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Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto dei saggi di Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! Saggi. Questioni teoriche Autore di Guglielmo Pescatore 1. Ragionare per autore Il concetto di autore è qualcosa che sembra naturale nei nostri discorsi e che tuttavia non ha uno statuto stabile, una collocazione definita o definitiva. È qualcosa che sembra RESISTERE agli scossoni: c’è stato un periodo in cui la nozione di autore ha ricevuto attacchi diretti dal fronte semiotico-strutturalista e post-strutturalista. La nozione di autore NON E’ QUALCOSA DI DEFINITO, è una nozione che HA UNA STORIA, UNO SVILUPPO, un processo di definizione piuttosto lungo e contrastato. È indicativa la differenza fra il cinema americano e il cinema europeo: 1. A Hollywood il regista, dopo aver visto riconosciuto il suo ruolo professionale, tenderà a ritagliarsi spazi di autonomia realizzativa all’interno del ciclo produttivo. 2. In Europa il regista diventerà, agli occhi del pubblico, il garante comunicativo del film. Sono almeno 3 le accezioni in riferimento all’autore cinematografico. 2. Diritto d’autore L’autore è colui che detiene la proprietà intellettuale dell’opera, del film. Ciò comporta che il film stesso venga considerato opera d’arte o opera d’ingegno e che quindi debba fare riferimento alle varie normative, nazionali e internazionali, che compongono il diritto d’autore. Lo statuto dell’autore cinematografico ha subito notevoli modificazioni. L’artisticità, che si fonda sulla lingua e sulla parola, e proprio la mancanza di parola costituirà lo scoglio principale per l’immissione del cinema nella cerchia delle arti tutelate dal diritto d’autore. Per questa ragione, l’ingresso dei letterati nell’industria cinematografica, a partire dagli anni 10 del 900, ha avuto un ruolo importantissimo nel processo di definizione dell’autore cinematografico. 3. Autore come ruolo professionale Nel primo decennio del secolo scorso si iniziano a definire nel cinema ruoli professionali specifici. Questo processo è parte di una PROGRESSIVA ISTITUZIONALIZZZAZIONE DEL CINEMA, che si dota così di caratteri riconoscibili. Il cinema comincia ad avere un prodotto specifico, il film, che si dispone come OGGETTO AUTONOMO E IDENTIFICABILE. Proprio in quanto oggetto autonomo, il film può essere proposto come oggetto artistico a cui corrisponda un’intenzione d’autore. Il cinema di quegli anni vive una contraddizione: a un oggetto chiaramente individuato, il film, non corrisponde un soggetto altrettanto facilmente individuabile, l’autore, e questo proprio a causa del processo di differenziazione dei ruoli professionali della produzione cinematografica. Durante tutti gli anni 10 accade che a essere indicati come possibili autori siano anche lo scenografo, l’operatore, l’attore e soprattutto le case di produzione. Delluc, esponente della prima avanguardia francese, a fronte della difficoltà di definire con sicurezza un ruolo attoriale preciso, lancia nel 1921 il termine cinéaste, “cineasta”, a indicare chiunque sia coinvolto in qualche misura nell’attività cinematografica, compresa la figura del critico o del teorico. Solo a partire dagli anni 30 il termine assume quella valenza più ristretta con cui viene adoperato anche oggi. 4. Autore come ruolo estetico L’autore è individuato come soggetto responsabile di una volontà autoriale che diviene il presupposto e il criterio generativo dell’opera. Perché vi sia un’attribuzione estetica è necessario non solo che il film appaia come opera autonoma, ma anche che sia POSSIBILE INDIVIDUARE UN RESPONSABILE materiale o ideativo e realizzativo del film stesso. Non stupisce che nell’ambito del discorso cinematografico si comincia a parlare di autore di film proprio nel momento in cui si va perfezionando l’assegnazione al ruolo professionale del regista delle maggiori responsabilità creative. L’ascesa del regista è in gran parte parallela al diffondersi di una nozione di autore inteso come artista, artefice e unico responsabile del valore estetico di un film. In Francia, fra fine anni 10 e primi anni 20, fu un gruppo di giovani intellettuali, legati alle esperienze della avanguardia letteraria e artistica, a dare un impulso decisivo alla diffusione del DISCORSO AUTORIALE in campo cinematografico. Gli esponenti della prima avanguardia elaborarono un’idea autoriale la cui posta in gioco era il rinnovamento radicale del cinema francese. 1 Delluc non aveva dubbi nel considerare Abel Gance l’autore di “La decima sinfonia” (1917): una contraddizione solo apparente perché proprio in quanto cineasti a tutto tondo (Gance, Epstein, lo stesso Delluc…) erano gli autori dei propri film. Così “La decima sinfonia” fu probabilmente il primo film d’autore della cinematografia francese. Se quello di Gance fu il primo film d’autore prodotto in Francia, si potrebbe affermare che il primo film d’autore francese fu in realtà americano, “I prevaricatori” (Cecil B. De Mille, 1915). Si trattò del primo grande avvenimento estetico socialmente riconosciuto a svolgersi in una sala cinematografica, che coinvolse l’élite intellettuale di Parigi. Dunque, per quanto quella dell’autore cinematografico sia una storia europea, furono americani i primi cineasti a essere considerati – in Francia – autori a pieno titolo. Ciò avvenne perché critici raffinati come Vuillermoz e Delluc o teorici dell’avanguardia come Epstein avevano di quel cinema una visione europea. 5. L’autore fra dogma, rituale e modernità La definizione a livello internazionale della nozione di autore cinematografico, riconosciuto nella figura professionale del regista, è dunque ampiamente debitrice della prima avanguardia francese. Percorsi analoghi si possono ritrovare nelle principali cinematografie europee: cinema tedesco o sovietico. Già a metà anni 20 l’identificazione fra autore e regista sembra acquisita una volta per tutte; pare, piuttosto, che le discussioni si concentrino, nei due decenni successivi, sul ruolo che l’autore deve avere: sociale, politico, estetico. E proprio dal punto di vista estetico, nuovamente dalla Francia arriva quella che appare come una parziale sovversione: per la politique des auteurs, così definita da Truffaut in un saggio del 1955. Se è vero che l’autore non può che essere il regista, tuttavia non tutti i registi sono autori. Per i critici della politica degli autori, molti dei quali saranno poi i registi della Nouvelle Vague, il soggetto del film è la sua messa in scena, la quale è la materia stessa del film. Il concetto di messa in scena discende dalla TEORIA BAZINIANA DEL REALISMO. La politique si sottrae alla tradizione. L’opera di un autore non sottostà alle regole di riuscita o insuccesso che si esercitano sui prodotti della creatività. Va precisato che l’investimento autoriale può riguardare sia personalità fino a quel momento mai considerate (Hawks, Welles, Hitchcock), sia figure che avevano già da tempo varcato la soglia dell’attenzione estetica. Il punto in questione è, per Bazin, l’aver insistito sulla permanenza e il progresso di questo fattore personale da un’opera a quella successiva, all’interno di un medesimo corpus autoriale. Proprio le caratteristiche visionarie della politique hanno rappresentato alcune delle linee guida dell’affermazione del moderno cinematografico, oltre ad aver assolto al compito storico che viene loro solitamente riconosciuto: aver portato a termine il lungo processo di legittimazione estetica del medium e aver fissato un canone dell’autorialità che dal cinema moderno si allunga, sia pure in maniera contradditoria, fino alla postmodernità. 6. Prodotti di genere/prodotti di marca: l’autore come brand e la logica autoriale del postmoderno Di che cosa parliamo quando parliamo di cinema d’autore in epoca di postmoderno? Per molto cinema d’autore postmoderno, quello di Tarantino, Anderson, Jonze, Gondry, la questione fondamentale è COSTRUIRE SE’ STESSI ALL’INTERNO DEL FILM. La questione che preoccupa maggiormente i registi che lavorano in tale ambito è quella di costruire sé stessi come autori e come “marchi di fabbrica”. Questo marchio di fabbrica sembra funzionare come una sorta di antidoto ai rischi di polverizzazione della figura autoriale che il sistema dei media e dei new media contemporanei porta inevitabilmente con sé. Prendiamo ad esempio “Kill Bill Vol. I” e “Vol. II” (2003-2004): Tarantino lavora esattamente sulla costruzione di sé stesso come soggetto di referenza di tutto quell’universo. Se c’è qualcuno che lo rappresenta nel film, questo è Bill, che ricopre esattamente tale ruolo: colui che ha organizzato tutto e colui a cui tutto ritorna. A sua volta, lo spettatore è chiamato a occupare una posizione analoga, è chiamato cioè a un riconoscimento immediato. L’interesse dello spettatore non è più tanto rivolto al racconto quanto piuttosto a come la vicenda viene declinata, nel cinema postmoderno, tenta continuamente di occupare lo spettatore, di toccarlo, riconoscerlo intorno al nome del regista, alle caratteristiche di un genere. Come gli altri prodotti dell’industria culturale, il film è l’esito di un’attività industriale, è destinato al mercato. Si rende quindi necessario lo sfruttamento di un marchio, di un’etichetta identificativa che presuppone già una buona dose di aspettative nei confronti delle situazioni e dei personaggi che si 2 quella dell’attacco alla diligenza, in cui John Wayne si lancia fra i cavalli per recuperare le redini e fare in modo che gli animali continuino a correre. Alcuni dei temi e dei personaggi che, fino agli anni 70, erano propri del western, a un certo punto sono stati presi in carico da altri generi, come appunto il film d’avventura. Il motivo del conflitto fra civiltà e universo selvaggio e misterioso che si trova oltre la Frontiera è stato in qualche modo preso dalla fantascienza (Cowboy & Aliens: che potrebbe anche essere definito dai giovani, steampunk). 