioni del secolo. Sempre in relazione alla modernità, il cinema viene utilizzato come strumento per la creazione di esperienze inedite, che possono essere sia individuali sia collettive. Con la consapevolezza nei confronti dei vantaggi e delle possibilità offerte dallo strumento cinematografico, giunge di pari passo la consapevolezza dei rischi che il suo utilizzo comporta: Luigi Pirandello, ad esempio, classifica lo strumento cinematografico come un mostro che, sebbene debba rimanere strumento, è in realtà divenuto padrone, costringendo gli operatori a diventare semplici macchine al servizio della nuova disciplina artistica. 1.1. La modernità del cinema Walter Benjamin, all’interno del saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), propone un’ampia teoria inerente alle nuove modalità di espressione dell’immagine tramite pratiche fotografiche e cinematografiche, che stanno alla base del mutamento di modi percettivi. Tali tecniche sono sia un riflesso della società sia un importante strumento per comprenderla. Il cinema è una disciplina artistica che può essere collegata, fin dalle origini, ad un carattere di novità, ad una sorta di “venire dopo” rispetto alle altre discipline artistiche, e questo per via del suo forte legame con il concetto di «modernità». Lo stesso Walter Benjamin, continuando la propria riflessione sul concetto di modernità, mette a confronto due termini differenti, Erfahrung e Erlebnis, che rappresentano, rispettivamente, acquisizione di capacità guadagnata nel tempo e vissuto individuale immediato e transitorio. 17 Contesto sociale e condizioni quotidiane della vita delle classi lavoratrici rappresentano i temi fondamentali all’interno delle pellicole di entrambi i movimenti, ma è in particolare il Kitchen Sink a trattare soggetti umili e fuori dagli schemi, inseriti in scenari squallidi verso i quali non solo i personaggi provano indifferenza, ma addirittura assumono un atteggiamento di rifiuto. Entrambe le esperienze si focalizzano principalmente su innovazioni legate ai contenuti proposti e al discorso ideologico alla base delle pellicole, sebbene le novità di carattere formale non siano un elemento da ignorare, anche se maggiormente legato al movimento della Nouvelle Vague. Nonostante i buoni propositi e l’impegno, però, sia il Free Cinema che il Kitchen Sink hanno vita piuttosto breve: una volta esauritesi le possibilità narrative ed una volta scemata l’attenzione dei registi verso la vita dei proletari in città industriali, il focus si sposta su nuovi oggetti e verso nuovi orizzonti, come quello della swining London, strato subculturale incentrato su moda e musica rock. 2.4. Junger Deutscher Film L’esperienza dello Junger Deutscher Film (e, cioè, del giovane cinema tedesco) nasce il 25 febbraio 1962, grazie all’adesione da parte di 26 giovani cineasti ad un movimento il cui Manifesto ne sottolinea la volontà di distacco dal cinema commerciale e di avvicinamento a temi di grande importanza dal punto di vista sociale (emarginazione, smarrimento generazionale, mancata integrazione sociale, difficile rapporto con la Storia). Tra i principali registi dello Junger Deutscher Film vi sono Alexander Kluge, il teorico del movimento per eccellenza, ma anche Volker Schlöndorff, Jean-Marie Straub ed Edgar Reitz. Sono, però, gli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta che vedono l’affermazione delle personalità di maggiore rilievo all’interno del panorama dello Junger Deutscher Film. In questo senso risulta importante citarne tre, e cioè Rainer Werner Fassbinder, Werner Herzog e Wim Wenders: • Rainer Werner Fassbinder: artista geniale e sregolato, il suo cinema è caratterizzato da una forte teatralità, dalla rivisitazione moderna del melodramma classico e dal coinvolgimento continuo di personaggi controversi e allo sbando, tutte caratteristiche che emergono in pellicole come L’amore è più freddo della morte (1969) e La paura mangia l’anima (1974); • Werner Herzog: il regista più visionario dell’intero movimento, rifiuta la teatralità del cinema, ambientando le vicende da lui curate in ambientazioni all’aperto, che mostrino una natura maestosa, ostile ma irresistibile, così come si nota in Fata Morgana (1971) e in Aguirre, furore di Dio (1972); • Wim Wenders: cineasta amante del rock e della cultura statunitense, è colui che sarà in grado di unire il cinema delle due sponde dell’Atlantico con le sue pellicole incentrate sulla ricerca, da parte dei personaggi da lui creati, di modi per combattere il peso dell’incomunicabilità e della mancanza di significato della vita, così come emerge in Prima del calcio di rigore (1971). 