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Il cinema percorsi teorici e questioni teoriche, Sintesi del corso di Teoria Del Cinema

prima parte: sintesi storia del cinema dall'inizio al contemporaneo. seconda parte: sintesi delle questioni teoriche.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 29/09/2022

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Scarica Il cinema percorsi teorici e questioni teoriche e più Sintesi del corso in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! PARTE PRIMA PERCORSI STORICI 1- Dal cinematografo al cinema 1. Attrazioni, spettacolo e racconto. La nascita del cinema coincide con la prima proiezione dei Lumiere, 28/12/95 – in realtà l’avvenimento del cinematografo, è inteso come un fenomeno mondiale – oltre a loro in Francia, c’erano anche Edison negli USA, i fratelli Skladanowsky in Germania. L’invenzione del cinema riguarda un contesto geograficamente ampio. Il cinema inizialmente è legato all’intrattenimento nei caffè. C’è distinzione tra le prime fasi del cinema e quelle successive. Nei primi anni 10 Burch si sofferma su un MODO DI RAPPRESENTAZIONE ISTITUZIONALE che lavora sul percorso lineare narrativo. (M.R. primitivo -> non narrativo) Altri studiosi hanno introdotto altre definizioni, viene fatto riferimento a una prima fase di rappresentazione costruita su attrazioni mostrative, il sistema pone al centro l’interesse narrativo e un’idea di continuità. La concezione autarchica dell’inquadratura è al servizio del regime mostrativo che trova proprio nella mostra azione dei singoli elementi il suo potere attrattivo. Il film primitivo subiva modifiche successive alla fase produttiva, spesso manipolavano i film a uso e consumo del proprio pubblico, partecipando in questo modo alla fabbricazione delle vedute, che erano commercializzate singolarmente. Il cinema delle attrazioni invece, mette in primo piano il potenziale di attrazione legato all’esibizione è come esempio nel film the Kiss the Edison dove c’è il bacio tra i protagonisti era avvicinato e che è un remake di una scena già recitata a teatro dai due attori. L’oscenità risiede nell’ingrandimento che raddoppia l’atto rappresentato. Il cinema inglese di inizio 900 sfrutta l’attrazione di ingrandimento in tanti film. Molti studiosi vedono emergere il sistema dell’integrazione narrativa solo a partire dal 1908 dominante fino al 1914.con lo sviluppo di questi differenti modi di rappresentare che si pongono le basi per la definizione di nuova soglia. Nel cinema statunitense si afferma anche il cinema istituzionale con Griffith, lo sviluppo di forme e modi di rappresentazione nuovi interessa veramente il cinema europeo e Italiano degli anni 10 del 900. 2. Il cinema muto italiano e Cabiria. Il cinematografo arriva in Italia nel 1896, dopo un periodo di proiezioni itineranti si diffondono le sale cinematografiche stabili, e società cinematografiche. L’Albertini & Santoni realizza nel 1905 La presa di Roma considerato il primo film italiano a soggetto. Rappresentano l’origine di un genere che si sviluppa anche negli USA. Alla Cines si sperimentano i primi tentativi di proporre al pubblico film con contenuti culturali, alla fine degli anni 10 un incremento di produzione permettono di ampliare la lunghezza dei film il kolossal si pone come genere. Cabiria di Giovanni Pastrone si pone come caso decisivo per lo studio dei rapporti tra scrittori e cinema: Gabriele D’Annunzio si limita a firmare le didascalie e gli viene attribuita l’intera parte paternità, a scopi promozionali, prendendo la sua immagine. Aspetto importante è la messa in scena e alle questioni stilistiche, in molti momenti presenta una forza spettacolare e attrazionale nei quali esiste la forza della singola inquadratura autarchia. L’uso del carrello val letto in una direzione per mostrare la grandezza delle scene. Lo sviluppo narrativo è un elemento portante della struttura formale di Cabiria. Il film storico italiano è un modello stilistico e narrativo per il cinema americano 3. Le ricerche dei paesi nordici. Nel nord Europa e c’è un’area produttiva del cinema ad inizio secolo, la Nordish film si specializza in trame poliziesche e melodrammi, entra in crisi dopo la 1GM e per molto tempo l’unico autore universalmente conosciuto a lavorare per la compagnia rimane Dreyer si sarà riconosciuto grazie alcune produzioni realizzate fuori dal Nord Europa come La passione di Giovanna e Il vampiro. La passione di Giovanna d’Arco La santa è quasi sempre in primo piano: la centralità della sua posizione all’interno dell’inquadratura è prima di tutto una centralità morale, che si oppone alle figure dei giudici, ripresi dal basso e con tagli di inquadratura che non solo sembra deformare i volti, ma li mostra decentrati rispetto al quadro indicando una devianza opprimente. Il movimento delle inquadrature dedicate a Giovanna è un movimento del volto, degli occhi: emozione. Il movimento della camera da presa sui corpi e sui volti dei giudici contribuisce invece a farli apparire maschere irrigidite nella loro deformità grottesca, in opposizione con la purezza della ragazza. Il film si presenta come un poema visivo. È un film che sembra scaturire direttamente dalle teorie di Delluc sulla fotogenia. In Svezia il cinema sviluppa in ritardo, a metà degli anni 10 con Stiller e Sjostrom. - Stiller regista a tono epico, e noto per aver lanciato Greta garbo, ma lui non riuscirà a trovare negli Stati Uniti le condizioni ideali per mantenere intatto il proprio successo umano e professionale. - Sjostrom il suo primo film Il giardiniere e censurato in Svezia a causa di una scena di suicidio, abbandonerà presto la strada del realismo per sperimentare un racconto più fantastico. 4. Griffith Griffith è noto come il padre del cinema, nel 1913 appena lasciata la casa di produzione Biograph dopo circa 450 film realizzati a Griffith pubblica una sorta di annuncio autopromozionale in cui rivendica di aver rivoluzionato il motion Picture Drama e di aver fondato la tecnica moderna, tale affermazione pone le basi dal modo in cui gli storici hanno guardato il ruolo di Griffith. Rift rivendica l’autorialità dei film della Biograph, intende dare alla figura del regista una funzione precisa in edita per l’epoca in cui tale ruolo era ancora connesso con quello di operatore. La complessità imposta dal cinema narrativo rendono indispensabile una funzione di supervisione e di organizzazione del lavoro, negli anni 10 autori come Ince iniziano a pensare a delle fasi di preparazione e realizzazione delle loro opere, costruendo piani di lavorazioni dettagliati. Nasce così il modo di produzione hollywoodiano. Quando Griffith lavorava alla biograph definiva una serie di soluzioni espressive sempre più raffinate. In The LOnely Villa (1909) la suspense generata dalle azioni dei ladri che cercano di entrare nella ricca casa in cui ci sono la moglie e figlie del protagonista che intanto è rimasto senza auto per tornare a casa e salvarle è un perfetto esempio di montaggio alternato. Griffith è stata una figura fondamentale per lo sviluppo del cinema Hollywood Jano, i registi che hanno avuto lui come maestro: come Ford, Stroheim ecc… educandoli a una forma che oggi chiamiamo il cinema classico hollywoodiano. 5. (5 La passione di Giovanna d’arco) 6. Flaherty e la nascita del documentario. Flaherty tra il 1913 il 1918 gira con un cinepresa nel corso di due spedizioni in Nord America. Il tentativo era un film chiamato Eskimo, andato in frantumi per un incendio ma esso egli ne giro uno nuovo.nasce così Nanuk l’eschimese 1922. 2- PERCORSI DELL’AVANGUARDIA 1. Altri linguaggi In linea generale le avanguardie le cartelle si dividono su due fronti: - Operano sul linguaggio, soffermandosi sul colore, la grafia. Come base abbiamo il pensiero di Nietzsche. - Riforma estetica che ricerca il gioco combinatorio tra materiali e tecniche per riprendere il concetto di opera d’arte totale. Canudo parla della capacità del cinema di porsi come sintesi di tutte le arti: spazio e tempo. L’interesse degli avanguardisti per il cinema si accede subito. Il cinema, per le avanguardie si dà come strumento artistico, con cui si possono fondere esigenze poetiche e materiali. 