3. Confini Lo spaghetti western presenta una storia sostanzialmente autonoma, oltre che molto più breve. Ma l’esistenza di un western italiano, e più in generale europeo, è un fatto interessante. Alcuni generi sono strettamente legati alla tradizione di un singolo paese: la commedia all’italiana. E il legame così stretto con la cultura nazionale, unitamente al fatto che si tratta di opere pensate per parlare ad ampie porzioni di pubblico, fa sì che i film di genere rappresentino un oggetto interessante per ragionare sul rapporto fra cinema e società. I film di fantascienza anni 50 sono una chiara testimonianza delle inquietudini che attraversano la società dell’epoca, in primis la paura dell’annientamento dell’umanità a causa di un conflitto atomico. Non bisogna pensare che lo spaghetti western sia un’invenzione di Sergio Leone e dei suoi compagni, perché già fra fine 800 e inizio 900 la cultura popolare europea, attraverso i romanzi di Emilio Salgari, aveva iniziato a impossessarsi della mitologia del Far West. 4. Cinema di genere e/o cinema d’autore Il problema del rapporto fra genere e autore. Se l’autore è uno che plasma l’opera a propria immagine, come volevano, negli anni 50, i “Cahiers du Cinéma”, è chiaro che il rispetto delle regole di un genere si presenta come un elemento limitante, una costrizione cui un autentico artista dovrebbe sottrarsi. Ma non sempre autore e genere sono termini fra loro antietici. Innanzitutto, bisogna notare che l’idea che arte e originalità coincidano è relativamente recente. Fino al XVIII secolo la cultura occidentale è largamente convinta che per “Fare arte” sia necessario rispettare delle regole. Nella Poetica, Aristotele illustra i principi cui il poeta deve attenersi per comporre una tragedia o un poema epico. Le cose cambiano solo con il Romanticismo e si stabilisce che la vera opera d’arte deve essere originale e innovativa. Il cinema di genere è il cinema industriale, mainstream, quello che vuole fare soldi. Secondo Adorno, arte e merce sono agli antipodi, e quindi un film di genere non può essere un film d’autore. Ci sono generi che sono il lascito di un film d’autore. Lo stesso cinema d’autore, nel suo complesso, potrebbe essere letto come un genere, un genere per lo più marginale in termini economici ma dal forte prestigio culturale, che attira il pubblico colto facendo leva sulla propria vocazione artistica e anticommerciale. Il primo lungometraggio di Jean-Luc Godard, “Fino all’ultimo respiro” è un omaggio dichiarato al noir americano. Stile di Andrea Minuz 1. Il cinema e le aporie dello stile La formula di Buffon, “lo stile è uomo”, sintetizza subito una prima difficoltà dello stile, ovvero la sua oscillazione fra INDIVIDUALE e COLLETTIVO. Questa dicotomia chiama in causa l’emergere di un “tocco personale” (stile Picasso), riconoscimento di una scuola o un’epoca (Barocco), di un’intera cultura o nazione (stile italiano). Lo stile individuale è un’”infrazione” rispetto a una norma. Ma stabilire che cosa sia la norma, cioè uno stile collettivo, non fa che rilanciare il problema. Ogni analisi dello stile si confronta con il contenuto, il singolare con il molteplice, la medietà con l’originalità. La retorica, la storia dell’arte, la linguistica e la teoria letteraria offrono numerosi tentativi di far luce su questa intrinseca opacità della nozione di stile. Come sostiene Compagnon nella teoria letteraria contemporanea: la nozione di stile interseca parecchi campi dell’attività umana (storia dell’arte, antropologia, sport…). Bisogna ripulirlo oppure limitarsi a descriverne l’uso corrente, che in ogni caso non è possibile bandire? All’interno degli studi sul cinema, l’interrogativo di Compagnon mantiene intatto il suo spessore e ottiene altre complicazioni. Se per stile intendiamo i “procedimenti espressivi” notiamo come nel cinema vi siano un insieme di variabili economiche, produttive, tecnologiche e storiche; si sommano questioni legate alle periodizzazioni della storia del cinema, al sistema produttivo e a quello dei generi… quando diciamo una Grafica stile Pixar o Audrey Hepburn, icona di stile, evochiamo un arco di significati differenti. È utile prendere in esame i modi con cui la nozione di stile è entrata nel campo degli studi sul film. 5 2. Lo stile e gli studi sul film È necessaria una premessa di inquadramento. Se negli studi di cinema non esiste una definizione condivisa di stilistica, ciò si deve sia all’inafferrabilità della nozione che alla coincidenza storica. Il progressivo inserimento degli studi sul film nel campo accademico, nel corso degli anni 60 e 70, ha coinciso con il tramonto dello stile dalle questioni teoriche rilevanti affrontate nella teoria della letteratura. A partire da metà anni 80 ritorna invece all’attenzione degli studiosi anche la questione dello stile. Un altro motivo riguarda la METODOLOGIA. A lungo, l’analisi dello stile filmico ha investito solo i codici visivi (e alcuni codici visivi più di altri, come i movimenti di macchina e il montaggio), tralasciando altri aspetti decisivi del film. Riaffermatosi come modo di formare che coinvolge tutti i codici lo stile si ritrova al centro di campi d’indagine e ricerca diversificati. Diventa la nozione attorno alla quale costruire nuove relazioni fra la storia, la teoria, la critica e l’analisi, come dimostrato con gli importanti convegni nazionali sul tema (Italia, 2006, organizzato dall’Università di Udine). Questa rinnovata attenzione alla nozione di stile cinematografico, che ha uno dei suoi momenti chiave grazie a David Bordwell, ha innescato la necessità di uno sguardo retrospettivo sia sulla storia del cinema sia sulla storia della teoria. Interrogandosi su come la teoria abbia messo a tema, nel corso della sua storia, la nozione di stile, Vincenzo Buccheri propone di distinguere 4 filoni di ricerca (teorie classiche, formalismo, approccio semiotico, approccio sociologico e storiografico). Dalla metà degli anni 80, il campo del cinema classico e quello del cinema delle origini diventano gli spazi sempre più fruttuosi fra teoria e storia, ma le ipotesi messe in gioco danno origine a concezioni dello stile diverse. 3. Stile, tecnologia, forma In “The Classical Hollywood Cinema” di Bordwell, Staiger e Thompson, l’analisi dello stile è affiancata a quella del modo di produzione, un concetto proveniente dalla storiografia marxiana con cui si definisce lo sviluppo storico della relazione fra strutture sociali e sistemi produttivi. Principi stilistici e norme produttive viaggiano in parallelo e definiscono una frase “classica” del cinema americano che i tre studiosi collocano fra 1917 e 1960. Attorno al nodo dello stile convergono questioni storiografiche, la costruzione di un linguaggio e dinamiche tecnologiche connesse appunto al modo di produzione. Qui lo stile funziona anzitutto come un paradigma. Uno spazio in grado di assorbire le trasformazioni della tecnologia e del linguaggio senza mutare i suoi assunti di fondo. Allo stile saranno dedicate le ulteriori ricerche di Bordwell e Thompson, concentrate sia su grandi insiemi stilistici, sia sul valore differenziale delle singole opere. Ma è in particolare a Bordwell che si lega lo sviluppo di un modello di analisi cosiddetto problem solving, in cui la scelta stilistica emerge di volta in volta come soluzione di regia a un problema di natura anzitutto tecnica. È d’altronde la narrazione, oltre alla storia della tecnologia e del modo di produzione, l’altro grande paradigma di riferimento delle sue ricerche. Bordwell propone di considerare almeno 3 modi di sviluppo della forma filmica: 1. art cinema (film d’autore europeo, anni 50-70); 2. historical-materialist (montaggio cinema sovietico, anni 20); 3. parametric (casi isolati di autori che non fanno sistema). Il rapporto fra stile, tecnologia e storia del cinema viene esplorato ulteriormente e in modo ancora più radicale nelle ricerche di Barry Salt. La statistical style analysis proposta da Salt si configura come un censimento sistematico della ricorrenza di figure di linguaggio e di procedimenti tecnici in determinati periodi storici, affidati a grafici e tabelle quasi in aperta polemica con il più tradizionale impianto umanistico degli studi sul film. Quello di Salt è un lavoro sullo stile che a suo modo <<ha contribuito a sensibilizzare gli studiosi di cinema nei confronti dell’importanza di una storia della tecnologia che muova di pari passo con l’analisi estetica>>. 4. Stile, cultura, discorso Trasferito nell’ambito della storia del cinema delle origini, lo studio dello stile si apre invece su una prospettiva diversa. Lo stile ora diventa l’interfaccia fra un testo e un contesto in cui confini non sono affatto dati. Lo sviluppo di un nuovo modo di intendere la storiografia del cinema che prende piede dal Convegno di Brighton del 1978, dedicato ai film prodotti fra il 1900 e il 1906, ma che ovviamente risente anche della cosiddetta “Nouvelle histoire francese”, cioè una storia della mentalità e dei contesti sociali che in quegli anni si sostituisce alla storia tradizionale fatta di grandi eventi. Per comprendere il linguaggio dei primi film, non dobbiamo metterli in relazione con il cinema che verrà ma con quel variegato orizzonte spettacolare che precede la creazione di un’istituzione 6 cinematografica. È necessario immergersi in una terra incognita, separata dalla storia del cinema tradizionale. I lavori di Burch, Gaudreault e Gunning rilanciano la questione dello stile al centro di una rinnovata relazione fra teoria, storia e analisi. Più che analizzare lo stile di regia, in quest’ottica ci si interroga sullo sviluppo storico e culturale di singoli elementi del linguaggio cinematografico, secondo una prospettiva processuale e generativa che a ben vedere importa negli studi sul film. Le ricorrenze stilistiche di precise figure sono anche collocate in un orizzonte dinamico dove la storia del cinema diventa un segmento decisivo di una più vasta “storia del nostro modo di guardare”. È il caso, ad esempio, dei lavori di Giulia Carluccio sul primo piano e di Elena Dagrada sulla soggettiva. Le questioni legate allo stile diventano cioè un terreno di scambi su cui far confluire lo studio dell’immaginario, la storia del cinema e la storia culturale. Si tratta di un campo di ricerche assai vasto ed eterogeneo che si può mettere in relazione anche con l’impulso dato all’ampliamento degli studi culturali dal cosiddetto New Historicism americano, o scuola di Berkeley, a fine anni 80. La contaminazione e ricombinazione di testo e contesto si trova anche nella prospettiva di ricerca dei Visual Studies, sviluppatasi nell’ambito della storia dell’arte a partire da alcuni pioneristici lavori, come quello sulla pittura fiamminga di Alpers e sul 400 italiano di Baxandall. L’interpretazione culturale delle immagini, ad esempio Gombrich, si pone cioè in questo caso come ricostruzione di un’intera cultura, dei suoi meccanismi e dei suoi conflitti. Nella prospettiva visualista si esercitano ricerche che coniugano l’estetica, la storia e la critica culturale, che interrogano il rapporto fra stile e cultura nazionale, secondo una linea che riprende i “Concetti fondamentali di storia dell’arte” di Wollflin. Per restare nell’ambito del cinema italiano, si possono richiamare i lavori di Bernardi, Buccheri e Zagarrio. In queste ricerche lo stile diventa una forma di discorso sociale. Ovvero “se è vero che i film, oltre che delle opere dotate di un senso, sono dei discorsi che circolano in una società, e in quanto tali assimilabili ad altri tipi di discorsi sociali, si tratterà di studiare lo stile dei film non come mediazione tra un contenuto di pensiero e delle forme espositive, ma come formazione discorsiva, come discorso fra i discorsi”. 