2.5. Le cinematografie dell’Europa orientale All’interno del macro-contesto sovietico spicca la figura di Andrej Tarkovskij che, nelle sue pellicole — tra cui Il rullo compressore e il violino e L’infanzia di Ivan —, unisce una dimensione 20 morale ad elementi di natura spirituale, a cui contribuisce anche l’apporto teorico, il cui pilastro centrale è rappresentato dalla temporalità come valore specifico della disciplina cinematografica. Nonostante la centralità dell’operato sovietico, anche altre esperienze nazionali contribuiscono a rinnovare e a modificare il cinema del tempo secondo una chiave moderna. Tali movimenti nascono e si evolvono in Polonia, in Cecoslovacchia e in Ungheria: • cinema nuovo in Polonia: tra gli anni Cinquanta e Sessanta la Polonia è centro di nascita di nuovi temi registici, incentrati sulle conseguenze della guerra, sulla lacerazione emotiva dell’individuo e su un generale senso di smarrimento. Tra i registi più acclamati del panorama polacco — e, in seguito, di quello internazionale — si ricordano Roman Polanski e Jerzy Skolimovski (mentre il primo fa spesso uso di una grande profondità di campo, il secondo ricorre a prolungati piani- sequenza, arricchiti ulteriormente da complessi movimenti di macchina); • cinema nuovo in Cecoslovacchia: riconosce come centrali le figure di Vera Chytilová, Jan Nēmec, Jan Svankmajer e Miloš Forman, ciascuno dei quali propone pellicole di spicco nel macro- contesto del “socialismo dal volto umano”, che viene poi scardinato dall’arrivo delle truppe sovietiche a Praga; • cinema nuovo in Ungheria: i protagonisti di questa esperienza nazionale sono András Kovács, István Gaál, István Szabó e Miklós Jancsó, e proprio quest’ultimo riesce a far emergere le particolarità creative del cinema ungherese nascoste al di sotto dell’oscurantismo sovietico. 2.6. New American Cinema Il New American Cinema è un’esperienza cinematografica non univoca, ma piuttosto caratterizzata da modus operandi tra loro fortemente distinti. Jonas Mekas, prima cinefilo e poi cineasta di grande spessore, fondatore del movimento e della Film Makers’ Cooperative, definisce così le volontà dei registi appartenenti a tale esperienza: «Non vogliamo film rosei, li vogliamo del colore del sangue!» Oltre alla figura di Jonas Mekas, sono numerosi i registi che operano nell’ambito del New American Cinema, ciascuno dei quali caratterizzato da elementi unici e differenti: primo fra tutti Kenneth Anger, uno dei cineasti più noti dell’underground, che tratta spesso di tematiche omosessuali; o ancora Ken Jacobs, conosciuto principalmente per il suo cinema strutturalista e l’uso del found footage; Andy Wharol, che nella sua esperienza filmica utilizza piani-sequenza statici, sconvolgenti dal punto di vista spettatoriale; Frederick Wiseman, documentarista che rende il montaggio l’elemento principale dei suoi lavori; Jack Smith, principale esponente di un’estetica del cinema detto di “cattivo gusto”, identificabile con le idee di trash e camp. Di altrettanta se non di superiore importanza è la figura di Maya Deren (pseudonimo di Eleanora Derenowski), considerata dai registi del movimento la “Madre” del cinema underground per via del largo uso che fa di tecniche cinematografiche sperimentali, come è possibile notare all’interno delle pellicole Meshes of the Afternoon (1943), At Land (1945), A Study in Choreography for a Camera (1945) e l’incompiuto Medidation on Violence. Tutti i film sopra citati vengono realizzati dalla Deren in collaborazione con il marito Alexander Hammid, e vengono tutti definiti come veri e propri trance films secondo P. Adam Sitney. 21 2.7. New Hollywood La stagione del cinema moderno statunitense si conclude con un movimento indimenticabile, che nasce al di fuori del panorama underground e sulla costa opposta rispetto a quella che ha fatto da culla al New American Cinema: tale esperienza è conosciuta con il nome di New Hollywood. Il movimento della New Hollywood può essere visto come un tentativo di rinnovamento del cinema americano dall’avvento del sonoro, e riguarda diversi aspetti della produzione cinematografica. Si tratta, in primo luogo, di un rinnovamento dal punto di vista sistemico, che prevede sia un nuovo assetto industriale (case di produzione integrate orizzontalmente) sia la nascita di case di produzione indipendenti, al cui vertice vi sono gli stessi registi, tra cui spiccano i nomi di Francis Ford Coppola, Brian De Palma, George Lucas, Martin Scorsese e Steven Spielberg. Gli Stati Uniti, in secondo luogo, si ritrovano al centro di un profondo cambiamento dal punto di vista politico-sociale: proteste studentesche, lotte per i diritti civili, l’insorgere della comunità LGBT+ e il profondo dissenso nei confronti della guerra in Vietnam trovano uno sfogo e un mezzo di rappresentazione e di diffusione nel movimento cinematografico della New Hollywood. Il laureato (1967), Gangster Story (1967) e Easy Rider (1969) sono i tre film di maggior spicco del movimento, la cui realizzazione sarebbe risultata impossibile fino a pochi anni prima, sia per i temi trattati, sia per il pubblico di riferimento, sia per la libertà creativa applicata dai registi stessi. La New Hollywood, soprattutto attraverso Gangster Story, dimostra come anche i generi possano essere rivisitati: la commedia, il western, il noir, la fantascienza sono tutti generi cinematografici che vengono rivoluzionati profondamente. Sulla stessa linea d’onda si muovono i volti e i corpi attoriali, tra cui si celebrano Robert De Niro e Al Pacino, ma anche Meryl Streep e Jane Fonda. 