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Il cinema: percorsi storici e questioni teoriche, Appunti di Storia Del Cinema

Troverai nel documento i riassunti del libro "Il cinema: percorsi storici e questioni teoriche". Non ho inserito il primo capitolo perché non è di aiuto, usa gli appunti del professore, ti saranno molto più chiari (: Inoltre nella prima parte troverai la sezione storica, mentre nella seconda i saggi che ti consiglio di studiare molto bene. Il file è adatto a chi segue il corso di Storia del cinema e anche per Storia delle teoriche del cinema.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 24/05/2021

splendini
splendini 🇮🇹

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Scarica Il cinema: percorsi storici e questioni teoriche e più Appunti in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! PERCORSI DELL’AVANGUARDIA Arti e linguaggi La ricerca delle avanguardie europee che caratterizza gli albori del XX secolo si inserisce in un quadro che coincide con la turbolenta fase storica che va dagli ultimi decenni dell’800 sino al termine degli anni ’20 del secondo scorso, un’epoca in cui continue tensioni sociali e una politica di espansione aggressiva concorrono allo scoppio della WWI. In questo clima, nella sua cultura artistica del periodo, la decisiva affermazione della tecnica foto-cinematografica contribuisce al generale abbandono di un orientamento rappresentativo di matrice realista e mimetica, profilando all’opposto una funzione rivoluzionaria da riservare all’arte (il tentativo è quello di una rifondazione del linguaggio espressivo capace di tradurre il venir meno del presupposto di una corrispondenza tra rappresentazione e realtà, tra arte e natura) e ritagliando un ruolo inedito da attribuire all’artista, eletto a sperimentatore che relaziona in modo stretto teoria e pratica, prima con la resa pubblica di manifesti, saggi o interventi critici, poi con la scelta di canali di produzione e distribuzione autonomi, come lo spazio espositivo o lo spettacolo provocatorio. Su questo sfondo, il termine avanguardia viene così a evocare una serie di esperienze artistiche che infuocano alcune capitali del vecchio mondo e che si pongono in decisa rottura con la cultura visuale ufficiale. In linea generale le avanguardie si misurano principalmente su due fronti. In primo luogo operano sul linguaggio, considerandolo come materia prima dell’espressione e, insieme, come il contenuto stesso dell’opera, compiendo dunque un lavoro sulla grafia, sul colore, sulla tela, sulla presenza delle lettere sulla pagina, sullo scorrere della pellicola, sul suono che si fa immagine, con il fine di proporre un linguaggio in grado di significare solo per sé stesso o, comunque, orientato al rifiuto di una logica deterministica e narrativa. Infatti, a incidere su questo dissesto del sistema di rappresentazione tradizionale contribuisce anche la prospettiva dell’irrazionalismo che segna marcatamente il pensiero di fine secolo. In seconda istanza, in seno alle avanguardie europee matura una profonda consapevolezza circa l’insufficienza che contraddistingue il ricorso a singoli mezzi di espressione e a specifiche tecniche artistiche: artisti dal multiforme ingegno si trovano a condividere progetti comuni, esaltando un’accezione moderna dell’opera d’arte, esito di una radicale riforma estetica che ricerca il gioco combinatorio tra materiali e tecniche per riprendere il concetto wagneriano di opera d’arte totale. Il teorico Canudo in La nascita di una sesta arte, esalta la capacità del suono medium di porsi come sintesi di tutte le altre arti. Ebbene, è proprio l’intersezione del fenomeno delle avanguardie storiche europee con il cinema a costituire uno degli aspetti artistici più avvincenti del primo ventennio del ‘900. L’interesse degli artisti d’avanguardia per il cinema si accende immediatamente e si impone come riflesso non sul cinema come è, ma sul cinema come potrebbe essere: un’arte cinetica fondata sul principio dell’immagine in movimento, concepita come una frontiera da conquistare ed esplorare. Ma la reinvenzione del cinema si pone in modo eterodiretto, tramite un moto che viene dall’esterno e investe il film con un vasto spettro di problematicità ereditato dalla riflessione estetica condotta in seno ad altre arti: il cinema, per le avanguardie, si dà allora come uno strumento artistico con cui si possono fondere esigenze, poetiche e materiali provenienti da diversi ambiti disciplinari, che trovano in esso una variante applicativa e che operano con la volontà di ristabilire il suo statuto culturale ed estetico, strappandolo all’omologazione che soffoca i circuiti del cinema istituzionale e i modelli offerti dalla sua produzione simbolica. La stagione delle avanguardie va infatti identificata con una ramificazione plurivoca di percorsi più o meno individuali. Italia: dinamismo, colore, performatività Nel 1909, mentre l’Italia vive il periodo aureo della sua produzione industriale, il poeta Filippo Tommaso Marinetti, dalla pagine del quotidiano francese “Le Figaro”, lancia il primo appello per la creazione di un’arte nuova, ispirata al dinamismo della vita moderna e promotrice di una rinnovata sensibilità estetica. I rapporti tra futurismo e cinema, entrambi espressioni esemplari delle promesse di modernità di cui si fa foriero il ‘900, si saldano solo nel 1916, data del Manifesto della cinematografia futurista, al quale aderiscono Balla, Settimelli, Corra e Ginna: il futurismo italiano diviene così la prima delle avanguardie cinematografiche europee, sostanzialmente l’unica prebellica, dal cui esempio nascono in tutta Europa altre esperienze di rottura espressiva e ideologica con il passato. In merito alla sua elaborazione teorica bisogna ricordare il contributo decisivo apportato da alcuni importanti interventi redatti al di fuori del perimetro di pertinenza del cinema. Ad esempio, l’elaborazione artistica di Boccioni di una diversa concezione del movimento, inteso come dinamismo universale: un principio che investe l’intera realtà in quanto ogni oggetto è dotato di un moto assoluto, sia esso in riposo o in movimento, e di un moto relativo. Oppure, quella teorico-pratica del fotografo Bragaglia, che in Fotodinamismo futurista, del 1911, cerca di superare un’idea cronofotografica che risale a Étienne-Jules Marey in favore di una traduzione del tempo in spazio che proceda nella direzione di idealizzare le forme, pervenendo a una dematerializzazione che ponga l’attenzione sul risultato ritmico-dinamico del gesto (→ in realtà il film più significativo di Bragaglia, Thais del 1917, è considerato futurista forse più per le scenografie). Quella di Bruno Corra, che prima di aderire alla poetica futurista firma Musica cromatica, unica testimonianza della ricerca svolta con il fratello circa una forma di pittura intesa come arte temporale e non più spaziale. L’incontro tra forme di colore e ritmo musicale, porta Ginna e Corra a una fase di intensa sperimentazione tra il 1910-1912, in cui il duo opera convinto che il superamento della staticità pittorica possa compiersi solo con l’ausilio di strutture ritmiche musicali in grado di comunicare visivamente una condizione emotiva, realizzando diversi lavori filmici. Il fine è però quello di impiegare il cinema come estensione di altre arti, quali pittura e musica, più che come messo specifico che richiede un’autonomia teorica ed estetica in prospettiva astratta. Bisogna quindi aspettare la necessità si sovvertire l’arte e la cultura tradizionali propugnata da Marinetti e da altri interventi e manifesti per trovare nel linguaggio cinematografico un fertile terreno d’indagine, per quanto possibile di sperimentazione (dati la complessità e i costi della tecnica cinematografica), ma anzitutto di studio e riflessione, con l’impegno di celebrare attraverso il cinema l’era del dinamismo e della macchina. Di notevole interesse doveva essere Vita futurista (1916), realizzato da Ginna, con la collaborazione del fratello, di Marinetti, Balla, Chiti, Venna e Settimelli, che è andato perduto e di cui restano solo pochi fotogrammi. Articolato in una serie di episodi, il film raccoglie scene interpretate dagli stessi futuristi e, mescolando una struttura a collage con trucchi e varie tecniche di ripresa, pare orientato a liberare il cinematografo dalla schiavitù di semplice riproduttore della realtà per innalzarlo ad arte, a mezzo d’espressione privilegiato, poiché capace di soddisfare le richieste di dinamismo e performatività espresse dalla sensibilità estetica del tempo. Francia: impressione, fotogenia, visionarietà Uno dei contesti nazionali in cui è più presente la sperimentazione avanguardistica è la Francia. A cavallo tra gli anni ’10 e ’20 il sistema produttivo francese, dopo la spinta propulsiva di inizio secolo, è costretto a vivere un rallentamento in seguito all’esplosione del conflitto mondiale: quando Pathé e Gaumont concentrano i loro sforzi su distribuzione ed esercizio, esso si scopre infatti costituito da un arcipelago di piccole realtà isolate, spesso fondate dagli stessi registi, incapaci di fare gruppo riunendosi in un’istituzione unitaria e costretti a fronteggiare la sempre crescente importazione di film stranieri, anzitutto statunitensi. In questo panorama si ricava un proprio spazio d’azione il ripensamento estetico promosso dell’avanguardia francese. Al suo interno, una prima tendenza può essere ricondotta all’impressionismo, l’indirizzo che denomina appare ancora nettamente legato a un impianto narrativo, votato all’illusione di realtà, spartito tra opere che possono essere considerate d’avanguardia e progetti invece più tradizionali. Una nuova generazione di registi (→ Dulac, Feyder, Gance, L’Herbier, Epstein, Delluc, Kirsanoff) cerca infatti di esplodere l’orizzonte del cinema senza volerlo smantellare, ma mirando a recuperarne le possibilità ancora inespresse, insistendo in particolare sulla fascinazione per l’immagine cinematografica in quanto introduzione capace, da un lato, di attribuire alla riproduzione della realtà una sorta di maggiorazione estetica e, dall’altro, di indicare un varco d’acceso per giungere a una più profonda indagine intimista. La poetica impressionista individua uno spirito unitario tra percorsi differenti nell’inclinazione a più precisa, di ciò che è fotogenico → è fotogenico ogni aspetto il cui valore morale risulti accresciuto dalla riproduzione cinematografica, in particolar modo per quanto concerne gli aspetti mobili del mondo. È il primo piano a configurarsi senza alcun dubbio come manifestazione più efficace di fotogenia. READY-MADE Ready-made, cioè pronto all’uso. Nella storia dell’arte viene usato per la prima volta nel contesto di sviluppo dell’arte dada e surrealista, quando, nel 1916, Marcel Duchamp lo adotta per descrivere oggetti di uso comune, strappati al loro ambiente naturale e innestati nel contesto di un’esposizione artistica museale, in cui assumono tutt’altra funzione e significato. È infatti nel quadro di una più ampia rivoluzione estetica che va letta l’emergenza di tale fenomeno, laddove la trasgressione di categorie estetiche tradizionali, l’abbandono della manifattura e la predilezione per gesti di risignificazione sono aspetti che non solo concorrono ad abbattere definitivamente i confini tra arte alta e arte povera, tra materiali nobili e materiali qualunque, ma contribuiscono anche e soprattutto a circoscrivere intorno alla figura dell’artista un’aura di assoluta libertà espressiva. La riproducibilità degli oggetti in questione giustifica così lo spazio da loro assunto all’interno di una cultura divenuta sempre più popolare e massificata, garantendo inoltre il legame di irriducibile intimità che il ready-made spartisce con almeno due media moderni: il cinema e la fotografia. Ben presto sia Duchamp sia Ray, così come altri esponenti dada e surrealisti, sperimentano le proprie conquiste formali e tematiche sul terreno di arti meccaniche relativamente vergini. Joseph Cornell è colui che meglio interpreta questo passaggio: artista e film maker newyorkese, egli tra gli anni ‘20/’30 si dedica alternativamente alle sue famose scatole e alla realizzazione di film prodotti in seguito al rimontaggio di materiale pellicolare preesistenze. Il suo film più conosciuto, Rose Hobart (1936), consiste nella riscrittura di un film di George Melford. È dunque la formula del found footage (cioè montaggio trovato, impiegata generalmente per descrivere diverse opere di compilazione, risignificazione, rimontaggio) a iscrivere il gesto ready-made nella traiettoria della storia del cinema. Pur ricoprendo un arco temporale molto ampio, che parte dai primi film di propaganda sovietici, passa per opere allegoriche che mirano al cuore della cultura occidentale post-bellica fino ad assumere una dimensione esplicitamente militante, come accade ad esempio nel quadro dell’esperienza artistica femminile e femminista, il found footage si concretizza pienamente come realizzazione ready-made con due opere: Perfect Film (Ken Jacobs) e Appropriated Moment (Croline Wuschke). Germania: sinfonia, luce, espressione Nel 1917 nasce la UFA, la più grande casa di produzione e distribuzione tedesca, che, strutturata su principi dell’integrazione verticale, realizza l’impresa di unificare una pluralità di piccole casa produttive in un ente unitario capace di contendere proprio agli studios hollywoodiani il primato sul mercato internazionale: durante la Repubblica di Weimar e fino all’avvento del nazismo la produzione cinematografica tedesca è infatti seconda solo a quella statunitense. In questo contesto proseguono le esperienze avanguardistiche che hanno preso piede nel resto d’Europa. I tratti distintivi riscontrabili nel panorama della sperimentazione tedesca sono principalmente due: la riaffermazione di una dimensione artigianale del fenomeno cinematografico e della creazione artistica più in generale; il ricorso all’astrazione antifigurativa come nuovo fondamento dello statuto di produzione simbolica e ritmico- dinamica del cinema. Nello scenario cinematografico nazionale, uno dei massimi esponenti è certamente Viking Eggeling, artista svedese impossibile da collocare in un’unica area di riferimento per i suoi rapporti tanto con i dadaisti quando con il costruttivismo e l’avanguardia astratta. L’opera più nota di Eggeling è senza dubbio Diagonal Symphonie (1924), esperimento grafico in cui le immagini astratte sono concepite come l’equivalente di una composizione musicale. Va poi annoverata la ricerca di Hans Richter, artista e teorico che è tuttavia interessato alla ricerca più sulle superfici che su forme grafiche ed elementi lineari. Richter si muove dapprima nell’ambito dell’espressionismo pittorico e in seguito, durante la WWI, si lega appunto al collettivo dadaista operante in Svizzera, realizzando lunghe strisce di carta in cui si sviluppano variazioni di segni pittorici, animate con l’intento di formulare una sorta di musica visiva basata sulle esigenze di articolare lo spazio figurativo in un movimento in grado di fuoriuscire dai limiti del quadro tradizionale. Richter realizza poi la sua opera forse più nota nel 1928: si tratta di Gioco di capelli, in cui, grazie a una serie di efficaci trucchi, prende il via la ribellione di alcuni oggetti contro il loro banale impiego quotidiano. Walter Ruttamann o Oskar Fischinger sono gli altri due nomi più rilevanti del campionario artistico del tempo. Da una parte, la parabola cinematografica di Ruttmann è segnata dalla realizzazione del ciclo Opus (1919-25), in cui l’artista cerca di connettere visualità, movimento e astrazione sfruttando modelli musicali, pur tuttavia senza ricorrere a una dinamizzazione che procede a partire da un’unità omogenea, bensì da molteplici strutture astratte che rendicontano infinite possibilità di impiego e innumerevoli gradi intermedi e combinazioni; dall’altra, la medesima parabola si sporge anche verso la scelta dl documentarismo sinfonico, che utilizza questa volta immagini reali ma impiegandole come elementi di una sinfonia visiva in cui l’aspetto documentaristico si annulla nel ritmo del montaggio di strutture visivo-dinamiche complesse, progetto che raggiunge il punto apicale con Berlino: sinfonia di una grande città (1927). Fischinger invece, collaboratore di Ruttmann, coltiva l’idea di un cinema d’animazione di dimensione artigianale, esaltato però dalle possibilità della tecnica. Notevoli, a partire dal 1921, i suoi Wachsexperimente: lavori con fogli di cera intagliati e sovrapposti l’un l’altro che conferiscono effetti inediti per le opere contemporanee. Più convenzionale, invece, la serie di Studien che porta avanti dalla fine degli anni ’20 fino al 1932, costituita da brevi esperimenti in cui forme geometrico-astratte su fondo nero si muovono al ritmo di musica jazz o di componimenti classici, piegando quindi il cinema a ricoprire la funzione illustrativa di un’altra arte, più che profilarne un’autonomia linguistica e operativa. È importante ricordare anche l’apporto di Laszlò Moholy-Nagy che unisce alla sua attività di artista d’avanguardia una forte vocazione didattica. È tra i primi a sperimentare la fotografia come mezzo d’espressione figurativa, strumento più appropriato, insieme al cinema, per l’esplorazione del mondo moderno grazie al suo sguardo dinamico e performativo, capace di portare a termine un processo produttivo e non meramente riproduttivo. Ossessionato dalla luce, egli cerca il superamento della pittura tradizionale con il carattere tecnologico del cinema e l’impiego di giochi di luce proiettati con un riflettore, arrivando a Giochi di luci nero-bianco-grigio (1930) come tentativo di tradurre a livello cinematografico gli effetti ottici e luminosi prodotti da una scultura cinetica in vetro e acciaio, realizzata dall’autore proprio quell’anno. ESPRESSIONISMO, NUOVA OGGETTIVITA’, KAMMERSPIELFILM Al di là delle esperienze assimilabili al panorama delle avanguardie astratte, tre sono le principali correnti cinematografiche che si affermano nel contesto della Germania prehitleriana. La prima è l’espressionismo, indirizzo cinematografico che si configura come una svolta pianificata dall’industria cinematografica tedesca più che come una vera e propria avanguardia esterna al sistema produttivo: con la vena espressionista, infatti, si assiste a uno dei primi tentativi di coniugare all’interno di un medium tecnologico stilemi tipicamente artistici e contaminazioni provenienti dalla cultura popolare. Le caratteristiche preminenti dell’espressionismo tedesco sono le insistite deformazioni scenografiche, la focalizzazione su un immaginario irreale e onirico, l’uso ricorrente di prospettive alterate, il ricorso a illuminazioni fortemente contrastate, la definizione di atmosfere inquietanti e allucinatorie, dove si susseguono continuamente tentativi di plagio e manipolazione psicologica. Una visionarietà di cui Il gabinetto del dottor Caligari di Wiene (1920) rappresenta una sintesi esemplare, benché, da una parte, una serie di film precedenti avessero già disseminato spunti analoghi, mentre, dall’altra, un novero di altre opere successive si fa carico di approfondirne la complessità. Proprio a questo proposito, il fondamentale studio di Siegreid Krauer, Da Caligari a Hitler fornisce preziose indicazioni: lo studioso attribuisce la capacità di rendere trasparenti i contenuti inconsci dei cittadini di Weimar, oscillanti tra un’euforica liberazione dagli istinti e la preconizzazione di un dominio tirannico dell’autorità, che si concretizza in una parata di figure simili al Caligari di Wiene, come Nosferatu o il dottor Mabuse. La seconda corrente è quella che corrisponde alla formula di nuova oggettività, presto declinata in ambito cinematografico dove viene definita anche nuovo realismo. La nuova oggettività lavora nella direzione di fare del dramma individuale una sineddoche della più universale condizione umana, viziata da un’apatica e rassegnata disillusione, così come dal grigiore dell’esistenza metropolitana: spaccati che emergono in crude opere come La Strada di Karl Grune (1923). Tuttavia, il film che raggiunge il punto più alto di questo versante del cinema tedesco è probabilmente Uomini di domenica (1930), frutto del Filmstudio 1929, di cui faceva parte un gruppo di autori che avrebbero poi raggiunto di USA dopo l’ascesa al potere di Hitler (tra cui Billy Wilder): reportage sperimentale che rende conto di una gita domenicale nei boschi fuori città intervallando l’ampio finzionale con riprese dal vero dal sapore documentaristico. La terza corrente è quella del Kammerspielfilm, un genere cinematografico, di impianto fortemente psicologizzante, nato agli inizi degli anni ’20 sull’esempio del teatro intimista del Kammerspiel fondato da Max Reinhardt. Intrecci drammatici, cast ridotti a pochi attori, scenografie scarne e spesso allestite in interni, oltre a una costante immersione in un quotidiano comune e piccolo borghese, sono le marche caratteristiche della corrente. La pellicola che meglio sintetizza tale atteggiamento è L’ultima risata (Murnau, 1924): storia di un portiere di hotel di Berlino che, da figura autorevole della struttura, viene degradato a sorvegliante dei gabinetti. L’avanguardia sovietica: il primato del montaggio Inserito in un’industria cinematografica nazionalizzata dal 1919 e da contestualizzare nel più vasto orizzonte dell’ottobre delle arti (affermazione del realismo socialista), il cinema sovietico conosce negli anni ’20 una fase di intenso sviluppo. Il cinema viene usato come strumento di divulgazione artistica. Lev Kulesof fornisce indicazioni sulla sensibilità estetica prerivoluzionaria. Docente al prestigioso istituto statale di cinematografia, il VGIK di Mosca, scenografo e regista, Kulesov è anche autore di numerosi scritti teorici sul cinema e inizia a pubblicare saggi sul montaggio a partire dal 1917, attribuendo a esso il ruolo di principio costruttivo del linguaggio cinematografico. Al suo nome resta legala l’elaborazione del cosiddetto effetto: accostando a un primo piano del volto apparentemente neutro di Ivan Mozzuchin, celebre attore della Russia prerivoluzionaria, tre inquadrature dal contenuto differente, la stessa immagine del volto dell’attore sembra esprimere diversi sentimenti. Kulesov dimostra che la sensazione che un’inquadratura riesce a trasmettere è influenzata in maniera determinante dalle inquadrature con cui essa si accorda, poiché nella mente dello spettatore, l’accostamento di due immagini può dare vita a una processualità di costruzione del senso più pregnante rispetto al contenuto di ogni singola immagine. Altro protagonista è Vsevolod Pudovkin, il quale nella metà degli anni ’20 è autore di opere che ne rendono da subito manifesta l’inclinazione a fare della struttura realistico-descrittiva del film un impianto funzionale alla proposta di un inequivocabile messaggio ideologico. Egli dà vita a una trilogia basata sulla veicolazione di contenuti sociali che si caratterizza però anche per l’intenso spessore psicologico riservato alla figura centrale dell’eroe. Influente anche sul piano teorico, Pudovkin è coautore, insieme a Ejzenstejn e ad Aleksandrov, del Manifesto dell’asincronismo, del 1928: una riflessione condotta intorno all’impiego del sonoro nel cinema in cui si afferma come solo una soluzione contrappuntistica del rapporto tra suono e immagine possa offrire inedite possibilità di sviluppo e di ricerca del montaggio. Durante il consolidamento del realismo socialista, egli diviene uno degli esponenti di punta del cinema di regime, sebbene i suoi film più tardi fatichino a reggere il confronto con quelli degli esordi. I due registi più rilevanti all’interno dell’orizzonte avanguardistico sovietico sono Ejzenstejn e Vertov. Nell’opera di Ejzenstejn, orientata a superare la consolidata tradizione artistica borghese con l’adozione di un nuovo punto di vista che mira a identificare la frattura rivoluzionaria con una palingenesi che sia al contempo sociale e artistica, confluiscono molte ricerche compiute negli anni precedenti, da quelle sul teatro condotte intorno alla biomeccanica di Mejerchol’d a quelle legate alla rivista LEF (fronte sinistra delle arti), fondata da Majakovskij. Regista caratterizzato da una coerenza stilistica anche nelle opere successive, Ejzenstejn unisce alla prassi registica una ricca e complessa speculazione teorica. Apripista è il lavoro svolto sul montaggio a partire dalla metà degli anni ’20, in cui Ejzenstejn, smarcandosi da una tradizione teatrale e cinematografica di stampo naturalista, ipotizza la possibilità di concepire spettacoli costruiti a partire da combinazioni basate su una logica conflittuale che, procedendo dunque per contrasti, alterni elementi disomogenei la cui eterogeneità concorra a riorganizzare il senso del visibile cinematografico in funzione di un coinvolgimento patemico e intellettuale dello spettatore: se, quindi, per Kulesov, collegare due A metà degli anni ’10 gli assetti produttivi cambiano radicalmente: il cartello formato dalle case di produzione di inizio secolo non riesce a ostacolare l’ascesa di nuove generazioni di produttori e distributori. Di cinema hollywoodiano si può parlare a partire dai primi anni ’10, quando le case di produzione si trasferiscono da NY alla west coast, in particolare nel distretto di Hollywood. A cambiare è anche la fruizione dello spettacolo da parte del pubblico, che da un lato inizia ad abituarsi a film di sempre maggiore durata, dall’altro incomincia a riconoscere e ad affezionarsi agli attori e alle attrici che, grazie alla consuetudine sempre più diffusa del primo piano, vede e riconosce sullo schermo. Partendo da questa consapevolezza, Adolph Zukor fonda la Famoues Players in Famous Plays → egli investe sulla fama degli interpreti → una volta fusa la propria compagnia con quella di Jesse L. Lasky, formano la Famous Players – Lasky Corporation. Inoltre, Zukor è uno dei primi a comprendere come il cinema necessiti di sale dedicate, su cui il produttore-distributore possa esercitare il controllo e proiettare i propri film. A controllare la distribuzione nelle restanti sale interverrà il block booking. Figura chiave di questa transizione è proprio Griffith. Le sperimentazioni di questi anni lo vedono capofila ma non isolato nel tentativo di superamento definitivo dal modello primitivo di messa in scena e racconto e trovano una sinestesi perfetta nel film che è considerato il suo capolavoro e il punto di partenza del cinema hollywoodiano classico, almeno da un punto di vista narrativo, linguistico e formale → Nascita di una nazione (1915). Anche dal punto di vista produttivo, questo film sembra segnare una svolta. Con esso si compie il progetto di Griffith di dare maggiore complessità alla narrazione cinematografica senza sacrificare la semplicità e l’immediatezza del racconto. Con questo film sembra imporsi un modello narrativo ed espressivo che si organizza attraverso una vera e propria sintassi composta da norme, espedienti e trovate che permette allo spettatore di immergersi nel racconto, guidato da un’istanza narrante onniscienti che organizza la vicenda conducendola il più delle volte verso un lieto fine che non invalida la complessità dei temi affrontati. Il suo film attirò molte polemiche rendendo il regista un grande oppositore della censura → portandolo a realizzare una sorta di risposta cinematografica, Intolerance (1916). Nel 1919 Griffith fonda, con Chaplin, Fairbanks e Pickford, la United Artists Corporation, che rappresenta un tentativo inedito di controllo della fare produttiva da parte dei responsabili della fase creativa del film. La volontà dei 4 fondatori è quella di innalzare la qualità artistica dei film e combattere una battaglia per il riconoscimento di registi e divi come autori del film a cui lavorano → scopo: sostenere la libera produzione e distribuzione dei film e dei propri associato → fu un modello marginale che non arriverà a intaccare lo studio system. CHARLIE CHAPLIN Della stagione del cinema muto americano Chaplin è forse il volto più noto. È infatti un caso perfetto di autorialità non ostacolata o irreggimentata da Hollywood. È anche attraverso l’opera di Chaplin che l’arte cinematografica – non solo hollywoodiana – incomincia a essere riconosciuta presso gli ambienti intellettuali. La figura di Chaplin è ricorrente all’interno della produzione dei primi teorici della settima arte. È una versione stilizzata, cubista, del personaggio di Chaplin amato in tutto il mondo, il vagabondo, ad aprire il film d’avanguardia del pittore Fernand Leger, Ballet mécanique (1924). Nato in Inghilterra da due attori spiantati, egli sembra incarnare nel suo percorso biografico, la quintessenza del sogno americano, del self-made man che venendo dal nulla trova fama e successo. Eppure, spesso i suoi film si pongono come fortemente critici, talvolta spietati nei confronti della società statunitense e della sua storia, dalla corsa all’oro all’attualità capitalistica. Tacciati di comunismo, sarà allontanato dal paese durante la caccia alle streghe, risultato la vittima più illustre del furore maccartista. Nonostante la realizzazione di altri due film in esilio, appare chiaro come la parabola di Chaplin nasca e si consumi completamente a Hollywood, dalle prime esperienze come attore al servizio di Mack Senneytt alla Keystone fino ai capolavori della maturità. Gran parte del cinema di Chaplin è incentrato sul tema del conflitto, presente nel personaggio, un tramp che si atteggia a signore, vestito con abiti eleganti ma ormai sdruciti, di taglie diverse dalla sua. Il vagabondo si dimostrerà estraneo rispetto all’ordine costituito di una società fatta di contrasti, soprattutto di classe, che lo emargina in generale. Il conflitto è quindi spesso con le figure che rappresentano l’autorità, ma più in generale tra il vagabondo e ogni altro personaggio, sia esso uomo, donna o bambino. Anche gli oggetti sono, per Chaplin, fonte continua di scontro: il vagabondo sembra non comprenderne la funzione e quindi li usa nelle maniere più disparate, ottenendo solo di vederseli rivoltare contro. Chaplin lavora prima di tutto all’integrazione della scena comica con la progressione drammatica: la gag non è più il momento di sospensione del racconto ma è invece sostenuta e giustificata dal tessuto narrativo; in questo è in piena continuità con Griffith, per quanto i modelli di racconto appartengono a generi differenti. La volontà di creare personaggi complessi, verosimili, è un elemento ulteriore che avvicina i due fondatori della United Artists. I protagonisti e i comprimari delle comiche e dei lungometraggi di Chaplin non sono infatti semplice veicolo di gags, ma personaggi sfaccettati, talvolta contraddittori nel loro miscuglio di aggressività e tenerezza, vigliaccheria e prepotenza, timidezza e audacia. Chaplin dà ai propri film un tono che oscilla tra il comico e il patetico, e sovente chiude le sue opere con una nota malinconica. Proprio queste caratteristiche gli permettono di affrontare senza timori gli orrori della storia recente – dalla WWI all’ascesa del nazismo e la persecuzione degli ebrei – e gli consentiranno di continuare a essere amato dal pubblico a dispetto delle asperità del personaggio, sovente meschino ed egoista. Ritenendo l’arte cinematografica eminentemente muta, Chaplin cederà pienamente al sonoro solo nel ’40 con Il grande dittatore. Una libertà insolita in un sistema come quelle hollywoodiano, che nel 1932 aveva di fatto completato la transizione al sonoro, e contemporaneamente uno dei segni più esclusivi della grande autonomia del divo, Charlie Chaplin. Il trionfo del classico Il cinema hollywoodiano classico sarebbe il frutto dell’interazione di una serie di strategie che si addensano in più sistemi che finiscono per dare forma a un apparato dinamico, articolato e multiforme, per quanto estremamente riconoscibile. Il primo è il più importante di questi sistemi è legato ai modi e ai piani di produzione e diffusione dei film, è il cosiddetto studio system. Dunque Hollywood si fa sistema da un punto di vista aziendale: fin dagli anni ‘10 le case di produzione combattono una guerra tesa al dominio del mercato. L’inclinazione a radunare case di produzione, sale cinematografiche e compagnie di distribuzione in veri e propri monopoli era già stata stroncata una volta nel 1915 con la condanna cui fu vittima la Motion Picture Production Company. Ma le strategie di Zukor per perfezionare un sistema noto come integrazione verticale non si discostano di tanto dalla prassi dei conglomerati produttivi che lo hanno preceduto. Nonostante la potenza di fuoco delle campagne pubblicitarie e l’appeal delle star legate alle singole società, le grandi case di produzione dominano il mercato soprattutto grazie a queste tattiche: Zukor e la Famous Players - Lasky presi a esempio per lo sviluppo dell’era degli studios sebbene appaia evidente fin da subito come le pratiche descritte siano da considerarsi legali. La scorrettezza di tale modo di operare è talmente chiara che fin da subito, almeno dal 1921, la Federal Trade Company apre un’inchiesta sull’operato della Famous Players - Lasky, prendendo atto di un’aperta violazione delle leggi antitrust. Ciononostante, e malgrado alcune pallide misure governative, sarà solo nel 1948, dopo una lunga trafila di appelli manovre legali, che la corte suprema emetterà un verdetto di colpevolezza, decretando la rinuncia alla proprietà delle sale e alla vendita dei pacchetti. Questa lentezza nel giungere a un verdetto consente alle grandi case, le majors, di aumentare i mezzi e crescere di numero passando da tre negli anni 20 le big three, a 5 (le big five). Tutte queste majors possiedono teatri di posa e stipulano contratti con il personale chiamato a lavorarvi, dai tecnici alle star; oltre a ciò, sono dotate di strutture per la distribuzione nazionale ed estera e, di un largo numero di sale cinematografiche, talvolta costruita apposta, più spesso acquistate. Nonostante fosse stata la Famous Players – Lasky a dettare una linea poi fatta propria dalle altre grandi case, la supremazia della società ribattezzata Paramount Publix, e infine solo Paramount, è destinata a terminare di fronte al progressivo sviluppo della MGM, nata dalla fusione della Metro Pictures Corporation con la Goldwyn Company. La MGM non solo possiede molte delle più capienti e maestose sale di prima visione del paese, ma ha anche sotto contratti alcuni dei maggiori registi dell’epoca (Vidor, Stroheim) e diverse star (Greta Garbo). Inoltre la MGM conta sull’appoggio di alcuni dei giornali più letti d’America. La MGM è un caso esemplare per comprendere il funzionamento dello studio system. È proprio in contemporanea all’ascesa della MGM che tale modello si perfeziona e si fa maggiormente dinamico, passando da una serie di pratiche note come il central producer system al modello del producer-unit system, ovvero da una supervisione affidata a un central producer a una divisione in unità specializzate, spesso composte dagli stessi tecnici e organizzate attorno a un numero limitato di divi e generi. Da ricordare che Hollywood aveva anche le little 5 come la Universal, che negli anni seguenti diverranno grandi case. Quote minori appartengono anche a piccole società, dette Poverty Row, come la Monogram o la Republic, le cui realizzazione sono quasi esclusivamente produzioni a basso costo. All’opposto, vi sono poi le indipendenti che puntano su un numero limitato di opere costose e di grande richiamo → es. Via col vento (Fleming, 1939) uno dei più grandi investimenti della Hollywood classica. Per poter realizzare il film, Selznick stipula un accordo con il suocero Louis B. Mayer, che contribuisce fornendo il materiale per la realizzazione del film. Nonostante l’appoggio di una majors, la paternità del prodotto è attribuita a Selznick, così come la regia è attribuita a Fleming, mentre in realtà il film è frutto di una lavorazione a più mani (tra cui anche Cukor). Il film è il risultato di una catena di montaggio → in tal senso è significativo il ruolo di Selznick rispetto a quello del regista, anche se in questo come per altri film è impossibile parlare di autore al singolare. Film come Via col vento e Casablanca sono totalmente frutto dello studio system. Casablanca, realizzato in un momento di grandi ristrettezze economiche, dovute all’entrata in guerra degli USA → viene realizzato riciclando scenografie utilizzate in altri film o avvolgendo in una nebbia da film noir gli spazi sommariamente ricostruiti in studio, come l’aeroporto della sequenza finale (→ limiti economici così risolti). Casablanca in ogni caso non è un noir. Il film attraverso Bogart testimonia un certo approccio e una certa specializzazione tipica della Warner, che realizza film che spesso guardano alla società americana dell’epoca in maniera diretta, meno filtrata rispetto ad altri studios. Anche qui abbiamo più registi, Fleming, Vidor → tuttavia è importante ricordare che i registi che lavorano per le grandi case di produzione non rinunciano a considerarsi gli autori del film che dirigono, ma semplicemente la logica industriale alla quale sono sottoposti è spesso accettata senza contrasti. Un sistema così organizzato condiziona profondamente lo stile visivo dei film a scapito della visione personale del regista. Lo stile dunque diviene paradigma comune, anche se non standardizzato: ciascuna opera è caratterizzata da un’impronta e da un taglio che connotano la casa di produzione che l’ha generata. Questo aspetto, noto come studio look o house style, diventa manifesto nel confronto tra film appartenenti allo stesso genere e periodo ma realizzati da casa differenti. Casablanca così come Il mistero del falco, promuove a ruolo di divo l’attore Humphrey Bogart → viene segnato il passaggio anche da gangster movie, tipico degli anni ’30, al noir, genere caratteristico negli anni ’40. Il ritrovare, da parte del pubblico, ancora una volta Bogart nei panni del good bad boy (il duro dal cuore tenero) → crea favore nel pubblico. Il modello divistico di Bogart è definito da alcuni ingredienti fissi che troviamo di film in film. È evidente che su questi aspetti della sua immagine divistica si costruisce anche quel meccanismo di attesa con cui i produttori giocano nel realizzare e poi nel distribuire un nuovo film. C’è da dire anche che per lo studio ogni genere è una categoria dedicata a cui lavorano sovente le stesse persone, che vi si specializzano, e ogni dico è una risorsa che si può sfruttare secondo le sue idoneità specifiche. Ciò non vuol dire che ogni divo sia per forza specializzato in un unico genere, ma che a esso viene richiesto di lavorare su un particolare “tipo”, riconoscibile anche attraverso più generi diversi. Nonostante una concezione produttiva così compartimentata i professionisti hollywoodiani non sono per forza costretti a muoversi all’interno di gamme ristrette di produttori. Per molti registi, ad esempio, non è scontato doversi specializzare. Per quanto riguarda i divi, la loro vita fa capolino nelle edicole con riviste specializzate (→ es. Photoplay) → è l’apparato industriale a plasmare, a seconda delle esigente, le personalità scelte in base al bisogno e alle richieste del pubblico. Film come È nata una stella (Wellan, 1927), mettono in luce la spietatezza e l’estrema complessità del sistema hollywoodiano → il divo oggetto di marketing. In effetti, gli organi ufficiale delle case di produzione non solo forniscono alla stampa biografie romanzate degli attori sotto contratto, ma sono anche chiamati a una funzione di controllo rispetto agli eccessi della loro vita privata. È proprio una serie di scandali e soprattutto per prevenire una legge dedicata o la creazione di una censura federale, i più importanti studios istituiscono, già nel 1922, la Motion Picture Producers and Distributors of America, che stabilirà di lì a poco una serie di regole → Codice Hays. Anche l’introduzione del sonoro riesce a stabilizzare la situazione già presente negli anni ’20 (→ in altri paesi il trasparenza quello di intensità ed eccesso stilistico. Per il pubblico, la comprensione degli snodi del racconto sarà così secondaria rispetto a un processo di identificazione radicalizzando dalla violenza emotiva. Ci sono poi altri generi, come il western, che raggiungono in questi anni la piena maturazione tematica ed espressiva; altri vengono completamente reinventati, come la fantascienza, che esprime in questi anni le angosce e i timori dell’epoca. ALFRED HITCHCOCK Dell’ondata di registi europei trasmigrati a Hollywood Alfred Hitchcock è sicuramente il nome più celebre e allo stesso tempo il meno evidente proprio per la penetrazione capillare nei meccanismi dell’industria cinematografica hollywoodiana. Malgrado l’apparente adesione ai canoni narrativi e formali del cinema classico, perseguiti attraverso il discorso di genere, il thriller di cui sarà indiscusso maestro, egli si rivela ben presto un vero sabotatore dello studio system. Come nel suo film omonimo del 1942 (Sabotatori), il quale racconta attraverso il genere spionistico il suo stesso ruolo all’interno dell’industria, il suo “attentato alla fabbrica”. Il motivo del sabotaggio definisce a ben vedere l’intera pratica registica di Hitchcock negli USA, vissuta come sotterranea eversione della norma, dove l’accettazione degli schemi produttivi spettacolari non esclude ma anzi esalta il discorso hitchcockiano, l’ossessione che lo rende autore, come gli riconosceranno i critici dei cahiers. Questa ossessione ha una duplice natura – tematica e stilistica – strutturale: l’idea della colpa, permeata da una rigida educazione cattolica, per cui i suoi protagonisti appaiono sempre lacerati da un dissidio morale o psichico, si dipana sul piano del racconto attraverso una magistrale e peculiare gestione dei tempi narrativi, imperniata sul concetto su suspense. Hitchcock fa dl découpage uno strumento raffinatissimo di manipolazione dell’immagine, del suo ritmo e, soprattutto, dell’emozione spettatoriale. Il conferire al pubblico un sapere maggiore rispetto a quella dei personaggi circa la vicenda, affermazione, nel suo cinema, della supremazia della suspense sulla sorpresa, sono gli stratagemmi più frequenti di cui Hitchcock si serve per creare racconti di una grande tensione drammatica, di angoscia, in cui la dilatazione temporale è l’esternazione fisica di un’attesa che psicologicamente si tramuta in impotenza. Attratto dal grandeur della messa in scena, dai divi in cartellone e dal fascino di trame mistery o di spionaggio, il pubblico si trova ad assistere a indagini dal tracciato psicanalitico, ad analisi di figure archetipiche come quella del doppio, fino all’esito di La donna che visse due volte (1958), crime story con un plot twist ancora citato dal cinema di genere contemporaneo ma anche un’immersione all’interno dell’ossessione per il femminile da parte del protagonista James Stewart. O, ancora, l’esplorazione del voyeurismo come operazione metatestuale che anima La finestra sul cortile (1954). Da innovatore, egli gira nel 1948 Nodo alla gola, primo film nella storia del cinema girato con una serie di inquadrature di piani-sequenza, pura scommessa tecnico-teorica che non rinuncia alle consuete indagini psicologiche sui personaggi. La sua abilità da businessman si rivela in anni delicati per il cinema, quando la televisione gli sottrae pubblico decretando la fine dello studio system. Hitchcock attraverso il nuove mezzo crea i brevi racconti del ciclo Alfred Hitchcock Presents (1955-1962) e importa le principali caratteristiche sul grande schermo. Nel 1961 Psycho nasce dall’esperienza televisiva. Il bianco e nero, il budget ricotto, i tempi di lavorazione rapidi sono alla base del film che segna storicamente una svolta dal thriller a una nuova concezione di horror. Persistenza del classico La stagione che segue le modificazioni del sistema è nota come New Hollywood. Per quanto la New Hollywood in senso stretto duri circa una decina di anni, essa dà il via a quello che è comunemente noto come cinema postclassico. La definizione incorpora più tendenze e più momenti del cinema americano, anche molto lontani tra loro. Limitandoci a un cinema contemporaneo, postclassico può essere sia un cinema come quello indie, costruito sulla descrizione di stati d’animo e su ritratti di personaggi borderline, sia il blockbuster in cui la parte spettacolare sembra avere la meglio sulla componente narrativa. Gli studi redenti tendono a guardare al cinema americano contemporaneo cercando di evitare di considerarlo in contrapposizione netta, o al contrario, in piena continuità con quello classico. Se di classicità si parla, in un cotesto mediale si deve parlare di un classicismo eccessivo, che ha quindi perso l’understatement e l’essenzialità tipici del classico. I modi in cui questo classicismo si manifesta possono essere diversi: ad esempio, aprendo continue parentesi che deviano sulla trama principale come fa Tarantino in Pulp Fiction (1994); rifiutando spesso la linearità del racconto, ma, come dimostra Inception di Christopher Nolan (2010), raramente a scapito della comprensibilità, al punto che ricorrenti e programmatici diventano i momenti inseriti per far sì che gli spettatori possano orientarsi nell’intricato tessuto dell’opera; chiedendo allo spettatore competenze che si trovano al di fuori del testo, come accade con JKF di Oliver Stone (1991), fornendo però allo spettatore tutti gli elementi di cui ha bisogno; dilatando le sequenze spettacoli e affidandosi a effetti digitali come in Indipendence Day (Roland Emmerich), film di propaganda che da un punto di vista retorico è però in piena continuità con il cinema del passato. Da un punto di vista stilistico, tale classicità eccedente è resa attraverso ciò che Bordwell chiama intensified continuity: il concetto di continuità intensificata sta a significare una caratteristica propria del cinema hollywoodiano contemporaneo all’interno di una prospettiva che vede mantenuta l’uniformità nelle tecniche di racconto del cinema statunitense a partire dagli anni ’10; la differenza consiste nell’aumento di intensità di tali pratiche, che sono oggi frammentate, accelerate, quasi polverizzate. Hollywood produce quindi film in cui intervengono pratiche di scrittura che aumentano il numero delle inquadrature e la mobilità della macchina da presa. La finalità è sempre prendere per mano lo spettatore e immergerlo in una narrazione che ha un capo e una coda. Ci si trova di fronte a un cinema manieristico che finisce per rispettare le consegne di una produzione culturale legata alla comprensibilità e alla trasparenza, nonché a una narrazione che continua a essere organizzata secondo tappe di sviluppo del racconto che hanno un inizio, uno svolgimento e una fine chiari. Questo elemento manieristico coinvolge vari livelli della produzione: la narrazione che può farsi tortuosa, lo stile visivo, che si elabora e differenzia, la recitazione, che si impone attraverso nuove star che segnano anch’esse un superamento non solo del modello classico, ma anche di quello dell’actors studio. Dai divi che lavorano a uno sforzo mimetico e trasformista talvolta paradossale a quelli che rifiutano ogni adesione emotiva e realistica con i propri personaggi, ci si trova davanti a un’esibizione della tecniche che è in piena sintonia con gli stili di regia contemporanei e con il regolare ricorso all’ammiccamento nei confronti dello spettatore. FRANK CAPRA Ebbe una lunga e fortunata carriera che coincide con il periodo aureo del cinema americano. Un percorso, caratterizzato dalla frequentazione quasi esclusiva di un solo genere, la commedia, di cui è considerato uno dei maestri indiscussi. Per oltre dieci anni il suo nome è legato alla Columbia. La minor non può permettersi divi di primo piano, ma, grazie al potere contrattuale che Capra acquista a partire dal successo dei primi film, ben presto, il regista riesce a ottenere in prestito alcune delle maggior star dell’epoca → Gary Cooper, James Stewart, Barbara Stanwyck. Lasciata la Columbia, nel 1941 Capra tenterà la strada della produzione indipendente e dopo una significativa parentesi come regista al seguito degli alleati impegnati nella WWII, il ritorno sotto un grande studio avviene con la Paramount. Il percorso di Capra è la dimostrazione della flessibilità del sistema produttivo hollywoodiano, capace di eleggere a suo principale rappresentante un autore dalla personalità indipendente e sostanzialmente insofferente alle regole dello studio system, che pure rispetta e dalle quali trae vantaggio. È grazie a esse se il suo nome, garanzia di successo, può campeggiare sopra il titolo delle sue regie (Frank Capra’s…) e il pubblico comincia a considerare i suoi film “film di Frank Capra”. Va però sottolineato come in questo caso il nome sopra il titolo dimostri sì un’autonomia raggiunta dal regista, ma si faccia contemporaneamente maschio ulteriore di riconoscibilità per lo spettatore. Come da un certo divo ci si aspetta un certo personaggio, così da un regista ci si aspetta un certo film. Quando nel 1937, dirigerà Orizzonte Perduto, uno dei suoi capolavori e contemporaneamente uno dei suoi film più personali e ambizioni, lontano dai canoni della commedia che gli stesso ha contribuito a definire, il pubblico lo rifiuterà nonostante le molte recensioni positive, segno che quel nome sopra il titolo è lì a marcare un rapporto che sancisce un patto che non può essere disatteso. Si tratta però di un tipo di commedia molto caratterizzata, soprattutto per ciò che riguarda i temi trattati: al di là del consueto e raffinato gioco tra sessi, egli sviluppa ogni opera spunti che rimandano esplicitamente alla realtà sociale del periodo, dando così vita a un discorso contemporaneamente politico e morale, sulla scorta di un’impronta rooseveltiana comune a molti cineasti del periodo. Capra ha quindi il merito di costruire, con la sua filmografia, una raffigurazione dell’America come progetto utopico, un paese ideale: non stupisce quindi che, allo scoppio della WWII, l’inclinazione propagandistica e il sincero senso di responsabilità sociale lo conducano a supervisionare la serie di documentari Why we fight (1942-45), che hanno il compito di spiegare ai cittadini americani le ragioni della partecipazione degli USA al conflitto. LA MODERNITÀ E IL CINEMA Il cinema, l’individuo, la società Secondo Casetti il cinema non è soltanto arte, ma anche medium, in un’epoca che sempre più si fa mediatica: dunque, è uno strumento di comunicazione con una facoltà di rappresentazione, un’accessibilità da parte della società e una capacità di sfruttamento della macchina tecnica e industriale che non sono mai state così ampie e complesse. Inoltre, il cinema ha saputo cogliere le questioni fondamentali del proprio tempo e mostrarle a un largo pubblico. Infine, il cinema è in grado di negoziare tra le spinte contrastanti che lo attraversano e che pure affronta ed esibisce in forme anche drammatiche, riuscendo a ricomporre e organizzare in una messa in forma il tumulto delle percezioni tipico del proprio tempo e ponendosi come sostituto di quelli che fino al momento della sua nascita erano stati i luoghi tradizionali di pacificazione sociale. In particolare per quel che riguarda il concetto di modernità come espressione di rinnovazione tecnica, il risalto che viene assegnato al cinema è quello di aprire un ventaglio di nuove condizioni della percezione che da essa derivano, enfatizzando le esperienze inedite, individuali o collettive, rese possibili dal dispositivo. La consapevolezza della novità si traduce quasi immediatamente nel rilievo dei rischi insiti nel mezzo: lo scrittore Maksim Gor’kij, in un articolo pubblicato l’anno successivo alla nascita ufficiale del cinematografo, ne parla come di un’invenzione che logora i nervi. In Italia, sarà Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore a stigmatizzare l’innovazione tecnica come un nemico che divora la nostra anima e la nostra vita, rendendoci servi del meccanismo. D’altro canto, non tardano a essere messe in luce anche le potenzialità positive del dispositivo e la sua capacità analitica fuori del comune, in grado di osservare il mondo con un occhio più lucido. La modernità del cinema → nel celebre saggio del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin propone un’ampia riflessione sulla tecnica fotografica e cinematografica, in grado di consentire nuove forme di riproducibilità dell’immagine e di cambiare il carattere complessivo dell’arte, con l’esplorazione di un radicale mutamento dei modi percettivi. Tali tecniche sono un riflesso e insieme un potente strumento interpretativo della realtà a esse contemporanea. In questa direzione il rapporto tra cinema e modernità viene rintracciato in una medesima acquisizione di esperienza intesa come Erlebnis → «nel corso della visione del film viene formalizzata l’esperienza vissuta dal singolo nella realtà moderna: stimolato da ininterrotte suggestioni e collisioni, il dispositivo come macchina pensante giunge a rispecchiare e raddoppiare le operazioni mentali proprie del soggetto novecentesco.» L’organizzazione in una forma compiuta e significativa delle differenti inquadrature attraverso il montaggio (e anche l’esperienza dell’attore cinematografico, vincolato a una recitazione frammentata rispetto alla messa in scena teatrale, come scrive lo stesso Benjamin), sembra infatti essere analoga al lavoro del soggetto, nel momento in cui deve poter rendere intellegibili a sé stesso, a posteriori, gli innumerevoli ed effimeri dati della sua esperienza, dal cui flusso viene come investito. La modernità come stile → in un senso differente, la nozione di moderno può dirci ancora qualcosa se affrontata da un punto di vista estetico, come caratteristica, cioè dello stile e del linguaggio filmico. I tratti stilistici del moderno cinematografico sono stati individuati nell’improvvisazione, nel rifiuto della spettacolarità, nel predominio della regia sulla sceneggiatura e dell’inquadratura sul montaggio, nell’ambiguità interpretativa. Come sintetizza Giorgio De Vincenti, il cinema moderno riscopre tutta la dell’establishment, altrimenti sostituiti dal categorico rifiuto da parte dell’individuo di inserirsi nella società. Infatti, sia il Free Cinema (inglese) sia il Kitchen Sink concentrano prevalentemente l’innovazione sul piano dei contenuti e del discorso ideologico, mentre il loro apporto alla sperimentazione delle forme, sebbene di certo non trascurabile, è meno dirompente di quello della nouvelle vague. Nonostante i propositi, il free cinema e il Kitchen Sink hanno però vita breve. Abbandonata la vita dei lavoratori nelle città industriali, i registi inglesi iniziano infatti a ritrarre la vita della swinging London, tanto che già nella seconda metà degli anni ’60, subcultura mod, moda e musica rock diventano gli elementi rilevanti del cinema britannico. Gli indici stilistici della modernità Il pluristilismo della modernità e i caratteri del cinema moderno → da alcuni anni, diverse linee storiografiche considerano e interpretano la modernità cinematografica come una serie di esperienze eterogenee che, dal secondo dopoguerra in poi, rivoluzionano il sistema stilistico e produttivo, soprattutto nel contesto del cinema europeo. Rispetto alle dinamiche inerenti allo stile e ai modi del racconto si intende la modernità cinematografica come un insieme di fenomeni diversi, talvolta contraddittori, un pluristilismo della modernità. In questo panorama le esperienze della nuove cinematografie internazionali procedono parallele e si fondono con le poetiche del cinema d’autore, nonché con il cinema di genere. Da un lato, troviamo un moderno come momento storico, dal neorealismo fino alle esperienze degli anni ’60, in cui le pratiche filmiche vengono spesso accompagnate e definite da un procedere teorico; dall’altro lato, un moderno come modo, come stile, come modello di rappresentazione e sistema produttivo. In questo senso la modernità italiana, ad esempio, presenta linee dal sapore differenziato, che vanno dalle riletture neorealiste alla consacrazione di autori che avevano esordito negli anni ’50, dalla generazione di esordienti dei primi anni ’60 fino alle diverse facce del popolare, dal gotico al western, dal mélo alla commedia. La modernità cinematografica instaura un rapporto con la tradizione, ridiscutendo e superando le convenzioni: da questo punto di vista il superamento delle norme classiche e la sperimentazione di nuovi linguaggi sono anche da considerarsi il tentativo di ricerca di un’identità stilistica attraverso nuove forme di racconto e rappresentazioni. Il cinema moderno è contraddistinto da alcuni caratteri che in buona parte differenziano rispetto al passato i modi della narrazione e lo stile della messa in scena, nonché l’impiego degli attori e la recitazione. Conta sempre più l’azione cinematografica che si compie e sviluppa nell’istante in cui avviene l’azione reale, e di conseguenza la scoperta del mondo nel medesimo istante della sua rappresentazione. Lo stile moderno è contraddistinto non solo da realistici piani-sequenza che rispettano la temporalità concreta, mantenendo la durata cinematografica identica all’effettivo arco temporale della realtà, ma anche da stacchi decisi, dalla frammentazione del montaggio, dall’astrazione sensorio-motrice e situazione ottico-sonora si accompagnano al taglio del montaggio e ai movimenti di macchina, alla materialità delle immagini e soprattutto allo svelamento dei codici, ossia un’incessante indagine metacinematografica che mostra il lavoro del dispositivo e svela i meccanismi del cinema. In particolare, nel cinema d’autore la dinamica autoriflessiva e quella metalinguistica rendono conto della poetica di un autore che non solo rielabora il suo vissuto, ma utilizza anche la scrittura filmica come contrassegno espressivo. Gli stili della modernità possono essere in qualche modo ricondotti a uno sguardo moderno, che anzitutto consta nel mettere in rilievo nuovi oggetti della rappresentazione e nuove modalità di visione. Dall’altro, lo sguardo moderno riconduce a una indecifrabilità del reale e all’impossibilità di cogliere la complessità del mondo, e dunque a un ampliamento delle sollecitazioni visivo-sensoriali, a una costante esplorazione di luoghi, in una temporalità sempre più rarefatta e ambigua. Gli indici stilistici della modernità cinematografica possono essere riassunti in un percorso che compendi l’eterogeneo panorama che si sviluppa tra gli anni ’40 e ’60, in particolare in Europa. L’antispettacolarità: Roberto Rossellini e l’avventura neorealista → l’esperienza del neorealismo si dà a vedere come un insieme di opere e vicende cinematografiche molteplici. Se ci riferiamo esclusivamente a film rosselliniani a tema bellico o resistenziale, realizzati sul finire della WWII o nell’immediato dopoguerra, ci troviamo di fronte a una trilogia, composta da Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1948). I tre film sono assimilabili da una spinta comune, appartenente più in generale al clima culturale del periodo, che vede nel racconto dell’urgenza della storia la caratteristica matrice. Nella trilogia si distingue un realismo improntato sull’immagine-fatto nel quale lo sguardo morale verso ciò che accade di fronte alla cinepresa permette la scoperta del mondo nel momento stesso in cui i fatti vengono raccontati. L’insistenza sull’uomo, sui piccoli fatti o gli eventi minimi e spesso insignificanti del quotidiano, talvolta slegati l’uno dall’altro, offre anche il disegno della pagine pagina storica di cui sono il risultato; il cinema rosselliniano si dà come strumento di registrazione e riproduzione di una realtà autentica e non mediata. L’antispettacolarità del cinema di Rossellini si evidenzia sia sul versante narrativo, attraverso l’orchestrazione si fatti e azioni dei personaggi che acquistano una nuova dimensione di credibilità che annulla in un solo colpo lo spettacolo, sia sul versante dello stile, attraverso un linguaggio essenziale che apre significati ulteriori senza indugiare sulla drammaticità dei fatti mostrati. Paisà, ad esempio, è considerato un film simbolo del neorealismo. Paisà, grazie all’unione di documentario e finzione, di filmati di repertorio ed episodi decisamente stilizzati, dà vita a un pastiche linguistico che ridiscute in modo esemplare la compattezza stilistica supposta per il neorealismo. Lo stesso per Roma città aperta, film manifesto dell’estetica neorealista. Rappresenta un modello cinematografico attento a esigenze espressive differenti, che accosta agli aspetti più documentaristici anche elementi simbolici, gags, nonché aspetti di contiguità con lo spettacolo e il cinema precedenti, e forme di negoziazione con le attese del pubblico. Tuttavia forse è in Paisà che si scorge meglio il tentativo di mostrare un’Italia colpita, ma anche animata da una profonda voglia di rinnovamento. Il dispositivo a nudo: il primo Jean-Luc Godard → nella prima metà degli anni ’60, Godard realizza circa 15 opere, tra cortometraggi, episodi in film collettivi e lungometraggi. Le caratteristiche di rottura delle norme linguistiche e di esplosione della narrazione sono già tutte visibili nel primo lungometraggio Fino all’ultimo respiro (1960), vero e proprio film manifesto della nouvelle vague francese che all’urgenza di un rinnovamento linguistico unisce la capacità di affrontare in modo originale le problematiche generazionali. Godard è a tutti gli effetti considerato il più sperimentale e radicale dei registi delle nouvelle vague, l’attentatore del linguaggio, colui che per primo rivoluziona il rapporto tra regia e tecnologia, inaugurando in questi anni una riflessione sul dispositivo che proseguirà per tutta la sua complessa carriera, fino alle sperimentazioni con il video, il colore, con i formati. Questa riflessione si mostra prima di tutto nella messa a nudo del dispositivo e dei trucchi dell’apparato filmico: in Fino all’ultimo respiro si evidenziano i meccanismi di montaggio, alcuni procedimenti come i jump-cuts o i ribaltamenti di campo, e viene costantemente inseguita la rottura della grammatica cinematografica, reintroducendo pratiche appartenenti al cinema muto, investiti però di una nuova potenzialità. Gli sguardi in macchina, ad esempio, soprattutto della protagonista femminile rappresentano momenti di astrazione nel continuum narrativo, ma offrono anche il segno di una drammaturgia dello sguardo e delle interpreti femminili, che accomuna Godard ad altri autori della modernità, come Ingmar Bergman. La messa a nudo dei procedimenti del cinema si accompagna a nuove pratiche filmiche e a nuovi metodi di ripresa, che rendono tutta la vitalità di un cinema sempre più disinteressato all’opera compiuta e che tende invece a un mélange costituito da rumori, immagini, volti, luoghi. Il dispositivo è istintivamente incorporato nella dinamica filmica e nell’ambiente, come se la macchina da presa fosse data per scontata, elemento naturale nello svolgersi non solo filmico ma anche dell’esistenza, e perciò continuamente chiamata in causa. Se ciò, nei primissimi film, avviene soprattutto da luoghi interni, con Il disprezzo (1963) è il paesaggio naturale a divenire uno spazio animato. Nel primo cinema godardiano la modernità è così vissuta da un lato come incessante sperimentazione sul linguaggio e sulla tecnica, dall’altro come affrancamento da una tradizione da rileggere, citare, commentare, superare → una ricerca del cinema. Realismo e sacralità: la trilogia della borgata di Pier Paolo Pasolini → Pasolini appartiene alla generazione che esordisce nel cinema italiano all’inizio degli anni ’60, ma al contempo rappresenta per diversi aspetti un’anomali. Anzitutto perché è uno scrittore e un poeta affermato e ha già lavorato in qualche maniera nel mondo del cinema (come sceneggiatore o come collaboratore di registi come Mario Soldati e Fellini). Esordire dietro la macchina da presa significa soprattutto, per Pasolini, trasferire l’interesse per le borgate romane e il sottoproletariato dalla letteratura al cinema, e quindi dare una forma cinematografica a un linguaggio già visto nelle esperienze letterarie dove prevale il racconto di uno sguardo. Esordisce con Accattone (1961), primo episodio del cosiddetto cinema di borgata, nel quale inizia a svilupparsi quella tensione verso la realtà che sfocia nella rappresentazione della Roma popolare. Tipicamente vediamo i volti del popolo interpretati da attori non professionisti → di solito compaiono vicino a un’attrice come Anna Magnani, simbolo di una romanità popolaresca. La ricotta, mediometraggio contenuto nel collettivo RoGoPaG (1969, firmato insieme a Rossellini, Godard e Gregoretti), terzo atto del cinema di borgata, presenta nuovamente una vicenda popolare, quella dell’affamato proletario Stracci che fa la comparsa in un film sulla Passione, e alla fine muore di indigestione in croce, interpretando uno dei ladroni accanto a Cristo. La ricotta ha caratteristiche inedite → ha un aspetto metacinematografico di grande rilevanza, svolgendosi in un set, che si spinge fino all’autobiografia, attraverso la presenza di Orson Welles nella parte del regista del film, alter ego pasoliniano che personifica tutta l’inquietudine dell’autore che si appresta a girare un film sulla passione. Se la trilogia della borgata va incontro all’urgenza di raccontare con altri mezzi il mondo del sottoproletariato, in particolare, è il tema della morte a tessere un primo e significativo fil rouge dal cinema di borgata in poi: la morte come liberazione da un presente difficile da sopportare; la morte come condanna per il tentativo di emanciparsi da una situazione di proletariato e migliorare le proprie condizioni di vita; e la morte come unica possibilità per il sottoproletariato di mostrarsi agli occhi del mondo. La tensione verso la realtà è un ulteriore aspetto su cui concentrare l’attenzione, anche per le implicite parentele che essa ha con il tema del sacro. La dimensione realistica dei primi film pasoliniani ha poco a che fare con un intento neorealistico → il suo realismo non è di specie documentaria e ancor meno sociologica: non vuole mostrare le cose o denunciarle ma presentarle nel loro aspetto epifanico, con uno scatto che assomiglia a un atto di violenza religiosa. Così, la dimensione sacrale del primo cinema di Pasolini si esprime in due direzione: da un lato, c’è la trasfigurazione del mondo della borgata, i cui protagonisti sono personaggi simbolici investiti di un’aura sacrale; dall’altro lato, vi è un aspetto sacrale nella preordinata scelta di che cosa riprendere, nel modo di vedere il mondo, nella fascinazione quasi estatica che coglie il regista mentre gira un film. Questo aspetto si lega a quella che Parolini definisce sacralità tecnica, ossia una sacralità che emerge direttamente dallo stile, dall’uso dei mezzi tecnici del cinema, scoperti per la prima volta e dunque già appartenenti a un hic et nunc trasfigurante e metafisico. Questo discorso sulla tecnica rimette al centro la peculiare modernità del cinema pasoliniano di questi anni, che in parte dialoga con alcuni caratteri linguistici coevi, in parte se ne discosta. La trilogia presenta, ad esempio, poche riprese in continuità e lavora più spesso sul frammento, anche se la freschezza della messa in scena (nonché l’uso di set naturali) ricorda i film della nouvelle vague. L’AVVENTURA Si tratta del primo grande successo di Michelangelo Antonioni. In particolare il primi presenta due degli aspetti caratteristici della poetica del regista → la difficoltà di comunicazione tra i vari personaggi e la loro collocazione in luoghi e ambienti spesso inospitali. La distanza tra i personaggi capaci di interagire e costruire rapporti profondi è enfatizzata dai lunghi silenzi, dalla presenza di oggetti che continuamente si frappongono tra loro, e soprattutto dal confronto con un paesaggio che spesso li respinge. Così Claudia e Sandro si trovano a cercare di ritrovare Anna, la donna scomparsa. La pista narrativa della scomparsa di Anna viene ben presto accantonata: le attese, le inazioni dei personaggi, il tempo che si dilata senza che accada nulla di rilevante divengono così i veri protagonisti del film, insieme all’amore tra Claudia e Sandro, vissuto con grande senso di colpa. L’ampliamento dei codici di narrazione, che si spinge fino al loro dissolvimento, inscrive così al suo interno anche gesti incomprensibili, dialoghi vacui, in un generale senso di disfacimento e apatia: L’avventura descrive l’indolenza dei passatempi borghesi, la perpetua inquietudine dei personaggi, l’ontologica solitudine che attanaglia l’uomo. Ciò che è visibile anche nella messa in scena del film, nel continuo cambio di posizionamento della mdp, che inquadra i personaggi spesso di schiena. Oppure nel topos caro ad Antonioni, da qui in poi, delle inquadrature vuote, che esistono immediatamente della presenza di una nuova piattaforma, intendendola sia come delivery system alternativo al altri, sia come territorio da colonizzare