5. L’idea di stile nel progetto culturale del cinema moderno In che modo la nozione di stile lavora all’interno delle questioni storiche, estetiche e teoriche del cinema moderno? Studiare lo stile nell’ambito del cinema moderno significa confrontarsi con un bagaglio di teorie e discorsi elaborati da quella tradizione critica francese che ha come epicentro gli scritti di André Bazin. Allo stile spetta il compito di favorire il più possibile la vocazione realistica del linguaggio cinematografico, di limitare i trucchi e le manipolazioni, di trasformare l’atto stesso delle riprese in un momento conoscitivo e non meramente esecutivo. Nel perseguimento di un’etica dello sguardo, elaborata nel contesto della Nouvelle Vague sulla scia delle letture baziniane del Neorealismo italiano e delle sfide lanciate al cinema dal racconto dagli orrori della Seconda guerra mondiale, il tema di una responsabilità morale del film non riguarda più soltanto i soggetti e i temi da portare sullo schermo. Esemplare è la celeberrima polemica sviluppata attorno a “Kapò” che ricostruisce le vicende dei campi di concentramento; film condannato ferocemente da Jaques Rivette, sulle pagine dei Cahiers du Cinéma, a causa di un movimento di macchina ritenuto immorale e dunque responsabile di una presunta spettacolarizzazione della morte. L’intreccio di responsabilità morale della messa in scena e scelte stilistiche che emerge dalla linea Bazin-Rivette-Daney non è certo l’unico motivo della modernità, ma resta uno dei momenti decisivi per comprendere la portata del suo orizzonte. Come per molte esperienze del modernismo radicale nell’arte del XX secolo, l’ideologia della modernità cinematografica è stata pensata con accenti quasi religiosi. Si tratta appunto di un motivo tipico di molte avanguardie e di un comune denominatore che lega autori, correnti e movimenti che ambiscono a rivisitare da cima a fondo l’orizzonte spettacolare e popolare al cinema. Insomma, il cinema è quello che è la filosofia per Adorno: il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. Ma a questa redenzione si lega anche un preciso progetto estetico e politico, ovvero l’utopia di risolvere in una sorta di sintesi, attraverso lo stile, la dialettica novecentesca fra cultura alta e cultura di massa, tra comunicazione e arte. In tal senso, il cinema moderno è stato il progetto di un’élite che si appropria di un’arte rivolta a tutti per piegarla alle proprie istanze di espressione soggettiva, facendone un mezzo in grado di rivaleggiare con la pittura, il pensiero e la letteratura. 6. Conclusioni 7 A ciò si aggiunga che fino alla metà degli anni 20 la macchina da presa è anche il “luogo” in cui si effettuano i primi visual effects (ad esempio, le maschere e contro-maschere che riuniscono in un unico fotogramma riprese realizzate in momenti e difficoltà differenti), ottenuti semplicemente riavvolgendo e quindi reimpressionando il negativo in concomitanza con la chiusura graduale del diaframma o dell’otturatore. Già dai primi anni 20 si vanno poi diffondendo dispositivi leggeri e compatti che anticipano le attuali handycams, come testimonia il film manifesto “L’uomo con la macchina da presa” (1929) di Dziga Vertov, in cui, in più momenti, si vedono all’opera piccoli apparecchi di ripresa posizionati nei posti più improbabili (dalle rotaie del treno al manubrio di una motocicletta), a conferma di quell’urgenza di “scatenare” il mezzo di ripresa che connota un po’ tutte le avanguardie degli anni 20. L’avvento del sonoro tornerà a limitare la mobilità degli apparati di ripresa: per neutralizzarne il ronzio, la cinepresa viene infatti posizionata all’interno di vani insonorizzati che, pur dotati di ruote, impediscono di fatto le carrellate, costringendo i registi a optare per brevi panoramiche, senza contare che tutto ciò costringe gli attori a muoversi innaturalmente a passi felpati e a recitare scandendo chiaramente e lentamente ogni sillaba. Con l’esplosione del secondo conflitto mondiale le necessità belliche richiederanno un nuovo tipo di macchina da presa speciale che garantisca funzionalità e semplicità operativa. Si diffonde così, a partire dal 1936, la Arri della Arriflex, una macchina leggera, fatta apposta per le riprese a mano e per l’impiego in esterni. Con il postmoderno si ricorre a una serie di innovazioni tecnologiche contraddistinte, oltre che, sul piano sonoro, dall’avvento del sistema Dolby – inaugurato nel 1977 da Guerre stellari (George Lucas) -, dall’uso di nuovi sistemi di ripresa capaci di sancire la completa separazione dal corpo dell’operatore e la totale simbiosi fra uomo e macchina. Nel primo ambito si pongono sistemi come la louma – gru snodata – o i più recenti droni che, conducendo in volo il mezzo di ripresa, consentono punti di vista “impossibili” e impraticabili con l’ausilio dei tradizionali carrelli e dolly; nel medesimo contesto è da collocare anche il sistema del video-assist o controllo video: si tratta di un apparato brevettato da Blake Edwards nel 1967, ai tempi delle riprese di “Hollywood Party” (1968). Nell’orizzonte della fusione fra “biologico e macchinico” si collocano invece i nuovi microdispositivi innestabili sul corpo umano come la GoPro ma prima di tutto la steadycam, emblema di quella tecnologia che, a partire dagli anni 80, si è sviluppata attorno al corpo. Questo congegno, brevettato a metà anni 70 dall’operatore Garrett Brown, possiede la peculiarità di filtrare, correggere, ammorbidire, grazie a un apposito sistema di molle e contrappesi, le imperfezioni della tradizionale “macchina a mano”, dando vita a movimenti impersonali e fluidi. L’esito più estremo di simili dinamiche è rappresentato dalla virtual camera, un sistema funzionale a simulare i movimenti di macchina all’interno di ambienti totalmente costruiti al computer. Una nota a parte deve essere dedicata al sistema 3D, il quale rappresenta il recupero e il potenziamento di quanto sperimentato nel 1838, quando Charles Wheatstone presenta alla Royal Society il primo dispositivo di visione stereoscopica. Tale tecnica viene impiegata dal cinema soprattutto negli anni 50, periodo durante il quale il grande schermo deve rispondere alla concorrenza proveniente dalla televisione approntando tutta una serie di escamotages atti a valorizzarne la visione “in grande” (Cinemascope, Technirama). Dopo un revival negli anni 70 e 80, le indagini tecniche proseguono negli anni 90, quando film come “Jurassic Park” e “Terminator 2 – Il giorno del giudizio” segnano il trionfo del fotorealismo. Lo ZOOM allargando e restringendo l’attenzione sulla scena grazie alla sua lunghezza focale variabile, è l’erede di mascherini e iridi di epoca muta. Si tratta perciò già di per sé di una “tecnologia della virtualità” visto che nasce per simulare, senza alcuno spostamento fisico della macchina da presa, caratteristica del cinema degli anni 60 e 70, come attesta Roberto Rossellini, pioniere del pancinor, sorta di zoom di prima generazione. Declinazioni del concetto di black box: - COMPUTER: apparato che ha più di un punto in comune con la camera oscura. L’impatto che la tecnologia informatica ha avuto su quella cinematografica è stato radicale; qui basti aggiungere che una delle mutazioni più drastiche ha riguardato il campo dell’editing, prima utilizzo di moviole dopo, negli anni 80 e 90, software come Avid e Final Cut. - SALA CINEMATOGRAFICA: nella sua qualità di “antro oscuro”, ovvero spazio pubblico, movie house che rende possibile la trasformazione del film in cinema. Tale dispositivo sta subendo una vera e propria rivoluzione copernicana del rapporto fra pubblico e spettacolo filmico, se è vero che non è più il primo a doversi muovere per raggiungere il secondo ma, 10 viceversa, sono le immagini a installarsi nei dispositivi personali di ognuno per essere fruite in tempi, luoghi e modi non ortodossi. La stessa sala cinematografica del futuro/presente, in conseguenza dello switch off al digitale, è un luogo in cui il sistema proiettore-schermo, al pari di qualsiasi televisore domestico, riceve il film come un file e non più come supporto materico, consentendo così la vera e propria creazione di network di sale cinematografiche in cui è possibile proiettare film ma anche eventi in diretta legati a mondo dello sport e dello spettacolo. 5. Conclusioni La storia della tecnologia cinematografica è una lunga, articolata e a volte contraddittoria vicenda di rimediazioni, per impiegare uno dei termini che hanno riscontrato maggior fortuna nell’odierno dibattito teorico. Ogni scoperta ha cioè rappresentato una modalità in cui, di volta in volta, il cinema si è reinventato quale medium capace al contempo di superare quel che era prima, diventando qualcos’altro. Quello della tecnologia cinematografica non è un tracciato rettilineo, bensì spiraliforme. Popolare di Giacomo Manzoli 1. Introduzione L’ultimo libro del grande storico britannico Eric Hobsbawm si intitola provocatoriamente “La fine della cultura”, ha sentito il bisogno di raccogliere una serie di saggi, il cui risultato è un libro su quello che è accaduto all’arte e alla cultura della società borghese dopo che quella società se n’era andata con la generazione post-1914, per non tornare mai più. Ma è giusto ricordare che il 1914 è un anno cardine nella storia del cinema, l’anno di un fondamentale passaggio di testimone. In quella fatidica data esce “Cabiria”, film di Giovanni Pastrone, che costituisce l’apice di un’industria e di una cultura cinematografica che fino a quel momento aveva rivestito un’importanza significativa a livello globale. Il film di Pastrone, con le sue spettacolari scenografie, le sue didascalie dannunziane, è una sorta di monumento funebre del cinema muto italiano. Quella che era stata un’industria basata su competenze e modi di produzione di stampo artigianale compie uno sforzo immenso che la proietta, a causa della guerra prima e di fattori strutturali poi, verso la caduta. Fra gli ammiratori del film di Pastrone c’è il celebre regista americano David W. Griffith. Mentre “Cabiria” otteneva successi planetari, Griffith stava ultimando “Nascita di una nazione”: a distinguere i due film da una prospettiva assolutaemnte macroscopica c’è un elemento, il RITMO. Quella differenza di ritmo, inteso sia in senso visivo sia in senso narrativo, non è altro che la conseguenza tangibile di una differenza sostanziale a livello dei modi di rappresentazione, cioè una concezione del mondo, del tempo, dello spazio e della vita, con le sue finalità e i suoi valori. Il tema è delicato. Da un certo punto di vista è possibile affermare che Griffith utilizza il cinema per dare forma alla concezione del mondo di un paese in ascesa, dinamico, multietnico e multiculturale, capitalista. In questo paese, il cinema era il mezzo espressivo più influente ed efficace per raccontare la “presa del potere” da parte di una nazione e di quel suo stranissimo popolo, composto da una borghesia ma in gran parte da un proletariato così tenace, definito piccola o media borghesia “in potenza”. Da questo, che oggi si chiamerebbe cultural clash, deriva una serie di conseguenze che appaiono per certi aspetti ancora significative a un secolo di distanza. 