2. Italia: dinamismo, colore, performatività L’11 feb 1909, Marinetti lancia il manifesto del futurismo. I rapporti tra futurismo e cinema si affermano solo nel 1916col Manifesto della cinematografia futurista : il futurismo diventa la prima avanguardia cinematografica europea. Bisogna ricordare: - L’elaborazione artistica di Boccioni di una diversa concezione del movimento, inteso come dinamismo universale, - Bragaglia che in FOTODINAMISMO FUTURISTA che nel 1911 cerca di superare la cronofotografia dell’800. - L’incontro tra musica e colore, Kandinskij 3. Francia, impressione, fotogenia, visionarietà Tra gli anni 10 e 20 il sistema produttivo francese è a rilento a causa della crescente importazione di film stranieri. Per lo spettatore il cinema impressionista deve essere il risultato di un’allusione, una soggettività dei personaggi che colpisce empaticamente gli spettatori: vari effetti al servizio del cinema impressionista come – flashback, soggettiva, sovraimpressione – DADAISMO: “dada”->Tzara. Il gruppo nasce in Svizzera, punto di raccolta per profughi della IGM. Gli esponenti riuniti a Zurigo, definiscono dada uno stato d’animo, uno spirito di rivolta che sceglie l’arte per come espressione. Il cinema dadaista sembra l’unico mezzo che ha potuto riprendere e portare avanti le questioni della ricerca delle avanguardie. (Duchamp con i suoi ready-made e Man Ray con i Rayogrammi) insieme firmano Anémic cinema, una breve opera in cui dischi circolari vengono fatti roteare alternati tra loro, contenente giochi di parole, organizzano un contrasto ottico tra forma e movimento. Il film simbolo del dadaismo è Entr’acte di Clair, 1924, con situazioni comiche e grottesche, assurde e sconnesse. Poi in Francia si afferma il Surrealismo, la parola chiave della poesia è l’automatismo. Per i surrealisti, l’artista non deve imitare la realtà, ma ascoltare la parola interiore. La visionarietà della pittura surrealista si ripercuote sul cinema (manifesto 1924) Tra i massimi esponenti Bunuel che realizza Un chien andalou e L’àge d’or con Dalì. 4. Germania: sinfonia, luci e espressione. Durante la repubblica di Weiner fino all’ascesa del nazismo, la produzione cinematografica tedesca era solo seconda a quella statunitense, si riafferma una dimensione artigianale. In questo periodo si afferma l’Espressionismo, poi la Nuova oggettività dove un dramma personale diventa una condizione umana universale; l’ultima è Kammerspielfilm nato sull’esempio di teatro intimista. Nel cinema nazionale tedesco uno dei massimi esponenti è Eggeling, la sua opera più nota è Diagonal Symphonie (1924). Oltre a Eggeling c’è Richter dapprima pittore espressionista poi durante la prima guerra mondiale si aggiunge al collettivo dadaista, realizza la sua opera più nota nel 1928 Gioco di Cappelli, in cui grazie a dei trucchi prende il via la rivoluzione di alcuni oggetti di uso quotidiano. Ruttmann invece realizza il ciclo Opus(1919-25) in cui l’artista cerca di connettere visualità, movimento e astrazione, la sua C’è un momento di crisi per gli studios che nel 1948 decretano la fine di esse. La Paramount stabilisce una censura tra la Hollywood del periodo aureo e una nuova fabbrica dei sogni, l’effetto consiste nella fine del oligopolio hollywoodiano, anche gli studios minori incominciano a produrre film ad alto budget; in più la produzione indipendente si moltiplica perché stare i registi abbandonano le maggiori case di produzione per crearne proprie proprie.in più la concorrenza della televisione costringe l’industria hollywoodiana a mettere in atto una controffensiva, alcune case di produzione vendono i propri stabilimenti alle reti televisive e altri sperimentano nuovi formati di produzione. A New York l’Actors Studio porta una trasformazione dello star system, che avranno tutti lo stesso metodo di recitazione insegnato alla scuola dal regista russo Stanislavskij, lavorando sulla identificazione profonda con il personaggio e quindi ricostruire biografia e psicologia. Gli anni 50 prevedono l’elemento emotivo anziché quello narrativo, per il pubblico c’è un’identificazione radicalizzato espresso dai personaggi. 4. Persistenza del classico La new Hollywood dura circa una decina di anni, Hollywood produce film in cui intervengono pratiche di scrittura che aumentano il numero di inquadrature e la mobilità della macchina da presa, cambia la pratica ma il risultato non cambia, la finalità è sempre prendere per mano lo spettatore e immergerlo in una narrazione che è un capo e una coda.si trova di fronte a un cinema manieristico che finisce per rispettare le consegne di una produzione culturale legata alla comprensibilità, coinvolgendo vari livelli della produzione: la narrazione, lo stile visivo e la recitazione. 4- LA MDERNITA’ E IL CINEMA. 1. Il cinema, l’individuo, la società Secondo Casetti il cinema non è soltanto arte, ma anche medium, in un’epoca che sempre più si fa mediatica: è strumento di comunicazione con una facoltà di rappresentazione, il cinema ha saputo cogliere le questioni fondamentali del proprio tempo e mostrarle a un largo pubblico come reinterpretazione. Nell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Benjamin si sofferma sulla tecnica fotografica e cinematografica in grado di consentire nuove forme di riproducibilità dell’immagine, aura, eccetera eccetera. I tratti stilistici del moderno cinematografico sono stati individuati nel rifiuto della spettacolarità, secondo Giorgio de vincenti il cinema moderno riscopre tutta la probabile problematicità dell’atto riproduttivo con un movimento che è al tempo stesso interrogazione delle cose del mondo e del mezzo. È un cinema problematico, il cinema del dubbio, cinema esistenziale, dove il regista autore, mette qualcosa di personale di profondo: il suo rapporto con le cose, il suo essere nel mondo. Il cinema moderno unisce la costruttiva riproduttivi ta del mezzo e la possibilità di produzione di senso, la novità dello stile cinematografico di movimento o di autore della modernità era già stata sottolineata da Bazin, che nel 1958 parla di Paisà mettendo in relazione la narrativa moderna neorealista, e i frammenti di realtà sconnessi in un montaggio ellittico. Deleuze parla dell’asse essenza della modernità che si è manifestata nell’Italia del secondo dopo guerra con il naturalismo in Francia con la Nouvelle Vague, secondo un’urgenza di abbandonare la forma narrativa classica per lasciar emergere nel film situazioni puramente ottica e sonoro. 2. Geografia della modernità La Nouvelle Vague è una espressione del dibattito francese, sul finire degli anni 50, venendo poi identificata come formula di pertinenza cinematografica cui è possibile a scrivere alcuni significativi lavori che vengono alla luce in quel periodo. Fino all’ultimo respiro di Godard manifesto della Nouvelle Vague. Godard realizza nella prima metà degli anni 60 una quindicina di opere, le caratteristiche di rottura della norma linguistica e di espressione della narrazione sono tutte visibili nel primo lungometraggio. Gli sguardi macchina, soprattutto della protagonista femminile, rappresentano momenti di astrazione nel continuum narrativo, una drammaturgia dello sguardo che accomuna Godard ad altri autori della modernità come Bergman. Partendo dalle premesse teoriche della Nouvelle Vague che si alimenta il dibattito della cultura francese, con la nuova generazione di registi che si esprime schiettamente contro l’impersonalità cinematografica, dominata dal cinema de Papa: un cinema industriale con registi che rivendica opere di maestri insuperabili. I primi film di truffo contengono zoom, stacchi di montaggio, il regista non vuole distruggere il cinema commerciale, ma vuole rinnovarlo e arricchirlo., o mangiando i B-movie statunitensi, gioca col cinema del passato con spezzoni muti. In Inghilterra si afferma il free cinema e il Kitchen stick. Il free cinema precede la Nouvelle Vague, sorge come un movimento di sintesi di una serie di agitazioni che scuotono la cultura inglese negli anni 50. La Kitchen stick I protagonisti si rivelano di estrazione umile, di scenari molto squallidi e popolari, mentre lo scontro aperto sono gli atteggiamenti e rinunciabile nei confronti dell’establishment. Entrambe si concentrano sull’innovazione del piano dei contenuti e del discorso ideologico, hanno però vita breve, i registi inglesi con l’abbandono dei lavoratori nelle città industriali, iniziano a ritrarre la vita della Swinging London, Dove moda e rock’n’roll diventano elementi rilevanti del cinema britannico. Nel giovane cinema tedesco che risale al 25 febbraio 1962, quando 26 giovani cineasti sottoscrivono un manifesto in cui si dichiara la nascita di un cinema socialmente impegnato e libero da vincoli commerciali. Gli esordi del movimento sono segnati da registi come Kluge. Tra gli anni 60 e 70 si vede l’affermazione di altre personalità di rilievo per il cinema nazionale come Fleishmann e Syberberg Wim Wenders. Tarkovskij È la figura più importante è che si sviluppa in unione sovietica, ricorre all’esplorazione di una dimensione morale facendola con suonare con echi di natura spirituale, adottando tematiche introspettive e manifestando esigenze di riscrittura della storia russa. Tra gli anni 50 e 60 la Polonia registra percorsi registici innovativi, i cui temi d’ispirazione sono le conseguenze delle guerre e il senso di profondo smarrimento. Poi emerge una nuova leva di registi negli anni 60 attenta a confrontarsi con il presente: Polanski. Nella New American Cinema, il cinema inizia girare già dagli anni 40 con uno stile unico e surrealista in cui tornano motivi occulti e trova un’ampia trattazione tematiche omosessuale. Così come l’esperienza filmica di URL che tra il 63 64 giro le sue prime opere cinematografiche, ha davvero poco a che fare con quella di Wiseman, documentarista. Maya Deren È la madre dell’underground, trasgressiva del pensiero, gli esordi della sua carriera cinematografica negli anni 40. 