attraverso lo sviluppo di nuove industri, prima fra tutte quella dei videogiochi. Già a partire dalla metà degli anni ’70 l’incontro tra telecomunicazioni e informatica costituisce un obiettivo prioritario. L’inedita combinazione delle nuove tecnologie informatiche con altre tecnologie delle comunicazione in via di potenziamento si rivela, già negli anni ’80, l’elemento determinante per l’affermazione di una società della comunicazione di dimensioni mondiali e, via via, sempre più globali. I cambiamenti sociali che ne derivano sono profondissimi, tanto che l’etichetta società dell’informazione è spesso associata a quella di società postindustriale, a indicare come le trasformazioni che si annunciano nel territorio delle telecomunicazioni e dell’informatica favoriscano l’ingresso della società occidentale in un paradigma produttiva completamente nuovo, segnato, in particolare, dal dominio dell’informatica e dal passaggio progressivo a auna società dei servizi, in cui svolgono un ruolo sempre più cruciale l’innovazione tecnologica, la conoscenza e l’informazione. Uno dei primi e più influenti studi dedicati alla descrizione del nuovo paradigma sociale, La condizione postmoderna di Lyotard, pubblicato alla fine degli anni ’70, nasce come rapporto sulla condizione del sapere nelle società più avanzate. In esso, Lyotard suggerisce come l’incidenza delle trasformazioni tecnologiche prodotte dall’informatica sia destinata a rivoluzionare il modo in cui la conoscenza viene elaborata e trasmessa. Ciò che appare fin da subito chiaro è che i cambiamenti legati alla infosfera e alla tecnosfera sono destinati a ripercuotersi direttamente anche sulla sociosfera, sulla biosfera e sulla psicosfera. Jameson è stato tra i primi studiosi ad aver compreso come l’importanza assunta dai mass media in questo momento storico abbia contribuito a definire non soltanto un nuovo orizzonte materiale, ma anche un nuova struttura del sentire. Con questa espressione egli intende riferirsi sia a un nuovo stile di vita, legato in particolar modo all’esplosione della popular culture, che azzera definitivamente i confini tra cultura alta e cultura bassa, sia a un nuovo modo di sentire, vale a dire di concepire, concettualizzare e rappresentare il soggetto e il mondo. Nella postmodernità le logiche spaziali e temporali della modernità, definite all’interno di chiare relazioni oppositive, si indeboliscono o evaporano del tutto, sostituite da una spazionalità disorientate, composta di frammenti riuniti in un continuum senza chiare distinzioni, e da una temporalità fluida, che rimuove, in particolare, il senso e il valore della storia e della memoria, sostituendo a una sintassi tradizionale una sorta di eterno presente. Al centro di questa trama sociale dalle maglie informi e slabbrate, agisce un soggetto a sua volta sul frammentato. Nella postmodernità, dunque, i media smettono di essere pensati e di funzionare come semplici mezzi di comunicazione, per rivelarsi i principali artefici di un nuovo modello di realtà. Grazie a un nuovo potere e a un’inedita pervasività, i massi media – e in particolare, la televisione e il cinema – si fanno responsabili di una sorta di progressivo scollamento del rapporto tra individuo e mondo oggettivo, ormai sostituito da una realtà elettronica del tutto autonoma. Il soggetto della società occidentale entra così progressivamente in una condizione esistenziale che il filosofo francese Baudrillard ha definito estasi della comunicazione: in essa, il reale, sempre più plasmato dai mezzi di comunicazione, appare ormai privo di origine e abitato da simulacri, che, diversamente dalle immagini consuete, si impongono come copie prive di originali, o i cui originali sono del tutto perduti, introvabili o indifferenti. L’esito è un orizzonte fluttuante, privo di profondità, frammentato e appiattito sulle immagini stesse, causa ed effetto della perdita di valore di quei punti di vista centrali. Negli anni ’80 le immagini cominciano a funzionare come il motore di una nuova “iper-realtà”, non più dipendenti da un riferimento attivo e sensibile alla realtà fattuale. Una delle tante etichette con cui si è soliti caratterizzare la condizione postmoderna è quella di società dello spettacolo o dell’immagine. Il postmoderno sarebbe dunque, di conseguenza, un’età di esperienze superficiali, in cui ciò che si perde non è soltanto un rapporto denso con la realtà, ma anche la partecipazione del soggetto al senso della storia e il valore dell’esperienza individuale. - Il postmodernismo → i cambiamenti che si affermano in occidente a partire dalla seconda metà degli anni ’70 ha insistito su due aspetti: il ruolo determinante svolto dai mass media e dall’industria della comunicazione e la misura globale del cambiamento. Nuovi modelli di concettualizzazione dell’esperienza e di rappresentazione della realtà che si riflettono direttamente anche in un estetica sociale dominante e che prende il nome di postmodernismo. Il postmodernismo sarebbe da considerare un’espressione diretta e, insieme, rivelatrice dell’organizzazione sociale della postmodernità. La produzione culturale contribuisce infatti direttamente, e in modo capillare, a modellizzare il nuovo paradigma, mentre lo rende visibile e lo dota di una forma, sintetizzando quello che potremmo definire lo spirito di un’epoca. Il postmodernismo nasce anzitutto dal riconoscimento che l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi: dentro un contesto culturale da cui sembrano evaporare le idee motrici di novità, superamento e progresso caratteristiche della modernità, e in presenza di un passato nobile e insieme ingombrante, il postmodernismo non può che definirsi sulla base della relazione che sceglie di intrattenere con ciò che lo precede. Il passato deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente: un imperativo inevitabile, in cui la perdita dell’innocenza riferisce della crisi di fiducia nei confronti della possibilità di dar vita a qualcosa di realmente nuovo, capace di proiettarsi nel futuro e di segnare, in senso storico, un progresso lineare; una crisi consapevole, che l’ironia compensa, indicando al tempo stesso il regime emotivo tipico del postmodernismo. Umberto Eco introduce i tre concetti chiave del post-modernismo: rivisitazione del passato, ironia e metalinguaggio. Tre concetti che hanno origine comune nella consapevolezza che tutto è già stato detto e che l’orizzonte operativo del postmodernismo coincide fatalmente con un’azione e di seconda mano: riscrivere, riutilizzare, rivisitare. Ma, appunto, con ironia. Se c’è una libertà che il postmodernismo si concede, e anzi impiega strategicamente fin dagli anni ’70 per gestire il lascito della tradizione moderna, è proprio quella di assumere il passato al di fuori di un rispetto accademico della sua storicità e della sua ideologia, dei sacri valori dell’altra e dell’ordine degli stili, per trasformarsi in un serbatoio di forme, modelli e figure con cui giocare liberamente. Lo stile postmoderno è stato descritto come un modo in cui gli stili – tutti gli stili – vengano impiegati, contaminati, ripensati. Vale a dire, tutto è permesso: gli artisti, finalmente emancipati dal fardello della storia, erano liberi di fare arte in qualunque modo e per qualunque scopo desiderassero, oppure per nessuno scopo. La categoria dello spazio e del tempo, cui destino postmoderno è ben descritto, proprio dalla produzione culturale, nei termini di una liberazione dal flusso della storia e della storicità degli stili. Il tempo, in particolare è adesso sottoposto a continue frammentazioni, rotture, moltiplicazioni, e sembra organizzarsi secondo modelli più aperti, irrisolti, a volte paradossali, fino a trasformarsi nell’oggetto stesso dei racconti. Del resto, il sostituirsi di un modello razionale di progressione storica, spazializzato in una sintassi che distingue chiaramente tra passato, presente e futuro, con un modello in cui il tempo pare essersi annullato in una forma di eterno presente, privo di durata, sembra imporre, quasi inevitabile, queste categorie alla riflessione artistica: “mettiamo in dubbio la percezione del tempo pensato come unità piena, variabile e progressiva, adesso che tutte le forme possono darsi come presente e il presente stesso o l’appena trascorso possono essere ad ogni momento risospinti e sepolti dentro l’immenso trovarobato di un passato oscuro e indistinto. ***********(pag. 130) - Il cinema della postmodernità - I cambiamenti che si affermano già alla fine degli anni ’70 sul piano dell’organizzazione dell’industria del cinema e dei media non sono senza conseguenze sulla forma filmica, vale a dire sullo stile e sulle modalità di racconto dei film. Il caso del blockbuster ne è forse l’esempio più eloquente: alcune delle principali caratteristiche che lo definiscono in quanto film dipendono in larga parte dal tipo di progetto industriale di cui esso diventa il perno: il cosiddetto franchise, e cioè la recitazione e riformulazione degli elementi salienti di un film in altri media, dai videogiochi ai fumetti, all’animazione, attraverso pratiche diverse, senza contare la logica del sequel, caratteristica del postmoderno. Più in generale, il nuovo assetto assunto dall’industria dell’intrattenimento si ripercuote direttamente sull’identità stessa del cinema, sulle logiche creative e produttive che guidano la realizzazione del film e sulle modalità di fruizione da parte dello spettatore. In questo senso, gli anni ’80 sono un decennio cruciale: oltre a marcare un nuovo orizzonte di esistenza per il cinema, definiscono anche alcuni percorsi destinati a perdurare fino a oggi. - Dallo studio system alle industrie dell’intrattenimento → la principale trasformazione a cui va incontro l’industria del cinema – prima negli USA, poi in Europa – nella seconda metà degli anni ’70 potrebbe essere sinteticamente descritta come una progressiva conversione della propria vocazione: essa, infatti, cessa di operare come un’industria del film, e il film smette di essere il suo prodotto primario. Anziché realizzare singoli film, l’industria passa all’intrattenimento filmato, un business piuttosto diverso che abbraccia la produzione e la distribuzione dell’intrattenimento in una varietà dei mercati e media; d’ora in poi, la progettazione di un film sarà sempre più segnata da una logica industriale che fa leva su due strategie principali: da un lato, la costruzione di sinergie sempre più forti con gli altri settori dell’industria culturale e dell’intrattenimento; dall’altro lato, la valorizzazione dei mercati non-theatrical vale a dire quei mercati secondari alternativi allo sfruttamento commerciale del film nelle sale: nella fattispecie, quello televisivo e, a partire dai primi anni ’80, quello dell’home video. Il primo aspetto rappresenta la causa e l’effetto di un ristrutturazione complessiva dell’industria culturale. Il trend che si afferma è quello di un’alleanza sempre più marcata tra singoli ambiti dell’industria dell’intrattenimento all’interno di pochi, grandi colossi mediali. Un modello oligopolistico nel quale l’industria del cinema viene razionalizzata nel segno di un’integrazione orizzontale all’interno di ampie divisioni dedicate all’intrattenimento e alla comunicazione. Un modello che conclude l’epoca dello studio system, in cui l’industria del cinema è stata un’entità autonoma, dedicata quasi esclusivamente alla produzione di film destinati alle sale cinematografiche. Questi processi di integrazione e diversificazione prendono avvio negli USA già tra la fine degli anni ’60/’70, ma si definiscono in particolare nel corso degli anni ’80, grazie anche all’esplosione del mercato dell’home video, delle televisioni private e a pagamento, della video music e dei videogiochi. Dopo la recessione dei primi anni ’70 e a seguito del ritiro degli ultimi grandi tycoons della Hollywood del passato, a capo delle nuove majors vi sono sempre più spesso dirigenti provenienti da altre industrie. L’esempio della Paramount è paradigmatico. Nel 1966, dopo una serie di perdite culminate con il flop di La caduta dell’Impero Romano (Mann, 1964), la casa di produzione viene acquistata dal gruppo finanziario Gulf & Western Industries. Entra così a far parte di una Leisure Time Division. Sul fronte cinematografico, nel 1970 la neonata Cinema International Corporation lega poi Paramount e Universal in una società di distribuzione internazionale, a cui si associa anche la MGM, che ne uscirà a seguito della fusione con la United Artists. In questa fase, dunque, la Paramount non è semplicemente integrata ad altri ambiti dell’industria culturale, come l’editoria e la televisione; essa appartiene a un più ampio conglomerato industriale le cui attività spaziano dai servizi finanziari ai prodotti agricoli. All’interno di questo gruppo, tuttavia, i profitti derivanti dalla divisione dell’intrattenimento arrivano presto a rappresentare più di un quinto del totale: un risultato che nel 1989 incoraggia alla dismissione sei settori industriali della G&W non direttamente legati all’intrattenimento e alla rinascita del gruppo sotto il nome di Paramount Communication; è in questo momento che la società amplia ulteriormente la sua presenza nel settore televisivo e in quello, particolarmente redditizio, dei parchi a tema. Infine, il gruppo viene acquisito dal cartello Viacom, un conglomerato nato come evoluzione della rete nazionale CBS e sviluppatosi in seguito soprattutto nel settore televisivo, radiofonico e home video (nel 1994 assorbe la catena di videonoleggio Blockbuster). Attualmente, dunque, la divisione cinematografica Paramount è parte di un conglomerato internazionale, attivo nei settori dell’editoria, della radio e della TV via cavo, rinnovamento formale ed estetico dipendente da un’interpretazione del nuovo clima sociale e culturale (→ es. Woody Allen, Quentin Tarantino). Invece, ai film della postmodernità troviamo la ricerca degli autori postmoderni, talvolta ammorbidita o depurata dei suoi aspetti più sperimentali, si deposita in modo parziale o provvisorio, a volte come semplice moda, oppure si stempera e normalizza, fino a definire una serie di denominatori comuni. Così ad esempio da Pulp Fiction (Tarantino, 1994) ha per effetto quasi immediato di trasformare l’utilizzo di strutture narrative complesse e non lineari in moda o divertissement o marchio d’autorialità; sul piano della messa in scena, invece, la ricerca stilistica di autori come Scorsese e De Palma, caratterizzata, tra l’altro, da un marcato virtuosismo dei movimenti macchina, esonda rapidamente nel cinema mainstream, contribuendo a formalizzare alcuni codici espressivi comuni al cinema dell’epoca, come la tendenza a un montaggio sempre più rapido e a una variazione costante e spesso gratuita delle angolazioni di ripresa e dei punti di vista. Particolarmente diffusa, poi, è la pratica del recupero esplicito del cinema del passato attraverso forme molto diverse di intertestualità, dalla citazione alla parodia all’omaggio; anche in questo caso, tuttavia, non è facile distinguere tra una ricerca segnata da una consapevolezza autoriale, in cui l’attitudine intertestuale diviene spesso una riflessione sul cinema, la sua storia e il suo linguaggio. - Il dialogo con il passato → in particolare, il cinema postmoderno dialoga con due tradizioni principali, il cinema classico hollywoodiano e il cinema moderno europeo (italiano e francese), assunti non soltanto come modelli stilistici, ma anche come testimonianze di una certa idea di cinema; essi, in particolare, rimandano l’immagine di un rapporto denso, vitale e problematico tra film e società, autore e spettatore, spesso molto lontano da quello realizzato dagli autori postmoderni. Il dialogo con il passato piega frequentemente verso l’omaggio, il recupero nostalgico e rispettoso e la rilettura appassionata, senza per questo inibire del tutto l’ironia, il gioco e la dissacrazione, ingredienti essenziali che caratterizzano la stagione postmoderna del cinema, soprattutto negli anni ’90. Del resto i principali interpreti del postmodernismo cinematografico sono molto spesso, prima ancora che registi, spettatori onnivori e cinefili sofisticati, se non addirittura storici del cinema. Da un lato, dunque, una generale condizione di consapevole posteriorità rispetto ai grandi modelli e processi storici sembra imporre, anche al cinema, la necessità di un confronto con la tradizione, spesso segnato da una spiccata cinefilia; dall’altro, tuttavia, gli effetti di questa premessa culturale non possono essere appiattiti in formule generiche o univoche. Il modo di guardare al passato, di convocarlo e, quindi, di riutilizzarlo, cambia infatti sensibilmente da un autore all’altro ma, anche, da un decennio al successivo. Nel caso di Tarantino c’è un’euforia del riutilizzo spregiudicato e cinefilo che, non di rado, si consuma nella recitazione stessa. Mentre il percorso di Woody Allen, il cui cinema, che prende le mosse dalla rilettura in chiave ebraica dei modelli della comicità splapstick americana, svolta decisamente a partire dalla seconda metà degli anni ’70, grazie a una puntuale ripresa degli stilemi del cinema moderno europeo, da Bergaman a Fellini. I modelli provenienti dal passato – e, più in generale, l’idea stessa di cinema – sono continuamente sottoposti a processi di contaminazione, tra continuità e rinnovamento, rispetto e rifiuto, serialità cinefila e ironia: allo scopo di adeguare questi modelli alla contemporaneità. Se la tensione verso il passato del cinema – intesa sia come movimento più o meno obbligato verso si esso sia come gioco di forze creatrici – appare uno dei grandi elementi di omogeneità del postmodernismo cinematografico, molto variabile, come anticipato è la forma che assume questo dialogo. Nella fattispecie, sugli autori postmoderni sembrano agire due paradigmi in particolare, quelli del cinema classico e del cinema moderno. Essi appaiono assunti, alternativamente come due fasi storiche chiaramente identificate, come due opzioni stilistiche non più necessariamente avvertite in contraddizione o in opposizione, come due modelli passibili di essere ricondotti sotto un’unica insegna e liberamente contaminati, come due filtri interpretativi attraverso i quali guardare ora all’uno, ora all’altro. Insieme, queste due tradizioni hanno spesso offerto, i termini di riferimento attorno ai quali ordinare la produzione del cinema postmoderno, distinguendo, ad esempio, tra una postmodernità più direttamente influenzata dal modello spettacolare del cinema classico, e una postmodernità più modernista, influenzata dall’idea del cinema d’autore europeo. Al tempo stesso, tuttavia, il nuovo della produzione cinematografica risiede, almeno in parte nel postmoderno, appunto, come un modo di usare gli stili, potenzialmente tutti gli stili. Lo rivela bene, ad esempio, Velluto Blu di David Lynch (1986). Lynch assume il paradigma classico come riflesso di un’ideologia: il linguaggio e le sue regole sono visti, cioè, come la forma manifesta di un’idea di realtà che il cinema si incarica, attraverso le sue strutture formali e di significato, di modellare e ordinare. La superficie compatta del sistema classico viene quindi sottoposta a un lavoro, spesso molto sottile, di deformazione, orientato a scardinare l’ordine del reale per rivelarne la dimensione misteriosa, che dalla realtà non è il lato in ombra. La tenuta del racconto si sfalda di conseguenza: appannano i riferimenti storici e la relazione causale tra gli eventi, ma si appannano anche la logica ferrea della detection e l’ordinata amministrazione del racconto tra un plot principale e alcuni subplots, fino a produrre quell’atmosfera caratteristica in buona parte del cinema di Lynch: né realtà né sogno ma un mondo dreamlike, vale a dire una realtà velata di onirismo, perturbante nella sua incerta verosimiglianza. Il film di Lynch rivela bene come l’attitudine all’intertestualità e al metalinguaggio tipica del postmoderno possa risolversi in un sofisticato discorso rivolto contemporaneamente ai dispositivi, ai linguaggi e alla realtà. Velluto blu è dunque un film per molti aspetti esemplare del postmodernismo cinematografico. L’esito è un per certi versi strutturalista, in cui, cioè, il lavoro sulla forma filmica assume un rilievo del tutto particolare: l’atto stesso di dare corpo a un racconto cinematografico, di svolgerlo e organizzarlo si impone, infatti, come contenuto e problema. Insieme, e inevitabilmente, questa piega metalinguistica solleva altre questioni, prima fra tutte quelle dello statuto di verità delle immagini e del potere analitico dello sguardo → la verità delle immagini non si identifica più con la capacità di riflettere il mondo esterno (il cinema classico) o un universo interiore (il cinema moderno), ma con la capacità di far vivere intensamente una finzione dichiarata. Lo spettatore aderisce alle cose sullo schermo non perché le crede vere, ma perché esse gli permettono di vivere il cinema nel suo farsi. Di qui, si possono identificare 3 caratteristiche principali che definiscono il funzionamento del testo postmoderno, con particolare riferimento ai processi di lettura dello spettatore: anzitutto, uno spostamento del fuoco dall’attenzione dal contenuto della comunicazione all’atto del comunicare, da un vedere diverso alla consapevolezza di vedersi vedere; in secondo luogo un’azione percettiva che mescola una lettera presente (seguire ciò che dice/mostra il film) e un’azione memoriale (riconoscere il già detto/visto): l’intertestualità, del resto, è un meccanismo di continua inclusione del passato nel presente; infine, la spiccata dimensione metalinguistica e intertestuale dei film postmoderni implica un accesso e una partecipazione al testo molto variabili, direttamente dipendenti dalle competenze dello spettatore: così, ad esempio, di fronte a Interiors di Woody Allen (1978), il piacere della visione varierà sensibilmente tra uno spettatore in grado di riconnettere il film al cinema di Ingmar Bergman e uno spettatore meno attrezzato, che limiterà il processo di visione e interpretazione agli elementi diegetici. Ma queste due modalità di partecipazione possono anche agire simultaneamente, come le due facce di uno stesso mandato spettatoriale: uno sguardo consapevole, capace di cogliere la natura costruita del film, di riconoscere l’aurea ironico- omaggistica e di aderire al rimando intertestuale. In ogni caso, il funzionamento del film non appare compromesso: anche questo è un tratto caratteristico del cinema postmoderno, in cui, a differenza di quanto accade nel cinema di certi autori della modernità, l’interpellazione metalinguistica non arriva mai a consumare la dimensione narrativa e spettacolare del film. Va infine notato come l’azione di queste due logiche testuali dia vita, al alcuni fenomeni produttivi peculiari. Uno di questi è la moltiplicazione esponenziale, nel corso degli anni ’80 e ’90, di pratiche come il sequel, il remake, la parodia. Il basso continuo della relazione fra testi che governa la produzione culturale postmoderna si precisa così in una vera e propria estetica della ripetizione nella quale è proprio il riferimento esplicito a uno o più antecedenti a definire in molti casi il nuovo, traducendo una condizione operativa postuma in occasione di rinnovamento. Non stupisce, allora, che proprio il tema della ripetizione abbia finito per trasformarsi, nel cinema postmoderno, anche in vero e proprio motore narrativo: si pensi, ad esempio, a film come Psycho di Gus Van Sant (1998). Il film è un remake shot-for-shot (inquadratura per inquadratura) del capolavoro di Hitchcock del 1960, e nasce come esplicita provocazione del regista nei confronti della moda hollywoodiana del remake. Anche per quanto riguarda la cifra metalinguistica caratteristica del cinema postmoderno, vale la pena indicare come essa, oltre a rappresentare una storta di premessa culturale e di ritorno più o meno obbligato del processo interpretativo, abbia finito per fare vita ad alcuni fenomeni caratteristici. Si pensi, ad esempio, all’infittirsi di opere riferibili al genere del metafilm, vale a dire film che raccontano la lavorazione di un film, ne descrivono il funzionamento linguistico, sono ambientati nel mondo del cinema (→ es. Mulholland Drive o Hollywood Ending). Ma si pensi anche all’insistenza con cui il cinema postmoderno tende a dare particolare rilievo narrativo a forme di comunicazione metalinguistica, in cui quello che si intende mostrare o vedere, non è tanto il mondo, ma piuttosto il fatto stesso del mostrare e del vedere (opposizione a una comunicazione di tipo referenziale, in cui quello che conta è il mostrare il mondo, e corrispondentemente il vedere il mondo senza che questo mostrare e questo vedere si palesino come momenti di mediazione). Le strategie e i mezzi attraverso i quali prende forma questo tipo di comunicazione sono, nel cinema postmoderno, moltissimi. Mettere in dialogo il mondo (e modi) della finzione cinematografica e realtà, come in La rosa purpurea del Cairo (W. Allen 1985) e in The Truman Show (P. Weir, 1998); portare in primo piano l’atto stesso del vedere, come accade in Omicidio a luci rosse (B. De Palma, 1984). In tutti questi casi i film finiscono, in modo spesso esplicito, per interrogare sé stessi, il proprio statuto di opera di finzione, la propria natura linguista e costruita, convocando così questioni estetiche e filosofiche centrali nel dibattito post-moderno, dalla crisi del vedere al dominio dell’immagine. Al tempo stesso, è proprio attraverso un nuovo rilievo critico dato all’intertestualità e al linguaggio che il cinema postmoderno i rivela uno spazio prezioso per diagnosticare, definire e pensare la società che lo circonda. - Le forme della narrazione → l’analisi di Velluto blu ha sfiorato anche la questione dell’organizzazione del racconto: come si è visto, infatti, nel film di Lynch, il modello della continuità classica viene ripreso e, insieme, deformato. Velluto blu, in sintesi, racconta la sua storia in un regime misto, tra narrazione debole e antinarrazione: il primo regime, tipico del cinema moderno, è dominato da personaggi e ambienti enigmatici o opachi, a svantaggio delle azioni e degli eventi, che, di conseguenza, si concentrano in modo incompleto o provvisorio; nel regime dell’antinarrazione, invece, dominano la sospensione e la stasi , e il mondo diegetico appare un universo disconnesso, in cui le trasformazioni procedono a rilento, le relazioni causali sono sostituite da giustapposizioni casuali, il tempo si dilata, lo sguardo e la riflessione prendono il sopravvento. Del resto, i narratori postmoderni non sono, semplicemente, non (più) onniscienti: talvolta sono anche apertamente inaffidabili e confusi, narratori indeboliti di fronte al compito di ordinare una storia, di scioglierne chiaramente i nodi, di distinguere tra realtà e finzione, di orientare in senso morale e filosofico i contenuti verso un’interpretazione dominante. Il cinema postmoderno, infatti, mira esplicitamente anche a soddisfare il piacere del racconto, dell’avventura, della sorpresa e della narrazione di genere, pur dentro (o grazie a) un regime di consapevolezza diverso, sia sul fronte della produzione sia sul fronte del consumo, e dunque sulla base di un patto tra film e spettatore. Del resto, dinanzi a un film disperso, rallentato e instabile come Velluto Blu, lo spettatore finisce per non potersi più identificare con questo o quel personaggio: egli, semmai, si identifica con lo schermo, con il cinema in quanto luogo della finzione. Questo tipo di organizzazione diegetico-narrativa non è l’unica esplorata dal cinema postmoderno, ma ne è, senza dubbio, la più caratteristica. L’allentarsi delle maglie del racconto, la deformazione più o meno accentuata di un modello tradizionale di narrazione e la contaminazione di logiche consentendo così allo sguardo che guida il racconto nuove possibilità di movimento ed esplorazione dello spazio diegetico. Ogni movimento diventa virtualmente possibile, fino a imporsi come senso stesso della messa in scena: di qui, l’idea dello spettatore postmoderno come passeggero di una giostra, assorbito dalle proprie sensazioni visive e sonore, dallo spettacolo stesso di un movimento ininterrotto, diverso e mutevole, e dunque, inevitabilmente, meno predisposto a prestare attenzioni a ciò che sorvola. C’è quindi un bagno di sensazioni visive e sono costante e totalizzante e una chiara e forte sollecitazione sensibile dello spettatore che diventano, lungo gli anni ’80 e ’90, i tratti distintivi del blockbuster statunitense, lanciato come abbiamo visto, verso la conquista di un mercato sempre più globale e convergente, il blockbuster sembra ormai pensato, anzitutto, come laboratorio progettuale di nuove e inedite possibilità spettacolari della macchina cinema, una tendenza che pare recuperare a aggiornare la logica delle attrazioni associata abitualmente al cinema primitivo. Il film hollywoodiano contemporaneo tende sempre più ad essere caratterizzato da un notevole grado di essenzialità, sul piano narrativo, e di appariscenza, su quello stilistico, in modo da consentire al pubblico una fruizione semplice, immediata, preliminarmente basata sull’impatto visivo di certe immagini, e su quello sonoro di determinati brani musicali. Questa ridefinizione degli equilibri tra narrazione e spettacolo è destinata ad accentuarsi ulteriormente negli anni successivi, fino a trasformare il blockbuster in un dispositivo essenziale fondato su una sequenza discontinua di attrazioni visive e spettacolari, in cui la narrazione sembra giocare un ruolo secondario di collante. In particolare, a partire da Matrix, il ruolo della tecnologia si fa, via via, preponderante, sia sotto il profilo produttivo, sia dal punto di vista creativo: il cinema del nuovo millennio troverà nell’esplorazione delle possibilità offerte dalla tecnologia digitale una sorta di specifico estetico, con il quale superare, almeno in parte, certe impasses tipicamente postmoderne. - IL VIDEOCLIP - Gli incontri, le ibridazioni e le convergenze tra cinema contemporaneo e popular music sono numerosissimi. Dai bravi lanciati da film di successo a lungometraggi dedicati a band o musicisti contemporanei, nella forma sia del biopic sia del documentario, cinema e popular music condividono sempre più spesso strategie di mercato, pubblici e piattaforme distributive. Un oggetto come il videoclip sembra tuttavia sintetizzare in modo significativo l’incontro tra media audiovisivi e prodotti discografici. A partire dagli anni ’60, le band pop di maggior successo iniziano a produrre brevi filmati per accompagnare i passaggi televisivi dei brani. Nel 1967 i Beatles realizzano due filmati per i bravi Penny Lane e Strawberry Fields Forever. I cortometraggi diretti da Peter Goldman, alternano immagini della band a quadri di sapore surrealista, mentre il montaggio utilizza dispositivi come il ralenti. Contribuiscono a stabilire alcune delle modalità di messa in scena e di montaggio che sarebbero diventate comuni nei videoclip dei due decenni successivi. L’incontro tra le riprese della performance musicale e e inquadrature suggestive o simboliche firmato sono caratteristiche che segneranno l’oggetto videoclip negli anni a seguire. Per tutti gli anni ’70, le clip promozionali rimangono oggetti relativamente poco diffusi, per lo più riservati a band di grande successo. L’anno che segna l’esplosione del videoclip come oggetto mediale di enorme popolarità è il 1981, quando MTV avvia le proprie trasmissioni mettendo in onda il videoclip di Video Killed the Radio, brano dei The Buggles dal titolo significativo, che apre la stagione della musica pop in televisione. Nel decennio successivo nasceranno decine di canali tematici dedicati alla trasmissione esclusiva di videoclip, creando di fatto un intero settore industriale. Un momento di svolta è il 1983, quando Michael Jackson lancia il videoclip per il proprio singolo Thriller, un’opera che ha certamente i caratteri del kolossal costato quasi 1 milione di $ e diretto da John Landis. Il videoclip di Thriller sembra assolvere alla funzione di coniugare la forma breve del video con aspirazioni cinematografiche. Negli anni ’90 iniziano a emergere figure di registi specializzati in videoclip e capaci di imprimere ai propri lavori un maschio direttamente autoriale. Autori come Spike Jonze inaugurano percorsi stilistici ed estetici riconoscibili che spesso procedono parallelamente alla carriera dei musicisti con i quali collaborano. Alcuni dei registi di videoclip passeranno al cinema negli anni ’90 → es. Anton Corbijn che nel 2007 esordisce con Control, un biopic dedicato a Ian Curtis, cantante dei Joy Division - DOPO IL POSTMODERNO: IL CINEMA CONTEMPORANEO - I media tra digitalizzazione e convergenza - Il passaggio alla società digitale, in cui un nuovo linguaggio, il digitale, e una nuova grammatica, quella del network, ridefiniscono a fondo i concetti di informazione e conoscenza, riscrivendo di conseguenza le regole di azione e comunicazione in tutte le sfere dell’agire umano. Essi esprimerebbero nuovo vigore all’idea di un’emancipazione universale dell’uomo favorita dal progresso scientifico e tecnologico. Dal punto di vista tecnologico, la rivoluzione che si afferma a partire dalla fine degli anni ’90 del ‘900 è guidata da quattro fenomeni principali, profondamente intrecciati: in primo luogo, la diffusione mondiale, a partire dal 2000, di internet, una rete di reti telematiche ad accesso pubblico e di dimensioni mondiali; secondariamente, la progressiva digitalizzazione di tutti i tipi di informazione; in terzo luogo, il potenziamento e la semplificazione dei software destinati a elaborare questi contenuti: si pensi, ad esempio, ai cosiddetti software sociali, primo tra tutti Facebook; infine, lo sviluppo tecnologico degli hardware, che ha condotto non soltanto a una generazione di personal computer più user-friendly, ma anche al potenziamento della telefonia portatile. L’esito di questi processi di sviluppo tecnologico-informatico può essere riassunto in un solo termine, convergenza, che definisce sia la logica di funzionamento dei nuovi media, sia il modello di società e di cultura che essi alimentano. Cultura convergente è il titolo di uno dei più influenti studi sulla società contemporanea, pubblicato da Henry Jenkins. Accade così che, rispetto al recente passato, quando l’universo dell’informazione e della comunicazione era dominato da media tecnologicamente diversi e dall’integrazione non sempre