2. Il film d’arte e l’arte del film È sufficiente notare che i 4 grandi nomi della nascente Hollywood che fonderanno assieme la United Artists, erano nati in angoli remoti dell’impero e venivano da famiglie e situazioni economiche a dir poco problematiche. - Charles Spencer Chaplin era inglese e proveniva da una famiglia di saltimbanchi - Mary Pickford era nata a Toronto - Douglas Fairbanks veniva da Denver, Colorado - Griffith proveniva dal Kentucky e aveva abbandonato gli studi giovanissimo per mantenere la famiglia dopo aver perso il padre a soli 10 anni. Giovanni Pastrone aveva ricevuto un’istruzione regolare, come si conveniva a una famiglia borghese dell’epoca, diplomandosi contemporaneamente in ragioneria e, presso il Conservatorio di Asti, in 11 violino. Il suo trasferimento a Torino avvenne per prendere parte all’orchestra del Teatro Regio e da lì passò poi al cinema. Sono queste le ragioni che portarono Pastrone a chiedere a Gabriele D’Annunzio una legittimazione culturale per il film. Non è che negli USA non valessero logiche distintive, anzi, in quanto nazione giovane, gli USA sono stati il luogo d’elezione di una serie di analisi che hanno dimostrato come la nascita di questo concetto di cultura “propriamente detta” si svolga sempre in parallelo all’emergere di un’aristocrazia locale. Come il grado di benessere consente la formazione di vere e proprie aristocrazie economiche, ecco che nascono i luoghi in cui si stabilisce e si celebra ciò che può essere compreso fra le arti e la cultura. Tuttavia, trattandosi di un fenomeno recente, questo processo non sembra essere stato introiettato al punto di condizionare in profondità la relazione che la maggior parte dei lettori/spettatori intratteneva con la nascente industria culturale americana e con i suoi prodotti. Il rapporto appare svilupparsi in forme decisamente diverse rispetto al contesto europeo in generale e italiano in particolare. Se si legge il pionieristico testo di Freeburg, che raccoglie lezioni e riflessioni svolte in ambito accademico, ci si accorge subito che all’utilizzo di categorie ricavate dalle arti tradizionali si affianca una sensibilità per le “esigenze del mercato” che è rarissima nei suoi colleghi d’oltreoceano. Per Freeburg la natura industriale del cinema, la sua necessità di capitali ingenti, e di riferirsi costantemente a un pubblico popolare sono le basi di partenza di ogni discorso sul cinema. Negli anni 30 esperti di arte colta del 900, come Panofsky, formulano considerazioni che vanno nella stessa direzione di Freeburg. “Oggi non si può negare che i film siano “arte”; e che con l’architettura, i disegni animati e la grafica commerciale, siano l’unica arte visiva davvero viva. È il cinema a formare, più di ogni altra cosa, le opinioni, il gusto, il linguaggio, le abitudini, il comportamento e perfino l’aspetto fisico del pubblico. Il requisito della comunicabilità rende l’arte commerciale più vitale, e perciò potenzialmente molto più efficace, nel bene e nel male. Come dimostrano i molti film eccellenti che si sono dimostrati anche dei grossi successi commerciali, il pubblico non rifiuta i buoni prodotti quando gli vengono proposti”. Panofsky si spinge ad affermare una correlazione fra la centralità che un determinato prodotto assume nell’ambito dell’industria culturale e la sua vitalità. Un oggetto è tanto più vivo, cioè capace di riflettere e influenzare i processi sociali in atto, quanto più è commerciabile. Questa dialettica fra cultura popolare e atteggiamenti elitari è costantemente rimarcata anche sul piano diegetico all’interno di opere di grande impatto. Due esempi: - il film di Frank Capra “Il teatro di Minnie” (1928): dove si narra di un celebre attore di Broadway che durante un viaggio entra in contatto con una compagnia teatrale di provincia. Il film è emblematico per la DUREZZA CON CUI VIENE CASTIGATA LA VIOLENZA SIMBOLICA: ciò che si individua immediatamente è il rapporto inscindibile che esiste fra un prodotto culturale, i suoi codici e il suo pubblico di riferimento. Quel tipo di teatro è pensato per quel tipo di pubblico e ne riflette la natura e la visione del mondo. Il fatto che un altro pubblico, socialmente e culturalmente più elevato come quello di Broadway, si senta in diritto di ridere a crepapelle, è inquadrato come violenza simbolica nei confronti di altri spettatori, percepiti come inferiori. A confrontarsi sono 2 tipi di AUDIENCE che si differenziano, in termini di stratificazione sociale, si tratta di un pubblico che si accalca per divertirsi con spettacoli musicali e di intrattenimento estremamente densi ed elaborati sotto il profilo performativo, ma del tutto indipendenti, contrapposto a un pubblico che è semplicemente “ancora indietro”, ancora fermo a una dimensione provinciale. Eppure anche in quel contesto esiste una sorta di “lotta di classe” fra questo pubblico e quello dell’infinita provincia americana del Sud e del Midwest, combattuto con le armi dello scherno, dello stigma e del disprezzo. - Il film di Preston Surges “I dimenticati” (1942) dalla satira diabolica: si racconta di un regista diventato ricco e famoso grazie a brillanti commedie hollywoodiane. Insoddisfatto per la frivolezza di un cinema, John Sullivan decide che realizzerà un grande affresco epico per raccontare e denunciare le condizioni della popolazione prostrata dalla Grande Depressione. Sullivan vivrà una serie di avventure che lo porteranno a cambiare radicalmente la sua prospettiva. Alla fine si renderà conto che un film impegnato e drammatico non apporterebbe alcun beneficio alle persone, mentre costoro provano enorme conforto di fronte a un cinema elementare ma capace di comunicare con loro e di intrattenerli, alleviando per un attimo la loro fatica quotidiana. 12 e finanziato dalla Payne Study and Experiment Fund, tra la fine degli anni 20 e i primi anni 30, che raccoglie un impressionante volume di dati sugli “effetti” deleteri del consumo di cinema nei bambini e negli adolescenti. I Payne Fund Studies rafforzano i peggiori timori che la società occidentale nutre nei confronti del cinema e dei mezzi di comunicazione. I Payne Fund Studies rappresentano un fondamentale snodo negli studi sulla spettatorialità cinematografica: da quella esperienza si dipartono due linee di ricerca per i successivi 50 anni. - Da un lato, le ricerche empiriche sui pubblici di cinema, sulla loro ampiezza e composizione, sulla frequenza e le abitudini di consumo, che assumono un tratto schiettamente amministrativo. - Dall’altro, una riflessione di carattere marcatamente teorico che accompagna i Film Studies. Dagli anni 40, la questione del pubblico di cinema diviene marginale. Occorre attendere fino agli anni 70 perché il problema dello spettatore di cinema torni a occupare la riflessione e gli studi filmici. Gripsrud descrive questa riemersione come il “ritorno del rimorso”, formula efficace che sottolinea due elementi essenziali: il SUPERAMENTO DELLA CENSURA e la RILEVANZA DELLA PSICOANALISI come quadro teorico e metodologico “quasi esclusivo” con cui si affronta ed esamina l’esperienza dello spettatore. In particolare, la storiografia, riconosce due nuclei di riflessione che catalizzano il dibattito sull’esperienza di visione e il pubblico agli albori degli anni 70: gli studi sull’apparato, che si concentrano sulle condizioni strutturali dell’esperienza del cinema e che hanno come riferimento essenziale il lavoro di Jean-Louis Baudry; e gli studi sul dispositivo, che si focalizzano, principalmente sul testo filmico e sulle sue strategie di coinvolgimento dello spettatore, e che trovano nelle sofisticate teorie di Metz il principale referente. Entrambe le linee di studio restituiscono l’immagine di uno spettatore modellato dalle condizioni della visione e dalle strutture del testo e indotto a identificarsi con i mondi che i film rappresentano e con “il punto di vista” costruito dal cinema. 3. Vedere oltre Il superamento delle teorie dell’apparato e del dispositivo e dell’idea di spettatore avviene dall’interno. Le cosiddette “teorie cine-psicoanalitiche” stabiliscono un nesso inscindibile fra la visione cinematografica e i processi di costituzione della soggettività. Semplificando si può dire che l’esperienza di visione innesca un processo regressivo, che induce lo spettatore a rivivere alcune delle fondamentali fasi che hanno segnato il percorso di costruzione della soggettività. L’analogia più nota è quella fra l’esperienza filmica e la fase dello specchio, enunciata da Metz. Il rapporto con il film dentro la sala coinvolge lo spettatore e diventa una parte costitutiva della sua identità e quindi uno strumento che lo “posiziona”, sia rispetto al film e a quanto rappresenta, sia rispetto alla realtà sociale. Questo assunto costituisce il fondamento delle teorie dello spettatore posizionato, ovvero le teorie che attribuiscono alla fruizione cinematografica un ruolo decisivo nella costruzione della soggettività degli spettatori e del loro modo di essere nel mondo. L'idea che lo spettatore venga costruito dal cinema come soggetto alimenta nel corso degli anni '70 un ampio dibattito sulle responsabilità del cinema nella costruzione e nella legittimazione del sistema sociale. Questo dibattito si salda con la critica femminista. A inizio anni '70 i movimenti femministi entrano in quella che viene comunemente chiamata la “seconda fase” e che si caratterizza per un’estensione dell'azione politica verso la dimensione del simbolico. In questi anni matura il convincimento che la lotta per l'emancipazione femminile non si debba condurre solo nelle piazze, ma anche e primariamente intervenendo sull’industria culturale, sulle sue logiche e sui modelli di femminile di maschile che essa veicola. Ad inaugurare la seconda stagione del Feminist Film Criticism è un saggio pubblicato su “Screen” da Laura Mulvey: Visual Pleasure and Narrative Cinema. Siamo nel 1975, Mulvey ha letto i testi di Baudry e di Metz e ne ha tratto una fondamentale lezione su come il cinema entri in gioco nei processi di costruzione dell'identità degli spettatori, compresa l'identità di genere. In “Visual Pleasure” la teoria del dispositivo viene impiegata per denunciare la complicità fra cinema hollywoodiano interessi patriarcali e per spiegare come i film classici costruiscono il primato del maschile sul femminile. L'analisi di Mulvey rileva, che nelle tipiche narrazioni proposte da Hollywood, il soggetto portatore dell’azione ha tratti maschili, mentre ai personaggi femminili viene riservato il ruolo di oggetto del desiderio: figure passive, negate, assenti. Che sia uomo o donna, lo spettatore è quindi indotto ad allinearsi con il personaggio maschile, a guardare il mondo con i suoi occhi, ad aderire al suo punto di vista che, secondo Mulvey, è un punto di vista irrimediabilmente patriarcale. La struttura del cinema classico sembra in effetti prevedere una posizione di visione pienamente gratificante solo per gli uomini. Nella sua empirica insostenibilità Visual Pleasure and Narrative 15 Cinema inaugura un ampio dibattito che si protrarrà per tutti gli anni '80 e che porterà la riflessione sulla spettatorialità cinematografica oltre il modello dello spettatore posizionato, facendo emergere una nuova e più complessa figura di fruitore: quella dello spettatore esuberante. Tracce di questo modello, oltre che nel dibattito femminista, si trovano anche nelle ricerche che vengono avviate in questo periodo in ambito storico e che ha il suo momento costitutivo nel Convegno di Brighton del 1978. Se una parte degli studi femministi, soprattutto dagli anni '90, si dedicano sempre più a una minuziosa ricostruzione dell’esperienza di fruizione degli spettatori, la consapevolezza dell'esuberanza dei pubblici di cinema dà vita a due ulteriori e più formalizzati modelli. 