3. Gli indici stilistici della modernità Il neorealismo si afferma in Italia con Roma città aperta 1945 di Rossellini, con la trilogia paesana 1946 e Germania anno zero 1948: sono assimilabili da una spinta comune che vede nel racconto dell’urgenza della storia le caratteristiche matrice. Si distingue uno realismo importato sull’immagine-fatto nel quale lo sguardo morale verso ciò che accade di fronte alla cinepresa permette la scoperta del mondo nel momento stesso in cui i fatti vengono raccontati. L’antispettacolarità del cinema di Rossellini si evidenzia sul versante narrativo e dello stile, attraverso un linguaggio essenziale. Il cinema documentario tra gli anni 50 e 60 si diversifica in esperienze di differenti origine e differenti esiti. In particolare il cinema verite si sviluppa in Francia e il film simbolo e cronaca dell’estate, un documentario nel quale le persone vengono intervistate su temi dell’esistenza. Si svilupperà poi negli Stati Uniti negli stessi anni. Pierpaolo Pasolini esordisce cinema italiano all’inizio degli anni 60, scrittore e poeta, sceneggiatore e collaboratore di registi, esordisce dietro la macchina da presa per trasferire l’interesse per le borgate romane e il sottoproletariato. Esordisce con accattone nel 1961, nel quale inizia svilupparsi quella tensione verso la realtà che sfocia nella rappresentazione della Roma popolare, i volti del popolo, quei morti di fame della vita interpretati perlopiù di attori non professionisti, compaiono accanto all’attrice Anna Magnani. Il cinema di Pasolini si esprime in due direzioni: - La trasfigurazione del mondo della borgata, i cui agonisti sono personaggi simbolici - Cioè l’aspetto sacrale nella scelta di che cosa riprendere nel modo di vedere il mondo. Pasolini la definisce sacralità tecnica. Antonioni esordisce con cronaca di un amore 1950, film considerato film della modernità, lavora a progetti che mostrano Jenny interesse dell’autore per la dimensione metatestuale. La complessità e i caratteri dei film di Antonioni riassumono perfettamente alcuni aspetti dello stile moderno, il regista si interroga sui problemi dell’immagine e del rappresentazione confrontandosi senza sosta con il dibattito figurativo, culturale e filosofico (blow up) Il lavoro di Federico Fellini racchiude diverse caratteristiche che contraddistinguono l’autorialità degli anni 60: la scrittura filmica come espressione del senso dell’opera, oltre all’elemento autobiografico, rivela la stratificazione tematica dei film. La dolce vita. 5- LA STAGIONE POST-MODERNA Gli anni 70 del novecento potrebbero essere sinteticamente descritti come il decennio dei post. Il termine che sussume tutte queste etichette e quello di post moderno, l’idea di una fase posteriore rispetto al moderno. Il post moderno, infatti, non sarebbe qualcosa che viene dopo il moderno, quanto un diverso modo di rapportarsi a esso. La post modernità si definirebbe anzitutto per differenza e in negativo, come ciò che segue la fine della modernità. A seconda degli ambiti e delle singole posizioni, la post modernità è stata quindi interpretata come un lento ma inevitabile congedo dalla modernità come un “secondo tempo“ in cui la modernità inasprisce alcuni suoi presupposti, rivelando di sé dimensioni contraddittorie e zone d’ombra. Si continuano a sostenere la necessità e il rilancio; come una sua inevitabile conclusione, che apre contemporaneamente alla possibilità di scoprire percorsi che la modernità non ho saputo ho potuto compiutamente realizzare. Esistono profondi accordi sulla responsabilità di alcuni fenomeni. I principali coinvolgono direttamente l’industria dei media. a partire dalla seconda metà degli anni 70 nella società occidentale si assiste a una rapidissima crescita dell’azione. Il senso stesso del termine post modernità è “legato al fatto che la società in cui viviamo è una società della comunicazione generalizzata, la società dei Mas media” i principali agenti di questo riassetto globale sono due: il primo è rappresentato dal massiccio sviluppo delle reti nazionali e internazionali per le telecomunicazioni. Il secondo fattore che contribuisce a potenziare il ruolo e la funzione dei mezzi di comunicazione di massa e lo sviluppo della tecnologia informatica. A partire dalla fine degli anni 70 il computer smette di essere una tecnologia “pesante” e costosa per trasformarsi piuttosto rapidamente in una tecnologia “leggera”. Anche in questo caso, l’industria dei media approfitta immediatamente della presenza di una nuova piattaforma. L’incontro tra telecomunicazioni e informatica costituisce un obiettivo prioritario. Proprio l’inedita combinazione delle nuove tecnologie informatiche si rivela già negli anni 80 l’elemento determinante per la formazione di una società della comunicazione. I cambiamenti sociali che derivano sono profondissimi , a indicare come le trasformazioni che si annunciano nel territorio delle comunicazioni e dell’informatica favoriscono, l’ingresso della società occidentale in un paradigma produttivo completamente nuovo. Non a caso uno dei primi e più influenti studi dedicati alla descrizione del nuovo paradigma sociale, “la condizione post-moderna“, pubblicato in Francia alla fine degli anni 70. Frederic Jameson è stato uno tra i primi studiosi ad aver compreso come l’importanza assunta dei mass media in questo momento storico abbia contribuito a definire una “struttura del sentire“. Con questa espressione Jameson intende riferirsi sia un nuovo “stile di vita“, legato in particolar modo all’esplosione della popolar culture, sia un nuovo modo di “sentire”. Nella post modernità le logiche spaziali e temporali della modernità, definite all’interno dei relazioni o positive si indeboliscono o evaporano del tutto.al centro di questa trama sociale dalle maglie informi e slabbrate, agisce un soggetto. Nella post modernità i media smettono di essere pensati e di funzionare come semplici mezzi di comunicazione, per rivelarsi i principali artefici di un nuovo modello di realtà. Grazie a un nuovo potere si fanno responsabili di una sorta di progressivo scollamento dei rapporto tra individuo e mondo oggettivo. Il soggetto della società occidentale entra così in una condizione esistenziale che il filosofo francese Jean Baudrillard ha definito “estasi della comunicazione“. L’esito è un orizzonte fluttuante, privo di profondità, frammentato e appiattito sulle immagini stesse. Ma questa esplosione, la cui logica e la cui forma sono dettate dai mass media, non equivale necessariamente a un guadagno, la complessità che i mass media raccolgono e documentano, dando voce a culture, Sab culture e minoranze di ogni specie, è una complessità caotica. Negli anni 80, dunque, le immagini cominciano a funzionare come il “motore“ di una nuova “iper realtà”. Non a caso, uno delle tante etichette con cui si è soliti caratterizzare la condizione postmodernità e quella di “società dello spettacolo o dell’immagine”. Apparenza, immediatezza, sensazionalismo spettacolare ed eccesso comunicativo di traumi e miracoli senza risposta definiscono in modo sempre più determinante Il volto della realtà idea teorizzata da Jameson della post modernità come eterno presente, definitiva evaporazione di ogni tenuta culturale. Un tempo fondato sulla logica fluttuante e dispersiva nella comunicazione audiovisiva, in cui il mondo appare ridotto. Questa rapida rappresentazione dei cambiamenti che si affermano in Occidente a partire dalla seconda metà degli anni 70 ha volutamente insistito su due aspetti: il ruolo determinante svolto dei mass media e dall’industria della comunicazione, la quale entra in quel momento in una fase “esclusiva“ di industrializzazione e la misura “globale“ del cambiamento, tale da determinare un nuovo modo di pensare nuovi modelli di concettualizzazione dell’esperienza e di rappresentazione della realtà, definisce buona parte della produzione culturale e artistica e che prende il nome di post modernismo. La produzione culturale contribuisce infatti a modernizzare il nuovo paradigma non a caso è nell’ambito del culturale che ha avuto origine la teorizzazione post-moderna. Si deve soprattutto a Jameson il ruolo determinante della cultura di massa nella formazione di un nuovo paradigma. L’ambito della produzione culturale si rivela così paradigmatico: i fenomeni di massificazione te l’oggetto estetico, di elaborazione della distinzione tra cultura alta e cultura bassa, di liberazione dai vincoli. Il post modernismo nasce anzitutto da qui, dal riconoscimento che l’avanguardia non può più andare oltre, perché ormai prodotto un meta linguaggio che parla dei suoi impossibili testi. il passato deve essere rivisitato, un imperativo inevitabile, in cui la perdita dell’innocenza riferisce della crisi di fiducia. L’esempio offerto da Umberto Eco introduce i tre concetti chiavi del post modernismo: rivisitazione del passato, ironia e meta linguaggio. Riscrivere, riutilizzare, rivisitare.ma, con ironia.se c’è una libertà che il post modernismo si concede e anzi in piega strategicamente, è proprio quella di assumere il passato al di fuori di un rispetto accademico. Lo stile modo post moderno è stato descritto come un modo in cui gli stili vengono impiegati, contaminati, ripensati. In gioco vi sono due categorie che abbiamo già incontrato, quella di spazio e di tempo, il cui destino post moderno è ben descritto. Il tempo e adesso sottoposto a continue frammentazioni, e rotture, moltiplicazioni fino a trasformarsi nell’oggetto stesso di racconti come fa notare Jenks, la libera rivisitazione del passato, viene esplorato, riutilizzato e contaminato. Il pluralismo stilistico caratteristico di molta produzione post-moderna non si consuma dunque in un piacere fine a se stesso, ma realizza compiutamente un aspetto caratteristico della società. L’incontro degli opposti, la coabitazione contraddittoria di tradizioni e la prevalenza di una logica inclusiva, vanno anche intesi come la ricerca di una pluralità. La contaminazione degli stili, la citazione, il pastiche e tutte quelle pratiche intertestuali che alimentano la caratteristica allusività dei testi post moderni si fondano su procedure critiche. Così in un regime ironico in cui lei sa che io uso. Il gioco strutturalista sulle forme spesso segnato da un gusto per la destrutturazione dell’ordine, della linearità e della chiarezza, lascia