facile, oggi la disponibilità di un unico linguaggio per rappresentare informazioni di molti tipi diversi, associata alla disponibilità di un unico strumento per gestire ed elaborare questa informazione, permette un livello di integrazione fra codici diversi completamente nuovo. Il che conduce a una nuova profonda ridefinizione dell’identità dei singoli mezzi di comunicazione e dell’idea stessa di sistema dei media. La digitalizzazione ha infatti favorito il progressivo sganciamento di un determinato medium da una specifica piattaforma tecnologica e la definitiva erosione di una tradizionale corrispondenza tra infrastrutture materiali e tipologie di comunicazione. In concreto, ciò significa che un medium, oggi non è più chiaramente definito da un accoppiamento stabile e riconoscibile tra una certa tecnologia e una serie di protocolli. Oggi, tutti i media, vecchi e nuovi, vivono su piattaforme tecnologiche divise, e nessun linguaggio o mezzo di comunicazione, neppure provvisoriamente, aderisce a una soltanto di esse, in quanto specifica e caratterizzante: così ad esempio, oltre che in una sala cinematografica o in televisione, oggi un film può essere visto anche su un computer, un tablet o un telefonino, tecnologie accumunate dal fatto di essere supporti mobili e multifunzionali. Una volta smaterializzati in linguaggio numerico, i contenuti sono liberi di migrare da un supporto all’altro, mentre cambiano anche le modalità di appropriazione, archiviazione e scambio: un film può essere oggi facilmente scaricato dalla rete, copiato e condiviso, dopo essere stato codificato e compromesso in una serie di formati video (avi, mp4, mkv ecc.); può essere registrato su un supporto come il DVD oppure conservato su un computer o su una chiavetta USB, ma anche editato e condiviso su siti di file sharing o in software sociali come testuali e canali deputati alla loro distribuzione favorisce, in breve, un fenomeno diffuso di rilocazione mediale. Il termine descrive bene lo spostamento fisico a cui la digitalizzazione e la logica della convergenza predispongono tipologie testuali prima associate a un determinato contesto di fruizione, portandole a occupare nuovi spazi sociali, ad agire in nuovi ambienti mediali e a disegnare nuove modalità esperienziali. Per quanto riguarda queste ultime, l’orizzonte attuale finisce per erodere i modelli e le pratiche di consumo storicamente associati a un determinato medium, attribuendo al fruitore un ruolo inedito nella definizione delle coordinate spazio- temporali che incorniciano la fruizione e nella progettazione dell’esperienza mediale. Così, ad esempio, la duratività del rapporto tra media e audience e oggi rimandata quasi completamente a quest’ultima. Le abitudini tipiche di visione del fruitore, scandite da appuntamenti definiti, subiscono un mutamento e approdano a un’organizzazione personalizzata dei contenuti: in precedenza la visione della mia serie preferita era cadenzata da appuntamenti fissi (es. tutti i lunedì), ora le possibilità di fruizione sono molteplici. Il compiersi, il calendarizzarsi e il durare del rapporto tra media e audience non è più dunque eterodiretto, vale a dire dettato dai primi e modellato secondo logiche, ritualità e protocolli stabili e riconoscibili, ma si trasferisce quasi interamente ai contenuti e alla forme testuali, di cui il fruitore può appropriarsi liberamente per consumarli in media environments personali e mutevoli. L’attuale potenziamento del ruolo del consumatore nei processi mediali ha fatto parlare della nascita di un nuovo modello di audience, performativa e diffusa, che fa esperienza dei media in luoghi e in forme diverse, che è sempre connessa, attiva e reattiva. A definire questo modello sono tre fattori principali: accanto alla personalizzazione del consumo vi sono la competenza tecnologica e l’interattività. Una spiccata competenza tecnologica è una condizione alimentata dalla logica stessa della convergenza, che invita sempre più il consumatore a superare il ruolo di mero ricettore per farsi produttore di contenuti originali o reimpaginare di contenuti preesistenti. L’esempio offerto dalla piattaforma YouTube è emblematico e segna un punto di svolta nella storia dei media: non sono perché YT si è trasformato rapidamente in uno spazio di condivisione delle iniziative creative dell’audience, di cui contiene idealmente un catalogo tipologico piuttosto esaustivo, ma anche perché rivela compiutamente le trasformazioni condotte dalla convergenza nei rapporti di forza tra industrie mediali e consumatori → che possono oggi giocare un ruolo del tutti inedito, forti di un potere di interazione e partecipazione in grado di influenzare, in forme diverse, i fronti della produzione e della circolazione dei contenuti, processi fino a oggi governati dalla multinazionali della comunicazione. È facile intuire come la logica della convergenza sottoponga anche i singoli linguaggi e le singole forme testuali a processi di integrazione, scambio e ibridazione sempre più intensi. I media vivono in un sistema dinamico di relazioni, in cui l’azione di ogni singolo medium influenza quella degli altri e viceversa; un sistema in cui è all’opera un regime costante di rimediazione, vale a dire l’appropriazione, da parte di un medium, di tecniche, forme e significati sociali messi a punto da altri media. Tuttavia, la medialità contemporanea sembra strutturare questi processi di rimediazione in altre forme inedite e intense. A prendere il sopravvento è l’idea stessa di intermedialità, al punto che il modo più appropriato per definire un medium, oggi, è come ciò che rimedia: la nostra cultura concepisce ogni medium come qualcosa che risponde a, ridispone, compete e riforma altri media. Sembra che nessun medium possa in questo momento storico funzionare indipendentemente, costruendo il proprio tipo di spazio di significati culturali separato e privo di contaminazioni. Come a dire che l’identità dei singoli media è oggi definita dall’evidenza dei processi di rimediazione che essi mettono in atto, mentre l’efficacia di questi ultimi ne determina il valore. Di qui, una nuova condizione di esistenza anche per quanto riguarda i linguaggi, le forme testuali e le significazioni sociali tradizionalmente associati ai singoli media: essi sembrano oggi spinti sia verso fenomeni di fusione semantica, più che di semplice ibridazione o traduzione mediale, sia verso fenomeni di riorganizzazione sintattica, come rivelano la logica dell’ipermediazione, vale a dire la coabitazione e il dialogo di media differenti all’interno di una stessa cornice interattiva, oppure, come particolare riferimento all’asse temporale, la logica del transmedia storytelling, su cui si basa oggi la produzione blockbuster. Anche sul piano dei linguaggi e delle forme, la convergenza sembra alimentare una condizione di instabilità e apertura, di interminatezza e confusione, di spostamento, dislocazione e vicinanza sempre più stretta tra mondi: in misura se possibile maggiore rispetto al passato, non esiste un modo specifico in cui ogni linguaggio. L’unica struttura insieme adeguata è quindi quella aperta della logica del tutto è possibile. In termini metodologici, questo scenario – la cosiddetta postmodernità – sembra imporre che la stagione postmediale sembra alimentare nei confronti di una messa a fuoco dell’esperienza cinematografica pesa in effetti una sottovalutazione del potere strutturante del dispositivo cinematografico nella relazione fra testo e spettatore. Accanto a quella di esperienza, proprio la relazione fra testo e spettatore. Accanto a quella di esperienza, proprio la nozione di dispositivo è tornata centrale nella riflessione teorica degli ultimi anni, a patto di intendere il dispositivo cinematografico: una specifica modalità di esposizione, fondata sulla compresenza di un testo filmico e di uno spettatore fisicamente e psichicamente orientato a guardare (e ascoltare) una proiezione; e una specifica modalità di disposizione. Posizionarsi da questo punto di vista significa abbandonare un’analisi puramente fenomenica delle trasformazioni a cui sono andati incontro il dispositivo e l’esperienza cinematografica nel quadro della network society, per insistere su un’analisi del modo specifico i cui il cinema riesce a esercitare facoltà che gli sono caratteristiche: soddisfare un prepotente bisogno residuo di storie; dare soluzione drammaturgica all’esperienza della realtà; favorire, l’esperienza di un mondo che non conosciamo, ma che si accorda alla nostra esperienza di vita. La facoltà di esercitare un pensiero critico sul mondo contemporaneo. Il discorso cinematografico possiede una sua singolarità in quanto specifica relazione tra realtà, immagine e spettatore; la chiede, la proietta e forse impone un linguaggio alle immagini e impone a questo linguaggio di essere guardato e vissuto in un certo modo, dunque, contro una tendenza analitica ormai diffusa, che enfatizza la dispersione dell’azione del cinema nella moltiplicazione degli apparati di distribuzione e consumo, appare oggi necessario pensare al dispositivo cinematografico come progetto discorsivo e ambiente di relazioni specifico, in grado di assimilare e ricondurre a sé le trasformazioni condotte dal linguaggio e dalla tecnologia digitale. Tale moltiplicazione non finisce automaticamente per obliterare un modo autonomo trans-storico di strutturare la visione e l’esperienza di immagini in movimento: esso è inscritto nella forma e nell’intenzione comunicativa del film a cui dà luogo lo spettatore ogniqualvolta accetta di aderire all’unità temporale della proiezione e di rispettarne l’integrità, entro una cornice situazionale ed esperienziale sedimentata in termini prima di tutto storici e comportamentali. L’esperienza cinematografica è una costruzione discorsiva che si realizza all’incrocio tra due intenzioni: da un lato quella del film, dall’altro lato, quella dello spettatore. L’intenzione dello spettatore di dedicare tempo al cinema e di sincronizzare in senso simbolico la propria esperienza esistenziale con quella raffigurata sullo schermo. È questo tipo di esperienza ha modo di prodursi ogniqualvolta un soggetto si pone consapevolmente nel ruolo di spettatore e, anzi, in esso si ritrova e riconosce, reagendo all’indeterminatezza del gioco contemporaneo dei ruoli, spesso difficili da gestire: anche questo ritrovarsi può essere rubricato tra i bisogni che il cinema ancora oggi soddisfa. Il dispositivo e l’esperienza cinematografica sembrano imporsi per differenza rispetto alla logica profonda della postmedialità. Ad esempio, alle caratteristiche di leggerezza e astrazione del flusso della testualità digitale, il cinema oppone il peso specifico del suo durare. Il cinema sembra in parte resistere a quella logica di naturalizzazione o trasparenza caratteristica della medialità contemporanea, in cui una connessione sempre più profonda tra esperienza del media ed esperienza ordinaria oblitera non solo la presenza del medium, ma anche la natura costruita, artificiale, dell’esperienza mediale; rispetto al passato, il cinema acquista una sottigliezza che gli permette, in modo nuovo, di insinuarsi nelle pieghe del mondo sociale: diventa leggero, accessibile, disponibile, polimorfo, rimanendo tuttavia dentro la sua storia. Al tempo stesso, è proprio questa sorta di sfasatura che oggi non solo distingue il cinema da altri dispositivi perfettamente organici alla cultura digitale, ma ne rilancia, insieme, il valore e la necessità. Il cinema è parte del contemporaneo, ma non vi appartiene fino in fondo o, meglio, non vi si confonde; vive leggermente sfasato. Ma è a partire da qui che il cinema può incorporare il contemporaneo. Da molti punto di vista, il dispositivo cinematografico appare quindi, ancora oggi, l’unico in grado di stabilire e strutturare quel rapporto attivo tra spettatore, immagine e realtà che la visualità contemporanea ha incrinato, ora verso un regime dell’indifferenza – verso l’immagine e verso la realtà che l’immagine indica – ora verso un regime dell’onnipotenza dell’immagine ma, anche, onnipotenza verso l’immagine. Tra le facoltà che il cinema contemporaneo ancora esercita, in una dimensione di necessità insieme storica, sociale e antropologica, vi è dunque quella di saper istituire un rimando denso, problematico, dotato di efficacia simbolica al presente, alla realtà, alla storia. - IL DIGITALE NEL CINEMA - A partire dagli anni ’80, la diffusione delle tecnologie informatiche dedicate alla realizzazione di immagini in movimento e il progressivo ridursi dei costi e della complessità dei dispositivi digitali rendono l’utilizzo di tecniche di animazione computerizzata una pratica comune in diversi settori dell’industria dell’audiovisivo. Un film come Tron (Steven Lisberger, 1982) anticipa la discussione sulla realtà virtuale che avrebbe polarizzato il discorso sulla tecnologia nel decennio successivo e sfrutta anche le potenzialità della sintesi digitale in una sequenza di circa 15 minuti realizzata interamente in computer grafica. È solo nel decennio successivo che l’utilizzo di strumenti informatici diviene pervasivo, coinvolgendo di fatto tutti gli ambiti dell’industria del cinema. Nel 1995, Toy Story (John Lasseter) è il primo lungometraggio realizzato interamente in CGI e il capostipite di una tendenza alla digitalizzazione che coinvolgerà l’intero settore del cinema d’animazione americano negli anni a seguire. Al tempo stesso, le tecnologie digitali e informatiche non sono messe al servizio unicamente della sintesi di immagini computerizzate, ma cominciano a essere utilizzate anche in altre fasi di produzione del film. Nel 1999 George Lucas gira parte di Star Wars Episodio I utilizzando una mdp interamente digitale, la Sony CineAlta F900. Negli anni successivi Michael Mann avrebbe esplorato le potenzialità estetiche delle mdp digitali utilizzandole dapprima in lunghe sequenze e, in seguito, rinunciando alla pellicola. A partire dalla fine degli anni ’90, dunque, le tecnologie digitali cominciano a diventare in alcuni casi il supporto di cattura delle immagini, sostituendo la pellicola. Prima ancora, già all’inizio degli anni ’90, la tecnologia digitale aveva rivelato le sue potenzialità nell’ambito del montaggio. Sebbene una larga maggioranza dei film prodotti per la sala sia, ancora oggi, girata utilizzando la pellicola, i negativi in 35mm vengono ormai quasi sempre digitalizzati per ottenere un digital intermediate, vale a dire una copia digitale da utilizzare nel processo di montaggio e post produzione. Software come AVID o Final Cut sostituiscono progressivamente la moviola usata per montare la pellicola introducendo una logica di montaggio non lineare. Più di recente, la conversione al digitale ha investito anche settori come la distribuzione, l’esercizio e il consumo del prodotto film. A partire dal 1998, si assiste a una progressiva digitalizzazione anche nell’esercizio: sempre più sale dismettono i proiettori a 35mm per dotarsi di sistemi digitali. Questi proiettori, anziché utilizzare rulli di pellicola vengono caricati con un DCP (Digital Cinema Package), un file criptato contenente il film noleggiato dall’esercente. Con la fine del 2013 il processo di conversione tecnologica delle sale può dirsi concluso, almeno in Italia. L’utilizzo di strumenti digitali per la cattura o l’acquisizione delle immagini ha reso l’oggetto film sempre più intangibile: l’immagine non è più conservata, ma modificata in una sequenza binaria. Una volta digitalizzate, le immagini in movimento possono essere conservate su supporti che ne rendono la dissuasione e la trasmissione particolarmente agevoli. La distribuzione digitale, operata da servizi come Netflix o Hulu, permette inoltre la creazione di banche dati di contenuti ai quali è possibile accedere in tempo reale. Algoritmi di compressione particolarmente sofisticati come DivX o mp4, riducendo le dimensioni dei file video, consentono un più agevole scambio degli stessi tra gli utenti che possono acquisite film e altri materiali attraverso software dedicati alla condivisione di dati. Questi file video possono inoltre essere modificati, integrati o rimontati dagli utenti stessi tramite software di montaggio comunemente disponibili, dando vita a pratiche di rielaborazione creativa dei film con scopi e risultati disparati. - Forme e caratteri del cinema contemporaneo - I cambiamenti prodotti dall’avvento della tecnologia e del linguaggio digitali si infiltrano rapidamente anche nell’ambito della produzione cinematografica, il digitale alimenta cambiamenti destinati a ripercuotersi direttamente sul piano della forma filmica, predisponendo nuove possibilità espressive a tutti i livelli, dalla manipolazione del racconto alla messa in scena al montaggio. Indicare nella digitalizzazione il parametro qualificante e distintivo del cinema contemporaneo appare riduttivo, oltre che errato. La digitalizzazione delle procedure produttive non conduce, di per sé, in modo automatico, alla nascita di nuove tecniche e, eventualmente, alla messa a punto di nuove strategie stilistiche o estetiche. Sono gli usi particolari a cui vengono piegate le potenzialità offerte dalla tecnologia e dal linguaggio digitali a rappresentare un motivo di interesse. La contemporaneità del cinema non passa, insomma, attraverso la sola adozione di nuove risorse realizzativo, produttive o distributive: essa riguarda semmai la capacità del cinema di essere contemporaneo, vale a dire la sua capacità di filtrare, raccontare, elaborare criticamente e rendere visibile l’universo sociale e percettivo che lo circonda, i suoi modi e i suoi ritmi e le forme dell’esperienza. In questo caso, il linguaggio e la tecnologi digitali rappresentano, semmai, una risorsa che il cinema può impiegare per aderire con maggiore efficacia alla sensibilità per proprio tempo, intendendoli anzitutto come espressioni di un nuovo paradigma sociale e culturale. Il cinema si rivela capace di segnare una differenza, rinnovandosi e, al tempo stesso, mantenendo vive sia le peculiarità linguistiche, comunicative ed esperienziali, sia la sua capacità di pensare il presente, di metterlo in forma e di renderlo visibile, negoziandone le contraddizioni. Tali contraddizioni, oggi, sembrano scaturire essenzialmente dall’urto tra la realtà vissuta e il suo doppio tecnologico. Ne è testimonianza un vasto dibattito internazionale che, dalla filosofia alla politica, all’estetica, ha messo progressivamente a fuoco il contemporaneo come una stagione percorsa dallo scontro tra due modelli di esperienza e rappresentazione della realtà: uno segnato dall’intensificazione dei processi di astrazione tecnologica, l’altro da un ritorno della storia e delle sue ragioni. Un esempio, la scissione tra una cittadinanza digitale (network society), e una cittadinanza effettiva, vissuta, reale. I nuovi media sembrano dare corpo ad alcuni dei principali assunti filosofici della postmodernità, primo fra tutti l’idea che il mondo sia una costruzione sociale del tutto dipendente dagli schemi concettuali e dall’azione interpretativa dell’essere umano. Nel cuore della società digitale, l’idea di realismo ha cominciato a circolare come un termine investito di valori nuovi, attraverso il quale mettere a fuoco l’esperienza contemporanea, proprio nel momento in cui l’imporsi della network society sembra aver implicitamente legittimato la continuità di un approccio postmoderno, garantito da una tecnologizzazione sempre più spinta dalla realtà. Tecnologia e realismo emergono come due termini chiave del contemporaneo, le due facce di una medesima condizione. Due termini che ben si prestano anche a descrivere gli orientamenti che meglio identificano il cinema contemporaneo, tirato, tra una produzione che enfatizza la presenza e il ruolo della tecnologia e una più orientata a riaffermare un contatto sensibile, immediato, fenomenologicamente denso con la realtà. Due diverse strategie accomunate però dal tentativo di leggere, incorporare e mostrare il contemporaneo, e che finiscono per investire di valori e possibilità nuovi la duplicità dell’estetica e ideologica che vive nel cuore della macchina cinema. Queste due dimensioni che descrivono sinteticamente gli atteggiamenti opposti del suo posizionamento nei confronti della realtà, sembrano andare oggi incontro a una specie di valorizzazione selettiva. Le rispettive possibilità appaiono amplificate verso i poli opposti di un realismo fenomenologico ed epidermico, fondato sul principio dell’attenzione e di una smaterializzazione illusionista e tecnologica, fondata su un principio dell’attrazione, fino a scavare a una differenza tra due modi cinematografici di catturare e decodificare il presente. Il confronto con il reale resta in entrambi i casi la pietra angolare della rappresentazione e, in entrambi i casi, il tentativo appare quello di affermare un reale autentico. - Tecnologia, spettacolo, società digitale → la rinnovata centralità del cinema supereroico nel quadro del blockbuster contemporaneo non è accidentale. Rappresenta un fenomeno insieme caratteristico ed emblematico, in cui il dominio di una progettazione informatica dell’immagine sempre più sofisticata e insensibile non ne è che la premessa. A fare la differenza, oggi, è l’evidenza assunta dalla tecnologia: il potere immaginativo e creativo delle nuove tecnologie di produzione film siano a loro volta modellate su una strategia visiva dell’accadere dello sguardo, vale a dire su un guardare che aderisce alla fenomenologia processuale di quella che sta avendo luogo proprio lì, in quel momento. Il regista in Dancer in the Dark fa assistere al racconto di un osservatore- testimone. L’idea dell’immagine-traccia, che impressiona la realtà, è sostenuta in questo caso anche da un essere- impressionato da, vale a dire, da un essere colpito, ferito, in ogni caso raggiunto e toccato dal fatto. Così, nascendo da una critica allo sguardo tecnologicamente dissolto del cinema americano (e non solo), l’estetica dogmatica giunge, attraverso un riallineamento del corpo della realtà con lo sguardo che la coglie, a formalizzare un principio della presenza della e nella realtà. Una tecnica dello sguardo. Le strategie formali elaborate da Lars Von Trier e compagni nel quadro del cinema dogmatico non rappresentano che una delle possibili declinazioni di questo ritorno alla realtà, segnato da un’esigenza duplice: contemplarla e testimoniarla, impressionarla e impressionare, vale a dire risensibilizzare il ruolo e la posizione dello spettatore sia nei confronti della realtà sia nei confronti dell’immagine. In termini generali, questo è uno degli aspetti qualificanti del cinema neomoderno: altri esempi – altre declinazioni stilistiche – si possono trovare nel cinema di registi come Diaz e Costa. In tutti i casi, si osserva un riallineamento problematico tra realtà e sguardo, a partire dal lavoro di una istanza enunciativa ambigua, presente, testimoniale, quasi fisica, proprio nel momento in cui le procedure stilistiche tendono invece all’apparente oggettività e osservazione del tempo, della durata e del mondo reale. Di qui, un’etichetta, ormai ampiamente adottata dalla critica, quella di Contemporary Contemplative Cinema (CCC), che ben suggerisce, di questo cinema, sia la lontananza dai modelli della narrazione classica, sia la centralità che in esso assume l’incontro tra uno sguardo installato nella realtà e la realtà stessa. Interprete emblematico di questo cinema contemplativo è l’americano Gus Van Sant, la cui tetralogia della morte è direttamente influenzata dalla poetica di un altro autore abitualmente indicato tra i riferimenti del CCC, Béla Tarr. All’origine della serie, Gerry (film del 2002) si segnala come la ricerca di un codice della rappresentazione in grado di cogliere intensivamente lo scorrere del tempo, il suo manifestarsi e il suo durare, per dare del film un dispositivo di presentazione della realtà, colta nella sua integrità fenomenica. Gerry può anche essere descritto come un’avventura del corpo in movimento nel tempo e nello spazio. Se tema c’è, in Gerry, esso coincide dunque con una specie di lezione di respiro. Gerry rappresenta anche una lezione di verità per l’immagine contemporanea: liberare l’immagine da sé stessa, di una trappola di intrecci e storie che vanno alla velocità del cinema (un’altra velocità), forzare il recupero, in forma nuova, di un accordo tra realtà e immagine, armonizzando il tempo che definisce e accomuna alla radice i due spettacoli, non significa rilanciare una forma ingenua di rispecchiamento ma, ristabilire una relazione attiva tra realtà e rappresentazione. Gerry finisce così per indicare una strada utile a ristabilire una sensibilità sia verso il reale sia verso le sue rappresentazioni, mettendo direttamente in gioco l’evidenza della scrittura e dei corpi: il corpo del cinema, fatto sentire in modo strumentale perché riportato a un’ideale di origine di spettacolo della luce e del movimento; e il corpo del reale, che agisce nell’immagine in forma pure e quasi astratta, riportato alla sua dinamica fenomenica. In questo senso, il cinema appare infine valorizzato in quanto dispositivo differente nel racconto e nella testimonianza della realtà. Nel film Redacted (Brian De Palma, 2007), in cui la ricostruzione di un episodio reale viene ricostruito a partire da un ampio numero di fonti mediali. Ciò che viene messo in scena non sono direttamente i fatti, ma le loro iscrizioni mediali, rispetto alle quali il cinema ritaglia un ruolo cruciale, di tipo interpretativo e archivistico. Redacted è infatti un film fiction, nel senso che assume materiali, li seleziona e li organizza, per raccontare una storia; nel farlo, impone a questi materiali e alle loro versioni e visioni parziali dell’accaduto un punto di vista e una morale. Infine, lavorando a partire da materiali già esistenti, il cinema compie un radicale spostamento pragmatico del loro valere: da una condizione di esistenza a un significare storico e sociale. Il cinema svela, in quest’ultimo caso, una proprietà che gli appartiene da sempre, ma che oggi, nel quadro della visualità digitale, assume un valore cruciale, sia per come interviene a disciplinare l’involucro mediale che avvolge la realtà contemporanea, sia in rapporto alla propria identità. Questo fare archivistico, prodotto di una vera e propria capacità museale, ritaglia infatti per il cinema, un ruolo doppiamente specifico: da un lato, perché il cinema in quanto luogo della memoria, si pone come condizione simbolica e materiale per la racconta e la preservazione di eredità documentali della natura molto varia, da destinare successivamente all’analisi, al confronto, alla rinarrazione ecc.; dall’altro lato, perché questo lavoro si compie attraverso la valorizzazione di una procedura linguistica specificamente cinematografica, vale a dire il montaggio, inteso come un modo di concepire le immagini e, in un certo senso, anche la loro condizione di esistenza, dato che è impossibile, oggi più che mai, pensare a un’immagine al singolare, isolarla dalla rete dei rapporti in cui è presa, o anche solo spogliarla dagli strati di memoria che la rivestono. Una versione del cinema per certi versi essenziale, non diminuita; una nudità operazionale che illustra bene – nell’epoca dell’immagine ready made – la capacità del cinema di far essere l’immagine, soprattutto quando essa dialoga esplicitamente con la realtà e la storia. Lo rivelano bene altri recenti media collage, tra cui The War Tapes e 102 minuti che hanno sconvolto l’America, entrambi associati ai principali eventi storici che hanno segnato l’inizio del terzo millennio, vale a dire, gli attentati dell’11 settembre e il secondo conflitto iracheno. In entrambi casi, si tratta di film senza regista → le immagini che li compongono sono frutto di riprese amatoriali o sono costruiti a partire dalle registrazioni audiovisive di un numero imprecisato di citizen journalists, semplici cittadini che hanno documentato “per caso”. Il particolare “102 minuti” illustra bene la facoltà archivistica del cinema, la sua capacità di disciplinare il flusso composto della documentalità audiovisiva contemporanea e di favorire la costruzione di una memoria collettiva. Il dispositivo cinematografico si pone in tutti questi casi come luogo di contenimento e organizzazione della testimonianza individuale, instaurando un confronto veridittivo basato non sul principio della somiglianza tra immagine e realtà, ma sull’intreccio delle testimonianze; di qui, anche la costruzione di una connettività sociale: le testimonianze, così ricomposte e messe in dialogo, entrano in un circuito di documenti destinati a preservare una memoria per il futuro. Attraverso il principio dell’articolazione narrativa e del montaggio, il dispositivo cinematografico dà vita a un processo di autenticazione intermediale: esso si offre come perimetro di contenimento, organizzatore e confronto tra diversi formati dell’immagine contemporanea, imponendo a questi frammenti di realtà un ordine e un senso, per traghettarli da una condizione di semplice coesistenza nel pulviscolo della visualità contemporanea a una condizione di testimonianza, significazione, valore. Questo impulso all’autenticazione intermediale segna, molto cinema contemporaneo, fino a rappresentare la logica profonda di uno dei più importanti degli ultimi anni, Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012). In particolare, il film di Bigelow realizza una sostituzione simbolica fondamentale: oscura, letteralmente, profluvio indisciplinato di registrazioni audiovisive relative all’11/09 e posiziona nel più drammatico punto cieco dell’ipervisualità contemporanea – la cattura e l’uccisione di Bin Laden – il lavoro del cinema. Mancasse quel primo gesto, Zero Dark Thirty potrebbe essere descritto semplicemente come la ricostruzione fedele dell’episodio che ha idealmente chiuso una storia cominciata con l’attentato alla Torri Gemelle. Ma quel gesto inaugura il film. Suggerendo così un vero e proprio passaggio di testimone da un regime realista a un altro, alimentando in primo luogo la necessità di riaffermare un valere delle immagini, non soltanto in quanto tracce del reale, ma anche in quanto veicoli di un’elaborazione esperienziale della realtà, sia di ordine cognitivo sia di ordine affettivo. In particolare, Zero Dark Thirty offre l’occasione per una riflessione in merito al tratto elaborativo dell’immagine, ciò che ne riqualifica la prestazione referenziale, vale a dire la capacità di intercettare il mondo, di esplorarlo e ridescriverlo, sulla base di un principio della differenza tra modelli, regimi, stili e tecnologie della rappresentazione. Non è un caso che Bigelow scelga di cominciare il film oscurando ciò che considera l’inizio della storia, vale a dire l’attentato alle Torri Gemelle. Impone a quella tragedia visiva uno schermo nero lasciando allo spettatore soltanto una traccia sonora. Un oscuramento che non serve soltanto a evitare quella specie di distrazione ipnotica che ha ormai svuotato di senso e densità le immagini del crollo delle Torri; nel caso del film di Bigelow si tratta anche di segnare, fin da subito, una differenza tra due modi dell’immagine, e tra due modi di raccontare per immagini la realtà. Perché tra l’inizio e la fine della storia, ciò che manca non sono semplicemente le altre immagini, ma un racconto. Vale a dire, qualcosa che chiuda e non soltanto una nuova ondata di riprese e di testimonianze oculari che vadano più o meno disordinate a riempire, fino a soffocare, un malinteso desiderio di partecipazione visiva; per chiudere la storia c’è bisogno, sì, di altre immagini, ma altre nel senso di diverse. Altre immagini disposte in un racconto; e ciò significa l’ordine di una narrazione. Così, per rafforzare una retorica realista e inaugurare subito uno spazio discorsivo in cui la realtà è indicata, rinviata, evocata e non semplicemente ripresa, Bigelow segna puntigliosamente luoghi e date, da quell’11/09/2001 fino al 01/05/2011, quando i “canarini” (così viene chiamata la squadra speciale incaricata della missione finale) entrano nel rifugio di Bin Laden, passando per gli attentati di Londra del 07/07/2005, dell’Hotel Marriott di Islamabad del 20/09/2008, di New York (Times Square) del 01/05/2010; così per dare avvio a una relazione costruttiva con quanto indicato dalla frase con cui si apre il film → «Questo film è basato su testimonianze di prima mano di fatti realmente accaduti», il racconto intreccia costantemente cronaca – i televisori accesi negli uffici e sintonizzati sui notiziari dei network televisivi e sulle dichiarazioni dei politici – e racconto finzionale da dentro e dietro le quinte, fino a un punto di massimo avvicinamento raggiunto quando la regista fa sedere la protagonista, Maya, nel ristorante del Marriott attaccato nel 2008. La ricerca di un ordine del discorso trova però il suo luogo esemplare nella mediazione degli eventi da parte di un solo punto di vista, quello di Maya. Zero Dark Thirty è, un film imperniato sulla progressiva costruzione di uno sguardo o, meglio ancora, su un processo di avvicinamento dello sguardo alla realtà. Se nella prima scena del film Maya, appena giunta in Pakistan da Whashington, ha abbassato più volte lo sguardo, fino a sentirsi domandare, una volta fuori, se preferisca seguire gli interrogatori successivi da un monitor, nel finale, prima di potersi sciogliere in un pianto liberatorio, apre pudicamente il sacco in cui è stato chiuso il corpo di Bin Laden riportato dai canarini, e lo guarda; anzi, lo riconosce, confermando così, attraverso quel contatto visivo, che l’azione si è conclusa. E da qui, solo adesso, può davvero cominciare un’altra storia, quella – caricata ovviamente anche di valori politici, sociali, morali – di un pensiero della realtà mediato da una rappresentazione. Poco prima, nella situation room da cui è stata sorvegliata, in diretta, l’azione dei militari inviati a catturare Bin Laden, c’era ovviamente anche Maya; e solo in quel momento, mentre la sua storia si chiudeva e, con essa, il racconto ordinato di eventi, parole e azioni di Zero Dark Thirty, solo in quel momento il film ha cominciato davvero a funzionare, trovando il suo senso e la sua necessità, e inaugurando un altro racconto o, meglio, un altro percorso, a ritroso, dentro dieci anni di storia e immagini. Un percorso dell’immaginazione in cui il cinema fa la differenza, riportando idealmente, dall’epilogo del film, a quelle prima immagini censurate, a una comprensione emotiva che