4. Difetti di visione Il primo di essi è lo spettatore complice che prende forma all'interno degli approcci cognitivisti all’esperienza filmica. Come ricorda Carroll, l’approccio cognitivista si pone in alternativa alle teorie psicoanalitiche del film e descrive l'esperienza di fruizione come un processo razionale e cognitivo, piuttosto che irrazionale e inconscio. Capofila dell’approccio cognitivista è Bordwell e la sua idea di fondo è che lo spettatore abbia un ruolo attivo nella visione. Nel compiere questa operazione, lo spettatore attinge a una serie di competenze che sono il portato delle sue esperienze passate di fruizione: diverso da spettatore a spettatore e in momenti successivi della vita. Anche in questo caso, l'idea di spettatore che emerge è quella di un soggetto complice, che volentieri collabora alla piena realizzazione del progetto comunicativo e culturale proposto dal testo filmico. Il secondo paradigma è quello dello spettatore resistente. elaborato dentro la scuola di Birmingham, lo spettatore resistente è portatore di un proprio bagaglio di conoscenze e di convincimenti, capitali culturali che modellano la sua esperienza di visione. Rispetto al fruitore descritto dalla teoria cognitivista, lo spettatore resistente manifesta però atteggiamento ostile verso il film e le sue proposte virgola che vengono giudicate ideologicamente compromesse e quindi eluse o sabotate. Il paradigma dello spettatore resistente trova, a partire dalla metà degli anni '80, un terreno particolarmente fertile negli studi sulle comunità culturalmente minoritarie: le pratiche e l'esperienza di visione delle comunità omosessuali, delle donne, di particolari gruppi etnici e delle audience di paesi non occidentali evidenzia una chiara disomogeneità rispetto ai modelli dominanti, che viene interpretata come l'esito di un'azione, di una lotta per il significato. la trasformazione dei modi della visione, all'inizio degli anni '90 virgola che anticipa il più eclatante cambiamento che si consumerà la fine del decennio con la diffusione di internet: la penetrazione capillare degli strumenti di video registrazione (VHS e lettore DVD) e di tecnologie in grado di ricreare nello spazio domestico condizioni analoghe a quelle della sala (home theater); i contenuti speciali dei dvd portano, nella seconda metà degli anni '90, immaginare un nuovo id del tipo di spettatore , dotato di una capacità di azione enormemente potenziate. Non è un caso che si utilizzano spesso formule o suffissi maggiorati vi, come iper-spettatore a spettatore aristocratico. Con la fine del 900 con la sola eccezione delle indagini storiche sulle audience del cinema il tema dello spettatore tende ad essere declassato. Il processo di digitalizzazione e la conseguente trasformazione delle tecnologie del sistema mediale ripropongono la questione della natura dei differenti dispositivi della comunicazione della loro azione. Serialità di Veronica Innocenti 1. Introduzione Quando pensiamo alla produzione in serie la prima cosa che ci viene in mente è la produzione cinematografica. L'idea di serializzazione evoca infatti una forma produttiva di stampo fordista, legata alla produzione di beni materiali attraverso una catena di montaggio in cui ogni pezzo prodotto è esattamente identico a tutti gli altri. Questa struttura produttiva, che si afferma principalmente in ambito industriale, si estende però molto presto anche alla produzione artistica e culturale sotto due punti di vista. - Da un lato, attraverso la riproducibilità dei supporti materiali e attraverso la possibilità di riprodurre in modo seriale singole unità identiche: è il caso delle copie che possiamo avere di un libro, di un disco. - Dall'altro lato, il processo di serializzazione riguarda la capacità di gestire la materia narrativa in modo tale da scomporla in più nuclei tematici, inserendo sempre elementi di novità ma al tempo stesso riproponendo situazioni e personaggi noti. Quando parliamo di serialità parliamo sia di pratiche produttive sia di strutture narrative. per il cinema la serialità sembra essere inscritta nelle caratteristiche stesse del mezzo, a partire dal flusso continuo 16 di fotogrammi che ne permette l'esistenza. Il cinema è per sua stessa natura molteplice: un film circola infatti in tante copie, ognuna delle quali può essere riprodotta più e più volte. La produzione in serie è originata da ragioni economiche. Ci si accorge infatti molto presto che frammentare si realizzi racconti significa mantenere vivo l'interesse degli spettatori, facendo leva sulla loro curiosità di sapere che cosa succederà dopo. Dunque, serializzare significa fidelizzare il proprio pubblico, in questo modo si riduce il rischio di flop e si lavora con formule standardizzate. Le audience hanno manifestato da sempre una grande propensione nei confronti dei prodotti seriali, dimostrandosi costantemente assetate di nuove storie, ma al tempo stesso determinate a voler ritrovare elementi ricorrenti nelle storie di cui fruiscono. 2. Le origini della serialità nel cinema e nella televisione A partire dalla seconda metà dell’800, il fenomeno della serializzazione si afferma dapprima in letteratura, grazie alla particolare organizzazione tecnologica ed economica. L'origine della serialità in ambito audiovisivo va ricercata principalmente nel romanzo a puntate, caratterizzato dalla suspense. La grande stagione del feuilleton, forma narrativa comparsa a inizio 800 e che consisteva in una sorta di supplemento al giornale che ben presto inizia a ospitare veri e propri romanzi a puntate, sancisce la nascita di una stampa popolare che si incentra proprio sugli elementi di ripetitività e narrazione interrotta capaci di garantire il piacere del pubblico nel ritrovare personaggi e ambienti già noti e già percorsi. Il cinema fino agli anni '10 del 900 si arricchisce di opere caratterizzate da una struttura episodica in cui una story-line viene portata avanti per numerose puntate. Ogni frammento in genere si interrompe proprio in un momento di massima tensione. Serializzare significa riproporre personaggi, ambienti, situazioni narrative che già si sanno essere gradito al pubblico, rendendo anche il prodotto cinematografico l'esito di un processo di produzione di tipo industriale che punta a ottenere il massimo rapporto costi-benefici. Che la produzione di contenuti audiovisivi adotta i meccanismi simili a quelli della produzione industriale non è necessariamente un male. I prodotti seriali non sono oggetti tutti uguali. Al contrario, i prodotti audiovisivi seriali sono il frutto di una modalità produttiva che non lesina sull’innovazione. La struttura tipica dei prodotti seriali rende possibili numerose invenzioni sul piano narrativo, favorendo l'inserimento di varianti, spesso costruite come episodi speciali, omaggi, citazioni ed episodi what if…, che aprono la narrazione su altri mondi possibili e su linee narrative ancora poco esplorate. il fruitore non si trova in difficoltà davanti episodi anomali rispetto al canone della serie che portano i personaggi in situazioni diverse da quelle abituali, poiché sa che le variazioni sul tema sono solo temporanee e ancora più gradite. pensiamo agli episodi doppi delle sitcom: è il caso ad esempio dei numerosi episodi doppi in “Friends”, spesso ambientati al di fuori di New York (Gran Bretagna), di frequente posizionati a conclusione di una stagione e in cui hanno luogo eventi che rimettono tutto in discussione lasciando nello spettatore la volontà di saperne di più. 3. Le forme seriali per la televisione Nell'ambito della produzione cinematografica i procedimenti di serializzazione esistono da sempre. negli ultimi anni la forma narrativa della serie televisiva ha riscosso sempre più successo e attenzione da parte del pubblico e da parte degli studiosi. a partire dagli anni '80 la produzione di narrazioni seriali per la televisione ha coinciso con il formarsi di nuovi modelli narrativi, con peculiari forme di produzione e a partire dal 1981, con la serie “Hill Street giorno e notte” si inaugura la stagione della costruzione drammaturgica multistrand, cioè una narrazione multilineare, che affronta contemporaneamente più vicende e più personaggi e permette quindi di mettere in atto quei processi di fusione tra serie e serial che sono alla base dei processi di serializzazione della serie tipici della televisione contemporanea. di fatto il prodotto serie, viene soppiantato dal modello nuovo che fonde l'auto conclusività dei personaggi fissi tipici della serie con la sospensione della narrazione e la flessibilità dei personaggi tipica della soap opera. quel che ne esce altro non è che la forma seriale degli anni 2000: un prodotto ibrido, in cui alcune questioni trovano soluzione all'interno del singolo episodio (o blocco di episodi) e altre si protraggono invece per tutta la durata della stagione. Pensiamo, ad esempio, a una serie tv ad alta tensione come “24”: il protagonista è l'agente federale Jack Bauer. In questa serie il grado di serializzazione è molto elevato: poiché la minaccia è sempre incombente gli episodi non si concludono mai con una risoluzione, ma lasciano sempre lo spettatore con il fiato sospeso. È però altrettanto vero che ogni 4 o 5 episodi assistiamo alla risoluzione di alcune vicende: ciò garantisce una momentanea tregua allo spettatore e permette l’introduzione di nuove tematiche. All’interno di ogni episodio c’è sempre una STORIA CENTRALE (anthology plot) che si conclude all’interno dell’episodio stesso ma c’è anche una CORNICE che si prolunga per più 17 paiono, sin dai primi decenni del XX secolo, evidenti agli occhi di artisti e commentatori. Due sono i fattori più rilevanti: la frammentazione e l’autonomia dell’immagine. Rispetto all’interpretazione teatrale, quella cinematografica è sottoposta a parcellizzazione in differenti modi. È il corpo stesso dell’interprete a essere sezionato (dettagli di occhi, mani, braccia…), ciò comporta un differente impiego del corpo attoriale, e una sua diversa concezione da parte dello stesso interprete. - Da una parte, l’unità fisica dell’attore è pregiudicata dall’organizzazione della successione delle immagini: è il caso di alcuni celebri esperimenti di montaggio degli anni 20 del regista russo Kulesov ma anche della pratica più diffusa di stuntmen e controfigure. - Da un’altra parte, ciò ha condotto a una valorizzazione di specifiche parti del corpo, in funzione di una loro maggiore efficacia significativa, narrativa ed emotiva; su tutte, il volto, attraverso l’impiego del primo piano. Il primo piano ha costituito un elemento per definire l’identità dei personaggi. Una volta data questa priorità a personaggi psicologizzati, si è affermata progressivamente l’idea della personalità. Il volto è divenuto anche il luogo cinematografico per antonomasia, la sede in cui più chiaramente si affermano le emozioni; il volto è inoltre l’oggetto meglio capace di specificare tratti identificativi non solo di un soggetto, ma anche di una classe o di una tipologia. Infine, lo stesso controllo da parte dell’interprete sulla propria immagine è di fatto impossibile, salvo in virtù di specifiche clausole contrattuali o di scelte poetiche particolari: l’immagine è svincolata dall’attore che ha contribuito a produrla, e può essere maneggiata, alterata, riprodotta e diffusa ben al di là della sua volontà. Il contributo di ogni interprete alla rappresentazione cinematografica appare unico: è sufficiente eseguire un confronto per verificare l’insostituibilità di uno specifico attore (differenze fra la recitazione composita di Paul Muni in “Scarface – Lo sfregiato” di Hawks e quella nevrotica di Al Pacino nel remake omonimo del 1983 di Brian De Palma). 