emergere un altro aspetto: la prevalenza della dimensione formale, che nel dare conto ad una produzione culturale che si consuma molto spesso in una estetizzazione delle forme. Un “arte della superficie” che rinvia a sé stessa in un incessante gioco intertestuale e meta linguistico. Lo rivela bene il cinema tecnologicamente potenziato che si afferma negli Stati Uniti già partire dalla fine degli anni 70.il principio della spettacolarizzazione si trasforma nel codice privilegiato di una produzione culturale. Nel post moderno il piacere per la differenza eclissa da norma. Il cinema finisce quasi inevitabilmente per assumere un ruolo cruciale: che interpreta le novità del tempo e contribuisce a plasmarlo. I cambiamenti che si affermano già la fine degli anni 70 sul piano dell’organizzazione dell’industria del cinema non sono senza conseguenze sulla forma filmica. Il caso del blockbuster è forse l’esempio più eloquente: alcune delle principali caratteristiche che lo definiscono in quanto film; prevalenza del genere fantascientifico o fantasy; dipendono in larga parte dal tipo di progetto: in concreto, il cosiddetto franchise e cioè la reiterazione e riformulazione degli elementi salienti interna all’industria del cinema, del sequel, caratteristica del cinema post moderno. Il nuovo assetto assunto dall’industria dell’intrattenimento si ripercuote sull’identità stessa del cinema, sulle logiche creative e produttive che guidano la realizzazione di film sulle modalità di fruizione da parte dello spettatore. In questo senso, di anni 80 sono un decennio cruciale: oltre a marcare un nuovo orizzonte di esistenza per il cinema, definiscono anche alcuni percorsi destinati a perdurare fino a oggi. La principale trasformazioni a cui va incontro l’industria del cinema, nella seconda metà degli anni 70 potrebbe essere sinteticamente descritta come una progressiva conversione della propria “vocazione”.anziché realizzare singoli film, l’industria passa all’intrattenimento filmato, un business piuttosto diverso.D’oraInPoi la progettazione di un film sarà sempre più segnata da una logica industriale che fa leva su due strategie principali: da un lato, la costruzione di sinergie sempre più forti, dall’altro lato, la valorizzazione dei mercati non-theatrical, vale a dire che i mercati secondari alternativi, quello televisivo e quello dell’home video. Il primo aspetto rappresenta la causa e al tempo stesso, l’effetto di una ristrutturazione complessiva dell’industria culturale. Un modello oligopolistico nel quale l’industria del cinema viene razionalizzata, dopo il periodo della new Hollywood, nel segno di un’integrazione orizzontale all’interno di ampie divisioni. Un modello che conclude l’epoca dello studio system. Grazie anche all’esplosione del mercato dell’home video, delle televisioni private, della video Music e dei videogiochi. A seguito del ritiro degli ultimi grandi tycoons della Hollywood del passato, a capo delle nuove majors mi sono sempre più spesso dirigenti provenienti da Saggi. Questioni teoriche Autore di Guglielmo Pescatore 1. Ragionare per autore Il concetto di autore è qualcosa che sembra naturale nei nostri discorsi e che tuttavia non ha uno statuto stabile, una collocazione definita o definitiva. È qualcosa che sembra RESISTERE agli scossoni: c’è stato un periodo in cui la nozione di autore ha ricevuto attacchi diretti dal fronte semiotico-strutturalista e post-strutturalista. La nozione di autore NON E’ QUALCOSA DI DEFINITO, è una nozione che HA UNA STORIA, UNO SVILUPPO, un processo di definizione piuttosto lungo e contrastato. È indicativa la differenza fra il cinema americano e il cinema europeo: 1. A Hollywood il regista, dopo aver visto riconosciuto il suo ruolo professionale, tenderà a ritagliarsi spazi di autonomia realizzativa all’interno del ciclo produttivo. 2. In Europa il regista diventerà, agli occhi del pubblico, il garante comunicativo del film. Sono almeno 3 le accezioni in riferimento all’autore cinematografico. 2. Diritto d’autore L’autore è colui che detiene la proprietà intellettuale dell’opera, del film. Ciò comporta che il film stesso venga considerato opera d’arte o opera d’ingegno e che quindi debba fare riferimento alle varie normative, nazionali e internazionali, che compongono il diritto d’autore. Lo statuto dell’autore cinematografico ha subito notevoli modificazioni. L’artisticità, che si fonda sulla lingua e sulla parola, e proprio la mancanza di parola costituirà lo scoglio principale per l’immissione del cinema nella cerchia delle arti tutelate dal diritto d’autore. Per questa ragione, l’ingresso dei letterati nell’industria cinematografica, a partire dagli anni 10 del 900, ha avuto un ruolo importantissimo nel processo di definizione dell’autore cinematografico. 3. Autore come ruolo professionale Nel primo decennio del secolo scorso si iniziano a definire nel cinema ruoli professionali specifici. Questo processo è parte di una PROGRESSIVA ISTITUZIONALIZZZAZIONE DEL CINEMA, che si dota così di caratteri riconoscibili. Il cinema comincia ad avere un prodotto specifico, il film, che si dispone come OGGETTO AUTONOMO E IDENTIFICABILE. Proprio in quanto oggetto autonomo, il film può essere proposto come oggetto artistico a cui corrisponda un’intenzione d’autore. Il cinema di quegli anni vive una contraddizione: a un oggetto chiaramente individuato, il film, non corrisponde un soggetto altrettanto facilmente individuabile, l’autore, e questo proprio a causa del processo di differenziazione dei ruoli professionali della produzione cinematografica. Durante tutti gli anni 10 accade che a essere indicati come possibili autori siano anche lo scenografo, l’operatore, l’attore e soprattutto le case di produzione. Delluc, esponente della prima avanguardia francese, a fronte della difficoltà di definire con sicurezza un ruolo attoriale preciso, lancia nel 1921 il termine cinéaste, “cineasta”, a indicare chiunque sia coinvolto in qualche misura nell’attività cinematografica, compresa la figura del critico o del teorico. Solo a partire dagli anni 30 il termine assume quella valenza più ristretta con cui viene adoperato anche oggi. 4. Autore come ruolo estetico L’autore è individuato come soggetto responsabile di una volontà autoriale che diviene il presupposto e il criterio generativo dell’opera. Perché vi sia un’attribuzione estetica è necessario non solo che il film appaia come opera autonoma, ma anche che sia POSSIBILE INDIVIDUARE UN RESPONSABILE materiale o ideativo e realizzativo del film stesso. Non stupisce che nell’ambito del discorso cinematografico si comincia a parlare di autore di film proprio nel momento in cui si va perfezionando l’assegnazione al ruolo professionale del regista delle maggiori responsabilità creative. L’ascesa del regista è in gran parte parallela al diffondersi di una nozione di autore inteso come artista, artefice e unico responsabile del valore estetico di un film. In Francia, fra fine anni 10 e primi anni 20, fu un gruppo di giovani intellettuali, legati alle esperienze della avanguardia letteraria e artistica, a dare un impulso decisivo alla diffusione del DISCORSO AUTORIALE in campo cinematografico. Gli esponenti della prima avanguardia elaborarono un’idea autoriale la cui posta in gioco era il rinnovamento radicale del cinema francese. Delluc non aveva dubbi nel considerare Abel Gance l’autore di “La decima sinfonia” (1917): una contraddizione solo apparente perché proprio in quanto cineasti a tutto tondo (Gance, Epstein, lo stesso Delluc...) erano gli autori dei propri film. Così “La decima sinfonia” fu probabilmente il primo film d’autore della cinematografia francese. Se quello di Gance fu il primo film d’autore prodotto in Francia, si potrebbe affermare che il primo film d’autore francese fu in realtà americano, “I prevaricatori” (Cecil B. De Mille, 1915). Si trattò del primo grande avvenimento estetico socialmente riconosciuto a svolgersi in una sala cinematografica, che coinvolse l’élite intellettuale di Parigi. Dunque, per quanto quella dell’autore cinematografico sia una storia europea, furono americani i primi cineasti a essere considerati – in Francia – autori a pieno titolo. Ciò avvenne perché critici raffinati come Vuillermoz e Delluc o teorici dell’avanguardia come Epstein avevano di quel cinema una visione europea. 5. L’autore fra dogma, rituale e modernità La definizione a livello internazionale della nozione di autore cinematografico, riconosciuto nella figura professionale del regista, è dunque ampiamente debitrice della prima avanguardia francese. Percorsi analoghi si possono ritrovare nelle principali cinematografie europee: cinema tedesco o sovietico. Già a metà anni 20 l’identificazione fra autore e regista sembra acquisita una volta per tutte; pare, piuttosto, che le discussioni si concentrino, nei due decenni successivi, sul ruolo che l’autore deve avere: sociale, politico, estetico. E proprio dal punto di vista estetico, nuovamente dalla Francia arriva quella che appare come una parziale sovversione: per la politique des auteurs, così definita da Truffaut in un saggio del 1955. Se è vero che l’autore non può che essere il regista, tuttavia non tutti i registi sono autori. Per i critici della politica degli autori, molti dei quali saranno poi i registi della Nouvelle Vague, il soggetto del film è la sua messa in scena, la quale è la materia stessa del film. Il concetto di messa in scena discende dalla TEORIA BAZINIANA DEL REALISMO. La politique si sottrae alla tradizione. L’opera di un autore non sottostà alle regole di riuscita o insuccesso che si esercitano sui prodotti della creatività. Va precisato che l’investimento autoriale può riguardare sia personalità fino a quel momento mai considerate (Hawks, Welles, Hitchcock), sia figure che avevano già da tempo varcato la soglia dell’attenzione estetica. Il punto in questione è, per Bazin, l’aver insistito sulla permanenza e il progresso di questo fattore personale da un’opera a quella successiva, all’interno di un medesimo corpus autoriale. Proprio le caratteristiche visionarie della politique hanno rappresentato alcune delle linee guida dell’affermazione del moderno cinematografico, oltre ad aver assolto al compito storico che viene loro solitamente riconosciuto: aver portato a termine il lungo processo di legittimazione estetica del medium e aver fissato un canone dell’autorialità che dal cinema moderno si allunga, sia pure in maniera contradditoria, fino alla postmodernità. 