3. Gli indici stilistici della modernità 3.1. Il pluralismo della modernità e i caratteri del cinema moderno Le diverse storiografie definiscono ed interpretano la modernità non come un movimento univoco, quanto piuttosto come un insieme di caratteri stilistici e produttivi tra loro molto diversi, tanto che si giunge a parlare di «pluralismo della modernità». Alle esperienze della Nouvelle Vague e del New American Cinema si uniscono anche il cinema d’autore e il cinema di genere, movimenti diversissimi l’uno dall’altro, ciascuno dei quali caratterizzato da elementi personali e differenti. La modernità può essere percepita in due modi: • modernità come momento storico; • modernità come modo, stile e modello di rappresentazione. La modernità cinematografica, inoltre, instaura un rapporto con la tradizione, nel tentativo di ridiscutere e ridimensionare le convenzioni del passato attraverso la creazione e/o la scoperta di nuovi linguaggi e di nuovi modelli rappresentativi. Lo stile moderno non si concentra esclusivamente sui modi e sulle forme di rappresentazione, ma anche sull’azione cinematografica in 22 romanzesco e cinema documentaristico, bisogna fare un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva.» Il cinéma vérité è strettamente legato al cinema diretto, considerato come l’altro versante del documentario. Esso si sviluppa nei medesimi anni del cinéma vérité, ma trova terreno fertile per la sua crescita negli Stati Uniti, in Inghilterra e nel Québec, la provincia francofona del Canada. La caratteristica principale del cinema diretto è la rivoluzione tecnologica applicata ai mezzi di ripresa e al loro utilizzo: la diffusione di apparecchiature più leggere e funzionali permette la realizzazione di riprese a distanza “diretta”, in grado di seguire con facilità gli spostamenti e i dialoghi degli attori. È sulla base di queste innovazioni che, per esempio, viene creato il reportage giornalistico Primary, incentrato sulla sfida tra John F. Kennedy e Hubert Humphrey per la rappresentanza democratica alle elezioni presidenziali statunitensi del 1961. 3.4. Il dispositivo a nudo: il primo Jean-Luc Godard Il primo Jean-Luc Godard, fin dalla realizzazione dei primi cortometraggi e di Fino all’ultimo respiro (considerato il manifesto della Nouvelle Vague), è l’artista che, in relazione al movimento, più sperimenta: sia a livello linguistico che a livello tecnico e tematico Godard effettua delle scelte rivoluzionarie e fuori dagli schemi, unendo il rinnovamento del linguaggio cinematografico a temi impegnati ed originali come le problematiche generazionali. I trucchi e le modalità dell’apparato filmico e dei dispositivi di ripresa vengono svelati e messi in luce e, alla rivelazione di tali tecniche di ripresa e di tali sotterfugi si uniscono anche nuove pratiche filmiche, poiché è minore l’interesse nei confronti dell’”opera compiuta”, e invece è maggiore l’attenzione rivolta all’insieme di rumori, immagini, volti e luoghi proposti all’interno della pellicola cinematografica. Il dispositivo di ripresa viene totalmente incorporato nella dinamica filmica e nell’ambiente, quasi che la sua presenza sia scontata all’interno di una pellicola, ed è per questo che esso viene ripetutamente chiamato in causa. Il primo cinema di Godard, quindi, mostra una duplice visione nei confronti della modernità: • modernità come sperimentazione di linguaggio e di tecnica; • modernità come liberazione dal passato. 3.5. Realismo e sacralità: la trilogia della borgata di Pier Paolo Pasolini Pier Paolo Pasolini, seppur cominci a scoprirsi nel ruolo di regista agli inizi degli anni Sessanta, già nell’arco del decennio precedente si afferma come scrittore, poeta, sceneggiatore e collaboratore di regia. L’evoluzione del suo lavoro, quindi, consiste nella creazione di una forma cinematografica inerente al suo operato. Con l’espressione «trilogia della borgata» si fa riferimento a tre film di Pasolini, realizzati tra il 1961 e il 1963, che si concentrano sulle vicende della classe proletaria romana: Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e La ricotta (1963) sono pellicole che mostrano la dura realtà e le difficili condizioni di vita dei lavoratori romani, mostrati nella loro quotidianità e nelle loro difficoltà. Seppur tra loro diversi, i tre film possiedono, tra gli altri, un fil rouge che li unisce: è il tema della 25 morte che sancisce un legame stretto tra le pellicole, sebbene essa sia percepita in modi diversi. Tale tematica, poi, risulterà fondamentale anche all’interno dei lavori successivi di Pasolini. Un altro elemento caratteristico dell’artista è rappresentato dalla sacralità, che può essere declinata in due direzioni differenti, riconosciute da Pasolini stesso: • sacralità dei personaggi: essi vengono percepiti come dei martiri, immolati per uno scopo; • sacralità tecnica: riguarda ciò che vede il regista e il modo in cui egli vuole rappresentarlo («La religiosità non era tanto nel supremo bisogno di salvezza del personaggio […] o, dall’esterno, nella fatalità che tutto determina e conclude, di un segno di croce finale, ma era nel modo di vedere il mondo: nella sacralità tecnica del vederlo»). 