3. Una questione di stili: le forme dell’attore cinematografico L’attore cinematografico è una funzione della rappresentazione cinematografica, soggetta a variare in base alle trasformazioni storiche, estetiche e produttive della rappresentazione stessa. Una molteplicità di tipologie attoriali si è succeduta lungo la storia del cinema in base alle trasformazioni stilistiche, alle innovazioni tecnologiche e alle esigenze culturali. Nel cinema-attrazione la recitazione spesso mantiene i codici stabiliti nell’ambito originario: il circo, la danza, il teatro di prosa… La funzione dei gesti e della mimica è spesso dimostrativa come nella pantomima: a un gesto o a una posa corrisponde uno specifico significato. La transizione a uno stile recitativo fondato sulla verosimiglianza e la continuità avviene con la progressiva egemonia della narrazione. Il modo di rappresentazione negli USA nel corso degli anni 10 ha maggiormente integrato la recitazione in un sistema nel quale la dominante è costituita dalla narrazione e le differenti componenti le sono in qualche modo funzionali. Questo insieme di processi, uniti all’affermazione di una cultura della celebrità nel corso del XIX secolo, ha contribuito all’affermazione del divismo nel nascente cinema hollywoodiano. Infatti, il divismo sin dagli albori di Hollywood è stato un fattore di identificazione e differenziazione del prodotto; lo star system ha contribuito a stabilizzare l’offerta e la domanda di prodotti cinematografici e allo stesso tempo proprio lo strumento del divismo nel sistema produttivo hollywoodiano, ha consentito sul piano ideologico di preservare una concezione di soggettività unitaria, minacciata dalle trasformazioni inerenti ai processi della modernità. Il modello attoriale hollywoodiano soggetto all’egemonia narrativa non è unico. Non lo è nel sistema hollywoodiano stesso (Chaplin, Astaire, The Rock), né su scala internazionale. Per nominare solo alcune fasi particolarmente significative della storia del cinema, per il montaggio sovietico le opzioni sono molteplici: dall’impiego dell’attore come semplice materiale costruttivo, alla concezione dell’attore come una macchina composita, fino all’attore come corpo generatore di senso. Nella storia del cinema mondiale si è affermato il modello del non professionista, dal periodo interbellico all’esplosione del fenomeno durante il Neorealismo italiano. Lo stesso cinema hollywoodiano, successivamente alla crisi dello studio system, ha ridefinito il fenomeno divistico. Al fianco della concezione della star come personalità, essa stessa soggetta a modificazioni, si sono affermate la star come professionista, diligente esecutore della parte, e la star quale performer, la cui interpretazione costituisce un valore aggiunto della produzione, come per Robert De Niro, Al Pacino o Meryl Streep. La svolta digitale del cinema contemporaneo ha nuovamente problematizzato la natura dell’interprete e molte nozioni consolidate. La natura mutevole dell’attore richiede prospettive di studio internamente coerenti, ma adeguate a un oggetto sfuggente. 4. Lo specchio a 4 facce: prospettive sulla recitazione cinematografica 20 Esistono 4 punti di vista dai quali osservare il fenomeno dell’attore cinematografico. Si tratta di 4 metodi di lavoro: iconologia e studi sulla visione, storia dello spettacolo, studi sul modo di produzione e studi divistici. La PROSPETTIVA ICONOLOGICA assume la presenza umana nella rappresentazione per come essa viene figurata; l’attore viene esaminato come motivo visivo all’interno di un testo o di una serie di testi. La prospettiva iconologica ha una sua valenza complessiva, ma risulta particolarmente proficua nello studio del cinema muto, nel quale la ricerca di un’efficacia plastica della presenza umana è spesso prioritaria. Ad esempio, per comprendere il funzionamento dell’attore nel cinema espressionista tedesco è utile considerare la recitazione antimimetica e con posture esasperate che caratterizza “Il gabinetto del Dottor Caligari” di Robert Wiene (1919). Tuttavia, lo stesso cinema contemporaneo, nel quale le tecnologie digitali hanno accentuato le possibilità di manipolazione e invenzione visiva, sollecita analoghi approcci. Inoltre, la prospettiva iconologica permette di raccordare la riflessione sull’attore cinematografico con i più ampi problemi di storia della visione (come si rappresenta la presenza umana?). La PROSPETTIVA DELLA STORIA DELLO SPETTACOLO considera l’attore nel più ampio sistema dello spettacolo e privilegia il mestiere dell’attore e le condizioni in cui esso opera. Infatti, gli interpreti cinematografici attraversano percorsi formativi. Un attore declina il proprio mestiere in una molteplicità di forme e di media che contribuiscono a plasmarne lo stile. Un simile approccio consente di ricostruire la forza esercitata da istituzioni, media e prassi professionali nel definire lo stile di recitazione, la concezione dell’interprete e lo spazio assegnatogli da una cultura scenica. Tale prospettiva può chiarire l’influenza di altre forme spettacolari nella definizione del lavoro attoriale (sistema teatrale ottocentesco – genesi studio system; organizzazione diva film per moduli – da tradizione grande attore italiano). Infine, l’attenzione alla dimensione stilistica considera il lavoro dell’attore quale contributo attivo alla rappresentazione. Gli STUDI SUL MODO DI PRODUZIONE si concentrano sull’organizzazione e realizzazione e sulle più ampie esigenze culturali cui queste rispondono. Un determinato sistema riproduttivo assegna ruoli diversi agli interpreti in base alle esigenze complessive di organizzazione e divisione del lavoro. ad esempio, notevoli sono le differenze fra la rigida divisione professionale dello studio system hollywoodiano e il Neorealismo. La varietà dei modi di produzione, in base alle epoche storiche e ai contesti geopolitici, induce a comprenderne meglio le logiche per poter definire adeguatamente la funzione svoltavi dagli interpreti; anche nozioni apparentemente univoche quali quelli di attore, caratterista o stella richiedono di essere vagliate alla luce di specifiche modalità di produrre e suddividere i ruoli professionali. Gli STUDI SUL DIVISMO sono stati tra i primi dei filoni degli studi cinematografici a cogliere il funzionamento dello star system e della singola stessa cui si richiede un’attenzione alle modalità con cui questa è costituita attraverso una pluralità di apparizioni filmiche ed extrafilmiche definita dal teorico inglese Dyer, polisemia strutturata. Da un lato, per descrivere una star è necessario costituire un intertesto che includa le manifestazioni extrafilmiche della sua immagine: materiali promozionali, apparizioni pubbliche, interviste, biografie ecc. Dall’altro lato, la star configura una personalità esemplare attraverso i suoi tratti caratterizzanti, sulla base dei modelli di individualità in una data società e in uno specifico periodo storico. Infatti, le star sono una delle realizzazioni più complesse ed efficaci della più ampia cultura della celebrità, caratteristica della modernità e della postmodernità. Ad esempio la parziale trasformazione delle idee sulla femminilità avvenuta nella cultura italiana del secondo dopoguerra, sulla relazione fra la donna e una certa concezione della nazione italiana, e sulla selezione e formazione delle attrici contribuisce a generare il fenomeno delle maggiorate negli anni 50, da cui emergeranno Sofia Loren, Gina Lollobrigida e Silvana Pampanini. L’attenzione alla fruizione delle star nei processi di identificazione collettiva è cruciale per l’incontro fra studi divistici e studi culturali. Infine, star e celebrità hanno una funzione rilevante nell’industria cinematografica e mediatica nella pianificazione di strategie industriali e commerciali e nella cooperazione fra media. 5. Indagine su un attore al di sopra di ogni sospetto Un attore di considerevole importanza nel cinema italiano tra gli anni 60 e 80 è Gian Maria Volonté. Le interpretazioni di Volonté offrono 2 modelli preponderanti, riassumibili in DIMENSIONE ECCENTRICA E ECCESIVA e in quella CENTRATA E CONTENUTA: da un lato, personaggi in costante esplosione, il cui corpo è contenuto nell’inquadratura (“Per un pugno di dollari” di Sergio Leone); dall’altro lato, profili rigidi e stabili, centrati (“Il sospetto” di Francesco Maselli). Tra i 2 gruppi di prestazioni, le prove più eclatanti dell’attore sono sotto la direzione di Elio Petri. I due modelli corrispondono anche a modalità di messa in scena del corpo attoriale differenti: dalla 21 prevalenza del volto, nei film di Leone; al privilegio del corpo negli altri film menzionati. Volonté ha diverse eredità attoriali: il sapere e l’efficacia scenica del teatro italiano all’antica nella frequentazione dell’Accademia d’arte drammatica; l’approccio critico al personaggio e alla parte, e la coscienza politica del lavoro di attore, diffusi nella cultura scenica italiana del secondo Novecento, tramite la ricezione di Brecht e Strehler; il ruolo del corpo e la prassi recitativa come atti militanti, propri al teatro di intervento e agitazione nell’Italia degli anni 60 e 70. A questo insieme di elementi si aggiunga la versatilità interpretativa, maturata nelle molteplici esperienze teatrali, televisive e cinematografiche lungo tutto il corso degli anni 60. Infine Volonté può essere considerato anche nei termini di una star, traccia il profilo di un divo impegnato a decostruire modelli e stereotipi diffusi, e a combattere una battaglia artistica contro tipologie di impiego passivo degli attori, in nome di una cultura partecipativa e consapevole. Tutto ciò unito a singole scelte esistenziali – il rifiuto di interpretare determinati ruoli, la vicinanza politica alla sinistra extraparlamentare e al PCI, l’impegno nella difesa sindacale dei diritti degli attori -, contribuisce a definire un divo minoritario, ma celebrato per il proprio stile di vita da comunità di pubblico selezionate, per confermare le proprie opzioni identitarie attraverso la predilezione per questo eccezionale interprete. Critica di Claudio Bisoni 1. Introduzione La critica cinematografica compie un secolo nel 2010. Gli spazi che quotidiani e settimanali dedicano alle recensioni dei film diminuiscono sempre più. D’altra parte, nell’epoca di internet, la critica si configura come un’attività del pensiero sempre più a portata di mano, con la conseguenza che siamo circondati da un proliferare di discorsi che riguardano il cinema: siti di argomento cinematografico, dibattiti su social network… - PRIMA PARTE  ricostruzione tappe di sviluppo della critica di cinema nel corso del 900 (Francia e Italia) - SECONDA PARTE  attività di valutazione/interpretazione del film - TERZA PARTE  scenario in evoluzione della critica cinematografica sul web 2. Dai primi passi al consolidamento istituzionale La stampa specializzata di tipo corporativo-professionale nasce relativamente tardi rispetto alla data ufficiale di nascita del cinematografo sia in Italia sia in Francia. Per i primi 10 anni del 900 la produzione discorsiva promuove trame dei film, pubblicizza le novità tecniche per gli addetti ai lavori, quindi diffusione di giornali, gazzette, bollettini