6. Prodotti di genere/prodotti di marca: l’autore come brand e la logica autoriale del postmoderno Di che cosa parliamo quando parliamo di cinema d’autore in epoca di postmoderno? Per molto cinema d’autore postmoderno, quello di Tarantino, Anderson, Jonze, Gondry, la questione fondamentale è COSTRUIRE SE’ STESSI ALL’INTERNO DEL FILM. La questione che preoccupa maggiormente i registi che lavorano in tale ambito è quella di costruire sé stessi come autori e come “marchi di fabbrica”. Questo marchio di fabbrica sembra funzionare come una sorta di antidoto ai rischi di polverizzazione della figura autoriale che il sistema dei media e dei new media contemporanei porta inevitabilmente con sé. Prendiamo ad esempio “Kill Bill Vol. I” e “Vol. II” (2003-2004): Tarantino lavora esattamente sulla costruzione di sé stesso come soggetto di referenza di tutto quell’universo. Se c’è qualcuno che lo rappresenta nel film, questo è Bill, che ricopre esattamente tale ruolo: colui che ha organizzato tutto e colui a cui tutto ritorna. A sua volta, lo spettatore è chiamato a occupare una posizione analoga, è chiamato cioè a un riconoscimento immediato. L’interesse dello spettatore non è più tanto rivolto al racconto quanto piuttosto a come la vicenda viene declinata, nel cinema postmoderno, tenta continuamente di occupare lo spettatore, di toccarlo, riconoscerlo intorno al nome del regista, alle caratteristiche di un genere. Come gli altri prodotti dell’industria culturale, il film è l’esito di un’attività industriale, è destinato al mercato. Si rende quindi necessario lo sfruttamento di un marchio, di un’etichetta identificativa che presuppone già una buona dose di aspettative nei confronti delle situazioni e dei personaggi che si incontreranno nel film. Questo sfruttamento passa quindi attraverso il cinema e gli altri mezzi di comunicazione, facendo leva sul recupero di una memoria mediatica condivisa. La presenza di un carattere fisso, di un elemento a cui riferirsi che etichetti il prodotto e lo renda disponibile al consumatore motiva quindi il ricorso alla logica del brand. A garantire un certo grado di sicurezza allo spettatore resta l’universo creativo di riferimento, un autore noto per, la figura dell’autore funge da claim e al tempo stesso da testimonial per il suo stesso lavoro. In un mondo di brands, l’autore cinematografico non fa certo eccezione. Genere di Giaime Alonge 1. Ripetizione e variazione Un film di genere è un film che “abbiamo già visto”. Lo spettatore cinematografico, almeno lo spettatore “medio”, lo spettatore che va al cinema per distrarsi, vuole che gli si racconti la stessa storia. L’industria del cinema ha fatto ricorso ai generi sin dalle sue origini, per ovvie ragioni finanziarie. Da un lato, i generi permettono di produrre in economia (risparmio su materiali narrativi, set e costumi se possiedo teatri di posa, come le case di produzione della Hollywood classica). Dall’altro, i generi – così come i divi, cui sono strettamente legati – producono meccanismi di fidelizzazione, spesso stabilendo un rapporto privilegiato con certi segmenti di pubblico (horror-adolescenti). Il cinema ha ereditato i generi dalla letteratura e dal teatro dell’800, che già avevano iniziato a intrattenere il nascente pubblico di massa per mezzo di storie con temi, ambientazioni, personaggi e meccanismi narrativi ricorrenti. Buona parte dei generi cinematografici, dalla commedia alla fantascienza, altro non sono che la continuazione, con un altro medium, di modelli nati altrove. A sua volta, il cinema ha lasciato in eredità a media nati successivamente, come la televisione, il sistema dei generi che ha elaborato. Il risultato di questo intreccio è che i generi si configurano come grandi contenitori di storie e personaggi, che trovano espressione contemporaneamente in più media che si influenzano reciprocamente. Si prenda, ad esempio, la serie televisiva “The Walking Dead”, messa in onda da AMC a partire dal 2010. La serie è l’adattamento di una storia a fumetti, nata nel 2003, che si rifà alla lunga tradizione dei film sugli zombie, una tradizione che inizia con “La notte dei morti viventi” (1968) di George Romero. A tale filone cinematografico troviamo anche un videogioco e una miniserie per il web. Il genere è legato a fenomeni quali remake, sequel perché si cerca di replicare il successo che un film ha incontrato presso il pubblico, riproponendo il medesimo materiale narrativo. Il sistema dei generi si basa su una dialettica fra ripetizione e variazione. Da un lato, il film per essere percepito dallo spettatore come appartenente a un certo genere, deve presentare determinati elementi. In un musical ci devono essere numeri di canto e ballo. Bisogna notare che i generi si definiscono in base a criteri disomogenei. Alcuni caratterizzati dalla collocazione spazio-temporale (peplum o storico-mitologico); altri sulla base dell’impianto narrativo (la commedia romantica racconta una storia d’amore a lieto fine); altri per l’ambientazione sociale (gangster movies antieroi malviventi). Ma ci possono essere anche marche stilistiche che caratterizzano un genere: il racconto a flashback e l’illuminazione contrastata del noir. Dall’altro lato, accanto allo standard, c’è la VARIAZIONE. Un genere cinematografico prevede un sistema di norme ma pure la loro trasformazione, sino al punto di violazione vera e propria delle regole. Ad esempio, per tutti gli anni 50 e 60, la fantascienza si presenta come un genere legato in buona parte alla serie B. Sono film per un pubblico di adolescenti. Ma a fine anni 60, film come “2001: Odissea nello spazio” (1968) di Stanley Kubrick, opera complessa a metà strada fra kolossal e cinema sperimentale, oppure “Il pianeta delle scimmie” di Schaffner, trasformano in maniera radicale il genere, che da forma “umile” diviene genere di serie A, che si rivolge agli spettatori adulti. Questo esempio ci permette di capire come spesso i generi sono stati descritti attraverso metafore biologiche: in ogni genere sarebbe possibile riscontrare un’infanzia, un’età adulta e una decadenza. Ma se osserviamo con più attenzione la storia del cinema di fantascienza, ci rendiamo conto che le cose sono più complicate. Alle origini del genere troviamo opere tutt’altro che “infantili” come “Metropolis” (1927) di Fritz Lang. Gli anni 70 e 80 vedono l’uscita di film “adulti”, come “Blade Runner” di Ridley Scott. Ma quello è anche il periodo in cui esplode il fenomeno “Star Wars” che per molti versi riporta la fantascienza al livello del divertimento adolescenziale. I generi sono un campo di forze dove agiscono tendenze diverse, in alcuni casi contrastanti, soprattutto in rapporto all’inevitabile cambiamento dei gusti e della mentalità del pubblico. Il finale di “Lungo addio” di Robert Altman, dove il protagonista, il detective Philip Marlowe – personaggio chiave della letteratura e del cinema noir – spara a sangue freddo al suo amico è in sintonia con il clima disincantato degli anni 70, e sarebbe stato inaccettabile per il pubblico del periodo classico. Il pubblico, oltre a sentirsi raccontare la stessa storia, vuole anche la novità. Secondo Altman, i produttori preferiscono ragionare in termini di CICLO più che di GENERE. Mentre il genere è un’etichetta ampia, che mette insieme i prodotti di case di produzione diverse, un ciclo è una serie di film più piccola, che si muove dentro l’orizzonte del genere, ma che si staglia in maniera chiara. Il “ciclo” è proprietà di una singola casa di produzione. Ad esempio, dentro il genere spionistico, un ciclo dalla longevità straordinaria è quello di James Bond, iniziato nel 1962, con “Agente 007 – Licenza di uccidere”, e che attraverso l’alternarsi di più attori nel ruolo dell’agente segreto non si è ancora esaurito. Ma il fatto che il ciclo sia strettamente legato ai suoi produttori non significa che i concorrenti non possano tentare di copiarne le caratteristiche (Jason Bourne o la versione “realistica” Harry Palmer, di Michael Caine, che va al supermercato, chiede un aumento e gira in autobus). Un ciclo può anche essere strutturato attorno a personaggi e situazioni semplicemente affini. I generi tendono anche a ibridarsi fra loro. L’esempio forse più radicale di ibridazione è la PARODIA, dove un film comico mette in ridicolo i codici di un genere “serio” (horror...). Ci sono attori e registi, da Mel Brooks a Franco e Ciccio, che hanno costruito un’intera carriera facendo dell’ironia sulle convenzioni dei generi cinematografici. Sono moltissimi i film che tendono insieme i patterns di due generi diversi. “La finestra sul cortile” di Hitchcock è un esempio: si può collocare come giallo ma come seconda linea narrativa vi è la storia d’amore fra Stewart e Kelly, con il meccanismo tipico della commedia, un uomo e una donna si amano, ma c’è un ostacolo che impedisce loro di sposarsi. Il fotoreporter non vuole sposare una donna che reputa troppo elegante e raffinata per il tipo di vita che lui le imporrebbe. Attraverso l’indagine sul vicino di casa, durante la quale l’eroina dimostra di essere una ragazza coraggiosa e dallo spiccato senso pratico, lui si convince che, nonostante le apparenze, lei potrebbe essere la moglie giusta. Il film ha due finali: il primo è quello giallo dove l’uxoricida viene arrestato e nel secondo vediamo James Stewart che sonnecchia sulla sedia a rotelle, Grace Kelly è sdraiata sul letto, intenta a leggere un libro di viaggi, in apparenza si è arresa allo stile di vita dell’uomo, visti i jeans, ma appena comprende che il fidanzato sta dormendo, mette via il libro e prende una rivista di moda. È un tipico finale da commedia romantica. 