scioglie finalmente il trauma dell’11 settembre in un percorso passionale storicamente sedimentata, culturalmente necessaria – del cinema all’interno della cornice mobile ed evanescente della visualità contemporanea. - IL CINEMA E L’11 SETTEMBRE - L’11 settembre 2001, 4 aerei di linea che stavano effettuando voli interni negli USA vengono dirottati da un commando di terroristi. Due dei velivoli si schiantano contro le Torri Gemelle, uno colpisce il Pentagono, mentre l’ultimo precipita nei pressi di Shanksville, Pennsylvania. L’operazione costa la vita a 2996 persone. Il gruppo jihadista di Al Qaeda, guidato da Osama Bin Laden, rivendicherà l’attentato solo tre anni più tardi, alla vigilia delle elezioni presidenziali statunitensi del 2004. Le ripercussioni sono, fin da subito, enormi, e investono, in occidente, i settori più diversi: politiche internazionali, economia, apparati bellici, discorsi sociali, dinamiche culturali e religione e produzione e distribuzione mediale. La ricostruzione delle dinamiche del panorama cinematografico e mediale post 11 settembre è dunque un’operazione complessa e in maniera puntuale anziché continuativa. Infine, lo stesso controllo da parte dell’interprete sulla propria immagine è di fatto impossibile, salvo in virtù di specifiche clausole contrattuali o di scelte poetiche particolari: l’immagine è svincolata dall’attore che ha contribuito a produrla, e può essere maneggiata, alterata, riprodotta e diffusa ben al di là della sua volontà. L’alienazione dell’attore cinematografico dal proprio lavoro è anche all’origine dell’attenzione prestata alla dimensione dell’organizzazione testuale, da un lato, e alla figura dell’autore identificato con il regista, dall’altro. C’è da dire che il contributo di ogni interprete alla rappresentazione cinematografica appare unico. Basti pensare ai casi limite di moltiplicazione testuale, quali i remake, o le versioni multiple realizzate soprattutto nei primi anni dell’avvento del sonoro, nelle quali si mantenevano prevalentemente la scenografia, la sceneggiatura e per lo più la messa in scena, sostituendo gli interpreti in base alla lingua della versione realizzata in ragione del mercato di destinazione. Ad esempio, si fatica a non percepire trasformazioni rilevanti nel passaggio di testimone avvenuto tra la recitazione composita di Paul Muni in Scarface (Howard Hawks, 1932) e quella nevrotica di Al Pacino nel remake omonimo di Brian De Palma (1983). Talvolta un diverso interprete è addirittura in grado di cambiare il genere del film. - Una questione di stili: le forme dell’attore cinematografico - L’attore cinematografico è soggetto a variare in base alla trasformazioni storiche, estetiche e produttive della rappresentazione cinematografica stessa. Nel cinema dei primi tempi, ad esempio, la recitazione è una delle serie costitutive di quello che lo storico André Gaudreault ha definito il cinema-attrazione. Il cinema dei primi tempi organizza materiali provenienti da altri ambiti per aggregazione, in maniera prevalentemente paratattica. Di conseguenza, la recitazione spesso mantiene integralmente i codici stabiliti nell’ambito originario: il circo, la prestigiazione, la danza o il teatro di prosa. La funzione dei gesti e della mimetica è spesso dimostrativa, e a carattere discreto, come nella pantomima. Tuttavia, nei contesti produttivi statunitense ed europeo il ruolo del gesto e della mimica era consolidato nella cultura rappresentativa teatrale e pittorica, in base a un sistema codificato di pose (attitudes): è questo stile di recitazione a imporsi nel corso degli anni ’10 e a uniformare il gusto del pubblico. Il modo di rappresentazione negli USA nel corso degli anni ’10 ha maggiormente integrato la recitazione in un sistema nel quale la dominante è costituita dalla narrazione e le differenti componenti le sono in qualche modo funzionali. Ciò ha implicato una serie di processi riassumibili: una segmentazione dell’interpretazione, ai fini dell’efficacia narrativa, laddove il cinema europeo negli anni ’10 propende per conservare l’integrità del corpo attoriale e della partitura gestuale; un’articolazione nella figurazione dell’interprete, funzionale a favorire la sua identificazione e l’attribuzione di personaggi fittizi di una serie di tratti psicologici, morali e comportamentali, attraverso l’impiego del primo piano nella definizione del personaggio e nell’articolazione sintattica; un’iterazione dei tratti recitativi, psicologici e caratteriali nella successione delle interpretazioni di un medesimo attore, tale da promuovere una sovrapposizione tra personaggi e loro interprete reale e creare una personalità. Questo insieme di processi, unitamente all’affermazione di una cultura della celebrità nel corso del XIX secolo, ha contribuito all’affermazione del divismo nel nascente cinema hollywoodiano, del quale ha costituito e costituisce tutt’oggi una parte integrante. Infatti, il divismo sin dagli albori di Hollywood è stato un fattore di identificazione e differenziazione del prodotto attraverso il nome dell’interprete cui quest’ultimo è associato; lo star system ha pertanto contribuito a stabilizzare l’offerta e la domanda di prodotti cinematografici; infine, esso ha costituito una strategia di adeguamento e negoziazione tra esigenze di pianificazione industriale e produttiva e quelle attoriali di padronanza sulla propria immagine. Allo stesso tempo, il divismo ha consentito sul piano ideologico di preservare una concezione di soggettività unitaria minacciata dalle trasformazioni inerenti ai processi della modernità. Il modello attoriale hollywoodiano non è unico. Non lo è nel sistema hollywoodiano stesso, nel quale determinati generi cinematografici hanno posto in primo piano la performance, come nelle interpretazioni di Fred Astaire e Ginger Rogers nei musicals, o nei film comici di Charlie Chaplin o Jim Carrey, o ancora nelle pellicole di azione con The Rock; e altri generi hanno invece favorito il predominio di una dimensione corporea e iconografica, come nei personaggi-maschera caratteristici della produzione horror. Nella storia del cinema mondiale, a più riprese si è affermato il modello non professionista → Jean-Pierre Melville in Fino all’ultimo respiro (Godard, 1960). Lo stesso cinema hollywoodiano, conseguentemente alla crisi dello studio system, ha ridefinito il fenomeno divistico. Al fianco della concezione della star come personalità, si sono affermate la star come professionista, diligente esecutore della parte, la cui interpretazione costituisce il valore aggiunto della produzione, come per interpreti rinomati quali Robert De Niro, Al Pacino o Maryl Streep. La svolta digitale del cinema contemporaneo ha nuovamente problematizzato la natura dell’interprete e molte nozioni consolidate. L’affermazione di istante di sintesi tra lavoro dell’attore ed elaborazione post-produttiva (synthespians o vectors, ovvero interpreti di sintesi o attori virtuali), in casi di grande visibilità e diffusione come Avatar, esemplifica la costante trasformazione dell’attore cinematografico in relazione ai cambiamenti estetici e tecnologici. - Lo specchio a quattro facce: prospettive sulla recitazione cinematografica - Quattro punti di vista dai quali osservare il fenomeno dell’attore cinematografico. La prospettiva iconologica assume la presenza umana nella rappresentazione per come essa viene figurata. Pertanto, si considera in quale maniera un modo di rappresentazione, specifiche strategie di messa in scena e motivi visivi ricorrenti determinino la configurazione iconica della presenza umana nei film. La prospettiva iconologia ha una sua valenza complessiva, ma risulta proficua nello studio del cinema muto, nel quale la ricerca di un’efficacia plastica della presenza umana è spesso prioritaria. Ad esempio, per comprendere il funzionamento dell’attore nel cinema espressionista tedesco è utile considerare come i suoi grandi interpreti abbiano ricercato e siano stati plasmati dalla messa in scena in base a motivi visivi dominanti: la recitazione antimimetica e con posture esasperate che caratterizza Il gabinetto del dottor Caligari (Wiene, 1919). Lo stesso cinema contemporaneo sollecita analoghi approcci. Inoltre, la prospettiva iconologica permette di raccordare la riflessione sull’attore cinematografico con i più ampi problemi di storia della visione. Infatti, gli interpreti cinematografici, indipendentemente dal ruolo assegnato loro, attraversano percorsi formativi, ereditano un sapere professionale e aderiscono a concezioni del mestiere variabili che specificano che cosa sia un attore e che cosa gli sia richiesto. Infine, un attore declina il proprio mestiere in una molteplicità di forme e di media che contribuiscono a plasmare lo stile. Un simile approccio consente di ricostruire la forza esercitata da istituzioni, media e prassi professionali nel definire lo stile di recitazione, la concezione dell’interprete e lo spazio assegnatogli da una cultura scenica. Tale prospettiva può chiarire l’influenza di altre forme spettacolari nella definizione del lavoro attoriale; ad esempio, l’organizzazione del diva film per moduli, che consentano all’attrice principale di esibire una propria gestuale mimica in coincidenza con l’apice drammatico della rappresentazione. Infine, l’attenzione alla dimensione stilistica considera il lavoro dell’attore quale contributo attivo alla rappresentazione, restituendo agli interpreti una funzione efficiente nella costituzione dello spettacolo cinematografico. Gli studi sul modo di produzione si concentrano particolarmente sull’organizzazione e realizzazione, e sulle più ampie esigenze culturali cui queste rispondono. Un determinato sistema produttivo assegna ruoli diversi agli interpreti in base alle esigente complessive di organizzazione e divisione del lavoro. Ugualmente, la pianificazione della lavorazione e la distinzione dei prodotti in generi cinematografici, sollecitano una pari distribuzione delle competenze attoriali per generi elettivi, e i momenti di ridefinizione sistemica riaggregano diversamente competenze e tipologie di impiego. La varietà dei modi di produzione, in base alle epoche storiche a i contesti geopolitici, induce a comprenderne meglio le logiche per poter definire adeguatamente la funzione svoltavi dagli interpreti; conseguentemente, anche nozioni apparentemente univoche e metastoriche quali quelle di attore, caratteristica o stella richiedono di essere vagliate alla luce di specifiche modalità di produrre e suddividere i ruoli professionali. Gli studi sul divismo sono stati tra i primi dei filoni degli studi cinematografici a eccedere la dimensione testuale. Infatti, per cogliere il funzionamento dello star system e della singola stella si richiede un’attenzione alla modalità con cui questa è costituita attraverso una pluralità di apparizioni filmiche ed extrafilmiche definita del teorico Richard Dyer polisemia strutturata → cioè la molteplicità di significati e affetti che le star incorporano e così il tentativo di strutturarli in modo tale che alcuni significati e affetti sono evidenziati, altri mascherati o spostati. L’interesse di questo tipo di analisi testuale consiste allora non nel determinare il significato e la percezione corretti, bensì nell’individuare quali significati e affetti possono essere legittimamente letti in essi; in che modo sono effettivamente appropriati o letti dai membri delle diverse classi, generi, razze, ecc. Da un lato, per descrivere una star è necessario costituire un intertesto che includa le manifestazioni extrafilmiche della sua immagine. Dall’altro, la star configura una personalità esemplare attraverso i suoi tratti caratterizzanti, sulla base dei modelli di individualità in una data società e in uno specifico periodo storico. Infatti, le star sono una delle realizzazioni più complesse ed efficaci della più ampia cultura delle celebrità, caratteristica della modernità e della postmodernità; inoltre, con la perdita di centralità del cinema, gli studi divistici rientrano oggi nel novero degli studi sulla celebrità. Perciò, l’analisi della persona divistica correla una costellazione di immagini a modelli di gender, razziali, etnici e nazionali. Infatti, le star articolano in maniera complessa idee di individualità, implicano una serie di tratti costitutivi di quello che si pensa essere un soggetto. Ad esempio la parziale trasformazione delle idee sulla femminilità avvenuta nella cultura italiana del secondo dopoguerra → emergono personalità quali Sofia Loren, Gina Lollobrigida o Silvana Pampanini. Il movimento costitutivo delle tipologie divistiche non è calato sul pubblico dall’industria mediatica; infatti, le immagini divistiche sono anche impiegate dei propri pubblici di destinazione per definire le proprie identità individuali e collettive. Perciò, l’attenzione alla funzione delle star nei processi di identificazione collettiva è cruciale per l’incontro tra studi divistici e studi culturali. Infine, star e celebrità hanno una funzione rilevante nell’industria cinematografica e mediatica nella pianificazione di strategie industriali e commerciali e nella cooperazione tra media. - Indagine su un attore al di sopra di ogni sospetto - Caso specifico di un attore di considerevole importanza nel cinema italiano tra gli anni ’60 e ’80: Gian Maria Volonté. Le interpretazioni offrono due modelli preponderanti, riassumibili nella dimensione eccentrica ed eccessiva, e in quella centrata e contenuta: da un lato, personaggi in costante esplosione, il cui corpo è faticosamente contenuto nell’inquadratura come in Per un pugno di dollari (Sergio Leone); dall’altro lato, profili rigidi e stabili, centrati, come le figure delineate in Il sospetto (Francesco Maselli). Tra i due gruppi di prestazioni, le prove più eclatanti dell’attore sono sotto la direzione di Elio Petri, sempre in bilico tra controllo ed esplosione → il commissario di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), l’operaio di La classe operaia va in paradiso (1972) e il politico di Todo modo (1976). I due modelli corrispondo anche a modalità di messa in scena del corpo attoriale differenti: dalla prevalenza del volto, nei film di Leone e Damiani, al privilegio maggiore accordato al corpo, negli altri film. L’attenzione alla figura di Volonté nella storia dello spettacolo, si individua nelle sue prove di attore la coesistenza di diverse eredità attoriali: il sapere e l’efficacia scenica del teatro italiano all’antica, appresi nell’accademia d’arte drammatica; l’approccio critico al personaggio e alla parte e la coscienza politica del lavoro di attore, diffusi nella cultura scenica italiana del secondo ‘900; il ruolo del corpo e la prassi recitativa come atti militanti, proprio al teatro di intervento e agitazione nell’Italia degli anni ‘60/’70, confermati dal contributo di Volonté a Vento dell’est (Godard, 1970). A questo insieme di elementi si aggiunga la versatilità interpretativa. Infine, lo stesso contributo performativo dell’interprete, capace di definire con eccezionale precisione grafica una galleria di caratteri e propone una lettura critica, corrisponde alla ridefinizione del sistema dei ruoli nel cinema italiano degli anni ’70, in cui le figure dei caratteristi possono assurgere a ranghi più alti. Volonté può essere considerato anche nei termini di una star. Infatti, l’interprete non si definisce esclusivamente in virtù del proprio stile recitativo, ma i personaggi eccessivi, i militanti politici, i ritratti inquietanti e grotteschi delineano due aspetti concomitanti: una cinematografico e che, sia pure in una forma assai più convenzionale, arriva fino a noi. Per i critici della politica degli autori, il soggetto del film è la sua messa in scena, la quale è la materia stessa del film. La registrazione oggettiva è l’elemento che struttura non solo quel rapporto proprio del medium cinema tra potere di riproduzione fenomenologica della realtà e potere di rivelazione di legami spirituali profondi, ma anche un altro tratto che, ad esempio, separa l’immagine dell’autore da quella della sua divulgazione sul terreno nordamericano. Se nell’autorialismo di Andrew Sarris possiamo individuare una teoria interessata a promuovere indiscriminatamente l’idea dell’autore come soggetto che esprime se stesso in modo il più possibile libero da vincoli e condizionamenti oggettivi e un’idea dello stile come il luogo esatto in cui si esprime questa libertà, questa personalità di un autore, nella critica francese non dà isomorfismo tra autorialità e riconoscibilità stilistica. ************* Prodotti di genere/prodotti di marca: l’autore come brand e la logica autoriale del postmoderno Di che cosa parliamo, allora, quando parliamo di cinema d’autore in epoca di postmoderno? Per molto cinema d’autore postmoderno, quella di Quentin Tarantino, Wes Anderson, la questione fondamentale e costruire sé stessi all’interno dei film. O meglio, costruire sé stessi come autori e come “marchi di fabbrica” sembra funzionare. Es. Kill bill vol.1 e vol.2: in questo film suddivido in due puntate, Tarantino lavora esattamente sulla costruzione di sé stesso come soggetto di referenza di tutto quell’universo che, si terrebbe in alcuna maniera. Se c’è qualcuno che lo rappresenta nel film, questo è Bill, che ricopre esattamente tale ruolo: colui che ha organizzato tutto e colui a cui tutto ritorna. A sua volta, lo spettatore è chiamato a occupare una posizione analoga, è chiamato cioè a un riconoscersi immediato. È chiaro perciò come l’interesse dello spettatore non è più tanto rivolto alla trama (non solo), ma è un interesse di tipo autoriale rispetto a uno stile del regista. Il film è l’esito di un’attività industriale, è destinato al mercato, è si trova quindi in regime di concorrenza con prodotti analoghi. Si rende quindi necessario lo sfruttamento di un marchio. Questo sfruttamento passa quindi attraverso il cinema e gli altri mezzi di comunicazione. La presenza di un carattere fisso, di un elemento a cui riferirsi che etichetti il prodotto e lo renda disponibile al consumatore motiva quindi il ricorso alla logica del brand. A garantire un certo grado di sicurezza allo spettatore resta l’universo di riferimento, il fatto che si faccia leva su una marca nota, un regista noto, un autore “noto per”. La continuità e la coerenza nella concatenazione intermediale sono garantite dalla figura dell’autore, che funge da un claim e al tempo stesso da testimonial per il suo stesso lavoro. LA CINEFILIA Introduzione - Il significato di cinefilia, secondo il dizionario è “amore per il cinema, per la storia del cinema e il mito del cinema”. La conoscenza del cinema distingue il cinefilo dal semplice simpatizzante, e presuppone una competenza che viene considerata indispensabile per meritarsi la qualifica di cinefilo, meglio ancora se questa erudizione somiglia a un sapere di tipo enciclopedico. Persino più importante è il ricorso al mito del cinema: la cinefilia considera il cinema un mezzo espressivo eletto e unico, un’arte del tutto originale. Nell’enciclopedia del cinema, cinefilo è una persona talmente appassionata di cinema da considerare la visione di film come la più alta esperienza estetica e intellettuale possibile, presupponendo dunque che, fra le tante nature del cinema, il cinefilo sia interessato primariamente a quella artistica ed esperienziale. Tra la sottovalutazione di un film d’autore e la sottovalutazione estetica di un prodotto apparentemente destinato al mero consumo commerciale, egli tende a privilegiare il secondo atteggiamento. La cinefilia, dunque, è una pratica estetizzante. - Il termine cinéphile, come racconta Antoine de Beacque è l’invenzione di uno sguardo e la storia di una cultura → cioè intende affermare che la cinefilia si distingue dal semplice piacere di andare al cinema per il fatto stesso di presupporre e istituire un comportamento sociale e culturale che guidi l’atto di guardare i film consapevolmente, costruire un sapere intorno alle opere cinematografiche e condividerne la passione attraverso regole e comportamenti ti tipo precettistico. Fino a che non esiste una consapevolezza critica e storica del cinema, non può esistere la cinefilia. È a questo che pensavano Delluc ed Epstein, considerati padri fondatori della cinefilia. Cinefilia classica Tocca a Delluc tra la fine degli anni ’10 e la prima parte degli anni ’20 meritarsi il titolo di primo, vero cinefilo. L’idea di Delluc era che il cinema potesse essere considerato un’arte da valorizzare, e che, come tale, meritasse una critica, una divulgazione, un discorso collettivo, una promozione e una conservazione. Tutte le idee accumulate da Delluc in questo periodo saranno poi via via istituzionalizzate negli anni successivi, specialmente a partire dal secondo dopoguerra. Delluc fu inoltre considerato il padre della critica → il padre simbolico della generazione Cahiers du Cinéma, così come i suoi film, insieme a quelli di Epstein, tendono a essere considerati una sorta di première vague, anticipatrice della nouvelle vague. Delluc, redattore capo della rivista “Film” e poi dal 1918 critico fisso di un quotidiano parigino, non distingueva tra pratica cinematografica, critica e militanza culturale → egli vede la cinefilia come uno strumento di verità sentimentale e filosofica. Cinefilia moderna L’interesse verso il cinema come mezzo artistico, all’epoca, era diffuso e coinvolgeva differenti strati della cultura e dell’ideologia. Tuttavia, la cinefilia che si sviluppa nella seconda parte degli anni ’40 tendeva a svincolarsi dall’idea di cinema come mezzo per veicolare idee progressiste dal punto di vista sociale o utili dal punti di vista morale religioso. Anzi, la cinefilia poi teorizzata da Truffaut prevedeva propria la liberazione della cultura cinematografica dai vincoli del contenuto, per fondare invece un phanteon di autori a partire dal primato della messa in scena, cioè lo stile. Dunque, tra il 1944 e il 1951, critica moderna e cinefilia moderna trovano un terreno di coincidenza nel mescolare le carte, nobilitare la cultura dei film, affiancare gusti fino ad allora considerati gerarchicamente inavvicinabili e aprire furiose battaglie estetiche su film e cineasti. La politica degli autori, secondo la quale il regista va considerato a tutti gli effetti il creatore dell’opera d’arte, fu il corollario indispensabile di un vero e proprio big-bang all’interno della cultura cinematografica. Fino al 1958-59, biennio in cui buona parte dei critici dei Cahiers esordì al cinema fondando la nouvelle vague, la cinefilia ha trovato via via maggiori specificazioni, assunto tratti e contorni riconoscibili, arrivando – sia pure in maniera anarchica – ad attribuirsi rispetti di natura quasi disciplinare: per meritarsi la qualifica di cinefili bisogna dimostrarsi attrezzati e amare i film giusti. L’esclusione polemica è aspetto importante della cinefilia almeno quanto quella della divulgazione del cinema. Il temperamento di chi pratica la cinefilia è di lotta, non di compromesso; le posizioni intorno ai film si polarizzano; l’attenzione nei confronti dei propri beniamini esclude aprioristicamente un giudizio bilanciato e, anzi, presuppone la valorizzazione dell’opera apparentemente minore. Per tutti questi motivi, la cinefilia porta quasi sempre all’instabilità dei soggetti editoriali e collettivi che ne costituiscono l’ossatura: i cahiers entrarono in fibrillazione nel periodo di Rohmer, a cavallo tra gli anni ‘50/’60, e più in generale tutte le riviste e i festival conobbero da quel momento in poi frammentazioni e scissioni. Noto il caso dei “mac- mahonisti” parigini che, in polemica con le linee assunte dai cahiers, ne interpretarono lo spirito più radicale, fondando una sorta di corrente interna. La cinefilia e la critica, in ogni caso, non sempre coincidono, e la pratica cinefila vive anche senza la critica, pur non potendo fare a meno del giudizio di valore. - Cinefilia militante - Dalla metà degli anni ’60 si entra in un periodo in cui è difficile individuare un percorso unitario da parte della comunità cinefila, che nel frattempo si era allargata dalla Francia un po’ in tutto il mondo. Le nette contrapposizioni ideologiche del periodo, e l’entrata in scena di una classe in lotta, era destinata a cambiare le carte in tavola. I giovani turchi, noti per essere indifferenti e, anzi, ostili alle politiche culturali del partito comunista francese e degli intellettuali alla Sartre, si trovarono costretti a schierarsi. Alcuni di loro, come Godard si gettarono nella pratica marxista- leninista, trasportata nella produzione cinematografica, mentre altri come Bellocchio consideravano il proprio impegno politico tutt’uno con la realizzazione di un film, con l’intervento pubblico, lo scritto critico e la polemica giornalistica. La cinefilia, negli anni che vanno almeno fino al 1977, in Europa viene scossa dalle novità ed è costretta a revisionare i criteri attraverso i quali si schiera a favore o contro un film. Qualche esempio → i cahiers all’inizio degli anni ’70 trasformarono la cinefilia in un’attenzione verso i film che, provenendo da aree lontane del pianeta o decostruendo il linguaggio cinematografico ufficiale, processano criticamente la nozione di film in quanto tale. In Italia, la rivista “Ombre rosse” riservava il suo interesse al cinema popolare in quanto portatore di istante naturalmente anti-istituzionali e al cinema del terzo mondo, in quanto espressione di alterità espressiva. Il furore antiborghese portava a condannare cineasti, anche si sinistra, ma schiacciati su progetti troppo istituzionali: nasce qui una lunga condanna cinefila nei confronti di registi come Elio Petri o Francesco Rosi. Negli altri settori della cinefilia la situazione non è meno ribollente. Anche i festival vengono contestati e riconfigurati, mentre la scena dei cine- club europei rappresenta la confusa ma vitale energia del momento. A ben pochi ormai interessavano Hitchcock o Bergman, ma si continuava a mescolare Hollywood con il suo opposto (cinema africano, brasiliano, orientale), sostenendo comunque una politica degli autori, in questo caso però registi in grado di sabotare politicamente e ideologicamente i sistemi di potere. La cinefilia militante continuava a mettere al centro del proprio discorso il cinema, interpretato come mezzo discorsivo necessario alla lotta politica, alla formazione culturale e ideale delle conoscenze, al rapporto tra intellettuali e movimenti sociali, il che ovviamente non poteva che influire sulle pratiche di condivisione della comunità cinefila, all’epoca sempre più simili alle altre aggregazioni di sapore collettivo e politico. Cinefilia magnetica - Gli anni ’70 segnano la cinefilia tanto quanto il rinnovato orizzonte mediale di riferimento. Le novità provenienti dal sistema televisivo e il lento affermarsi dei videoregistratori mutarono lo scenario in maniera radicale. La diffusione delle nuove tecnologie ha a che fare con processi apparentemente lontani, come ad esempio i primi tentativi di studiare il linguaggio del cinema nelle scuole, la diffusione di una sensibilità per il cinema d’autore, la possibilità di accedere a contenuti cinematografici impensabili in precedenza. I cineclub persero la propria centralità mentre lo spettatore casalingo diventò il principale consumatore di cinema. La cinefilia apparve spiazzata, mentre tutta la cultura che le era nata intorno sembrava obsoleta. Tuttavia, gli anni ’80 e i primi anni ’90 possono essere considerati a posteriori la prova generale di quel che avverrà nell’epoca a noi contemporanea: è l’inizio del periodo in cui il cinema non è più il medium principale. Da una parte si avverte il declino, dall’altra si comincia a parlare di culturalizzazione del cinema, di nobilitazione dell’opera-film all’interno dei diversi supporti su cui migra. Ecco, dunque, che nuove generazioni di cinefili possono formarsi attraverso le grandi rassegne televisive o i film in videocassetta. Cresce una nuova cinefilia, segnata dal rapporto dello spettatore con i film fuori dalla sala: il collezionismo casalingo, la programmazione televisiva cinefila notturna e alternativa, i grandi investimenti pubblici per la divulgazione cinematografica negli eventi cittadini, l’ingresso del cinema nelle università, sono tutti aspetti che stimolano la pratica cinefila, pur mutandone ancora una volta i connotati. realismo e apporto fenomenologico all’interpretazione dell’immagine. Inoltre, partecipa al lancio dei Cahiers assieme a Valcroze e Lo Duca. Il primo numero esce nell’aprile del 1951. I cahiers del primo periodo dimostrano un eclettismo abbandonato quando all’interno della redazione si fanno largo i collaboratori più giovani, tutti futuri registi in prima linea del cinema moderno → Truffaut, Godard, Rivette e Rohmer, i cosiddetti giovani turchi. Con loro nasce la politica degli autori. La nascita della critica cinematografica moderna in Francia Atto di nascita della politica degli autori è considerato l’articolo di Truffaut “Alì Babà e la politica degli autori”. La politica non ha mai sostenuto la tesi della promozione generica del cinema d’autore. L’aspetto specifico della politica è di avere applicato la categoria di autore su terreni inediti, cioè soprattutto sul terreno del cinema hollywoodiano. Ma i registi americani non sono l’unico oggetto d’amore. Altri europei sono al centro del dibattito: Rossellini, Bresson, Renoir e Becker. L’articolo di Truffaut prende le difese di un film minore di Becker ed espone le caratteristiche principali della politica degli autori: 1. Il volontarismo dell’amore. Truffaut scrive: “alla prima visione, Alì Babà mi ha deluso, alla seconda annoiato, alla terza appassionato e rapito. Superato lo scoglio della cifra 3, ogni film prende il suo post nel mio museo privato e ristretto.” → prevede la visione ripetuta e l’intimità con il film da amare e non semplicemente amato. La politica degli autori prevede che si segua una procedura: più visioni a distanza ravvicinata, discussione a fine proiezione. La procedura risponde a un imperativo: non bisogna semplicemente provare piacere e amore per certi film d’autore, bisogna farseli piacere. Anche di fronte ad Alì Babà, Truffaut ammette il proprio imbarazzo ma confessa che, anche se non gli fosse piaciuto, lo avrebbe difeso in nome della politica degli autori. Poi, in soccorso del critico, è arrivato il “rituale”. 2. Il dovere di seguire l’opera nel suo farsi. La necessità di amare l’opera di un regista si collega al fatto che l’oggetto da amare non è il singolo film. L’apprezzamento estetico si deve rivolgere a qualcosa che è da sempre più piccolo o più grande del film esemplare. Più piccolo, perché i critici della politica non difendono la nozione di capolavoro né le categorie estetiche che ne rendono possibile il riconoscimento nella tradizione, ma lo scarto, il particolare secondario nell’opera maggiore, oppure le opere meno riuscite di un autore amato, la capacità del sacrificio e del fallimento in nome di un’ossessione. Più grande, perché accanto all’elogio dell’imperfezione si trova l’idea che non è il singolo film a contare ma il corpus delle opere. Ciò che garantisce per l’integrità è l’autore stesso. 