tecnici. Italia – In Italia, nel biennio 1907-08, vi è la fondazione di alcune riviste di cinema: “La lanterna”, “Café Chantant” e “La rivista fono-cinematografica”. L’aumento della durata dei film e la nascita di un sistema narrativo sono fattori determinanti nello spostare l’attenzione sui problemi estetico- espressivi del nuovo mezzo. Intorno a metà anni 10 nasce l’uso di affidare ai letterati le rubriche cinematografiche. Ci si interroga sull’artisticità del cinema e sullo statuto dell’autore cinematografico, cioè sulla figura che istituzionalmente può essere ritenuta responsabile del risultato estetico della singola opera. In Italia gli anni 30 e 40 sono un periodo di consolidamento delle istituzioni cinematografiche sotto il controllo del fascismo. Bisogna ricordare il ruolo avuto da una rivista come “Cinematografo” di Blasetti, che ingaggia una campagna per il rilancio della produzione italiana. Alle iniziative giornalistiche si accompagnano quelle istituzionali: L’Unione del Cinema Educativo, LUCE. Grazie ad alcune firme cominciano a circolare discorsi di una certa complessità sul cinema americano, il divismo, il rapporto fra cinema e cultura di massa. La critica cinematografica conquista dignità sui quotidiani. Sono per lo più intellettuali di formazione umanistica a occupare il ruolo di critici cinematografici sui grandi giornali: Filippo Sacchi per il “Corriere della Sera” e Mario Gromo sulla “Stampa”. La rivista “Cinema”, sotto la direzione di Vittorio Mussolini e poi di Gianni Puccini, fra fine anni 30 e primi anni 40 ospita una serie di giovani firme che talvolta avranno successo in campo registico. È una di quelle “riviste di fronda”, cioè quelle iniziative che, dall’interno del regime, si proponevano di intaccarne i principi. È legittimo dubitare di ciò ma è da notare che la pubblicazione produce le riflessioni più interessanti sul legame fra realismo e ambientazione, sul rapporto fra cinema italiano, paesaggio e identità nazionale, sull’importanza della tradizione letteraria italiana, su una nuova idea di cinema che anticipa per molti versi la poetica neorealista del secondo dopoguerra. Francia – In Francia, già a partire dal 1914, la stampa cinematografica specializzata si espande in modo energico (prima epoca d’oro delle riviste di cinema). Il ruolo di critico in senso stretto è 22 - MINI RECENSIONE: settimanali, 2.500-4.000 battute - RECENSIONE STANDARD: 5.000-8.000 battute, format dominante - RECENSIONE LUNGA da rivista specializzata, fra le 10.000-20.000 battute 6. La critica di cinema nella cultura digitale La recensione è un esempio perfetto di persistenza nonostante il digitale. Essa rimane uno dei format di scrittura tuttora più praticati da blogger e critici del web. Tuttavia il cambiamento che il web ha introdotto nel mondo della critica cinematografica è evidente: 1. Assistiamo a una mescolanza delle tipologie discorsive. Anche la recensione è sempre più liberata da vincoli (uso di un linguaggio colloquiale che richiama la formula diaristica) 2. Tramite Internet si assiste a una ridefinizione della nozione di gusto. Si assiste a un fenomeno inverso: i differenti stili di consumo e apprezzamento culturale influenzano e/o generano reti sociali. 3. Online si ridefinisce il ruolo dell’expertise, dell’esperto di qualsivoglia materia, cinema incluso. Funziona come un sistema meno affidabile e chiuso ma anche molto più testabile. Tutti i fenomeni fin qui considerati rispondono a una logica profonda di deistituzionalizzazione della critica cinematografica. Al punto che per i più scettici si può parlare di una vera e propria scomparsa: la critica si sarebbe dissolta nel trionfo dell’opinionismo incompetente reso pubblico dal web. Luca Malavasi sostiene che la maggior parte dei portali di cinema italiani si ispiri a un modello di critica conservatore, interamente costruito sull’emulazione delle formule proprie della critica cartacea, rivolto a uno spettatore ideale ingordo di film ma sostanzialmente indifferente alla qualità della scrittura e del pensiero. D’altra parte i difensori della rete insistono sull’EFFETTO QUANTITATIVO: il web ha generato l’avvicinamento di un gran numero di utenti al discorso critico, cosa che è da considerarsi in termini positivi, indipendentemente dal livello dei risultati. Ma nessuno nega il carattere di novità rappresentato dall’irruzione delle tecnologie digitali nel campo della cultura umanistica. Lo stesso può dirsi del cinema e della cultura cinematografica nelle loro totalità. Per quanto riguarda la critica di cinema è qui per restare. Sonoro di Paola Valentini DIFFICILE*** Teoria di Ruggero Eugeni 1. Commenti Il cinema si presenta fin dalla sua nascita accompagnato da un insieme di brevi interventi occasionali; questi testimoniano il suo immediato radicamento all’interno di una multiforme relazione di saperi scientifici, politici, filosofici, religiosi… di fine 800, per altro verso l’esigenza di donare un senso socialmente condiviso al nuovo oggetto di esperienza. Può trattarsi di interventi che affrontare il fatto cinematografico a partire da interessi pratici. Oppure possono essere testimonianze dei primi spettatori soprattutto se questi sono giornalisti o scrittori. 2. Discorsi A partire dalla seconda metà del primo decennio del 900, e soprattutto dagli anni 20 in poi, si fa più evidente e continuo l’intervento di giornalisti, organizzatori culturali, scrittori e registi nella riflessione sul cinema. Esistono due ordini di influenze. Per un verso, il cinema adotta la forma del lungometraggio, viene accolto in sale appositamente attrezzate per la proiezione e acquisisce quindi una visibilità sociale più definita. Per altro verso, l’opera di legittimazione del cinema come arte moderna si lega alla riqualificazione della figura ottocentesca dello studioso o del letterato nel nuovo ruolo di “intellettuale”, operante nel contesto industriale della società di massa. Di qui un legame stretto fra gli anni 10 e gli anni 30 tra il cinema e le avanguardie artistiche, promotrici di un rinnovamento in senso moderno delle arti e della cultura: saranno in particolare il Futurismo e il Surrealismo a incidere sulla teoria del cinema. In questo senso quasi tutte le riflessioni sul cinema di questo periodo sono state considerate “moderniste”, in quanto esaltano la capacità del cinema di riformulare il reale mediante le moderne tecnologie della percezione. Le forme del discorso teorico rimangono fino agli anni 30 piuttosto frammentate: articolo su quotidiano o rivista, alcuni, riviste specializzate… I temi degli interventi sono anch’essi vari. Una prima ondata di studi è caratterizzata dalla preoccupazione di annettere il cinema al campo di discussione dell’estetica, legittimandolo in quanto forma d’arte. Alcuni sostengono che 25 l’appartenenza del cinema al campo dell’arte derivi dal suo costituire un tipo di arte sincretica, in grado di conciliare arti plastiche e musica; è la posizione espressa da Canudo. Altri ritengono, invece che, il cinema costituisca una forma d’arte in virtù di caratteristiche proprie: queste consentono un tipo di esperienza del tutto inedito, che né il vivere ordinario né nessuna altra arte precedente avevano reso possibile. Un primo gruppo di studiosi insiste sul fatto che il cinema esternalizza e rende oggettivi i movimenti interni e soggettivi della coscienza e del pensiero. Nel caso di Ejzenjstejn è lo strumento del montaggio a tradurre in forme oggettive una serie di processi di pensiero collegati a processi emozionali, innescando una forte sintonia emotiva e intellettuale fra il film e lo spettatore. Opposta, ma complementare, la posizione di un secondo gruppo di studiosi definibili “rivelazionisti”: in questo caso la felice anomali dell’esperienza filmica consiste nell’assistere a un’esteriorizzazione “epifanica” degli aspetti segreti e normalmente invisibili del mondo reale. Ad esempio, Epstein – regista e teorico dagli anni 20 agli anni 50 – indica con il termine “fotogenia” il rivelarsi di qualità sensibili e morali nascoste del mondo visibile, rivelazione resa possibile da un “cinema puro”. Per Balazs il cinema rende L’uomo visibile, ovvero permette al suo corpo e al suo volto di esprimere la sua anima: con ciò non si intende solo la capacità espressiva di volti e corpi ma anche quella delle folle, dei paesaggi naturali o di quelli industriali. La tendenza “esternalista” e quella “rivelazionista” sono opposte ma complementari: in entrambi i casi il cinema mobilita una tecnologia che coinvolge in modo inedito i sensi, l’intelletto e le emozioni dello spettatore e produce in modo altrettanto inedito un movimento artificiale di manifestazione. Il cinema si pone come un dispositivo artificiale di regolazione dei rapporti fra soggetto e oggetto. Una seconda ondata di studi si interroga sulla possibilità di assimilare il cinema a un linguaggio dotato di regole, norme e grammatiche specifiche. Per la scuola dei formalisti russi il film assume la piatta realtà fotografica delle immagini per manipolarla attraverso una serie di procedimenti di costruzione artificiali e convenzionali di carattere tecnico-linguistico che compongono una cine- lingua. È chiara l’opposizione alle posizioni del gruppo precedente e in particolare ai rivelazionisti: non è il reale a rivelarsi attraverso l’inquadratura ma il linguaggio cinematografico a esprimere il reale attraverso il montaggio. Anche per Arnheim, teorico dell’arte tedesco, il film introduce una serie di “fattori differenzianti” che dipendono direttamente e automaticamente dagli elementi tecnici che compongono la scrittura cinematografica e si colloca quindi già nella singola inquadratura. Arnheim avrà grande successo in Italia. Una terza ondata di studi si interroga circa il ruolo del cinema nella società, il suo statuto sociale e di mezzo di comunicazione. Per il filosofo tedesco Walter Benjamin occorre distinguere fra il cinema in quanto dispositivo tecnologico (Apparat) e il medium, che egli intende come l’insieme delle condizioni storiche, culturali e tecnologiche che determinano l’esperienza percettiva dei soggetti sociali. Per altro verso il cinema può rappresentare un sistema di training e di assuefazione dei soggetti sociali alle nuove condizioni di percezione artificializzata proprie della modernità, permettendo una nuova “innervazione” della sensibilità moderna. L’idea che il cinema possieda un “impatto sociale” si esprime in varie altre forme. Interessante è il caso dell’Italia, dove vari intellettuali sono molto attenti alle macro e micro trasformazioni introdotte dal cinema nel tessuto sociale e nella nascente cultura di massa degli anni 20 e 30: si pensi alle osservazioni circa i cambiamenti nell’arredamento, nell’abbigliamento, nella mimica e perfino nella conformazione fisica dei soggetti sociali; o alla descrizione di una “nuova Alessandria”, sorta di villaggio globale in cui il cinema convive con la rete degli altri media dell’epoca avanzata da Eugenio Giovannetti. 