3.6. Dédramatisation: Michelangelo Antonioni e la debolezza del senso Michelangelo Antonioni, uno dei registi di maggiore spicco del panorama cinematografico italiano legato al concetto di modernità, comincia a dedicarsi al cinema a partire dagli anni Quaranta, periodo durante il quale produce numerosi cortometraggi. Il suo primo lungometraggio, Cronaca di un amore, risale però al 1950, ed è a partire da tale data che Antonioni inizia a mostrare un grande interesse nei confronti della dimensione metatestuale e della classe sociale borghese. Ad Antonioni appartiene la cosiddetta «tetralogia dell’incomunicabilità», all’interno della quale sono presenti L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964). Sebbene si tratti di pellicole tra loro molto diverse, esse sono legate da tematiche comuni, prime fra tutte l’alienazione dei personaggi e l’esplorazione di luoghi simbolo della loro confusione interiore. Pur trattandosi di un regista il cui operato risulta estremamente complesso, la vicinanza di Michelangelo Antonioni alla modernità può essere studiata attraverso l’analisi di due poli riassuntivi tra loro diametralmente opposti, a ciascuno dei quali sono associati elementi diversi: • supremazia dell’immagine: lo stile ed il contenuto coincidono; • elaborazione di personaggi in crisi: tale aspetto lega Antonioni a registi come Bergman. L’insieme di questi fattori trattati dal regista può racchiudersi all’interno della cosiddetta dédramatisation, che consiste ne «la debolezza e la sospensione del senso, l’assenza di dramma, a perdita dell’orientamento spaziale e di una bussola esistenziale, il “giro a vuoto” di personaggi che vivono sulla superficie della loro vita», e che causa la necessità di un continuo riassetto da parte dello spettatore, chiamato ad orientarsi e ad orientare la propria percezione. 3.7. Fare ed essere autore: La dolce vita di Federico Fellini Federico Fellini si configura come uno dei più importanti registi del cinema d’autore europeo. Oltre ad aver messo in discussione i modi della spettacolarità tradizionale, il particolare percorso autoriale di Fellini permette di studiare con attenzione il cinema d’autore nella sua interezza, riuscendo così a delinearne alcune delle sue più importanti caratteristiche: la centralità dell’autore in ambito registico, la dimensione autoriflessiva come parte della stratificazione narrativa del film, la scrittura filmica percepita come massima espressione della volontà del regista e dell’opera. 26 Il film di maggiore importanza di Federico Fellini risale al 1960, ed è intitolato La dolce vita. Esso, come afferma Vittorio Spinazzola, si configura come un chiaro esempio di «superspettacolo d’autore», che risulta in grado di aprire un periodo di profonda accuratezza e qualità artistica. Una seconda particolarità di questa pellicola riguarda i due modi in cui essa può essere definita: • film affresco: in grado di delineare ed anticipare il contesto socioculturale degli anni Sessanta, caratterizzato da una particolare ampiezza di riferimenti, una determinata lunghezza e un preciso impianto narrativo; • film rotocalco: incentrato sulla dimensione intertestuale e multimediale, riguarda sia i riferimenti interni alla poetica di Fellini sia sulla cronaca di alcuni avvenimenti e sulla loro narrazione. Capitolo 5 — La stagione postmoderna (pp. 141-181) 1. Postmodernità, media, immagini Gli anni Settanta del secolo scorso possono essere descritti come gli anni del “post”. È infatti in questo periodo che viene ripreso il termine «postmodernità» che, secondo Renato Barilli, dovrebbe andare a sostituire la parola «contemporaneità», facendo in modo che a livello storico, artistico e sociale si possa arrivare a ragionare in due direzioni, quella del ciclo moderno e quella del ciclo postmoderno. Fin dall’antichità, comunque, tale termine viene utilizzato nell’ambito della critica letteraria, storica e filosofica per identificare una fase di diagnosi della crisi della modernità. Sono tante le posizioni che diversi studiosi assumono nei confronti del concetto di postmodernità: • postmodernità come inevitabile congedo dalla modernità e dai suoi principi; • postmodernità come fase di decadenza