2. Il cinema americano per eccellenza Il western è uno dei generi di maggiore successo e longevità di tutta la storia del cinema. Il cinema western nasce dal grande sensibilizzare gli studiosi di cinema nei confronti dell’importanza di una storia della tecnologia che muova di pari passo con l’analisi estetica>>. 4. Stile, cultura, discorso Trasferito nell’ambito della storia del cinema delle origini, lo studio dello stile si apre invece su una prospettiva diversa. Lo stile ora diventa l’interfaccia fra un testo e un contesto in cui confini non sono affatto dati. Lo sviluppo di un nuovo modo di intendere la storiografia del cinema che prende piede dal Convegno di Brighton del 1978, dedicato ai film prodotti fra il 1900 e il 1906, ma che ovviamente risente anche della cosiddetta “Nouvelle histoire francese”, cioè una storia della mentalità e dei contesti sociali che in quegli anni si sostituisce alla storia tradizionale fatta di grandi eventi. Per comprendere il linguaggio dei primi film, non dobbiamo metterli in relazione con il cinema che verrà ma con quel variegato orizzonte spettacolare che precede la creazione di un’istituzione cinematografica. È necessario immergersi in una terra incognita, separata dalla storia del cinema tradizionale. I lavori di Burch, Gaudreault e Gunning rilanciano la questione dello stile al centro di una rinnovata relazione fra teoria, storia e analisi. Più che analizzare lo stile di regia, in quest’ottica ci si interroga sullo sviluppo storico e culturale di singoli elementi del linguaggio cinematografico, secondo una prospettiva processuale e generativa che a ben vedere importa negli studi sul film. Le ricorrenze stilistiche di precise figure sono anche collocate in un orizzonte dinamico dove la storia del cinema diventa un segmento decisivo di una più vasta “storia del nostro modo di guardare”. È il caso, ad esempio, dei lavori di Giulia Carluccio sul primo piano e di Elena Dagrada sulla soggettiva. Le questioni legate allo stile diventano cioè un terreno di scambi su cui far confluire lo studio dell’immaginario, la storia del cinema e la storia culturale. Si tratta di un campo di ricerche assai vasto ed eterogeneo che si può mettere in relazione anche con l’impulso dato all’ampliamento degli studi culturali dal cosiddetto New Historicism americano, o scuola di Berkeley, a fine anni 80. La contaminazione e ricombinazione di testo e contesto si trova anche nella prospettiva di ricerca dei Visual Studies, sviluppatasi nell’ambito della storia dell’arte a partire da alcuni pioneristici lavori, come quello sulla pittura fiamminga di Alpers e sul 400 italiano di Baxandall. L’interpretazione culturale delle immagini, ad esempio Gombrich, si pone cioè in questo caso come ricostruzione di un’intera cultura, dei suoi meccanismi e dei suoi conflitti. Nella prospettiva visualista si esercitano ricerche che coniugano l’estetica, la storia e la critica culturale, che interrogano il rapporto fra stile e cultura nazionale, secondo una linea che riprende i “Concetti fondamentali di storia dell’arte” di Wollflin. Per restare nell’ambito del cinema italiano, si possono richiamare i lavori di Bernardi, Buccheri e Zagarrio. In queste ricerche lo stile diventa una forma di discorso sociale. Ovvero “se è vero che i film, oltre che delle opere dotate di un senso, sono dei discorsi che circolano in una società, e in quanto tali assimilabili ad altri tipi di discorsi sociali, si tratterà di studiare lo stile dei film non come mediazione tra un contenuto di pensiero e delle forme espositive, ma come formazione discorsiva, come discorso fra i discorsi”. 5. L’idea di stile nel progetto culturale del cinema moderno In che modo la nozione di stile lavora all’interno delle questioni storiche, estetiche e teoriche del cinema moderno? Studiare lo stile nell’ambito del cinema moderno significa confrontarsi con un bagaglio di teorie e discorsi elaborati da quella tradizione critica francese che ha come epicentro gli scritti di André Bazin. Allo stile spetta il compito di favorire il più possibile la vocazione realistica del linguaggio cinematografico, di limitare i trucchi e le manipolazioni, di trasformare l’atto stesso delle riprese in un momento conoscitivo e non meramente esecutivo. Nel perseguimento di un’etica dello sguardo, elaborata nel contesto della Nouvelle Vague sulla scia delle letture baziniane del Neorealismo italiano e delle sfide lanciate al cinema dal racconto dagli orrori della Seconda guerra mondiale, il tema di una responsabilità morale del film non riguarda più soltanto i soggetti e i temi da portare sullo schermo. Esemplare è la celeberrima polemica sviluppata attorno a “Kapò” che ricostruisce le vicende dei campi di concentramento; film condannato ferocemente da Jaques Rivette, sulle pagine dei Cahiers du Cinéma, a causa di un movimento di macchina ritenuto immorale e dunque responsabile di una presunta spettacolarizzazione della morte. L’intreccio di responsabilità morale della messa in scena e scelte stilistiche che emerge dalla linea Bazin-Rivette-Daney non è certo l’unico motivo della modernità, ma resta uno dei momenti decisivi per comprendere la portata del suo orizzonte. Come per molte esperienze del modernismo radicale nell’arte del XX secolo, l’ideologia della modernità cinematografica è stata pensata con accenti quasi religiosi. Si tratta appunto di un motivo tipico di molte avanguardie e di un comune denominatore che lega autori, correnti e movimenti che ambiscono a rivisitare da cima a fondo l’orizzonte spettacolare e popolare al cinema. Insomma, il cinema è quello che è la filosofia per Adorno: il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. Ma a questa redenzione si lega anche un preciso progetto estetico e politico, ovvero l’utopia di risolvere in una sorta di sintesi, attraverso lo stile, la dialettica novecentesca fra cultura alta e cultura di massa, tra comunicazione e arte. In tal senso, il cinema moderno è stato il progetto di un’élite che si appropria di un’arte rivolta a tutti per piegarla alle proprie istanze di espressione soggettiva, facendone un mezzo in grado di rivaleggiare con la pittura, il pensiero e la letteratura. 6. Conclusioni Analizzando il rapporto fra lo stile e la tecnologia, o fra lo stile, la storia e i discorsi sociali, oppure discutendo precisi progetti culturali, come quello della modernità, emerge di volta in volta la natura compromissoria di tale nozione. Lo stile come spazio di una mediazione. In fondo, il modello problem solving si può estendere anche agli altri ambiti. Per questo è interessante ricostruirne la storia e i debiti teorici. Lo stile, cioè, può essere visto come una risposta non solo alle sollecitazioni della tecnologia, ma anche alle contraddizioni sociali, all’elaborazione dei discorsi sull’identità nazionale, o al rapporto fra arte, élite borghesi e cultura di massa, come nel progetto culturale della modernità. Lo stile diventa il catalizzatore di conflitti, contraddizioni, negoziazioni e mutamenti sociali. La sociologia di Bourdieu potrebbe essere un interlocutore prezioso anche per gli studi sullo stile cinematografico. Lo notava, proprio Buccheri, suggerendo la necessità di elaborare un modello “integrato” di stile cinematografico: “Lo stile inteso come un processo dinamico, di continua apertura/chiusura, che di volta in volta si stabilizza nel momento in cui gusti, habitus e modelli socio- culturali solitamente in conflitto trovano un temporaneo punto di equilibrio”. In una direzione simile, Quaresima che richiama le cosiddette “unità di stile”, ovvero segmenti di temi, motivi, figure ricorrenti ritagliati dallo studioso all’interno della storia del cinema. Gli studi sul film sembrano in molti casi riuscire a trasformare le aporie e i paradossi della nozione di stile in un punto di forza. Lo stile resta un luogo teorico instabile ma ideale piattaforma di ricerche che ridefiniscono le proprie prospettive interdisciplinari per comprendere la storia del cinema e dell’esperienza filmica. Tecnologia di Christian Uva 1. Dalla mimesi alla poiesis, tra scienza e idealismo Secondo Barry Salt, <<tutta la nostra tecnologia, compresi gli elementi su cui si fonda il cinema, non potrebbe esistere senza quel tipo di pensiero razionale, causale>> che risulta centrale in ciò che egli definisce “Realismo scientifico”, ambito di pensiero in cui è del tutto decisiva la <<continua interazione fra teoria, sperimentazione e osservazione>>. Secondo André Bazin, al contrario, <<il cinema è un fenomeno idealista che non deve quasi nulla allo spirito scientificoo>>, si parla di “Realismo integrale”. La tecnologia cinematografica deve mirare sia a restituire nel modo più credibile possibile e produrre e imporre immagini nuove. Le tappe che ne scandiscono il percorso storico testimoniano tutta la preoccupazione di produrre un realismo irresistibile. Il cinema nasce dunque come <<fotografia animata>>. Animare la fotografia è il modo più efficace perché la vita sia colta sul fatto – come si legge nella relazione ufficiale di una visione dimostrativa dei Lumière – nel suo lato più quotidiano e “normale” (normale è proprio il nome dell’obiettivo standard, 54 mm, a focale fissa usato dai Lumière), ma anche per derivarne il lato più fantasioso e magico, come dimostra l’operato di Georges Méliès che scopre involontariamente le potenzialità del montaggio quale trucco congeniale a un cinema fondato sull’effetto meraviglia. È infatti proprio tentando anch’egli di cogliere la vita sul fatto, che, secondo il famoso aneddoto del fortuito inceppamento della pellicola durante una veduta realizzata in place de l’Opéra a Parigi, Méliès assiste in proiezione all’improvvisa e inattesa trasformazione di un omnibus (carrozza aperta) in un carro funebre, scoprendo così il montaggio. È sufficiente la minima manipolazione tecnica perché il cinema del reale si tramuti in cinema del surreale. 2. La pelle delle immagini In principio è il film, ossia letteralmente una piccola pelle (pellicola) che, proprio come l’epidermide del corpo umano, risulta soggetta all’invecchiamento, che come spiega il primo attendibile manuale italiano in materia, possiede una lunghezza varia e contiene 54 immagini. È interessante notare come quel primo testo tecnico tendesse a sottolineare la continuità fra cinema e fotografia, evidenziandone al contempo la dimensione materica, propria di altri oggetti (libri, sculture, opere pittoriche), che tuttavia il cinema non è mai riuscito a possedere proprio perché il film, è un medium che non può essere fruito immediatamente, ma necessita dell’intercessione di un processo tecnologico. In ambito digitale a sostituire la “vecchia pellicola” non alcun nastro o memoria, bensì l’unico elemento fotosensibili rintracciabile in qualsiasi dispositivo di ripresa numerico: il sensore o trasduttore (CCD o CMOS) posizionato subito dietro l’obiettivo: il sensore risulta costituito da un numero preciso di minuscoli elettrodi, sistemati in ordine geometrico su una griglia bidimensionale divisa in celle (corrispondenti ai pixels). Le immagini ottenute in pellicola non appaiono “finte” come quelle digitali. La pellicola cinematografica evidenzia una problematicità rintracciabile a vari livelli. Costringe registi, scenografi... a trattare il profilmico in maniera totalmente condizionata, impiegando, ad esempio, superfici monocrome più o meno intense fra il bianco e il nero oltre che, come si vedrà più avanti, facendo ricorso, quale principale fonte di illuminazione, alla luce solare visto che quella artificiale, derivata dall’incandescenza, si basa sostanzialmente sulla gamma del rosso. Le prime pellicole impongono pertanto un binomio costituito dalla naturalezza dell’illuminazione cui si oppone l’artificiosità dei cromatismi del profilmico stesso. Con l’introduzione da parte della Kodak della pellicola pancromatica sensibile a tutto lo spettro del visibile si diventerà capaci di codificare tutte le colorazioni possibili risultando tuttavia inizialmente poco sensibile. Prima dell’avvento della tecnologia del colore, tramite sistemi di tintura, il cinema muto stabiliva un vero e proprio <<codice cromatico>>: il giallo e l’azzurro venivano utilizzato rispettivamente per virare le sequenze diurne e notturne, con il rosso si tendeva a suggerire la passione o il pericolo. L’impiego della colorazione policroma a pochoir, procedimento che raggiunge il suo apice tecnico ed estetico con il Pathécolor brevettato nel 1906, anticipa in qualche modo la complessità che sarà propria del Tecnicholor, il più famoso e duraturo sistema di registrazione del colore lanciato nel 1932 da Walt Disney con il film d’animazione “Flowers and Trees”. Quanto al suono, la presenza di un codice è ancora più evidente per il fatto che, anche in questo caso, è una scrittura della luce a incidere su pellicola positiva la colonna sonora. Infatti, quest’ultima si presenta sotto forma di una colonna ottica ad area variabile derivata dall’impressione di segnali luminosi su un lato della pellicola, i quali, affinché possano essere riprodotti i suoni, devono essere decodificati da un’apposita cellula fotoelettrica. 3. La trasparenza del mondo Luce e trasparenza sono pertanto la parola chiave di tale transizione epocale. Luce che illumina ogni cosa, rendendo penetrabile l’”inconscio ottico” della realtà, rivelando una visibilità altrimenti inaccessibile all’occhio empirico. Trasparenza come condizione propria delle superfici-interfaccia attraverso le quali quella luce espleta la sua azione. Come il vetro dei nuovi edifici, anche la pellicola cinematografica positiva, grazie alla sua semitrasparenza, si lascia d’altronde attraversare dalla luce. La trasparenza e l’azione della luce sono anche alla base dei primi effetti visivi ai quali molte delle attuali “meraviglie” del digitale si ispirano, come avviene nel caso del rotoscoping, procedura brevettata dai fratelli Max e David Fleischer nel 1917 (Betty Boop e Popeye): è la progenitrice di alcune tra le metodologie più impiegate attualmente per l’animazione dei personaggi digitali (motion capture e performance capture). Sul gioco fra trasparenza e superfici riflettenti si fonda, poi, uno dei trucchi maggiormente impiegati dal cinema espressionista e quindi da Hollywood: l’effetto Schufftan, basato sull’utilizzo di uno specchio biriflettente posto a 45 gradi rispetto alla cinepresa in modo da riprodurre il riflesso di miniature e oggetti collocati frontalmente (fuori campo) in maniera ingrandita. Infine, c’è l’esempio paradigmatico di un effetto che prende proprio il nome di “trasparente”, uno dei trucchi più utilizzati dal cinema hollywoodiano e da Alfred Hitchcock: consiste nella retroproiezione di sequenze paesaggistiche su uno schermo traslucido di fronte al quale si posizionano gli attori. 4. Black box L’origine dell’immagine cinematografica non può essere indagata senza essere posta in relazione con le caratteristiche specifiche del dispositivo tecnico da cui deriva. Il riferimento va prima di tutto alla cinepresa o macchina da presa, da intendersi in quanto insieme di un processo tecnico, che si sviluppa attraverso un insieme di operazioni tecniche. All’origine di un simile dispositivo vi è quella sorta di oggetto magico rappresentato dalla CAMERA OSCURA: studiata già nell’XI secolo d.C. dall’arabo Alhazen, descritta nel IV secolo a.C. da Aristotele in poi e da Leonardo da Vinci; questo apparecchio rappresenta il “peccato originale del cinema”, ciò è quanto viene espresso dalla teoria “materialista” degli anni 70 secondo la quale l’occhio (il soggetto), collocandosi al centro del sistema della rappresentazione, conquista il posto di Dio. È del resto un fatto che la macchina da presa si imponga nella versione del cinématographe Lumière: fondato sull’impiego di una pellicola larga 35 mm e azionabile manualmente con una manovella che, ogni due giri, provoca lo scorrimento di 16 fotogrammi al secondo, questo apparecchio risulta mirato a ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Perché concettualmente nasce sì per riprendere ma anche e soprattutto per proiettare comunitariamente. Il cinematografo è dunque un vero e proprio “sistema tecnologico integrato” che anticipa i più moderni dispositivi di ripresa. A ciò si aggiunga che fino alla metà degli anni 20 la macchina da presa è anche il “luogo” in cui si effettuano i primi visual effects (ad esempio, le maschere e contro-maschere che riuniscono in un unico fotogramma riprese realizzate in momenti e difficoltà differenti), ottenuti semplicemente riavvolgendo e quindi reimpressionando il negativo in concomitanza con la chiusura graduale del diaframma o dell’otturatore. Già dai primi anni 20 si vanno poi diffondendo dispositivi leggeri e compatti che anticipano le attuali handycams, come testimonia il film manifesto “L’uomo con la macchina da presa” (1929) di Dziga Vertov, in cui, in più momenti, si vedono all’opera piccoli apparecchi di ripresa posizionati nei posti più improbabili (dalle rotaie del treno al manubrio di una motocicletta), a conferma di quell’urgenza di “scatenare” il mezzo di ripresa che connota un po’ tutte le avanguardie degli anni 20. L’avvento del sonoro tornerà a limitare la mobilità degli apparati di ripresa: per neutralizzarne il ronzio, la cinepresa viene infatti posizionata all’interno di vani insonorizzati che, pur dotati di ruote, impediscono di fatto le carrellate, costringendo i registi a optare per brevi panoramiche, senza contare che tutto ciò costringe gli attori a muoversi innaturalmente a passi felpati e a recitare scandendo chiaramente e lentamente ogni sillaba. Con l’esplosione del secondo conflitto mondiale le necessità belliche richiederanno un nuovo tipo di macchina da presa speciale che garantisca funzionalità e semplicità operativa. Si diffonde così, a partire dal 1936, la Arri della Arriflex, una macchina leggera, fatta apposta per le