3. Il concetto di messa in scena. Il contenuto del film non ha un valore assoluto, perché il soggetto del film è la sua messa in scena. Bazin definisce la messa in scena la materia stessa del film, e aggiunge un’organizzazione degli esseri e delle cose che trova in sé il proprio significato, intendo dire sia morale che estetico. A proposito di un regista appartenente a una cultura lontana come Mizogouchi, Rivette scrive → linguaggio comune: la messa in scena si configura come una lingua franca capace di abbattere steccati linguistici, come una koiné cinematografica in grado di superare o far dimenticare le differenze specifiche tra culture in nome di qualcosa che appartiene al cinema in modo intrinseco in quanto strumenti di espressione universale. Inoltre, a tale koiné viene riconosciuta la capacità di coniugare gli aspetti della oggettività del cinema e la soggettività dell’autore che costituisce l’obiettivo di fondo dei cahiers. Dal dopoguerra agli anni della politicizzazione e oltre Nel dopoguerra italiano la teoria e la critica cinematografica mantengono fede ai propri assunti teorici e di gusto maturati nei decenni precedenti, pur dislocandoli in un orizzonte ideologico-politico invertito di segno. La figura più significativa è Luigi Chiarini: perfettamente integrato nelle politiche culturali del regime, rinasce alle magnifiche sorti e progressive del socialismo dopo il 1945. Come teorico sistematizza il proprio pensiero lasciandone inalterate le coordinate di fondo; come critico conferma l’arsenale di gusti, diffidenze e interdetti prebellici. Nascono nuove riviste. Sui quotidiani, un cambio della guardia delle leve si ha all’inizio degli anni ’60. Nuove firme si fanno spazio sulle testate principali. Negli anni della contestazione la critica cinematografica militante anima un dibattito che ha per oggetto il rapporto tra pratica filmica e pratica rivoluzionaria. È il problema principale del cinema politico, che viene affrontato in modo diverso dalle principali pubblicazioni di settore → es. Ombre rosse. In Francia, l’interrogazione sul rapporto cinema-politica prende la forma di una riflessione sul rapporto tra dispositivo cinematografico, tecnica e ideologia. Sotto l’influenza del marxismo e, in seguito, della psicoanalisi lacaniana, si sviluppa una critica all’ideologia della rappresentazione che si organizza intorno a dibattiti teorici tra riviste come Cinéthique e gli stessi Cahiers. Quest’ultima rivista, negli anni ’70 si politicizza in senso radicale l’appellativo di Cahiers Mao, ma cerca di conciliare la critica dell’ideologia con la necessità di continuare a studiare e amare il cinema classico. Questo contributo di mediazione sarà ripreso anche in Italia dalla cinefilia politicizzata degli anni ’70. Ma è anche tra le caratteristiche principali di Serge Daney, uno dei critici di cinema più influenti e apprezzati degli anni ‘70/’80. Daney fa parte della seconda generazione di critici che giunge ai Cahiers. In Daney si coglie l’abilità di far incontrare/scontrare la lezione di Rivette e di Godard con il richiamo a pensatori a essa estranei come Althusser, Lacan e Foucault. Nella sua prosa si mescolano suggestioni teoriche, tentativi di mantenere in vita un’idea di etica della visione, capacità analitica di indagare in tempo reale le differenze tra la classicità del cinema e le sue mutazioni mediali. Questo mix di interessi e competenze si trova anche in alcuni critici italiani degli anni ’70, come Ungari, Buttafava e Aprà, i quali hanno il merito di promuovere un nuovo gusto cinefilo alimentato dalla riscoperta di nuove cinematografie e del cinema classico nella sua integrità. Il nuovo gusto cinefilo è strettamente connesso con le attività dei club-cinema lungo tutti gli anni ’70/’80. La cinefilia degli anni ’70 non rinuncia a uno sguardo politicizzato sul cinema di consumo, ma insegue il progetto di una conciliazione tra l’immaginario cinefilo e quello popolare, contribuisce alla diffusione di strumenti d’analisi del testo derivati soprattutto dalla semiotica, dalla critica francese dell’ideologia, dalla teoria dei mass media. Così facendo favorisce il percorso dei saperi cinematografici verso la loro istituzionalizzazione lungo gli anni ’80 e seguenti. Infatti, mentre il mondo del cinema entra in crisi in particolar modo dal punto di vista della produzione e del consumo in sala, la cultura cinematografica vive un momento abbastanza florido che dura fino alla metà degli anni ’80. In questo periodo le pubblicazioni cinematografiche aumentano, nascono editori e collane di cinema; la storia del cinema entra nelle università e, in via sperimentale, all’interno di alcuni programmi scolastici. Negli stessi anni, però, la critica cinematografica sui grandi giornali e sui quotidiani comincia ad andare in crisi. Il critico fatica a stare dietro all’incremento dell’offerta culturale tipica degli anni ‘80/’90. Le recensioni si accorciano per lasciare spazio ad altri argomenti. Questioni di metodo: critica, interpretazione, retorica La critica ha consolidato abitudini, routine di pensiero, pratiche interpretative standardizzate. Essa quindi può essere studiata, oltre che attraverso le ricostruzioni storiche o i dibattiti e le riflessioni teoriche che l’hanno animata anche come un mestiere dotato di regole stabili di funzionamento. Secondo Borwell la critica funziona soprattutto come un’attività di problem solving. Giocare il ruolo dell’interprete significa risolvere il problema di reperire significati non immediatamente individuabili sulla superficie del film in oggetto d’analisi. Un significato che va reperito nel testo e costruito attraverso il discorso critico- interpretativo. Sempre secondo Bordwell, i significati che possono essere costruiti nel corso di un’analisi sono di 4 tipi: i significativi referenziali e i significati espliciti sono quei significati che coincidono con la comprensione lineare degli oggetti e delle situazioni presentate sullo schermo. Essi costituiscono il processo di comprensione del film e il critico presuppone che siano comunicati in modo diretto. I significati impliciti e i significati sintomatici, che costituiscono l’operazione di vera e propria interpretazione del film. Quelli impliciti riguardano gli elementi simbolici che lo spettatore può attribuire al film come manifestazione di senso non immediatamente evidente. Si presume che il film comunichi in modo indiretto e mediato questo tipo di significati. Quelli sintomatici si ottengono partendo dall’idea che il film comunichi non solo in modo indiretto, ma anche in modo involontario. È la società che parla attraverso i significati sintomatici, oppure il sintomo rivela l’ossessione nascosta di chi lo esprime involontariamente. Queste 4 tipologie di significati non compaiono sempre assieme all’interno di singole recensioni e il loro utilizzo non ha avuto una diffusione simultanea nella storia dell’interpretazione. È soprattutto nella critica cinematografica francese del dopoguerra che si sviluppano strumenti di analisi abbastanza sofisticati per il reperimento di significati impliciti, mentre è soprattutto tra anni ‘60/’70, a seguito dell’interazione tra analisi del film e scienze umane, che si diffondono le letture sintomatiche dei testi popolari. Mentre il critico affronta il suo problema principale, egli deve al contempo cercare di risolvere altri sotto-problemi. Che, stando a Bordwell, anche in questo caso sono 4: appropriatezza (il critico deve dimostrare al proprio lettore che è appropriato parlare del film di cui sta parlando); corrispondenza (l’interpretazione deve essere supportata da prova); originalità (il critico deve dare un’impostazione originale al proprio lavoro differenziandosi da quanto è stato già scritto o detto); plausibilità (il critico deve adottare una strategia per rendere credibile il proprio discorso). L’ultimo punto sposta l’attenzione sulla natura intrinsecamente retorica della critica cinematografica. Secondo alcuni studiosi, infatti, la critica cinematografica ricade interamente sotto il dominio della retorica, la quale rientra nell’ambito dell’argomentazione e ne condivide gli strumenti e le procedure di base. In ogni caso, chi scrive è soggetto anche a vincoli esterni alla logica dell’argomentazione. Un critico organizza i materiali reperiti in una struttura (dispositio) e sceglie forma e stile per esprimersi (elocutio). Questi elementi sono sottoposti a convenzioni e vincoli istituzionali. I problemi di elocutio riguardano lo stile di scrittura o il registro discorsivo adottati dai singoli critici e sono influenzati da una serie di variabili, tra le quali le scelte lessicali, i modelli letterari di riferimento, i condizionamenti imposti dalle sedi editoriali. Lo stesso si può dire per i problemi di dispositio degli argomenti. Esistono formati editoriali fondamentali attraverso cui i critici si esprimono: lo scritto accademico, il saggio, la recensione. E questi formati impongono in qualche modo vincoli di scrittura nonché di struttura → es. fra le tipologie di discorso critico quella più diffusa è la forma-recensione. Essa si è sviluppata in diversi format. I principali sono tre. La mini-recensione, che compare sui settimanali o nelle rubriche periodiche dei quotidiani: è composta in generale da 2500-4000 battute. In secondo luogo abbiamo una recensione lunga, da rivista specializzata, oscillante tra le 10000 e 20000 battute. A metà strada c’è la recensione standard, oscillante tra i 5000 e gli 8000 caratteri. È questa recensione di taglia media a rappresentare il format dominante su quotidiani e riviste. La critica di cinema nella cultura digitale Nella rete esistono le tracce di una tradizione che resiste al passaggio in digitale. La recensione è un esempio di persistenza. Essa rimane uno dei format di scrittura tuttora più praticati da blogger e critici del web. Tuttavia la dimensione del cambiamento che il web ha introdotto nel mondo della critica cinematografica è evidente. E può essere riportata a tre considerazioni principali. In primo luogo, assistiamo a una commistione delle tipologie discorsive. Anche la recensione è sempre più liberata da vincoli. Nelle recensioni sui blog troviamo: disarticolazione della dispositio tradizionale, riarticolazione del format intorno a modelli nuovi, scelte lessicali basso-mimetiche, uso di un linguaggio colloquiale che si richiama alla forma diaristica. In secondo luogo, tramite internet si assiste a una ridefinizione della nozione di gusto. Nel modello tradizionale della sociologia del gusto le pratiche di consumo e apprezzamento culturale sono formate e determinare da network sociali preesistenti. In rete si assiste a un fenomeno complementare e inverso: i differenti stili di consumo e apprezzamento culturale influenzano e/o generano reti sociali. Tutto ciò produce una società del giudizio generalizzato a cui anche i critici cinematografici cominciano a adeguarsi. Ad esempio impegnandosi a garantire un’affermazione costante della propria expertise online e un consolidamento del ruolo di taste maker trasversalmente al sistema dei media, scrivendo sui giornali cartacei ma tenendo anche rubriche sui siti, dibattendo di cinema sui social network ecc. In terzo luogo, online si ridefinisce il ruolo dell’expertise. Sul web si contendono la scena diversi dispositivi di influenza culturale: troviamo siti come Amazon o MYmovies dove trionfano le recensioni di quello giallo: il colpevole viene arrestato. Nell’ultima scena, vediamo James Stewart che sonnecchia. Grace Kelly è sdraiata sul letto, intenta a leggere un libro di viaggi e il suo abbigliamento è totalmente estraneo rispetto alla figura presentata in tutto il film. Appena lei si accorge che lui dorme, mette via il libro e prende una rivista. È un tipico finale da commedi romantica, dove, all’ultimo istante, i giochi si riaprono, perché si tratta di un genere che ha al centro una vicenda che strutturalmente non si può chiudere: l’eterna lotta tra gli uomini e le donne. Il cinema americano per eccellenza Il cinema western nasce sulla scorta di una tradizione precedente: il grande bagaglio di storie e leggende sulla conquista delle terre dell’ovest che la cultura americana, nel corso dell’800 raccoglie e mette in forma, dalla letteratura agli spettacoli. Il western nasce già nel periodo del cinema muto. Spesso si dice che il primo sia stato The Great Train Robbery (Porter, 1903). In realtà, agli inizi del ‘900 il genere ancora non esiste nel cinema. Il western si costituisce come genere solo negli anni ’10, e nel decennio successivo troviamo alcuni, primi, titoli di grande rilevanza, quali I pionieri e il cavallo d’acciaio. Ma con l’arrivo del sonoro il western subisce un’involuzione. Negli anni ’30 si presenta come genere di serie B, il cui principale sottogenere è il western musicale. La grande trasformazione avviene tra la fine degli anni ’30 e inizio anni ’40, innanzitutto grazie a, che, da lì sino agli anni ’70 il western rimane uno dei generi portati dal cinema hollywoodiano, sviluppando un ricchissimo catalogo di temi e situazioni drammatiche, personaggi, spazi e convenzioni stilistiche. A rigore, un film western racconta una vicenda ambientata nella parte occidentale del nord America nel XIX secolo. Ma molti film che non rispondono a questa definizione sono assimilati al western perché presentano situazioni affini e/o perché sono stati realizzati da attori e registi legati al genere. Per esempio il mucchio selvaggio (Peckinpah, 1969 → il principale regista western della New Hollywood), che si svolge in Messico negli anni ’10 del ‘900, e che però, per trama e personaggi, non si può che definire un western. Talvolta, lo sfasamento temporale, può essere molto più ampio, e allora ci troviamo di fronte al cosiddetto western contemporaneo. È indubbio che tra Ombre rosse e I cancelli del cielo, si verifichi una trasformazione del modo in cui il genere guarda al contenuto mitologico cui si alimenta. Il western è stato definito “il cinema americano per eccellenza” perché mette in scena il grande mito di fondazione della nazione. Ma progressivamente, questo mito viene messo in discussione. Già il cinema degli anni ’40 e ’50 iniziava a mostrare il lato oscuro dell’epopea della frontiera: i primi film pro-indiani, quali il massacro di Fort Apache (Ford, 1948), oppure film con eroi segnati da una dimensione nevrotica, al limite della psicosi, come Il fiume rosso (Hawks, 1948). Ma è certo con la New Hollywood che il western abbandona ogni remora. La conquista dell’ovest rappresentata schiettamente come una brutale operazione predatoria e imperialista, che portò allo sterminio di un intero popolo. Per molti versi, sono proprio i generi che stabiliscono che cosa è verosimile in un film. Ovviamente, ci sono tendenze generali, per cui il pubblico di una certa epoca sarà portato nel complesso ad accettare determinate convenzioni. Il pubblico degli ’70 e ’80, guardando un western non è più disposto a credere che un solo uomo possa freddare tre avversari, senza farsi neppure un graffio. Per usare le categorie proposte da Northrop Frye in Anatomia della critica, uno degli studi più importanti sui generi letterari, il western del periodo classico è “alto-mimetico”, una forma in cui, come nella maggior parte delle epopee o delle tragedie, i personaggi principali sono al di sopra del nostro livello di azione e di autorità. Mentre il western della New Hollywood è “basso-mimetico”, ossia una forma dove i personaggi mostrano una capacità di azione simile alla nostra, come nella maggior parte delle commedie e della narrativa realistica. Ma se il western imbocca la strada del realismo, il film d’avventura e l’action movie, che a partire dagli anni ’80 si impongono quali generi portanti della produzione hollywoodiana, si mantengono saldamente ancorati al livello alto-mimetico. I generi non sono solo si ibridano tra loro, ma per certi versi lasciano il testimone l’uno all’altro. In questa ottica, il motivo del conflitto tra civiltà e l’universo selvaggio e misterioso che si trova oltre la frontiera, che era al centro dell’immaginario western, è stato in qualche modo assunto dalla fantascienza. In anni recenti, questa contaminazione è stata esplicitata con un western fantascientifico Cowboys vs Alieni (Favreau, 2011) → anche se per questo film la formula western fantascientifico non è corretta. Usando western come sostantivo, implicitamente si afferma che si tratta innanzitutto di un western. Ma dagli inizi degli anni ’80 questo genere ha di fatto cessato di esistere. Certo, negli ultimi 30 anni, ogni tanto qualche regista ha realizzato un western → es. Django Unchained o Balla coi lupi. Ma in mancanza di una produzione numericamente consistente, in grado di dar vita a un sistema di codici narrativi e iconografici, la nozione di genere si fa evanescente. Il pubblico più giovane, potrebbe lettere Cowboys vs Alieni come uno steampunk (corrente della fantascienza che proietta temi e figure del cyberpunk nell’800, all’epoca del vapore) Confini Analizzando le caratteristiche del genere western, ci siamo concentrati unicamente su quello hollywoodiano. Questo perché lo spaghetti western presenta una storia sostanzialmente autonoma, oltre che molto più breve. Ma l’esistenza di un western italiano, e più in generale europeo ci permette di ragionare sul nesso tra generi cinematografici e cultura nazionale. Alcuni generi, infatti, sono strettamente legati alla tradizione di un singolo paese: il bergfilm tedesco, la commedia all’italiana, il wuxia pian cinese. Il film di genere, proprio perché più semplici, riflettono in maniera più immediata lo spirito del tempo. I film di fantascienza degli anni ’50, sono una chiara testimonianza delle inquietudini che attraversano la società dell’epoca, in primis la paura dell’annientamento dell’umanità a causa di un conflitto atomico. Altri generi, invece, si presentano come formule transnazionali → ad esempio il war movie, che per quanto dopo la WWII, sia stato largamente dominato dalla produzione angloamericana, negli anni ’30 costituisce un genere a vocazione internazionale. Ci sono generi, come il western, che nascono in un solo paese, in stretto rapporto con la sua storia e la sua cultura, ma che, grazie al successo che ottengono sul mercato internazionale, a un certo punto vengono imitati dai concorrenti stranieri. Non è un caso che Tarantino, cultore del cinema di genere, che con Django Unchained riprende lo spaghetti western, ibridandolo con quello americano, nel suo film precedente, Bastardi senza gloria, faccia riferimento a Winnetou, il capo indiano al centro di una serie di romanzi western di May. Cinema di genere e/o cinema d’autore Con Tarantino veniamo all’ultimo passaggio della nostra analisi, ossia il problema del rapporto tra genere e autore. Per certi versi, si potrebbe pensare che questi due termini si elidano a vicenda. Per le filmografie di molti autori, soprattutto europei, la nozione di genere proprio non ha significato -> es. la dolce vita, a che genere appartiene? Oppure blow up è un giallo? Questi film sono così lontani dai canoni del genere chi dovrebbero appartenere che quell’etichetta risulta davvero irrilevante. Basti dire che nel film di Antonioni l’indagine del protagonista non porta da nessuna parte, contro il principio base del cinema di genere, che deve soddisfare lo spettatore facendogli sapere “come va a finire”. Ma non sempre autore e genere sono termini tra loro antitetici. Innanzitutto l’idea che arte e originalità coincidano è relativamente recente. Fino al VIII secolo la cultura occidentale è largamente convinta che per fare arte sia necessario rispettare le regole. Nella Poetica, Aristotele illustra i principi cui il poeta deve attenersi per comporre una tragedia o un poema epico. Le cose cambiano solo con il romanticismo, quando si stabilisce che la vera opera d’arte deve essere originale e innovativa. Se osserviamo la cosa attraverso le lenti del romanticismo un film di genere non può essere un film d’autore. Però, una volta che superiamo il rifiuto preconcetto per qualunque forma espressiva legata alla produzione e alla fruizione di massa, ci rendiamo conto che non necessariamente autore e genere si escludano a vicenda. Innanzitutto, ci sono generi che sono il lascito di un film d’autore. Es. Il Decameron di Pasolini, che dà via al filone boccaccesco della commedia erotica italiana; mentre il portiere di notte di Cavani è il modello ispiratore di quelli che in America chiamano nazi exploitation movies: film Di serie B (o anche C), pieni di effetti sanguinolenti, dove i nazisti stuprano e torturano i prigionieri. In secondo luogo, lo stesso cinema d’autore potrebbe essere letto come un genere, per lo più marginale in termini economici ma dal forte prestigio culturale (alimentato dalla critica e dai festival). Grandi autori europei del cinema della modernità hanno lavorato in maniera creativa con le formule del genere. Il primo lungometraggio di Godard, fino all’ultimo respiro è un omaggio dichiarato al noir americano. E gran parte degli autori americani successivi al periodo classico, da Kubrick a Tarantino, continua a muoversi nell’orizzonte del sistema dei generi, declinando le formule ereditate dalla tradizione cuscino in base al proprio stile e alla propria poetica. Da ultimo, bisogna osservare che quando i già menzionati critici dei cahiers rivendicavano la natura autoriale del lavoro del regista, lo facevano collocando al centro del loro personale pantheon cinematografico Hitchcock e Hawks, che per tutta la loro carriera non avevano fatto altro che film di genere. POPOLARE Introduzione L’ultimo libro del grande storico Eric Hobsbawm si intitola provocatoriamente La fine della cultura → si tratta di un libro su quello che è accaduto all’arte e alla cultura della società borghese dopo che quella società se n’era andata con la generazione post 1914, per non tornare mai più. La drastica precisione di Hobsbawm merita una contestualizzazione nel regno dello studioso del cinema. Il 1914 è un anno cardine nella storia del cinema. In quella data esce il film di Pastrone, Cabiria, che costituisce l’apogeo di un’industria e di una cultura cinematografiche che fino a quel momento avevano rivestito un’importanza significativa a livello globale. Il film di Pastrone è una sorta di un monumento funebre del cinema muto italiano. Quella che era stata un’industria basata su competenze e modi di produzione di stampo artigianale, capace però di realizzare prodotti all’avanguardia esportabili ed esportati in tutto il mondo, inventando alcuni degli assi portanti dell’apparato cinematografico nel suo complesso, compie uno sforzo immenso che la proietta, a causa della guerra prima e dei fattori strutturali poi, verso la caduta. Fra gli ammiratori del di Pastrone c’è il regista americano Griffith. Mentre Cabiria otteneva successi planetari, Griffith stava ultimando Nascita di una nazione (1915). Al netto delle polemiche per una rappresentazione della storia a dir poco razzista, sotto il profilo narrativo e della messa in scena, Griffith si pone come il grande romanziere del XX secolo, come avrà ad affermare Ejzenstejn. Concepiti entrambi come grandi dispositivi spettacolari dal sapore vagamente epico, a distinguere i due film da una prospettiva macroscopica c’è soprattutto un elemento: il ritmo. Quella differenza di ritmo, inteso sia in senso visivo sia in senso narrativo, non è altro che la conseguenza tangibile di una differenza sostanziale a livello dei modi di rappresentazione. Questi, a loro volta, si pongono come vere e proprie forme simboliche che implicato una concezione del mondo, del tempo, dello spazio e della vita, con le sue finalità e i suoi valori. Il tema è delicato. Da un certo punto di vista è possibile affermare che Griffith utilizza il cinema per dare forma alla concezione del mondo di un paese in ascesa, dinamico, multietnico e multiculturale, certamente (anche) capitalista. In questo paese, il cinema era il mezzo espressivo più influente ed efficace per raccontare la presa del potere da parte di una nazione e di quel suo stranissimo popolo composto da una borghesia in potenza. Dunque un proletariato che scavalca la tradizionale prospettiva della dialettica e dello scontro di classe. Questo popolo, una massa ignorante e indistinta, inconsapevole e addomesticata, era pur sempre un popolo. Da questo, che oggi si chiamerebbe cultural clash, deriva una serie di conseguenze che appaiono per certi aspetti ancora significative a un secolo di distanza da eventi da cui tutto si origina. Il film d’arte e l’arte del film È sufficiente notare che i 4 grandi nomi della nascente Hollywood che fonderanno assieme la United Artists, erano nati in angoli remoti dell’impero e venivano da famiglie e situazioni economica a dir poco problematiche. Giovanni Pastrone, come molti dei suoi colleghi, aveva ricevuto un’istruzione regolare, come si conveniva in una famiglia borghese dell’epoca, diplomandosi contemporaneamente in ragioneria e dimostrazione di possedere un habitus mentale adeguato alle regole del gioco. Resta il fatto che l’arbitrarietà di queste attribuzioni è tale da poter essere tranquillamente messa in discussione. È esattamente quanto accade con la nascita di vere e proprie comunità e della critica tradizionali, ribaltano la gerarchia degli oggetti e, attraverso il filtro di testimonials prestigiosi, pretendono un loro spazio all’interno delle istituzioni culturali. Esemplare è il caso di una rivista come “Nocturno” e degli innumerevoli siti o blog a essa collegati, sulle cui pagine la produzione di genere e commerciale viene trattata da community o di critici/fan con lo stesso linguaggio e competenza, nonché sottoposta alle stesse attenzioni di ricostruzione e interpretazione del testo che la critica e la filologia tradizionali riservavano ai capolavori canonici o in via di canonizzazione. Questo non solo è lecito, ma produce anche risultati visibili sia in termini strategici sia in termini di ampliamento oggettivo delle conoscenze relative al cinema, lasciano inalterata però la struttura essenziale del campo intellettuale nel quale si inserisce. Non si intende con questo formulare una critica nei confronti di un’operazione comunque meritoria e perseguita con ammirevoli competenza e passione, ma crediamo che la riprova di quanto appena affermato consista nel fatto che tale prospettiva è preferibilmente rivolta al passato o a opere che si muovono ai margini del circuito commerciale mainstream ai confini dell’underground, secondo un meccanismo di inclusione che deve comunque prevedere regole di esclusione altrettanto rigide. In realtà, storicamente la cultura cinematografica italiana è un ambiente che si sviluppa in parallelo al contorto processo di modernizzazione del paese nel suo insieme, elaborando alcune strutture nel corso degli anni ’30 e precisandole nel corso degli anni ’60. Uno studioso di letteratura Vittorio Spinazzola a proporre il primo studio davvero pionieristico e, per molto tempo unico, su ciò che è stata definita correttamente la rappresentatività sociale del cinema. Avendo intuito ciò che verrà ben concettualizzato da Pierre Sorlin solo diversi anni più tardi, ovvero che il cinema può essere specchio della società solo in quanto è realtà sociale esso stesso, Spinazzola cerca di adottare nei confronti dello spettacolo cinematografico un approccio descrittivo che parte appunto da una realtà inconfutabile. Il cinema è quello che viene visto in sala dal più ampio numero di componenti di una società. Così, ogni sua analisi da parte del lato relativo agli incassi, senza reputare ingenuamente che si tratti di un indicatore assoluto, ma nella convinzione che si tratti di un presupposto oggettivo con cui si deve fare i conti, proprio perché ci si muove comunque sempre all’interno di un contesto industriale/commerciale e di massa. Questo non significa tralasciare come non pertinente qualsiasi considerazione di carattere etico o estetico, bensì problematizzarla. Non è una variabile indipendente ma qualcosa che ha sempre delle ragioni, specie se il dato non è relativo alla riuscita contingente di una singola opera ma riguarda un filone, perciò un trend. Semplificando si può dire che Spinazzola parta dal presupposto che se il pubblico rifiuta qualcosa che dovrebbe interessarlo per adottare diverse abitudini di consumo → Il pubblico non è un organismo amorfo ed eterodiretto, ma un insieme di soggetti che estrinsecano, anche attraverso la fruizione cinematografica, un agire sociale dotato di senso. Spinazzola manifesta una lucidità e una coerenza straordinarie, pur senza avere mai la pretesa di offrire un quadro storico coerente ma restando sempre saldamente ancorato al livello dell’inchiesta. Sul significato e la portata dei fenomeni con cui il cinema ha accompagnato la trasformazione in atto nella vita nazionale, ovvero su come esso riflette la crescita tumultuosa e contrastata di una realtà nuova nella vicenda sociale e culturale del paese. Lo stesso termine inchiesta rimanda metonimicamente all’idea di indizio e di conseguenza all’idea del paradigma indiziario che pare reggere l’impianto stesso di Cinema e pubblico, ovvero di considerare il cinema attraverso il comune denominatore del prodotto culturale. Codificare e decodificare un film Fausto Colombo, nelle sue analisi dell’industria culturale italiana, traccia uno schema di funzionamento del rapporto fra produttore e destinatario del prodotto, stabilendo che il successo è uno dei fattori che costituiscono i nodi di una rete comunicativa, dove gli impulsi viaggiano continuamente in una doppia direzione. Questa impostazione non è che una delle applicazioni possibili di quel modelli di codifica e decodifica elaborato da Stuart Hall negli anni ’70 e che ha avuto un influenza decisiva nello sviluppo dei cultural studies. Elaborato nel quadro della televisione, ma applicabile tranquillamente anche al cinema, lo schema di Hall parte dal presupposto che un prodotto circola sempre in una forma discorsiva e come tale viene distribuito a diversi tipi di pubblico. Una volta messo in opera, il discorso deve essere tradotto in pratiche sociali affinché il circuito si completi e diventi efficace. Se non viene assunto alcun significato, non ci può essere nessun consumo: perché abbia degli effetti, un significato deve essere necessariamente articolato nella pratica. Questo è già un modo per sgomberare il campo da una concezione tendenziosamente ingenua del consumo, ovvero che possa esistere un comportamento di fruizione dei prodotti culturali che coincide con il puro e semplice intrattenimento. Ma l’importanza del contributo di Hall dipende soprattutto da altri due fattori. Il primo riguarda il fatto che il processo di comunicazione insito nella relazione fra produttore e consumatore non può essere ridotto all’interno di un anello chiuso e lineare (emittente-messaggio-ricevente). La struttura è formata dall’articolazione di momenti distinti, anche se interrelati: produzione e circolazione, distribuzione/consumo e riproduzione, ciascuno dei quali mantiene la sua peculiarità, la sua modalità specifica, la sua forma propria, le sue condizioni particolari di esistenza, senza che vi sia alcuna garanzia del passaggio automatico a quello che gli succede nella catena. È il secondo aspetto innovativo dello studio di Hall. → Il messaggio codificato, infatti, deve venire decodificato ed essere tradotto in effetti/pratiche sociali: intrattenere, istruire, persuadere, avere conseguenze percettive, cognitive, emozionali, ideologiche, comportamentali. In breve, non c’è alcuna corrispondenza necessaria fra la codifica e la decodifica. In genere, la prima cerca di orientare la seconda e – se vede che il messaggio non passa – di solito si preoccupa di verificare che non si sia rotto qualcuno degli anelli della catena. Hall arriva a stabilire che l’ideale dei produttori è quello di una comunicazione perfettamente trasparente: invece devono confrontarsi spesso con una comunicazione sistematicamente distorta. Infatti, il destinatario/consumatore ha sempre tre opzioni a sua disposizione: decodificare il messaggio in maniera aproblematica, utilizzando quello che è tecnicamente il codice egemonico- dominante; utilizzare per la decodifica un codice negoziato, come si verifica nella maggior parte dei casi: vale a dire combinare la ricezione del messaggio secondo il codice dominante in senso astratto e poi applicare in concreto una decodifica secondo le proprie regole di base: infine, può operare seguendo un codice oppositivo, decostruendo il messaggio secondo il codice dominante per ricostruirlo in modo completamente opposto all’interno di una qualche cornice alternativa di riferimento. Da tali assunti deriverà una vasta tradizione di studi cinematografici di impostazione semiopragmatica che trovano in Roger Odin il loro più celebre esponente. Anche in questo caso si è partiti dal presupposto che il film non possiede un senso intrinseco ma lo acquisisce attraverso la cooperazione fra emittente e ricevente grazie a complesse operazioni che essi compiono dentro a un preciso contesto e attraverso modi specifici: l’esito, tuttavia, come è stato giustamente osservato, è stato quello di fornire preziosi strumenti per comprendere il lavoro dello spettatore sul testo più che capire – come auspicava Hall – la sua traduzione in azione strategica. Conclusione Queste indicazioni restano valide in termini generali anche in uno scenario come quello attuale. Da un lato, è curioso vedere la persistenza dello schema mentale che conduce ancora a incasellare i film secondo il paradigma assiologico dell’alto e del basso, del legittimo o dell’abietto, del commerciale o dell’autoriale. Stuart Hall afferma che è ancora possibile parlare di cultura popolare quando i modi con cui un prodotto culturale viene decodificato e utilizzato rientrano nel quadro di ciò che – con ironia – potremmo chiamare una lotta di classe. Quando cioè un film è usato come strumento di lotta sociale, per rivendicare un riconoscimento identitario o di diritti da parte di gruppi che sono o si percepiscono come svantaggiati o discriminati. In questo senso, la fine del cinema popolare, ovvero della distinzione fra un cinema popolare e uno che non lo è, coinciderebbe con la fine della possibilità per il cinema di essere autenticamente politico all’interno dell’agone sociale. LA SERIALITÀ Introduzione Produzione in serie → l’idea di serializzazione evoca una forma produttiva di stampo fordista, legata alla produzione di beni materiali attraverso una catena di montaggio in cui ogni pezzo prodotto è esattamente identico a tutti gli altri. Questa struttura produttiva, si estende molto presto anche alla produzione artistica e culturale sotto due punti di vista. Questo infatti avviene, da un lato attraverso la possibilità di riprodurre in modo seriale singole unità identiche: è il caso delle copie di un film, di un giornale, di un libro. Dall’altro, il processo di serializzazione riguarda la capacità di gestire la materia narrativa in modo tale da scomporla in più nuclei tematici, inserendo sempre elementi di novità per catturare e rinnovare l’attenzione del pubblico, ma al tempo stesso riproponendo situazioni e personaggi noti. La produzione in (di) serie, in ambito cinematografico prima e televisivo poi, è originata certamente da ragioni economiche. Ci si accorge infatti molto presto che frammentare e serializzare i racconti significa mantenere vivo l’interesse degli spettatori, facendo leva sulla loro curiosità di sapere che cosa succederà dopo. Dunque serializzare significa fidelizzare il proprio pubblico, che attraverso questo stratagemma produttivo e narrativo è portato ad affezionarsi ai personaggi, all’ambiente e alle situazioni narrate, e incline a ripetere l’esperienza di fruizione più e più volte. In questo modo si riduce il rischio di flop e si lavora con formule standardizzate che contengono elementi di cui si conosce già l’impatto sul pubblico. Le audience, infatti, hanno manifestato da sempre una grande propensione nei confronti dei prodotti seriali come ha notato Umberto Eco → «Nella serie l’utente crede di godere della novità della storia mentre di fatto gode per il ricorrere di uno schema narrativo costante ed è soddisfatto dal ritrovare un personaggio noto, con i propri tic, le proprie frasi fatte, le proprie tecniche di soluzione dei problemi […]. La serie in tal senso risponde al bisogno infantile, ma non per questo morboso, di riudire la stessa storia, di trovarsi consolati dal ritorno dell’identico, superficialmente mascherato.» Nelle parole di Eco si trova una spiegazione chiara di quanto accade ai fruitori di prodotti seriali, siano essi testi letterari, fumetti, film o serie televisive. Le origini della serialità nel cinema e nella televisione A partire dalla seconda metà dell’800 il fenomeno della serializzazione si afferma dapprima in letteratura. L’origine della serialità in ambito audiovisivo va ricercata principalmente nel romanzo a puntate, caratterizzato dalla suspense, dalla particolare costruzione degli enigmi, da storie che si sviluppano in maniera imprevedibile e complessa. Non si tratta di suddividere in segmenti una storia già scritta, quanto piuttosto di “pensarla nel suo farsi, articolandola e complessificandola progressivamente”. Caratteristica, questa, che si adeguerà poi con facilità e in modo proficuo anche nelle dinamiche produttive dei prodotti audiovisivi seriali, in particolare televisivi. La grande stagione del feuilleton, una sorta di “supplemento” al giornale che ben presto inizia a ospitare veri e propri romanzi a puntate, sancisce la nascita di una stampa popolare che si incentra proprio sugli elementi di ripetitività e narrazione interrotta capaci di garantire il piacere del pubblico nel ritrovare personaggi e ambienti già noti e già percorsi. Il cinema fin dagli anni ’10 del ‘900 