e di corruzione dei progetto moderno; • postmodernità come necessaria liberazione dai valori proposti dalla modernità. Pur trattandosi di teorie tra loro molto diverse, esse sono legate da un tratto comune, che vede la postmodernità come fautrice di un profondo cambiamento sociale, politico e artistico. Tra i fattori principali che rendono la postmodernità così affermata e diffusa si ricordano sia l’esaurimento della visione utopica e rivoluzionaria degli anni Sessanta, sia le ricadute ideologiche e materiali del postcolonialismo, sia il rapido sviluppo dell’industria dei mass media. A partire dagli anni Settanta il mondo occidentale si trova al centro di un ipertrofico sviluppo dell’industria comunicativa, fatto che rivoluziona la società intera e le sue abitudini, e che cambia radicalmente il modo in cui l’immagine viene percepita e sfruttata: essa, infatti, non viene percepita più solo come «immagine in sé», ma anche immagine in grado di veicolare valori sociali. Concretamente, le società occidentali si ritrovano al centro di un profondo riassetto globale del sistema dei media e della comunicazione, definito «globale» sia perché tocca tutti i rami della comunicazione sia perché la sua crescita corrisponde all’ascesa dell’industria dell’informazione. Come spiega il critico Gianni Vattimo, i mass media sono una realtà stratificata, dislocatasi dal puro ruolo meccanicistico ed avvicinatasi ad un contesto di pluralità. I principali agenti di cambiamento relativi alla diffusione dei mass media a partire dagli anni Settanta sono due: le telecomunicazioni e l’informatica, dove le prime riguardano lo sviluppo delle 27 standard durante gli anni Ottanta, grazie alla diffusione del mercato dell’home video, delle televisioni private, della video music e dei videogiochi. La Paramount, una delle più importanti case di produzione di Hollywood, rappresenta un caso emblematico all’interno di questo nuovo panorama produttivo e distributivo. Dopo una serie di flop cinematografici, essa viene acquistata dal gruppo finanziario Gulf & Western Industries, che non solo possiede aziende di stampo culturale, come case editrici e società televisive, ma svolge anche attività finanziarie e legate al mondo dell’agricoltura. L’esempio della Paramount non è unico, ma anzi numerose case di produzione cinematografica vengono acquistate da colossi finanziari, da essi salvate e rese la grandi case di produzione filmica che sono oggi. A partire dagli anni Novanta, tale modalità di conglomerazione —che ha preso piede negli Stati Uniti — si diffonde anche in Europa, dove gran parte delle industrie legate all’intrattenimento (televisive, cinematografiche, editoriali, musicali) entrano a far parte dei medesimi conglomerati, alla cui base vi è la logica sinergica presente tra i diversi settori. A partire da queste tecniche sinergiche, per esempio, si verificano i fenomeni della «trasposizione in entrata» e della «trasposizione in uscita», rivolte entrambe al settore cinematografico e che consistono, rispettivamente, nella creazione di un film a partire da un fumetto o da un’opera letteraria preesistente e nella creazione di fumetti e altre opere letterarie a partire da un film. Un altro vantaggio inerente ai conglomerati è rappresentato dalle sinergie di marketing, che prevedono l’unione, come nel caso del film Flashdance, di strategie di marketing legate a settori di intrattenimento differenti, come quello televisivo e cinematografico, ma anche l’unione tra mondo cinematografico e mondo musicale. Il primato portato dal film Flashdance genera un fenomeno destinato a durare fino ai giorni nostri, divenuto la modalità operativa standard che mette in relazione il cinema ai video musicali realizzati per pubblicizzarne direttamente la colonna sonora e, in maniera indiretta, la pellicola stessa. 2.2. Televisione e home video Le sinergie creative, produttive e di marketing fino ad ora citate si intrecciano in modo inevitabile con la televisione e l’home video, che divengono mezzi di produzione e di distribuzione alternativi. La televisione, attraverso la propria attiva collaborazione con il cinema, genera vantaggi ed introiti non indifferenti, permettendo alla disciplina cinematografica di aumentare la propria offerta e la propria competitività sul mercato nazionale ed internazionale, divenendo terreno di sperimentazione di gran parte delle majors. Sebbene la televisione rappresenti un efficace mezzo di creazione, distribuzione e pubblicità delle pellicole cinematografiche, la vera novità degli anni Ottanta è rappresentata dall’home video, che consiste nella possibilità, da parte degli spettatori, di poter usufruire del film all’interno delle mura domestiche. Inizialmente accolto in maniera negativa dal cinema, l’home video viene in seguito rivalutato per le sue grandi potenzialità: entro la fine degli anni Ottanta quasi il 70% degli americani dispone di un videoregistratore, il che permette la visione domestica delle pellicole in seguito al loro passaggio nelle sale cinematografiche. I film percorrono, di solito, una scaletta precisa: 30 1. uscita del film nelle sale cinematografiche; 2. pubblicazione dell’home video per il noleggio; 3. pubblicazione dell’home video per la vendita; 4. passaggio del film alla televisione pay-per-view; 5. passaggio del film a canali a pagamento; 6. passaggio del film alle reti televisive nazionali. 