3. Discipline Nel secondo dopoguerra: - Il cinema è divenuto un’istituzione centrale della società occidentale, è sempre più frequente il caso di registi-teorici e teorici-registi. - La riflessione sul cinema si istituzionalizza all’interno di università e centri di ricerca. Si tratta di due tendenze opposte che alternano momenti di distacco a momenti di dialogo. Il primo ordine di fenomeni viene ben espresso dal gruppo di critici e teorici raccolti intorno alla rivista francese “Cahiers du cinéma”. Esso offre un’esperienza esistenziale che richiama tanto gli autori quanto gli spettatori a precisi criteri di responsabilità. La seconda tendenza si esprime attraverso la nascita della filmologia, un tentativo di inserire il cinema tra gli oggetti di studio accademici grazie a un approccio interdiscplinare. A partire da una distinzione 26 fra fatto filmico e fatto cinematografico, la filmologia coinvolge psicologi, psicoanalisti, sociologi e antropologi, filosofi ed estetologi, storici dell’arte. I suoi esiti sono differenti, ma tutti improntati a una controllata contaminazione di strumenti. Morin analizza il cinema da un punto di vista antropologico e psicologico, e vede in esso il luogo di sintesi di oggettività e soggettività, immagine e immaginario, tecnologia e magia. Un evento capitale per l’istituzionalizzazione della riflessione sul cinema è l’avvento nella cultura francese dell’inizio degli anni 60 di nuovi paradigmi disciplinari, capaci di rinnovare profondamente il panorama delle scienze umane. Per Metz il cinema è un linguaggio, la sua natura linguistica deriva dall’ipotesi di applicare al cinema concetti elaborati in riferimento alle lingue naturali della linguistica strutturale. Per un verso, la semiotica del cinema segue lo sviluppo della semiotica tout court: da un interesse per i problemi del segno filmico (Eco e Pasolini) essa si sposta dapprima verso un interesse per il testo filmico; per poi leggere il testo nei suoi rapporti con il contesto di recezione. In quest’ultimo ambito emergono sia teorie di tipo enunciazionale, attente a comprendere come il testo filmico offra una specifica “posizione” al proprio spettatore, sia teorie di tipo pragmatico o semiopragmatico, che esaminano in che modo fasci di determinazioni socioculturali e meccanismi testuali lavorino congiuntamente per dar modo all’esperienza spettatoriale di funzionare a dovere. Per altro verso, la semiotica si contamina con altri approcci tipici dello stesso ambiente culturale, in particolare la psicoanalisi e la critica delle ideologie. Sul versante psicoanalitico è forte l’influsso della revisione freudiana attuata da Lacan: lo spettatore cinematografico viene integrato in un “dispositivo” che, da parte, lo immerge in uno stato di regressione simile al sogno e, dall’altra, gli permette di rivivere l’esperienza primaria del riconoscimento allo specchio che fonda la costituzione del Sé del bambino. Altri lavorano in chiave semiotico-psicoanalitica non sul cinema ma sui film, come Bellour. Sul versante della critica dell’ideologia, l’influsso principale proviene dalla revisione di Marx attuata da Althusser, che porta al centro dell’attenzione il concetto di rappresentazione. Il cinema è visto in questo caso come una MACCHINA DI PRODUZIONE E RIPRODUZIONE DELLE IDEOLOGIE per due ragioni: da un lato i contenuti che veicola, dall’altro la sua natura di prodotto della tecnologia capitalista. La discussione coinvolge vari intellettuali che ruotano principalmente intorno alle riviste Cinéthique e Cahiers du cinéma all’inizio degli anni 70. Nel frattempo il dibattito derivante dalla semiotica e dalle sua contaminazioni si estende dall’ambito francese a quello anglosassone: nel 1971 viene fondata in Inghilterra la rivista “Screen”, mentre negli USA la teoria del cinema sul modello francese si sposa con il rinnovamento post 1968 degli interessi accademici. In questo contesto nascono i “Feminist Studies”. Ad esempio, Mulvey osserva come il piacere dello sguardo offerto dal cinema classica possieda un’origine e una destinazione maschile. Proprio dall’interno del dibattito anglosassone emergono nel corso degli anni 80 due forme di reazione polemica alla “teoria” continentale. Da un lato, gli studi culturali dedicano particolare attenzione al ruolo della cultura pop, dei media e del cinema; il tipo di spettatore o di spettatrice che essi configurano è lontano da quello della semiotica degli anni 70, fortemente determinato dalle dinamiche testuali. Il nuovo interesse per lo spettatore in quanto soggetto sociale si traduce sia in studi sulla contemporaneità sia in un rinnovato interesse per l’esperienza dello spettatore delle origini del cinema, all’alba della modernità. Dall’altro lato gli studi cognitivi attaccano ancora più duramente la Grand Theory semiotico-psicoanalitica continentale in quanto onnicomprensiva; gli studiosi propongono piuttosto la costruzione di teorie di medio livello ben formulate nei termini della filosofia analitica, che ritornino a considerare lo spettatore reale. La cornice disciplinare proposta è quella del cognitivismo, un aggregato di discipline che modellizza i processi di conoscenza a partire dall’idea che la mente umana funzioni come un software: essa “processa” informazioni percettive che arrivano dal “basso” con l’intervento dall’”alto” di schemi complessivi. L’approccio cognitivista è orientato a valorizzare gli aspetti della “cognizione fredda” propri dell’esperienza filmica; tuttavia, alcuni studiosi hanno applicato i suoi modelli anche alla “cognizione calda”, come Smith. 4. Pensieri Nel corso degli anni 90 del 900 si delineano le condizioni che determinano il panorama attuale della storia del cinema. La prima condizione consiste nella conferma della natura istituzionale della ricerca, evidenziata da uno spostamento dei “Film Studies” dalla teoria alla filosofia del film. Il ritorno della riflessione verso l’area filosofica permette che alcuni temi e approcci degli anni 70 e 80 vengano aggiornati e rilanciati: ad esempio, Zizek riprende l’approccio psicoanalitico al cinema. La seconda condizione della riflessione contemporanea è la graduale sparizione del cinema in quanto istituzione determinata e riconoscibile: con i nuovi devices digitali i film vengono visti non solo al cinema ma altresì, in casa, al computer… Nel complesso cambiano la relazione fattuale e 27 la nuova generazione erano destinate a cambiare le carte in tavola. I “giovani turchi” si trovarono costretti a schierarsi. Alcuni di loro, come Godard, si gettarono a capofitto nella pratica marxista- leninista, trasportata nella produzione cinematografica. La cinefilia, negli anni che vanno almeno fino al 1977, in Europa viene scossa dalle novità ed è costretta a revisionare i criteri attraverso i quali si schiera a favore o contro un film. Qualche esempio: i “Cahiers du cinéma” all’inizio degli anni 70 si votano al maoismo e abbracciano le esperienze del cinema diretto, del cinema politico… in Italia, la rivista “Ombre Rosse” di Fofi, mescola fin dal titolo l’amore per il western hollywoodiano e la militanza politica: riservava il suo interesse al cinema popolare e al cinema del Terzo Mondo, in quanto espressione di alterità espressiva. Anche i festival vengono contestati e riconfigurati. A ben pochi ormai interessavano Hitchcock e Bergman, ma si continuava a mescolare Hollywood con il suo opposto (cinema africano, brasiliano, orientale), sostenendo comunque una politica degli autori, in questo caso però registi in grado di sabotare politicamente e ideologicamente i sistemi di potere. La cinefilia militante continuava a mettere al centro del proprio discorso il cinema, interpretato però non più come mezzo artistico ma come mezzo discorsivo necessario alla lotta politica, alla formazione ideale e culturale delle coscienze… 5. Cinefilia magnetica La cinefilia ha rischiato di farsi travolgere insieme al tramonto della lotta politica. Le novità provenienti dal sistema televisivo e il lento affermarsi dei sistemi di registrazione e riproduzione domestica mutarono lo scenario in maniera radicale. La diffusione delle nuove tecnologie ha a che fare con processi apparentemente lontani, come ad esempio i primi tentativi di studiare il linguaggio del cinema nelle scuole. I cineclub persero la propria centralità mentre lo spettatore casalingo diventò il principale consumatore di cinema. Gli anni 80 e i primi anni 90 sono considerati l’inizio del periodo in cui il cinema non è più il medium principale. Ecco che nuove generazioni di cinefili possono formarsi attraverso le grandi rassegne televisive o film in videocassetta, come narra del resto la leggenda del regista più cinefilo dei tempi recenti, Quentin Tarantino, giunto alla sua enciclopedica conoscenza della storia del cinema grazie al lavoro di impiegato in un videonoleggio. Eppure cresce silenziosamente una NUOVA CINEFILIA, segnata dal rapporto culturale dello spettatore con i “film fuori della sala”: il collezionismo casalingo, l’ingresso del cinema nelle università, sono tutti aspetti che stimolano la pratica cinefila, pur mutandone ancora una volta i connotati. 6. Cinefilia postmoderna La data simbolica del 1995, centenario della nascita del cinema, ha costituito uno spartiacque simbolico anche per la cinefilia. Si è fatta strada la consapevolezza che, grazie al lavoro di storici e archivisti, alla ricerca delle università e al ruolo delle nuove tecnologie, la storia del cinema sia ormai emersa nella sua completezza. Tuttavia, si insinua il sospetto che il medium cinematografico, dominante nel 900, sia ormai lontano dal suo apice e marginalizzato da altri mezzi, in particolare dagli strumenti informatici e digitali. Tra le novità più eclatanti, va annoverata una tendenza internazionale, particolarmente forte in America e in Italia, dedicata alla rivalutazione del cinema popolare. Che lo si chiami trash, stracult, questo vasto repertorio di horror, poliziesco, erotico e ibridi vari, ha scatenato un seguito imponente, di stampo cinefilo. Ora come allora, si ricorre alle interviste documentate nei confronti di regi e a revisioni analitiche del giudizio critico. Collane di VHS e DVD, festival specializzati, riviste di settore, siti web e altri luoghi di alta visiblità. Per il resto, i film degli anni 90 hanno interiorizzato lo sguardo cinefilo fino a sostituirsi a chi di solito lo rappresentava ovvero gli spettatori. 7. Nuova cinefilia Ai giorni nostri, quando si sarebbe pensato che la cinefilia potesse venire travolta dai new media e dalla disgregazione del consumo di cinema in sala, si assiste al processo opposto. I social network, i blog e i forum sono diventati negli ultimi anni indispensabili strumenti per la trasmissione della memoria cinematografica e per la condivisione delle proprie idee; si tratta del corrispettivo del cineclub d’un tempo. Sono nate numerose testate online, piattaforme streaming per la visione legale di film rari e poco distribuiti, si è creato persino un movimento – New Cinephilia – che teorizza un importante cambio di paradigma: la nuova cinefilia rinuncia a difendere a tutti i costi la sala cinematografica, pratica il peer-to-peer allo scopo di scambiarsi lungometraggi e filmografie, vede film su qualsiasi tipo di supporto e soprattutto si connette con altri appassionati. La cultura 30 cinematografica ha dimostrato una vitalità forse imprevista e ha fatto sì che le nuove generazioni si siano rese protagoniste di una riappropriazione forse ancora acerba ma vitale. 31
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