produce e si arricchisce di opere caratterizzate da una struttura episodica in cui una story-line viene portata avanti per numerose puntate. Ogni frammento in genere si interrompe proprio in un momento di massima tensione, lasciando il protagonista in una situazione apparentemente disperata, in attesa di una risoluzione che arriverà (forse) soltanto con l’episodio successivo. Che la produzione di contenuti audiovisivi adotti meccanismi simili a quelli della produzione industriali non è necessariamente un male. I prodotti seriali non sono oggetti tutti uguali. Al contrario sono il frutto di una modalità produttiva che, pur limitando alcuni costi, ad esempio attraverso il riciclo dei set o l’uso di attori ricorrenti, non lesina sull’innovazione. La struttura tipica dei prodotti seriali, infatti, rende possibile numerose invenzioni sul piano narrativo, favorendo l’inserimento di varianti, spesso costruite come episodi speciali, omaggi, citazioni ed episodi “what if” che aprono la narrazione su altri mondi possibili e su linee narrative ancora poco esplorate, senza per questo alterare la fisionomia del prodotto. In sostanza, il fruitore non si trova in difficoltà davanti a episodi anomali rispetto al canone della serie che portano i personaggi in situazioni diverse da quelli abituali, poiché sa che le variazioni sul tema sono solo temporanee e, per Un caso peculiare di rapporto seriale tra cinema e televisione è, infine, quello di film per il grande schermo ispirati a serie TV o, viceversa, quello di serie TV ispirate a film per il grande schermo. Nel primo caso si fa leva sul piacere di “ritrovare” il già noto, che lega lo spettatore al prodotto televisivo, dandogli pertanto la possibilità di continuare a ritrovare anche al cinema o, meglio, nella forma narrativa del film, personaggi e situazioni che ha imparato a conoscere attraverso le serie televisive. In certi casi, il carattere di prequel enfatizza il meccanismo, regalando allo spettatore un episodio che presuppone tutta la conoscenza di quanto avverrà successivamente ai protagonisti → accade con Twin Peaks di David Lynch, che si apre con il ritrovamento del cadavere di Laura Palmer, la quale è anche la protagonista di Fuoco cammina con me, prequel cinematografico alla serie, in cui si racconto le ultime settimane di vita della ragazza. Prodotti di questo genere sono spesso frutto di un intervallo di tempo trascorso tra la messa in onda della serie e l’uscita del film. Questo intervallo di tempo contribuisce a costruire un sistema di attese che si radica nell’apprezzamento dimostrato nei confronti della serie. Nel caso opposto, quando è il film a essere oggetto di un trasbordo verso il mezzo televisivo, pare invece che la conoscenza del film di riferimento non sia necessaria. In questo passaggio, infatti, vengono ripresi e riproposti per lo spettatore personaggi, ma soprattutto ambienti, situazioni e dinamiche presenti nel testo di riferimenti, ma è anche vero che la frammentazione della narrazione in episodi riempie il prodotto televisivo di elementi utili alla comprensione dello spettatore che non ha visto il film → il film di Buffy l’ammazzavampiri (1992). Conclusioni Il modello produttivo e narrativo della serialità si è spostato negli ultimi anni anche sul web, con esiti interessanti → es. Freaks! serie italiana di fantascienza nata per il web nel 2011, che nonostante un produzione low budget, è diventata famosa su YouTube. Le webseries riescono a soddisfare i bisogni di un pubblico sempre più esigente, offrendo contenuti di qualità ma con costi contenuti (in molti casi anche con produzioni grassroots, cioè appunto nate spontaneamente e in maniera amatoriale e non finanziate dall’industria dell’intrattenimento). Si tratta di prodotti a episodi, di breve durata (10 minuti), adatti a essere fruiti su diversi dispositivi. Il loro punto di forza è sicuramente rappresentato dalla facile accessibilità, nonché dal fatto di essere prodotti pensati e plasmati per sfruttare al massimo le possibilità interattive di internet, elaborando un nuovo linguaggio e creando un’esperienza di fruizione innovativa. IL SONORO Il suono, una questione teorica Vincent LoBrutto ritiene che il 50% dell’esperienza cinematografica è uditivo. Il centro della questione è nella nozione di esperienza: il cinema potrà essersi imposto per la sua storia visuale, ma poi alla resa dei conti quando uno spettatore entra in una sala cinematografica quella che lo investe è un’esperienza altrettanto uditiva quanto visiva. Se questo è evidente per lo spettatore moderno, forgiatosi sul Dolby System di Arancia meccanica o sul THX di Star Wars, altrettanto lo era per lo spettatore del cinema nel 1905 o del 1914, ammaliato dalle parole di un imperioso imbonitore, travolto dalla musica di impotenti orchestre o anche solo dalle note di un pianista di sala, investito da suoni vocali, strumentali o meccanici diffusi da dispositivi rumoristici o grazie a suggestivi playback improvvisati dietro lo schermo e a dispositivi vari di sincronizzazione. Colto da stupore per l’improvvisazione nella resa sonora o, viceversa, catturato dalle note di sempre più familiari e riconoscibili cue sheets (liste di brani musicali che scandivano le scene più importanti ben presto assimilate a noti repertori musicali), e ancora predisposto a pronto a essere soddisfatto dalla musica di elaborate partiture musicali appositamente composte per l’opera filmica, lo spettatore aveva un’esperienza ricca, variata e multipla della sonorità filmica e cinematografica. Il cambiamento di prospettiva che gli studi sul cinema hanno registrato a partire dagli anni ’80 del ‘900, quando ha mosso i primi passi di una pubblicistica sempre più assidua che ha presto meritato l’etichetta di Film Sound Studies, non è pertanto figlio solo di un’accresciuta importanza storica della componente sonora, ma anche di un cambiamento teorico di prospettiva, che si radica in un generale riscatto dal primato del visuale. È vero che il sonoro si è subito imposto come un ingrediente sostanziale della politica del blockbuster dalla partitura di Nino Rota per Il Padrino, alle note di John Williams per Lo Squalo, dal THX di George Lucas al DTS di Jurassic Park e che l’intervento e la personalità dei sound designers si è fatta via via più visibile – da Walter Murch di Apocalypse Now a Gary Rydstrom di Salvate il soldato Ryan, tuttavia, l’attenzione della teoria è subito stata posta anche sulla sottolineatura di quanto la concezione di cinema muto fosse un costrutto culturale, nato proprio per legittimare il presunto primato visivo nel film, operando viceversa per il superamento di una visione stereotipata del silent cinema. La consapevolezza di quanto ubiqua fosse la presenza del suono nel cosiddetto cinema muto è stata l’ultimo baluardo a cadere, affrancando la teoria dell’ingombrante visione purista delle immagini e aprendo a una comprensione della caratteristica esperienziale complessa dell’andare al cinema. Questo cambio di prospettiva concezione dell’esperienza filmica quale audioviewing, non è dato del tutto acquisito e il primato del visivo sembra essere destinato a durare ancora a lungo. L’oculocentrismo dilagante evidenzia un’educazione all’ascolto tutta ancora da definirsi. Se, ad esempio, anche il pubblico di massa conosce sin nel dettaglio le modalità di fabbricazione dei corpi ibridi di Avatar, forme di vita tra umano ed extraterrestri, e coglie le implicazioni etiche il massiccio intervento della tecnologia del performance capture getta su queste rappresentazioni iconiche in cui la pesante manipolazione della prestazione attoriale investe anche l’emozione, attraverso la decodifica della mimica facciale, viceversa nessuno, a parte gli addetti ai lavori, sa che cosa sia Pro Tools, uno dei software più utilizzati per la produzione digitale di suoni e non sospetta nemmeno l’esistenza di una tecnologia di base dell’audio cinematografico come l’Automated Dialogue Replacement (ADR) che da decine di anni viene utilizzato per intervenire sulla voce degli attori. Tranne i casi di postsincronizzazione e dubbing (come la voce di Darth Vader), nessuno ha consapevolezza che ogni battuta di dialogo in qualsiasi film d’azione contemporaneo è manipolata o riregistrata successivamente e che ciascun respiro di ogni attore in Prometheus (Ridley Scott, 2012) è stato modellato all’ADR dal sound editor per conferirgli quella specifica materialità; fintanto che non sono stati introdotti microfoni più sensibili, gran parte dei dialoghi, poteva essere manipolata e riregistrata in looping (attraverso i classici anelli di doppiaggio che estrapolavano la scena dialogica sostituendo la ripresa sonora originale), così come all’ADR è sempre affidata la credibilità di pseudo-voci d’ambiente quali annunci degli altoparlanti, cronache sportive o dispacci radiofonici, che così spesso compongono l’ambiente acustico del film. Il racconto autonomo di immagine e suono: parallelismi, asincronismi e contrappunti Se l’oblio del suono ha come origine anche la salvaguarda del primato visuale, era abbastanza naturale che la sua emancipazione partisse proprio dalla conferma della sua eterogeneità rispetto al film e dalla valorizzazione della dimensione musicale, che è potenzialmente la componente più esterna e autonoma rispetto all’immagine. Se la musica nel film ha per certi versi facilitato il volgere d’attenzione al suono filmico, la sua progressiva emancipazione e il finale riconoscimento del suo ruolo, se non paritetico comunque di primo piano nei rapporti con l’immagine, per altri indubbiamente ha frenato la sua piena comprensione, ratificando un approccio differenziale e un’istanza leggittimatrice che, da un lato si nutriva di distinguo e di una rassicurante gerarchi culturale tra i suoni e, dall’altro, faceva agire suono e immagine quasi solo l’uno a contratto o contro l’altro. L’emancipazione del suono passava, dunque, attraverso una sua radicale autonomia. Non a caso storicamente alle origini di queste posizioni teoriche si ritrova una serie di manifestazioni volte alle limitazione del suono e, in particolare, della parola, come la celebre dichiarazione “il futuro del sonoro”, meglio nota come Manifesto del contrappunto orchestrale firmato da Ejzenstejn, Pudovkin e Aleksandrov nel 1928, in cui si invocava appunto l’impiego contrappuntistico del suono rispetto all’immagine quale forma perfetta di quel montaggio, fulcro del cinema sovietico, che sono il contrappunto orchestrale, basato sulla non coincidenza tra immagine e suono, poteva salvaguardare. Come emerge con maggior chiarezza rileggendo la teorizzazione di Siegfried Kracauer → «che il film adotti il parallelismo, cioè combinazioni in cui suono e immagine esprimono significati paralleli, o contrappunto, in cui le componenti verbali e visive differiscono tra loro e il senso della scena risulta dalla loro combinazione, la concezione di base è quella di due flussi paralleli e autonomi che si intersecano generando magari nuove formule e complesse combinazioni (sincroniche o asincroniche), ma mantenendosi sostanzialmente integri ed entrando in contatto punto a punto, dove non può sfuggire proprio la compiutezza dell’unità che tale concezione presume». Gran parte del cinema classico opera su questo presupposto che consente di preservare l’integrità dell’immagine, così come analoga è la visione classicista del suono filmico portata avanti anche oltre i confini del cinema moderno da molti autori. Magari opponendo ai principi vincolanti delle colonne sono precedenti – quell’invisibility (la sottrazione alla vista dell’apparato tecnico della musica non diegetica) e quell’inaudibility (la necessità che la musica non sia udita consapevolmente) – un più evidente e destabilizzante protagonismo della dimensione musicale, anche molti autori moderni accentuano ed esibiscono il protagonismo del suono senza incrinare la forza del visuale → es. il cd scelto dal protagonista di American Psycho per massacrare l’amico con l’ascia. Di contro, alle infrazioni del visivo è ben evidente l’estraneità classica del suono di Furia (1938), primo film americano di Fritz Lang, anche quando inserisce una contrapposizione visivo-sonora tra le comari che parlano e il chiocciare delle galline; o l’utilizzo di Beethoven in Arancia meccanica, fino all’Inno alla gioia che accompagna le crude immagini della famosa “cura Ludovico”. Proprio per questo, forse, alla nozione imprecisa di asincronismo, letteralmente vincolata alla presenza di una sfasatura temporale tra immagine e suono e che maschera proposte anche assai diverse, è preferibile quella di contrappunto, che nella sua significazione originale, sottolinea il carattere di combinazione omogenea, di sovrapposizione senza che ciascun elemento perda la propria individualità e si offre, dunque, come più appropriata per una concezione del sonoro che legittima un certo primato della colonna visiva, come punto di riferimento per le altre serie, e si adatta a includere sia gli aspetti più meccanici dell’uso del suono e sia effetti speciali e più complesse polifonie, integrando la dimensione musicale ma anche quella vocale. Oltre la colonna sonora: lo spazio del suono Se il contrappunto nasce come misura temporale del controllo del suono, in realtà esso svela ben presto un’inedita realtà. Ogni contrappunto è in grado di cogliere a fondo lo statuto del suono filmico, anche il più semplice, come quello all’origine di una della costruzioni sintattiche più classiche e naturali, quella del campo-controcampo. Un montaggio alternato, giocando sul contrappunto di suono e immagine, caratterizza il finale di La signora di Shanghai (Orson Welles, 1947) e quando Rita Hayworth entra nella sala degli specchi la sua voce e le sue parole dall’ombra suonano sinistre sul volto di Orson Welles ormai conscio della sua colpevolezza, mentre viceversa quelle dure dell’uomo, quasi si rifrangono sul volte della donna e sui mille riflessi negli specchi. Se non interviene la visualizzazione della sorgente, nella narrazione classica è talvolta la prospettiva sonora, che articola e dosa pesantemente il rapporto tra le componenti sonore, a tentare di ricondurre il suono allo spazio dell’immagine. Il suono contribuisce a guidare l’occhio dello spettatore in un’esplorazione visiva dell’immagine in cui l’uomo e, dunque, la parola e la voce sono al centro e i rumori e la musica si piegano alla funzione narrativa. La semiotica con la sua ricognizione codicale, infatti, è alla base della ratifica anche in analisi della tripartizione del suono tra musica, rumore e parola utilizzata a livello produttivo così come nel mito della colonna sonora modellata su quella visiva e in funzione della quale vengono designate le caratteristiche del suono. Accanto all’ascolto visualizzato – ossia ai suoni in, suoni sincronizzati a una sorgente sonora che l’inquadratura sta mostrano nello stesso istante – il vero regno del suono è tuttavia il fuori campo: il sonoro, infatti, esercita una potente forza centrifuga sull’immagine, premendo continuamente ad andare oltre i bordi dell’inquadratura. Il fuori campo diviene attivo, rendendo lo spettatore consapevole dei limiti del suo sguardo e del desiderio di superarli, soprattutto quando il suono è off (fuori quadro), in procinto di far apparire sulla scena alla successiva inquadratura la sua sorgente, solo momentaneamente è più o meno a lungo sottratta alla vista. I suoni over provengono da un altrove esterno alla diegesi, dalla extradiegesi, un luogo radicalmente escluso dal campo visivo dello spettatore come quello che in Rapina a mano armata (Kubrick, 1955) orienta lo spettatore nell’incastro di flashback e sequenze parallele. Lo spazio del suono, dunque, si caratterizza per queste tre aree, fra le quali occorrono continui scivolamenti e spostamenti, potendo la sorgente sottrarsi o offrirsi alla vista da un’inquadratura all’altra e persino l’extradiegesi ridefinirsi quale parte del mondo della basato prevalentemente su un primato dell’occhio e delle percezioni visive, ad abbandonare il distacco tipico della vista per la pervasività propria del suono. LO SPETTATORE Introduzione Nel 1914 Emile Altenloh pubblica la sua tesi di dottorato: Per una sociologia del cinema – l’intrattenimento cinematografico e gli strati sociali dei suoi fruitori. Nel volumetto Altenloh espone i risultati della sua ricerca sul profilo sociale degli spettatori che, in quei primi anni ’10, affollano le sale cinematografiche di Mannheim e che Altenloh ricostruisce attraverso alcune migliaia di questionari. Questa indagine costituisce un’anomalia nel panorama degli studi sulla nascente audience cinematografica. Anzitutto perché si tratta di una ricerca sul campo. In secondo luogo, perché il baricentro della ricerca di Altenloh non è su quanto accade allo spettatore dentro la sala cinematografica e di fronte allo schermo, quanto sulla relazione fra il suo ambiente di vita, la classe sociale a cui appartiene e l’andare al cinema. Infine, perché dal lavoro di Altenloh emergono un giudizio complessivamente positivo sull’esperienza cinematografica e un’immagine di spettatore attivo, in contrapposizione all’idea corrente e ampiamente condivisa, al di qua e al di là dell’oceano. Classical views Il modello di spettatore che si afferma in coincidenza con il processo di istituzionalizzazione del cinema è, infatti, quello di uno spettatore concentrato in modo esclusivo sullo schermo e immerso nei mondi fittizi che i film costruiscono. All’inizio del ‘900 il setting dell’ipnosi offre ai nascenti studi sulla spettacolarità cinematografica un efficace e convincente quadro interpretativo, dando voce e forma alla preoccupazione con cui gli intellettuali e osservatori guardano alla diffusione delle nuove forme di intrattenimento di massa. Il cinema come potente strumento di manipolazione e di persuasione delle categorie considerate “a rischio”: i bambini, le donne e, negli USA, gli immigrati. L’esperienza di fruizione da parte dei bambini, nei primi decenni del ‘900 diventa oggetto di un numero crescente di interventi e di ricerche, che culminano nel progetto voluto dal reverendo William Short e finanziato dalla Payne Study and Experiment Fund, tra gli anni ‘20/’30, che raccoglie un impressionante volume di dati sugli effetti deleteri del consumo di cinema nei bambini e negli adolescenti. I PFS corroborano i peggiori timori che la società occidentale nutre nei confronti del cinema e, in generale, dei mezzi di comunicazione nella difficile congiuntura che prepara il secondo conflitto mondiale. I PFS rappresentano un fondamentale snodo negli studi sulla spettatorialità cinematografica: da quella esperienza il Gotha degli studiosi americani di area umanistica, si dipartono, infatti, su due linee di ricerca che per i successivi cinquant’anni agglutineranno la riflessione e le ricerche sulle audience, sviluppandosi tuttavia sottotraccia, come tema minoritario di indagine. Da un lato, le ricerche sui pubblici di cinema, sulla loro ampiezza e composizione, sulla frequenza e la abitudini di consumo, che assumono un tratto schiettamente amministrativo; dall’altro lato, una riflessione di carattere marcatamente teorico che, molti anni dopo, Janet Staiger bollerà come meramente speculativa, e che accompagna i Film Studies. Dagli anni ’40, la questione del pubblico di cinema diviene marginale: un banco di prova sempre e comunque confermativo, delle teoriche che vengono via via sviluppate sul cinema, i suoi linguaggi, le sue poetiche, il suo apparato. Occorre attendere fino agli anni ’70 perché il problema dello spettatore di cinema torni a occupare la riflessione e gli studi filmici, Jostein Gripsrud descrive questa riemersione come il “ritorno del rimosso”, formula efficace che sottolinea due elementi essenziali: da un lato, il superamento della censura; dall’altro lato, la rilevanza della psicoanalisi come quadro metodologico quasi esclusivo con cui si affronta ed esamina l’esperienza dello spettatore. In particolare, la storiografia sulle teorie dello spettatore cinematografico riconosce due nuclei di riflessione che catalizzano il dibattito sull’esperienza di visione e il pubblico agli albori degli anni ’70: gli studi sull’apparato, che si concentrano sulle condizioni strutturali dell’esperienza del cinema e che hanno come riferimento essenziale il lavoro di Jean-Louis Baudry; e gli studi sul dispositivo, che si focalizzano principalmente sul testo filmico e sulle sue strategie di coinvolgimento dello spettatore, e che trovano nelle teorie di Metz il principale referente. Entrambe le linee di studio restituiscono l’immagine di uno spettatore modellato dalle condizioni della visione e dalla strutture del testo e indotto a identificarsi con i mondi che i film rappresentano e con il punto di vista costruito dal cinema. Quello che meno frequentemente emerge è che tali teorie vengano elaborate e monopolizzano il dibattito proprio nel momento in cui le condizioni di visione e le forme testuali che descrivono stanno entrando in cristi. Le teorie del dispositivo e dell’apparato si alimentano di una vague nostalgica verso un tipo di cinema e un tipo di esperienza di visione che la trasformazione degli spazi di fruizione e la crisi dei testi stanno fatalmente obliterando. Vedere oltre Il superamento delle teorie dell’apparato e del dispositivo e dell’idea di spettatore che esse promuovono non si produce dal confronto con la mutate condizioni della visione, ma avviene dall’interno. Le cosiddette teorie cine-psicoanalitiche stabiliscono infatti un nesso inscindibile fra la visione cinematografica e i processi di costituzione della soggettività. Semplificando si può dire che, per queste teorie, l’esperienza di visione innesca un processo regressivo, che induce lo spettatore a rivivere alcune fondamentali fasi che hanno segnato il percorso di costruzione delle soggettività. L’analogia più nota è quella fra l’esperienza filmica e la fase dello specchio, enunciata da Metz. Il rapporto con il film dentro la sala, dunque, non solo fa risuonare corde profonde e intime dello spettatore, lo coinvolge, lo immerge nel mondo rappresentato, ma diventa anche una parte costitutiva della sua identità e quindi uno strumento che lo posiziona, sia per rispetto al film e a quanto rappresenta, sia rispetto alla realtà sociale. L’idea che lo spettatore venga istituito, dal cinema come soggetto alimenta nel corso degli anni ‘70 un ampio dibattito sulle responsabilità del cinema nella costruzione e nella legittimazione del sistema sociale. Questo dibattito intercetta e si salda con la critica femminista. All’inizio degli anni ‘70 i movimenti femministi entrano in quella che viene chiamata la seconda fase e che si caratterizza per un’estensione dell’azione politica verso la dimensione del simbolico. In questi anni matura il convincimento che la lotta per l’emancipazione femminile non si debba condurre solo nelle piazze, ma anche e primariamente intervenendo sull’industria culturale, sulle logiche e sui modelli di femminile e di maschile che essa veicola. La saldatura fra femminismo e teorie dello spettatore posizionato avviene, così, in modo naturale. Le teorie dell’apparato e del dispositivo forniscono infatti la spiegazione dell’azione ideologica del cinema e ne provano la crucialità come spazio di denuncia e potenziale campo di manovra per far saltare le strutture della società patriarcale. A inaugurare la stagione del Feminist Film Criticism è un saggio di Laura Mulvey: Visual Pleasure and Narrative Cinema. Siamo nel 1975, Mulvey tratta una fondamentale lezione su come il cinema entra in gioco nei processi di costruzione dell’identità degli spettatori, compresa l’identità di genere. In Visual Pleasure, la teoria del dispositivo viene impiegata per denunciare la connivenza fra cinema hollywoodiano e interessi patriarcali e per spiegare come i film classici costruiscano il primato maschile sul femminile. L’analisi di Mulvey rileva che nelle tipiche narrazioni proposte da Hollywood il soggetto portatore dell’azione ha tratti maschili, mentre ai personaggi femminili viene riservato il ruolo di oggetto del desiderio. Che sia uomo o donna, lo spettatore è indotto ad allinearsi con il personaggio maschile che è, secondo Mulvey, un punto di vista patriarcale. Applicato alla questione della costruzione dell’identità sessuale, il modello dello spettatore posizionato rivela tuttavia un’insanabile aporia. La struttura del cinema classico sembra in effetti prevedere una posizione di visione pienamente gratificante solo per gli uomini: per le donne che siedono in sala il piacere della visione si dà solo a condizione di allinearsi con lo sguardo maschile e negare così la propria soggettività di genere. Dunque l’esperienza di visione dei pubblici femminili dovrebbe risultare depauperata o persino compromessa: conclusione che contrasta con il vissuto delle spettatrici, a partire da quello delle nuove studiose femministe. Nella sua insostenibilità – che la stessa Mulvey riconoscerà a distanza di qualche anno – VP&NC inaugura così un ampio dibattito che si protrarrà per tutti gli anni ’80 e che porterà la riflessione sulla spettatorialità cinematografica oltre il modello dello spettatore posizionato, facendo emergere una nuova e più complessa figura di fruitore: quella dello spettatore esuberante. Tracce di questo modello si trovano, oltre che nel dibattito femminista, anche nelle ricerche che vengono avviate in questo periodo in ambito storico e in quel particolare movimento che viene definito del “revisionismo storico”. Sia il lavoro condotto dal Feminist Film Criticism, sia il lavoro svolto in ambito storico sulle forme della spettatorialità nel cinema delle origini e poi sulle molteplici ed eterodosse espressioni che assume il consumo di cinema al di fuori dei contesti metropolitano o presso particolari comunità mostrano la sistematica eccedenza dell’esperienza di fruizione dal canone spettatoriale e la necessità di confrontarsi con gli spettatori reali e storicamente situati. Difetti di visione Il primo di essi è quello che proporrei di chiamare paradigma dello spettatore complice, che prende forma all’interno degli approcci cognitivisti e all’esperienza filmica. L’approccio cognitivista si pone in alternativa alle teorie psicoanalitiche del film e descrive l’esperienza di fruizione come un processo razionale e cognitivo, piuttosto che irrazionale e inconscio. Capofila dell’approccio cognitivista è Bordwell e la sua idea di fondo è che lo spettatore abbia un ruolo attivo nella visione e sia chiamato a completare il senso del testo filmico e a inverare il suo progetto comunicativo. Nel compiere questa operazione, lo spettatore attinge a una serie di competenze che sono il portato delle sue esperienze passate di fruizione; dato che tali esperienze sono uniche, anche la visione del film sarà un evento originale. Sebbene distanti sotto il profilo metodologico e teorico, gli studi cognitivisti evidenziano più di un punto di contatto con le riflessioni sulla spettatorialità che vanno maturando nei primi anni ’80 in ambito semiotico. La teoria enunciazionale della comunicazione restituisce infatti l’idea di uno spettatore che si lascia guidare dalle tracce che sono state disseminate nel testo da chi ha concepito il film, tracce che non hanno un carattere prescrittivo e che lo spettatore segue e asseconda perché esse gli consentono di fare l’esperienza più piena e soddisfacente del film. Anche in questo caso, l’idea di spettatore che emerge è quella di soggetto complice, che volentieri collabora alla piena realizzazione del progetto comunicativo (e culturale) proposto dal testo filmico. Il secondo paradigma è quello dello spettatore resistente. Elaborato alla scuola di Birmingham, lo spettatore resistente è portatore di un proprio bagaglio di conoscenze e di convincimenti, capitali culturali che modellano la sua esperienza di visione. Lo spettatore resistente manifesta un atteggiamento ostile verso il film e le sue proposte, che vengono giudicate ideologicamente compromesse e quindi eluse o sabotate. Il paradigma trova, a partire dalla metà degli anni ’80, un terreno particolarmente fertile di crescita e di diffusione negli studi sulle comunità culturalmente minoritarie o che occupano posizioni subalterne nella società. La trasformazione dei modi della visione, all’inizio degli anni ’90, che anticipa il più eclatante cambiamento che si consumerà alla fine del decennio con la diffusione di internet. I neologismo che vengono coniati per definire questa genia di pubblici utilizzino spesso formule o suffissi maggiorativi come “iper-spettatore” o “spettatore aristocratico”. Con la fine del ‘900 anche lo studio dei pubblici e soprattutto la ricerca empirica sugli spettatore e sulle loro pratiche di visione segnano una battuta di arresto. Il tema dello spettatore tende a essere declassato nell’agenda degli studi filmici. Si tratta di un processo complessivo che investe anche il dibattito sulle audience televisive e mediali e che coincide con un massiccio ritorno di attenzione verso gli apparati. Il processo di digitalizzazione e la conseguente trasformazione delle tecnologie del sistema mediale ripropongono, infatti, la questione della natura dei differenti dispositivi e della comunicazione e della loro azione. In questo scenario gli spettatori tornano a occupare la posizione di termine minore di un sillogismo la cui premessa riposa sul medium e sulle sue caratteristiche. LO STILE Il cinema e le aporie dello stile Nel celebre aforisma di de Buffon “Lo stile è l’uomo” ritroviamo tutta l’ambiguità di una nozione vaga e multiforme di stile, ambito che da sempre è soggetto a molti studi. La formula di Buffon sintetizza subito la sua oscillazione tra i poli individuale e collettivo. Tradotta in termini artistici, questa dicotomia chiama in causa da un lato l’emergere di un “tocco personale”, dall’altro il riconoscimento di una scuola o di pone in questo caso come ricostruzione di un’intera cultura, dei suoi meccanismi e dei suoi conflitti. Nella prospettiva visualista si esercitano ricerche che coniugano l’estetica, la storia e la critica culturale, che interrogano il rapporto tra stile e cultura nazionale, secondo una linea che riprende i concetti fondamentali di storia dell’arte pubblicati da Heinrich Wöllflin nel 1915, dove la lettura delle forme si metteva in relazione alle singole fisionomie nazionali, ma certo per superarla e problematizzarla in un orizzonte non nazionalistico. Per restare nell’ambito del cinema italiano, si possono richiamare i lavori di Bernardi e Buccheri. In queste ricerche, pur evidentemente diverse tra loro, lo stile diventa una forma di discorso sociale. Ovvero, come ricorda Buccheri → se è vero che i film, oltre che delle opere dotate di un senso, sono dei discorsi che circolano in una società, e in quanto tali assimilabili ad altri tipi di discorsi sociali, si tratterà di studiare lo stile dei film non come mediazione tra un contenuto di pensiero e delle forme espositive, ma come formazione discorsiva, come discorso tra i discorsi. L’idea di stile nel progetto culturale del cinema moderno Studiare lo stile nell’ambito del cinema moderno significa confrontarsi con un bagaglio di teorie e discorsi elaborati da quella tradizione critica francese che ha nel corpus degli scritti di Bazin il suo epicentro. Allo stile spetta il compito di favorire il più possibile la vocazione realistica del linguaggio cinematografico, di limitare i trucchi e le manipolazioni, di trasformare l’atto stesso delle riprese in un momento conoscitivo e in generale di proporsi in un superamento dell’orizzonte spettacolare del cinema in favore di un riscatto fenomenico del reale. Se questa circolarità tra e tensione verso il reale definisce il moderno in senso stilistico, vanno qui richiamati ulteriori motivi etici e/o politici senza i quali il progetto della modernità cinematografica non è comprensibile in tutta la sua portata → il moderno funziona come un’ideologia. Un discorso culturale complesso che ha nell’idea di autore un primo motivo di riconoscimento. Non è al moderno che spetta la scoperta dell’autorialità, ma qui essa si declina anzitutto come un atto di responsabilità etica ed estetica della messa in scena; un’idea riassunta nella formula godardiana del “carrello come questione morale”. I problemi dello stile i dilatano così in un orizzonte stilisti. Nel perseguimento di un’etica dello sguardo, il tema di una responsabilità morale del film non riguardava più soltanto i soggetti e temi da portare sullo schermo. Il ruolo decisivo del tournage, la responsabilità individuale della messa in scena e dell’atto di ripresa spostano il baricentro dalla parte delle scelte stilistiche. Esemplare in tal senso è Kapò di Pontecorvo (1961), che ricostruisce le vicende dei campi di concentramento; il film condannato ferocemente da Jacques Rivette, sulle pagine dei Cahiers, a causa di un movimento di macchina ritenuto immorale (e dunque di una presunta spettacolarizzazione della morte). In tal senso, l’articolo di Rivette costituisce una preziosa testimonianza dei canoni interpretativi, della filosofia di fondo della modernità francese e delle tensioni etiche, estetiche e politiche che si trasferiscono nell’idea di stile. L’intreccio di responsabilità morale della messa in scena e delle scelte stilistiche che emerge dalla linea Bazin-Rivette-Daney non è l’unico motivo della modernità, ma resta uno dei momenti decisivi per comprendere la portata del suo orizzonte. Con il moderno, le questioni dello stile non si legano solo a un progetto di riscatto del reale ma a una storia critica a e un progetto culturale che sono essenzialmente francesi, o sviluppati sotto l’influenza del dibattito francese. Come per molte esperienze del modernismo radicale nell’arte del XX secolo, l’ideologia della modernità cinematografica è stata pensata con accenti quasi religiosi. Si tratta di un motivo tipico di molte avanguardie e, in questo caso, di un comune denominatore che lega autori, correnti e movimenti che ambiscono a rivisitare da cima a fondo l’orizzonte spettacolare e popolare al cinema. Il cinema moderno è stato il progetto di un’élite che si appropria di un’arte rivolta a tutti per piegarla alle proprie istante di espressione soggettiva, facendone un mezzo in grado di rivaleggiare con la pittura, il pensiero, le letteratura. Conclusioni I discorsi sullo stile elaborati a partire dal cinema classico e dalle teorie della modernità cinematografica sembrano superare la dicotomia tra una prospettiva formalista e