3. Il postmodernismo cinematografico Secondo Laurent Jullier, il film Star Wars, rilasciato nelle sale cinematografiche nel 1977, rappresenta la pellicola introduttiva al cinema postmoderno, poiché possiede, sempre secondo Jullier, due caratteristiche che saranno quelle chiave del cinema postmoderno: 1. ripresa tematica, narrativa e stilistica del cinema del passato; 2. aumento della percezione sensoriale, visiva e sonora degli spettatori. Le caratteristiche stilistiche tipiche del cinema postmoderno non sono solamente legate all’industria hollywoodiana e ai blockbusters, ma piuttosto rappresentano un vero e proprio sistema stilistico che, dalla narrazione al linguaggio alle tecniche di ripresa, si configura come la principale tendenza del cinema internazionale degli anni Ottanta e Novanta. Rispetto ad altre tendenze, quella postmoderna si configura in maniera immediata come fenomeno internazionale, andando ad affascinare anche il cinema europeo e non solo quello statunitense, da cui tale tendenza è nata. Tra i principali registi che spiccano nel panorama europeo si ricordano Luc Besson e Jean-Pierre Jeunet in Francia, Pedro Almodóvar in Spagna e Gabriele Salvatores in Italia. Prima di analizzare in modo dettagliato le caratteristiche del cinema postmoderno, risulta utile effettuare una distinzione operativa tra «film postmodernisti» e «film della postmodernità», rispettivamente conosciuti anche come «postmodernismo forte» e «postmodernismo debole»: 1. film postmodernisti: si tratta di pellicole realizzate da registi il cui obiettivo è quello di rendere il nuovo clima sociale e culturale attraverso scelte stilistiche e narrative di stampo chiaramente postmoderno (si pensi al cinema di Woody Allen, Martin Scorsese e Quentin Tarantino); 2. film della postmodernità: si tratta di pellicole realizzate da registi che usufruiscono di tecniche postmoderne in modo più ammorbidito e più blando rispetto al reale cinema postmoderno. È a partire dalla definizione di «film della postmodernità» che nasce il cosiddetto cinema mainstream, che contribuisce a formalizzare alcuni codici espressivi comuni del cinema del tempo, come un montaggio sempre più rapido, una variazione costante delle angolazioni di ripresa e una forte semplificazione cromatica e luministica della fotografia. 3.1. Il dialogo con il passato 31 Il postmodernismo cinematografico si lega, più in generale, alla tendenza artistica postmoderna, che trova la propria identità nella consapevolezza del “venir dopo”. In questo senso, il cinema postmoderno dialoga con due tradizioni del passato principali, e cioè il cinema hollywoodiano classico e il cinema europeo moderno. Il postmodernismo cinematografico è consapevole della propria tendenza al dialogo con il passato, visto e considerato il suo carattere di “posterità”. Tale dialogo, però, risulta colorato di sfumature tra loro molto diverse che variano da regista a regista e di decennio in decennio, modificando sia i modelli di riferimento, sia le strategie di dialogo, sia le ragioni alla base della volontà di recupero del passato. I modelli provenienti dal passato vengono, appunto, continuamente studiati e sottoposti a processi di attualizzazione e di riscrittura da parte dei registi cinefili postmoderni: la tendenza postmoderna rappresenta, infatti, anche la rinascita del cinema, sia dal punto di vista industriale e di consumo sia dal punto di vista espressivo. Il cinema postmoderno, inoltre, è caratterizzato da una continua collaborazione e da un costante interscambio tra le due tradizioni da cui esso attinge. Il “nuovo” della produzione cinematografica postmoderna si cela proprio dietro al dialogo tra le due diverse tradizioni artistiche. A tale aspetto si aggiunge un’altra caratteristica, che è rappresentata dall’uso che il cinema postmoderno fa del linguaggio: esso viene portato in primo piano, divenendo un tema centrale del cinema stesso, facendosi simbolo di intertestualità e trasformandosi in metalinguaggio. 3.2. Intertestualità e metalinguaggio Velluto blu, film del regista David Lynch, rappresenta un caso esemplare del cinema postmoderno, poiché si rivela in grado di riprendere il cinema del passato e il suo immaginario, di metterli in dialogo con il nuovo assetto postmoderno e, di conseguenza, di rendere tali relazioni intertestuali uno spunto di riflessione di tipo metalinguistico. Inevitabilmente, tale riflessione metalinguistica fa emergere altre problematiche, che si interrogano sulla veridicità dell’immagine e sulla capacità stessa del cinema di riferirsi in maniera critica all’immagine. L’intertestualità e il metalinguaggio presenti nel cinema postmoderno ne rappresentano il destino stesso: secondo critici del calibro di Baudrillard e La Polla, infatti, l’immagine cinematografica è un oggetto autonomo che va a sostituire la realtà, e che non si limita, quindi, a raccontarla. Con la ripetizione dell’immagine, infatti, il cinema non desidera rappresentare una crisi interna, quanto piuttosto la radicale trasformazione della realtà. A questo proposito, Vincenzo Buccheri osserva che, nel cinema postmoderno, «la “verità” delle immagini non si identifica più con la capacità di riflettere il mondo esterno (il cinema classico) o un universo interiore (il cinema moderno), ma con la capacità di far vivere intensamente una finzione dichiarata.» A partire da quanto detto, è possibile individuare tre principali caratteristiche del testo postmoderno: 1. l’attenzione dello spettatore spostata dal contenuto della comunicazione all’atto stesso del comunicare; 2. l’unione tra la lettura del presente (ciò che viene detto o fatto durante la proiezione) e l’azione memoriale (riconoscere qualcosa di già sentito) da parte dello spettatore; 32 Capitolo 6 — Dopo il postmoderno: il cinema contemporaneo (pp. 183-217) 1. I media tra digitalizzazione e convergenza Gli anni Ottanta del Novecento rappresentano un periodo di grande cambiamento, durante il quale il cinema diviene sia manifestazione sia ente teorizzante della nuova cultura delle immagini. A partire dagli anni Novanta, i fenomeni raggruppati sotto il nome di «digitalizzazione» modificano non solo il prodotto culturale in sé, ma anche gli orizzonti comunicativi ed informativi e i dispositivi mediali. La rivoluzione digitale in sé prevede quattro processi principali, che risultano tra loro fittamente intrecciati: 1. la diffusione mondiale di un nuovo medium, Internet, a partire dall’anno 2000; 2. la progressiva digitalizzazione di tutti i tipi di contenuto mediale, come suoni, musiche e parole; 3. la nascita di nuovi spazi di elaborazione dei contenuti mediali; 4. la ricerca nel settore delle tecnologie. La digitalizzazione di tutti i dispositivi di informazione e comunicazione permette l’aumento esponenziale del fenomeno di integrazione tra codici diversi, che perdono in parte il proprio carattere individuale, considerato il fatto che esiste un unico strumento grazie al quale è possibile effettuare azioni per le quali in precedenza erano necessari codici mediali differenti. Un fenomeno rilevante all’interno del panorama del cinema contemporaneo è rappresentato dalla cosiddetta «rilocazione», che consiste nello spostamento fisico del cinema verso nuovi luoghi come musei, aerei, computer e smartphone, cioè luoghi non propri al cinema. Il processo di digitalizzazione ha favorito la totale libertà da parte dei contenuti digitali di muoversi tra le differenti piattaforme, senza che qualcuna di queste riesca ad associarsene in maniera definitiva. Di conseguenza e in relazione a questo cambiano anche la modalità di appropriazione, archiviazione e scambio dei contenuti. Tra i principali esiti che si possono trarre da tali processi trasformativi linguistici e tecnologici si ricorda quello che lo studioso statunitense Henry Jenkins definisce «convergenza», definibile come «il flusso dei contenuti su più piattaforme, la cooperazione tra più settori dell’industria dei media e il migrare del pubblico alla ricerca continua di nuove esperienze di intrattenimento.» 35 All’avvento del fenomeno di digitalizzazione corrisponde l’avanzare di un nuovo ruolo da parte dello spettatore, che gode di una rinnovata e maggiore libertà e che ha la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di contenuti e di modi e tempi di consumo ad essi collegati. Per tali ragioni, il rapporto tra media e pubblico nella società postmediale cambia notevolmente, definendo i modelli di fruizione su tre differenti livelli: 1. personalizzazione del consumo; 2. competenza tecnologica; 3. interattività. Nella società postmediale, quindi, è lo spettatore a dettare le regole che guidano i contenuti mediatici e i ritmi in cui essi vengono prodotti, e non viceversa. 