una culturalista. Analizzando il rapporto tra lo stile e la tecnologia e i discorsi sociali, oppure discutendo precisi progetti culturali, come quello della modernità, emerge di volta in volta la natura compromissoria di tale nozione. Lo stile come spazio di una mediazione. Lo stile può essere visto come una risposta non solo alle sollecitazioni della tecnologia, ma anche alle contraddizioni sociali, all’elaborazione dei discorsi sull’identità nazionale, o al rapporto tra arte, élite borghesi e cultura di massa, come nel progetto culturale della modernità. Lo stile catalizzatore di conflitti, contraddizioni, negoziazioni e mutamenti sociali. Lo stile inteso non più come un canone, un sistema statico (à la Bordwell), ma come un processo dinamico, di continua apertura/chiusura, che di volta in volta si stabilizza nel momento in cui gusti, habitus e modelli socioculturali solitamente in conflitto trovano un temporaneo punto di equilibrio. LA TECNOLOGIA Dalla mimesis alla poiesis, tra scienza e idealismo Secondo André Bazin, il cinema è un fenomeno idealista [che] non deve quasi nulla allo spirito scientifico. Il mito direttore che ne sostanzia l’invenzione è il realismo integrale, e dunque la storia del suo sviluppo tecnico coincide totalmente con la progressiva realizzazione di tale mito. Non v’è dubbio che il cinema nasca e si affermi per rispondere a quel bisogno idealista profondamente radicato, nondimeno, nella sua ineludibile natura materialista e tecnologica. Restituire nel modo più credibile possibile ciò che appare fotografabile e presentabile sugli schermi in un determinato momento storico; produrre e imporre immagini nuove che quel medesimo visibile contribuiscono ad ampliare: è a questo duplice scopo che la tecnologia cinematografica deve mirare. Le tappe che ne scandiscono il percorso storico testimoniano la sostanziale preoccupazione di produrre un realismo irresistibile: anche quando indirizzato verso le possibilità di evasione del fantastico e del sogno, il cinema sfrutta la sua portentosa macchina contando sulla contraddizione tra l’oggettività dell’immagine fotografica e il carattere incredibile dell’avvenimento. Travisare, alterare così come perfezionare, in modo che non sia più possibile discernere il vero dal falso. È opera della natura truccografica della tecnica e per queste deve essere tenuta nascosta, per lasciare spazio alla nascita di uno spettatore come soggetto ignaro e quindi attratto e illuso, in grado di stare al gioco senza scoprire la tecnica dell’effetto, ma limitandosi allo stupore della resa. → spettatore ignaro della tecnica e sorpreso. Il cinema nasce come fotografia animata atta al perseguimento di quell’idea-ideologia. Animare la fotografia è infatti il modo più efficace perché la vita sia colta sul fatto nel suo lato più quotidiano e normale (normale → nome obiettivo standard, 54mm, a focale fissa usato dai Lumière), ma anche per derivarne il lato più fantasioso e magico, come dimostra Méliès che scopre involontariamente le potenzialità del montaggio quale trucco congeniale a un cinema fondato sull’effetto meraviglia. È infatti proprio tentando anch’egli di cogliere la vita sul fatto che secondo il famoso aneddoto del fortuito inceppamento della pellicola durante una veduta realizzata in place de l’Opéra di Parigi, Méliès assiste in proiezione all’improvvisa e inattesa trasformazione di un omnibus in un carro funebre, scoprendo così il montaggio quale artificio illusionistico di base. È, insomma, sufficiente la minima manipolazione tecnica perché il cinema del reale si tramuti in cinema del surreale. *** Alla base di tutto ciò permangono le potenzialità già tutte insite nell’apparato tecnico fotografico: se da una parte c’è il tentativo di cogliere la sensazione della vita e del tempo nel suo fluire già sperimentati da Eadweard Muybridge ed Étienne- Jules Marey con la cronofotografia, dall’altra si segnala il principio tecnico del fotomontaggio indicato già nel 1869 da Henry Robinson come una delle modalità per avvicinare il lavoro del fotografo a quello del pittore, aggirando così le ben note critiche ottocentesche circa le difficoltà i limiti che impedivano alla fotografia di essere considerata arte. È per questo motivo che la stessa attuale rivoluzione digitale si fonda, di fatto, sul recupero di un’identità per molti aspetti rinnegata ed emerginata, come dimostra il caso dei visual effects computerizzati, la processualità chiama in causa le pratiche paleocinematografiche del XIX secolo e proprio per quel pittorialismo nel quale si distinse Robinson. La pelle delle immagini In principio è il film, ossia letteralmente una pellicola, che risulta soggetta all’invecchiamento: una striscia composta da una sostanza plastica che possiede una lunghezza varia e contiene, per ogni metro di pellicola, 54 immagini semitrasparenti, frutto dell’indecisione meccanica tramite la registrazione di luce riflessa su una superficie chimicamente fotosensibile. Nel campo della ripresa cinematografica l’avvento dell’elettronica, inizialmente analogica e poi digitale, non abbia fatto altro che rafforzare la dipendenza dell’apparato da un’interfaccia di decodificazione delle informazioni che presiedono alla configurazione delle immagini, disperdendo ulteriormente quel residuo di stabilità ontologica e di materialità estetica affannosamente rivendicato dal cinema chimico. Va, d’altra parte, precisato che in ambito digitale a sostituire la vecchia pellicola è il sensore o traduttore (detto CCD o CMOS) posizionato, proprio come nel caso della pellicola, subito dietro l’obiettivo. È a partire dalla struttura di questo elemento composto di silicio che si può comprendere la profonda differenza tecnica e concettuale tra immagini numeriche e immagini chimiche: il sensore risulta, infatti, costituito da un numero preciso di minuscoli elettrodi (i photosites), tutti di uguale forma e dimensione, sistemati in ordine geometrico su una griglia bidimensionale divisa in celle (corrispondenti, nell’immagine finale, ai pixels), mentre l’emulsione chimica è formata da microelementi, i granuli di alogenuro d’argento, irregolari e disposti in ordine caotico nello spazio. Dal momento che una simile configurazione appare analoga a quella della retina dall’occhio umano, si spiega il motivo per cui, anche nel sentire comune, le immagini ottenute in pellicola non appaiono artefatte o finte come quelle digitali. Il modo in cui si persegue il raggiungimento del sacro valore dell’analogicità delle immagini con il mondo non risulta immediato bensì costantemente basato su una codificazione complessa individuabile, in primis, sul piano della scala di grigi che, prima dell’avvento del colore, traducono i toni e le sfumature della realtà. Ciò appare particolarmente evidente proprio agli esordi del cinema, quando l’impiego delle emulsioni ortocromatiche costringe registi, scenografi/costumisti e direttori della fotografia a trattare il profilmico in maniera totalmente condizionata da tale specificità tecnica, impiegando, ad esempio, superfici monocrome più o meno intense tra il bianco e il nero oltre che facendo ricordo alla luce solare visto che quella artificiale si basa sostanzialmente sulla gamma del rosso. A partire dal 1922, con l’introduzione da parte della Kodak della pellicola pancromatica sensibile a tutto lo spettro del visibile, tale combinazione si inverte: inaugurata ufficialmente nel film The Headless Horseman di Venturini (1922), capace di codificare tutte le colorazioni possibili risultando tuttavia inizialmente poco sensibile, tale emulsione consente infatti minori limitazioni nella scelta dei cromatismi costumistico- scenografici e l’introduzione delle apparecchiature dell’illuminazione a incandescenza. Prima dell’avvento della tecnologia del colore, tramite sistemi di tintura in grado di conferire una dominante cromatica alla singola inquadratura o all’intera scena, il cinema muto stabiliva un vero e proprio codice cromatico: a ogni tonalità dominante dell’inquadratura corrispondevano certi caratteri della scena. Ecco allora che, se il giallo e l’azzurro venivano utilizzati per virare le sequenza diurne e notturne, con il rosso si tendeva a suggerire la passione o il pericolo. L’impiego della colorazione policroma a pochoir, procedimento che raggiunge il suo apice tecnico ed estetico con il Pathécolor brevettato nel 1906, anticipa in qualche modo la complessità che sarà propria del Technicolor, il più famoso e duraturo sistema di registrazione del colore lanciato nel 1932 da Walt Disney con il film d’animazione Flowers and Trees di Burt Gillett e fondato sull’impiego di tre differenti strati di emulsione, tra loro sovrapposti e opportunamente separati, ognuno reso sensibile a una diversa gamma di lunghezze d’onda; il loro successivo accoppiamento ai relativi coloranti produce la formazione dei tre colori nella pellicola sviluppata, uno per ciascuno strato del materiale sensibile. Quanto al suono, la presenza di un codice è ancora più evidente per il fatto che, anche in questo caso, è una scrittura della luce a incidere su pellicola positiva la colonna sonora. Infatti, quest’ultima si presenta sotto forma di una colonna ottica ad area variabile derivata dall’impressione di segnali luminosi su un lato della pellicola, i quali, affinché possano essere riprodotti i suoni, devono essere letti o decodificati da un’apposita cellula fotoelettrica del proiettore. L’immagine digitale, nella sua duplice articolazione fotonumerica e infografica accentua la problematicità delle immagini cinematografiche tradizionali in direzione di uno Garrett Brown, possiede la peculiarità di filtrare, correggere, ammorbidire, grazie a un apposito sistema di molle e contrappesi, le imperfezioni della tradizionale macchina a mano, dando vita a movimenti impersonali e fluidi, eppure non ancora sena corpo (→ es. movimenti di macchina nei corridoi dell’Overlook Hotel e nel labirinto vegetale di Shining – Kubrick, 1980). L’esito più espremo è rappresentato, nell’orizzonte digitale, dalla virtual camera (tipicamente impiegata nei videogiochi ma anche in molto cinema “sintetico”), un sistema funzionale a simulare i movimenti di macchina all’interno di ambienti totalmente costruiti al computer: sebbene apparentemente sganciata da qualunque dispositivo fidico, anche la virtual camera conserva una propria corporeità determinata dalla presenza di comandi materiali azionati da un operatore in carne e ossa che previsualizza su un monitor il frutto del suo lavoro traslato nello spazio simulato, come è accaduto sul set di Avatar (2009), in cui il regista James Cameron ha potuto impiegare un simile dispositivo con una libertà decisionale e un’agilità totali. A proposito di nuove tipologie di black box sempre più votate all’immersività, deve essere dedicata al sistema 3D, il cui grande ritorno in auge nell’epoca digitale non rappresenta altro che il recupero e il potenziamento di quanto sperimentato in un lontano passato, precisamente nel 1838, quando Charles Wheatstone presenta alla Royal Society il primo dispositivo di visione stereoscopica. Tale tecnica viene impiegata dal cinema soprattutto negli anni ’50, periodo durante il quale il grande schermo deve rispondere alla concorrenza proveniente dalla televisione. Dopo un revival negli anni ‘70/’80, le indagini tecniche proseguono negli anni ’90 con il sistema di fruizione IMax 3D e quindi, con il nuovo millennio, con l’introduzione di apparati di ripresa ditigali impiegati nella direzione di una naturalezza della rappresentazione opposta alla logica dell’effetto speciale, ricalcando questo avvenuto nell’ambito della CGI negli anni ’90, quando film come Jurassic Park, determinando la transizione da un iniziale scetticismo nei confronti dell’animazione computerizzata a una piena ed entusiastica accettazione, segnano il trionfo del fotorealismo, ovvero della capacità di falsificare non già la nostra esperienza percettiva e materiale della realtà, ma solo la sua immagine fotografica. Lo zoom o trasfocatore – risalente al periodo a cavallo degli anni ‘30/’40, impiegato in maniera diffusa dalla fine degli anni ’50, ma già conosciuto in fotografia dalla fine dell’800 – allargando e restringendo l’attenzione sulla scena grazie alla sua lunghezza focale variabile, è l’erede d mascherini e iridi di epoca muta. Si tratta perciò di una tecnologia della virtualità visto che nasce per simulare, senza alcuno spostamento fisico della macchina da presa, avvicinamenti o allontanamenti di quest’ultima, oltre che a consentire, grazie alla propria versatilità, quell’immediatezza di approccio al profilmico caratteristica del cinema degli anni ‘60/’70, come attesta Roberto Rossellini, pioniere del pancinor, sorta di zoom di prima generazione impiegato per la realizzazione di lunghe carrellate ottiche. L’altro caso è quello della sala cinematografica nella sua qualità di spazio pubblico, movie house che rende possibile la trasformazione del film in cinema. Tale dispositivo, con l’avvento della digitalizzazione, sta subendo una vera e prorpia rivoluzione copernicana visto che il nuovo orizzonte mediale ha progressivamente condotto, tramite la diffusione di portable devices di ogni genere, a quella che Casetti ha definito la rilocazione dell’esperienza spettatoriale e di conseguenza all’inversione del rapporto tra pubblico e spettacolo filmico, se è vero che non è più il primo a doversi muovere per raggiungere il secondo, ma sono le immagini a installarsi nei dispositivi personali di ognuno per essere fruite in tempi, luoghi e modi non ortodossi. La stessa sala cinematografica del futuro/presente, in conseguenza dello switch off al digitale, è un luogo in cui il sistema proiettore-schermo, al pari di qualsiasi televisore domestico, riceve il film non più sotto forma di supporto materico (la tradizionale pizza), bensì come un file (il digital cinema package) inviato vi satellite da una centrale, consentendo così la creazione di veri e propri network di sale cinematografiche in cui è possibile proiettare (in alta definizione, 2D o 3D) non soltanto opere cinematografiche, ma anche eventi in diretta legati al mondo dello sport e dello spettacolo. Conclusioni La storia della tecnologia cinematografica è una lunga, articolata e a volte contraddittoria vicenda di rimeditazioni. Ogni scoperta, ogni miglioramento tecnologico ha rappresentato una modalità in cui, di volta in volta, il cinema si è reiventato quale medium capace al contempo di superare quel che era prima, diventando qualcosa d’altro, ma anche riformarsi, mettendo meglio in luce e valorizzando la sua identità originaria. È quanto affermato già da Benjamin quando evidenziava la legge secondo cui le conquiste più recenti si prefigurano nella tecnica trascorsa. Quello della tecnologia cinematografica, in definitiva, non è un tracciato rettilineo bensì, semmai, spiraliforme. LA TEORIA Commenti Il cinema si presenta fin dalla sua nascita accompagnato da una galassia di brevi interventi occasionali, questi testimoniamo per un verso il suo immediato radicamento all’interno di una multiforme relazione di saperi scientifici, politici, filosofici, religiosi, giuridici, economici, artistici e letterari di fine ‘800, e per altro verso l’esigenza di donare un senso socialmente condiviso al nuovo oggetto di esperienza. Può trattarsi di interventi che affrontano il fatto cinematografico a partire da interessi pratici: ad esempio, nel 1902 l’inventore e produttore Thomas Edison vinse una causa contro un concorrente che aveva copiato un suo film in quanto il giudice sentenziò che, pur avendo Edison depositato un solo fotogramma per i diritti di copyright, un film esiste non come semplice somma dei fotogrammi ma come entità visuale unitaria di livello superiore. Oppure possono essere testimonianze dei primi spettatori soprattutto se questo sono giornalisti o scrittori: come annota Maksim Gor’kij in un reportage del 1896 → «tutto si muove, vive, ribolle, arriva sul primo piano del quadro e scompare non si sa dove.» Discorsi A partire dalla seconda metà del primo ‘900, e soprattutto dagli anni ’20 in poi, si fa più evidente e continuo l’intervento di giornalisti, organizzatori culturali, scrittori e registi nella riflessione sul cinema. Giocano a questo proposito due ordini di influenza. Per un verso, il cinema adotta la forma del lungometraggio, viene accolto in sale appositamente attrezzate per la proiezione e acquisisce quindi una visibilità sociale più definita. Per altro verso, l’opera di legittimazione del cinema come arte moderna si lega alla riqualificazione della figura ottocentesca dello studioso o del letterato nel nuovo ruolo di intellettuale, operante nel contesto industriale della società di massa. Di qui un legame stretto tra gli anni ’10 e gli anni ’30 tra il cinema e le avanguardie artistiche, promotrici di un rinnovamento in senso moderno delle arti e della cultura: saranno in particolare il futurismo e il surrealismo, accanto alla prima ondata avanguardistica dell’impressionismo francese, a incidere sulla teoria del cinema. In questo senso quasi tutte le riflessioni sul cinema di questo periodo sono state considerate “moderniste”, in quanto esaltano la capacità del cinema di riformulare il reale mediante le moderne tecnologie della percezione piuttosto che riprodurlo in maniera trasparente, come ritengono le teorie etichettate come “realiste”. Le forme del discorso teorico rimangono fino agli anni ’30 piuttosto frammentate: articolo su quotidiano o rivista, alcuni volumi dalla seconda metà degli anni ’10 riviste specializzate nella critica e teoria del film ecc. I temi degli interventi sono anch’essi vari, ma tengono a disporsi lungo linee di interesse individuabili. Una prima ondata di studi è caratterizzata dalla preoccupazione di annettere il cinema al campo di discussione dell’estetica, legittimandolo in quanto forma d’arte. Alcuni sostengono che l’appartenenza dl cinema al campo dell’arte derivi dal suo costituire un tipo di arte sincretica, in grado di conciliare arti plastiche e musica. Altri ritengono, invece, che il cinema costituisca una forma d’arte in virtù di caratteristiche proprie: queste consentono un tipo di esperienza del tutto inedito. Un primo gruppo di studiosi insiste sul fatto che il cinema esternalizza e rende oggettivi i movimenti interni e soggetti della coscienza e del pensiero. Per Hugo Munsterberg, uno psicologo tedesco che lavora in America, il film modella il mondo esteriore oggettivo in base a modalità e movenze del mondo interiore soggettivo, o – che è dire lo stesso – esternalizza l’esperienza soggettiva dello spettatore e le sue dinamiche di percezione, attenzione, memoria, immaginazione ed emozione. Una posizione dello stesso tenore percorre successivamente le teorie degli autori sovietici negli anni ’20, tra cui spicca il nome di Ejzenstejn: in questo caso è soprattutto lo strumento del montaggio a tradurre in forme oggettive una serie di processi di pensiero collegati a processi emozionali, innescando una forte sintonia emotiva e intellettuale tra il film e lo spettatore. Opposta, la posizione di un secondo gruppo di studiosi definibili “rivelazionisti”: in questo caso la felice anomalia dell’esperienza filmica consiste nell’assistere a un’esteriorizzazione “epifanica” degli aspetti segreti e normalmente invisibili del mondo reale. Ad esempio Epstein indica con il termine fotogenia il rivelarsi di qualità sensibili e morali nascoste del mondo visibile, rivelazione resa possibile da un cinema puro, capace di sospendere la componente narrativa. Per Béla Balàzs il cinema rende l’uomo visibile, ovvero permette al suo corpo e, meglio ancora, al suo volto di esprimere la sua anima: è il concetto di fisionomia in questo caso a risultare centrale, concetto che viene comunque esteso a indicare non solo la capacità espressiva di volti e corpi, ma anche quella delle folle, dei paesaggi naturali o di quelli industriali. La tendenza rivelazionista avrà una vita lunga: si trova, ad esempio, in Siegfried Kracauer. Per il filosofo il cinema prolunga il ruolo della fotografia nel permettere un accesso diretto e rinnovato alla realtà fisica: esso consente di scoprire o riscoprire l’apparire fenomenico delle cose, una realtà grezza spesso invisibile fatta di momenti casuali, oggetti spari e forme senza nome; il cinema innesca, dunque, un processo di ricostruzione dei quadri categoriali basato sull’esperienza diretta del mondo piuttosto che sull’elaborazione di concetti e categorie astratti. La tendenza esternalista e quella rivelazionista sono opposte ma complementari: in entrambi i casi il cinema mobilita una tecnologia che coinvolge in modo inedito i sensi, l’intelletto e le emozioni dello spettatore e produce in modo altrettanto inedito un movimento artificiale di manifestazione. Nel complesso, è la stessa distinzione tra interiorità ed esteriorità a essere messa in crisi: il cinema si pone, dunque, come un dispositivo artificiale di regolazione dei rapporti tra un soggetto e un oggetto. La seconda ondata di studi si distacca da una preoccupazione prioritariamente estetica e si interroga piuttosto sulla possibilità di assimilare il cinema a un linguaggio dotato di regole, norme e grammatiche specifiche. Per la scuola dei formalisti russi il film assume la piatta realtà fotografica delle immagini per manipolarla attraverso una serie di procedimenti di costruzione artificiali e convenzionali con una “cine-lingua”; essa permette di artificializzare l’esperienza del mondo reale e di allontanarla da quella ordinaria, producendo un effetto di straniamento che caratterizza il cinema di poesia rispetto a quello di prosa. È chiara l’opposizione alle posizioni del gruppo precedente e in particolare ai rivelazionisti: non è il reale a rivelarsi attraverso l’inquadratura, ma il linguaggio cinematografico a esprimere il reale soprattutto attraverso il montaggio. Anche per Rudolf Arnheim, teorico dell’arte tedesco, il film introduce una serie di “fattori differenzianti” rispetto alla percezione e riproduzione diretta del reale; questa potenzialità linguistico- espressiva del film dipende direttamente e automaticamente dagli elementi tecnici che compongono la scrittura cinematografica e si colloca quindi, prima ancora che nei procedimenti di montaggio, già nella singola inquadratura: si pensi all’appiattimento dei corpi solidi, al ritaglio dell’inquadratura, all’assenza di colore ecc. Arnheim avrà un grande successo in Italia: qui, infatti, la dominante cultura idealistica riteneva che la tara realistica della produzione e riproduzione tecnica della realtà condannasse i mezzi fotografici a un destino di esclusione della sfera dell’arte; le potenzialità di distacco dal reale e di riformulazione linguistica realizzate dal mezzo tecnico secondo la teoria di Arnheim riaprivano al contrario il dibattito: si vedano ad esempio le posizioni di Ragghianti, Barbaro e Chiarini. Una terza ondata di studi si distacca tanto dalla preoccupazione estetica quando da quella linguistica per interrogarsi circa il ruolo del cinema nella società, il suo statuto sociale e mezzo di comunicazione. Per il filosofo Walter Benjamin occorre distinguere tra il cinema in quanto dispositivo tecnologico e il medium, che egli intende come l’insieme delle condizioni storiche, culturali e tecnologiche che determinano l’esperienza percettiva dei soggetti sociali. La condizione moderna ha investito il soggetto di una serie di rapide e scioccanti trasformazioni e il ruolo del cinema in questo contesto è duplice. Per un verso, esso partecipa dell’irruzione di nuove e spiazzanti modalità percettive: in particolare il cinema libera un inconscio ottico. Per altro verso, però, il cinema può rappresentare un sistema di training e di assuefazione dei soggetti sociali alle nuove condizioni di percezione artificializzata proprie della modernità, permettendo dunque una nuova innervazione della sensibilità moderna. L’idea che il cinema possieda un impatto sociale si esprime, d’altronde, in altre forme. psicoanalitico al cinema e valorizza la categoria lacaniana del reale rispetto a quelle dell’immaginario e del simbolico; Rancière sottolinea il potere del cinema di rinnovare le partizioni del sensibile e, dunque, l’esperienza che i soggetti sociali fanno del mondo, evidenziando la carica politica di tale potenziale. Inoltre, l’intervento della filosofia permette di precisare e di dichiarare gli ascendenti della riflessione, mettendo in particolare risalto l’opposizione tra approcci analitici e approcci fenomenologici. La seconda condizione della riflessione contemporanea è la graduale sparizione del cinema in quanto istituzione ben determinata e riconoscibile: con i nuovi devices digitali i film vengono visti non solo al cinema ma altresì in casa, al computer, in areo, per strada ecc. Inoltre, i procedimenti cinematografici rifluiscono in video, serie televisive, videogiochi, installazioni artistiche. Nel complesso cambiano quindi tanto l’individualità dell’oggetto film quanto la relazione fattuale e somatica che lo spettatore intrattiene con esso. Tale stato di cose spiega i 3 principali fuochi del dibattito contemporaneo: i criteri di definibilità del cinema all’interno della galassia dei media; il rapporto tra cinema e corpo; una riflessione metateorica sulla storia e il destino della stessa teoria del cinema. Un primo nucleo riguarda la definizione del cinema e quindi i criteri della sua individualità all’interno della galassia mediale contemporanea. La questione è del tutto simile a quella che ponevano i teorici classici degli anni ’10 e ’20; tuttavia in quel caso le risposte si basavano sugli aspetti tecnologici del cinema, mentre le teorie contemporanee criticano qualunque spiegazione della specificità dei media in termini di tecnologia, e affermano piuttosto che un medium viene definito in termini di saperi sociali e di pratiche culturali. Su questa base si definiscono due posizioni. Da un lato, c’è chi vede nella dispersione di elementi propri del cinema all’interno delle nuove culture digitali un segno di vitalità. Ad esempio, Manovich afferma che il cinema ha costituito una fondamentale interfaccia culturale, ovvero uno strumento di accesso dei soggetti alle informazioni attraverso forme strutturate di esperienza; in quanto tale, il cinema ha trasmesso molte delle sue componenti alle interfacce digitali → es. il formato dello schermo. Su posizioni simili Casetti: quello che chiamiamo cinema è in effetti il prodotto di un temporaneo assemblaggio di elementi culturali all’interno di un dispositivo riconoscibile; tali elementi da una parte preesistono e dall’altra sopravvivono al dispositivo stesso: di qui una gamma di possibili e inaspettate rilocazioni del cinema nella contemporaneità. Dall’altro lato, c’è chi ritiene che il digitale trasformi radicalmente l’esperienza dello spettatore tanto da non poter più parlare legittimamente di cinema nella condizione presente: tali, ad esempio, le posizioni di Andrew e di Bellour. Il secondo nucleo di riflessioni degli studi contemporanei sui film riguarda la relazione tra il cinema e il corpo. La riflessione cinematografica risente in questo caso del riaffiorare dell’approccio filosofico e fenomenologico, tanto nella formulazione di Bergson quanto in quella di Husserl e Merleau-Ponty. Sul versante bergsoniano lavora il filosofo francese Gilles Deleuze → secondo lui il cinema rende percepibile l’idea bergsoniana di un mondo composto di immagini in sé, immerse in un flusso di movimento infinito e indistinto che preesiste a ed è autonomo da la percezione da parte del soggetto. Il cinema è il luogo in cui si può sperimentare la percezione non umana di un universo di immagini a-centrato e immanente alle cose stesse. Su un aspetto, tuttavia, il cinema recupera l’andamento del corpo umano e della sua esperienza: il cinema classico pone al proprio centro relazioni cronologiche e causali tra le immagini, introducendo dunque un principio sensomotorio, ovvero una percezione legata all’azione che si manifesta nel movimento. Tuttavia, il cinema ha dimostrato di poter andare oltre il modello classico: nel cinema moderno, il nesso tra percezione e azione viene rotto o sospeso aprendo un inedito ventaglio di possibilità; in particolare, se il movimento permetteva una presentazione indiretta del tempo, abbiamo ora una presentazione diretta del tempo in quanto coesistenza di passati, presenti e futuri molteplici. Il progressivo successo della complessa opera di Deleuze ha avuto numerose conseguenze: il rilancio dell’idea che il cinema pensi, ovvero sia in grado di formulare in forma figurale concetti astratti al pari dell’attività filosofica; un ripensamento complessivo della teoria del cinema in vista del recupero di un approccio prettamente filosofico; una rinnovata attenzione alla rappresentazione del corpo nel cinema; una ricerca sul cinema in quanto luogo deputato, sia per ragioni storiche sia per ragioni intrinseche, a sollecitare una gamma di emozioni del tutto particolari; un’analisi del cinema contemporaneo in quanto caratterizzato dall’assemblaggio di immagini reali e virtuali e di temporalità differenti, a partire dal riflusso di alcuni procedimenti propri del cinema moderno all’interno degli audiovisivi mainstream: ad esempio, nei videoclip musicali. Differente l’approccio sul versante vicino a Husserl e Mearleau-Ponty. La teoria più sviluppata in questo settore è quella di Sobchack, che afferma che il film va considerato in quanto corpo: il film è un oggetto/soggetto capace sia di svolgere un’esperienza percettiva, sia di rappresentare sé stesso rendendo percepibile la propria esperienza allo spettatore. D’altro canto, anche lo spettatore è un corpo nell’atto di volgere un’esperienza percettiva e a sua volta di esprimerla. Ne consegue che la visione del film va considerata come il reciproco coinvolgimento di due soggetti attivi, che sono al tempo stesso percepiti e percepibili. Sullo stesso registro altri studiosi hanno insistito sulla necessità di tematizzare in termini teorici il corpo dello spettatore e la sua esperienza incarnata di visione: ad esempio, Marks ha sottolineato il ruolo della pelle e del tatto nella percezione cinematografica. L’esito estremo di tale orientamento è una decisa naturalizzazione dello spettatore cinematografico, visto primariamente come corpo da indagare nelle sue reazioni fisiologiche e neurali. Ad esempio, Grodal ritiene che la visione di un film mobiliti, esattamente come accade nell’esperienza ordinaria, un flusso neurale che procede dalla percezione verso la mobilitazione dell’emozione, quindi della cognizione e infine dell’azione motoria (che Grodal chiama appunto flusso PECMA). Le differenze dell’esperienza filmica rispetto a quella ordinaria sono due. Per un verso il film attiva il flusso PECMA attraverso un processo e un regime di simulazione incarnata: in particolare lo spettatore non agisce direttamente, ma simula l’azione del personaggio. Per altro verso il film non può sospendere, in modo innaturale e forzato, il passaggio della percezione all’azione, come accade nel cinema moderno e d’avanguardia. Teorie su teorie Il terzo nucleo della riflessione contemporanea riguarda la stessa teoria del cinema: la sua storia, il suo assetto attuale, le possibilità di sviluppo nel momento in cui il cinema e l’esperienza di visione del film tendono a dissolversi. A partire dalla fine degli anni ’70 alcuni autori avevano avviato una ricognizione storica che superasse l’approccio storico-teorico di Aristarco e cercasse di interrogarsi sui grandi nodi tematici del dibattito: si vedano, ad esempio, le ricostruzioni di Andrew. Cominciano inoltre a essere compilate alcune antologie di teoria e critica del cinema: ad esempio, quelle di Braudy e Cohen e Nichols; in Italia ricordiamo quella tuttora molto utile di Barbera e Tugliatto da completare per il periodo del muto con Grignaffini; per la scena francese gli interventi dalle origini agli anni ’40 sono stati documentati nell’antologia di Abel. A partire dagli anni ’90 nasce una riflessione organica sulla teoria del cinema. Un primo tentativo di sistemazione ragionata dalle teorie del secondo dopoguerra agli anni ’90 è Casetti, cui segue la ricognizione di Stam, ovviamente più aggiornata ma meno attenta a una riorganizzazione delle teorie in quadri concettuali e storici. In Italia, Boschi indaga alcuni aspetti delle teorie precedenti la WWII. Nel frattempo alcune opere sistematizzano singoli aspetti o epiche della teoria: ad esempio, Stam, Burgoyne e Flitterman-Lewis espongono in forma sistematica le teorie di area semiotica-psicoanalitica; De Gaetano esamina invece alcuni autori e nodi del dibattito italiano. Utili anche alcune sistemazioni in forma dizionario: Miller, Stam e Pearson, Simpson. I testi teorici più recenti abbandonano la ricostruzione storica del dibattito per privilegiare, da un lato, una ricostruzione archeologica e, dall’altro, una valutazione della tenuta logico-argomentativa delle teorie del passato. Aitken propone di sostituire alla diffusa opposizione tra teorie realiste e teorie moderniste del cinema una distinzione fra teorie intuizioniste e teorie di area semiolinguistica; Dalle Vacche mette a confronto teorici del film del periodo classico con coevi e studiosi di storia dell’arte alla ricerca di corrispondenze e riferimenti reciproci fra teoria del cinema e teoria del visuale; Schweinitz ripercorre la storia delle teorie alla luce dell’ideo di stereotipo; Branigan attraversa la storia delle teorie seguendo il filo rosso del termine camera e ricostruendo le diverse reti di metafore e concetti in cui il termine è stato inserito con le conseguenti oscillazioni del suo significato; Elsaesser e Hagener riorganizzano l’esplosione delle differenti teorie del film alla luce della diversa relazione che esse stabiliscono tra i film e il corpo dello spettatore; Turvey riesamina la tradizioni di studi rivelazionista, contestando dunque anch’egli come Aitken un’opposizione troppo netta tra realismo e modernismo nella rilettura delle teorie del cinema; Buckland analizza e vaglia dal punto di vista della tenuta formale alcune teorie soprattutto degli anni ’70; Rodowick ricostruisce il fondamento storico e teorico del concetto e della pratica di teoria del cinema; il testo collettivo Branigan, Buckland, infine, articola in forma dizionario enciclopedico alcuni nodi del dibattito a partire da un’analisi critica di testi fondati e del loro destino nel dibattito teorico.
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