1.1. Il cinema in discussione Alla fine del Novecento, grazie anche alla rivoluzione digitale, si verifica una continua perdita di identità dei media. Sebbene le diverse piattaforme mediali mantengano la propria specificità e la propria collocazione, i contenuti mediali e le tipologie di immagini risultano omologati, privi di un’identità e di una specificità proprie. La rivoluzione digitale mette in discussione il cinema e la sua centralità dal punto di vista culturale: pur essendo definito da Francesco Casetti come «occhio del Novecento» per via della sua capacità di rappresentare il suo tempo e di rifletterne le contraddizioni, il cinema subisce un forte processo di indebolimento a causa dell’avvento degli altri media (televisione ed Internet), e a causa dei fenomeni di convergenza e rilocazione di cui è stato protagonista. A partire dalla seconda metà degli anni ‘90 del Novecento si verifica il passaggio dalle procedure analogiche alle procedure digitali di registrazione, elaborazione, distribuzione e archiviazione. Il presupposto del processo di registrazione analogica è rappresentato dal rapporto di dipendenza che vi è tra la macchina da presa e la porzione di realtà posta di fronte all’obiettivo. Sia la natura fotografica che gli automatismi meccanici del dispositivo cinematografico vengono valorizzati, dando vita ad un’immagine che può essere definita, secondo una terminologia proposta dallo studioso Charles Peirce, un indice, e cioè «un segno che si riferisce all’oggetto che esso denota in virtù del fatto che è realmente determinato da quell’oggetto». Proprio grazie al suo rapporto con l’immagine reale, il cinema si configura come un’arte orientata verso la realtà della propria rappresentazione. L’avvento e la diffusione della tecnologia digitale hanno rimosso — almeno parzialmente — il cinema dal proprio ruolo di arte realista, poiché, da un lato, l’immagine non viene più impressa su pellicola, ma viene codificata e archiviata secondo una sequenza numerica, mentre, dall’altro lato, parti di film o interi film vengono realizzati a partire dalla tecnologia digitale, rendendo quindi la realtà un elemento parzialmente o totalmente virtuale. L’avvento dei media, poi, sottopone il cinema ad un complesso processo di deterritorializzazione, che prevede la totale o parziale perdita di identità delle sue specificità formali, linguistiche e 36 comunicative. Quando si menziona il passaggio dal concetto di cinema al concetto di cinematografico si intende quindi la perdita delle peculiarità tipiche del dispositivo cinematografico. L’interfaccia uomo-computer, infatti, appare definita dalla presenza e dall’azione di alcuni elementi tipici del linguaggio cinematografico: la prospettiva lineare, le variazioni del punto di vista, la cinepresa e la logica dei suoi movimenti, la nozione strutturante di inquadratura, la centralità operativa del (ri)montaggio di materiali preesistenti ecc.; in breve, il cinema come “scatola degli attrezzi” per tutta la comunicazione in epoca digitale. La principale conseguenza di questo travaso di elementi e logiche cinematografiche coinciderebbe con una seconda giovinezza del cinema. 1.2. Esperienza, dispositivo, discorso Il cinema postmediale risulta profondamente cambiato a causa del processo di evoluzione dall’analogico al digitale ma, per quanto tali cambiamenti risultino profondi, il cinema e i suoi prodotti non hanno perso il proprio significato. In relazione allo studio del cinema postmediale si verifica un profondo cambiamento di prospettiva, che coincide con l’abbandono progressivo di termini e teorie ormai inefficaci. Il nuovo approccio teorico riferito al cinema si manifesta come una prospettiva plurale, che vede il cinema come un dispositivo complesso e dinamico, legato sia a nuove forme mediali sia a prerogative storiche. L’idea di esperienza si configura come uno degli elementi chiave legati allo studio del cinema postmediale: essa permette di analizzare con attenzione il rapporto tra cinema, film e spettatore, che risultano essere sempre più creativi e performativi. Nonostante la presenza di questo rapporto intenso, da cui sfociano i cosiddetti «contenuti user-generated», il cinema non perde la propria forma e il proprio valore. Insieme all’idea di esperienza, nell’ambito della realtà postmediale viene ripresa anche l’idea di dispositivo cinematografico che, però, a differenza di come era percepito in precedenza, viene ora concepito come un modello mentale ed esperienziale piuttosto che un semplice strumento. Esso, quindi, possiede ed è caratterizzato da due modalità specifiche: 1. una specifica modalità di esposizione, basata sulla compresenza di un testo filmico e di spettatori fisicamente e psicologicamente orientati verso il film; 2. una specifica modalità di disposizione, legata alla dimensione linguistica e discorsiva. Il dispositivo cinematografico è anche incentrato sulla relazione tra realtà, immagine e spettatore, ed è per tale ragione definibile come progetto discorsivo e ambiente di relazioni. A partire dal dispositivo cinematografico si sviluppa l’esperienza cinematografica, che è frutto di due intenzioni tra loro diverse ma complementari: da un lato l’intenzione del film, che è semantica, comunicativa ed estetica; dall’altro lato quella dello spettatore, che sceglie consapevolmente di dedicare la propria attenzione al film in quanto film e di prendere parte alla temporalità del racconto. 37
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