riprese a mano e per l’impiego in esterni. Con il postmoderno si ricorre a una serie di innovazioni tecnologiche contraddistinte, oltre che, sul piano sonoro, dall’avvento del prodotto culturale, i suoi codici e il suo pubblico di riferimento. Quel tipo di teatro è pensato per quel tipo di pubblico e ne riflette la natura e la visione del mondo. Il fatto che un altro pubblico, socialmente e culturalmente più elevato come quello di Broadway, si senta in diritto di ridere a crepapelle, è inquadrato come violenza simbolica nei confronti di altri spettatori, percepiti come inferiori. A confrontarsi sono 2 tipi di AUDIENCE che si differenziano, in termini di stratificazione sociale, si tratta di un pubblico che si accalca per divertirsi con spettacoli musicali e di intrattenimento estremamente densi ed elaborati sotto il profilo performativo, ma del tutto indipendenti, contrapposto a un pubblico che è semplicemente “ancora indietro”, ancora fermo a una dimensione provinciale. Eppure anche in quel contesto esiste una sorta di “lotta di classe” fra questo pubblico e quello dell’infinita provincia americana del Sud e del Midwest, combattuto con le armi dello scherno, dello stigma e del disprezzo. • - Il film di Preston Surges “I dimenticati” (1942) dalla satira diabolica: si racconta di un regista diventato ricco e famoso grazie a brillanti commedie hollywoodiane. Insoddisfatto per la frivolezza di un cinema, John Sullivan decide che realizzerà un grande affresco epico per raccontare e denunciare le condizioni della popolazione prostrata dalla Grande Depressione. Sullivan vivrà una serie di avventure che lo porteranno a cambiare radicalmente la sua prospettiva. Alla fine si renderà conto che un film impegnato e drammatico non apporterebbe alcun beneficio alle persone, mentre costoro provano enorme conforto di fronte a un cinema elementare ma capace di comunicare con loro e di intrattenerli, alleviando per un attimo la loro fatica quotidiana. ) Per capire il popolo bisogna prima di tutto mettersi al suo livello. È necessario prima di tutto mettere da parte il proprio ego e andare incontro a una domanda che può essere volgare ma non è mai stupida. La seconda nemesi è rappresentata dal film di Sturges in quanto tale. Nello sviluppare questa commedia brillante, Sturges realizza anche il dramma impegnato lungo un viaggio che si snoda nella disperazione, miseria, brutalità, ingiustizia, ma anche della compassione, della solidarietà e dell’umanità più profonda. 3. Nel nome del popolo italiano C’è la storia del paese genericamente intesa e la storia degli apparati connessi al cinema. Da tutto questo derivano film che manifestano uno stile e veicolano messaggi. Per quanto Adorno e Horkheimer si fossero sforzati di spiegare che l’industria culturale trascinava con sé la morte dell’arte, è ancora il principio artistico a stabilire ciò che deve essere privilegiato. Questo processo di canonizzazione, che risponde peraltro a un’esigenza ordinatrice e didattica da cui è difficilissimo prescindere, fa sì che le opere dei “maestri” abbiano ampio spazio e che quelle solitamente rubricate sotto etichette quali “di genere” o “commerciali”. Poiché tutti i film sono commerciali, in quanto prodotti tramite l’investimento di capitali che si spera di recuperare attraverso l’incasso del prezzo di un biglietto, e tutti i film, in qualche modo, sono di genere, se ne deduce che tali film sono semplicemente considerati meno importanti perché meno belli oppure rivolti a un pubblico meno intelligente. È l’opera di Pierre Bourdieu a venirci in aiuto per spiegare le ragioni di questo fenomeno. Possiamo infatti tranquillamente ipotizzare che lo storico e il critico debbano sottostare alle regole del campo intellettuale, e in qualche caso dalla dimostrazione di possedere un habitus mentale adeguato alle regole del gioco. Non si intende con questo formulare una critica nei confronti di un’operazione comunque meritoria, ma crediamo che la riprova di quanto appena affermato consista nel fatto che tale prospettiva è preferibilmente rivolta al passato o a opere che si muovono ai margini del circuito commerciale mainstream, secondo un meccanismo di inclusione che deve comunque prevedere regole di esclusione altrettanto rigide. In realtà, storicamente la cultura cinematografica italiana è un ambiente che si sviluppa in parallelo al contorto processo di modernizzazione del paese nel suo insieme, elaborando alcune strutture nel corso degli anni 30 e precisandole nel corso degli anni 60. Al contempo esiste però una serie di opere, di Morin e di Eco, che dimostrano come una realtà in rapido cambiamento abbia saputo elaborare un sistema teorico sufficientemente sofisticato da rendere conto delle nuove strutture e dei nuovi processi. Tuttavia tali strumenti sono stati usati relativamente poco a specifici oggetti, in particolare per il periodo che va dal boom economico all’evento della neotelevisione. È proprio uno studioso di letteratura come Vittorio Spinazzola a proporre il primo studio davvero pionieristico e, per molto tempo unico, su ciò che è stata definita correttamente la rappresentatività sociale del cinema. Avendo intuito che il cinema può essere specchio della società solo in quanto è realtà sociale esso stesso, Spinazzola cerca di adottare nei confronti dello “spettacolo cinematografico” un approccio descrittivo che parte da una realtà non contestabile. Il cinema è quello che viene visto in sala dal più ampio numero di componenti di una società. Così, ogni sua analisi parte dal dato relativo agli incassi, senza reputare che si tratti di un indicatore assoluto (cioè consapevole che può dipendere da una quantità di fattori eterogenei), ma nella convinzione che si tratti di un presupposto oggettivo con cui si deve fare i conti, proprio perché ci si muove comunque sempre all’interno di un contesto industriale/commerciale e di massa. Va bene il canone del Neorealismo, ma non si può concentrarsi esclusivamente su quello. Il successo di un film, la sua popolarità, non è una variabile indipendente ma qualcosa che ha sempre delle ragioni, specie se il dato non è relativo alla riuscita contingente di una singola opera ma riguarda un filone, perciò un trend. Il pubblico rifiuta qualcosa che “dovrebbe” interessarlo, la cosa ha delle ragioni che dovrebbero essere indagate. Il pubblico non è un organismo amorfo, ma un insieme di soggetti che esternano, un agire sociale dotato di senso. Spinazzola manifesta una lucidità e una coerenza straordinarie, pur senza avere mai la pretesa di offrire un quadro storico coerente, ma su come il cinema riflette la crescita tumultuosa e contrastata di una realtà nuova nella vicenda sociale e culturale del paese. 4. Codificare e decodificare un film Elaborato nel quadro della televisione ma applicabile tranquillamente anche al cinema, lo schema di Hall sui “Cultural Studies”, parte dal presupposto che un prodotto circola sempre in una forma discorsiva (audiovisivo) e come tale viene distribuito a diversi tipi di pubblico. Se non viene assunto alcun “significato”, non ci può essere alcun “consumo”: perché abbia degli effetti, un significato deve essere necessariamente articolato nella pratica. Ma l’importanza del contributo di Hall dipende soprattutto da altri due fattori. 1. STRUTTURA COMPLESSA DELLA RELAZIONE FRA PRODUTTORE E CONSUMATORE: il processo di comunicazione non può essere ricondotto a un anello chiuso e lineare, la struttura è aperta ed è formata da produzione, circolazione, distribuzione/consumo e riproduzione. 2. MESSAGGIO CODIFICATO DEVE ESSERE CODIFICATO E TRADOTTO IN EFFETTI/PRATICHE SOCIALI: intrattenere, istruire, persuadere, avere conseguenze percettive, comportamentali... usi ed effetti del messaggio, fenomeni estremamente complessi e delicati. Hall arriva a stabilire che l’ideale dei produttori è quello di una comunicazione PERFETTAMENTE TRASPARENTE: invece devono confrontarsi spesso con una comunicazione sistematicamente distorta. Infatti, il destinatario/consumatore ha sempre 3 opzioni a sua disposizione: 1. decodificare il messaggio in maniera aproblematica, utilizzando il codice egemonico- dominante 2. decodificare il messaggio con un codice negoziato, come si verifica nella maggior parte dei casi 3. decodificare il messaggio seguendo un codice oppositivo, decostruendo cioè il messaggio secondo il codice dominante per ricostruirlo in modo completamente opposto. Da tali assunti deriverà una vasta tradizione di studi cinematografici di impostazione semiopragmatica che trovano in Roger Odin il loro più celebre esponente. 5. Conclusioni Queste indicazioni restano ovviamente valide in termini generali anche in uno scenario come quello attuale, in cui le cose appaiono sempre più complesse. Da un lato, è curioso vedere la persistenza dello schema mentale che conduce ancora a incasellare i film secondo il paradigma del commerciale o dell’autoriale. Un paradigma che guida ancora i discorsi sociali relativi al cinema di gran parte degli spettatori, come dimostra ad esempio il caso dei cosiddetti cinepanettoni. Dall’altro lato, tuttavia, la diffusione degli studi sulla cultura popolare anche a livello accademico fa sì che queste distinzioni siano sempre più inefficaci. Ma ciò non è necessariamente un bene. È di nuovo Hall ad affermare che è ancora possibile parlare di cultura popolare quando i modi con cui un prodotto culturale viene decodificato e utilizzato rientrano nel quadro di ciò che potremmo chiamare una “lotta di classe”. Quando cioè un film, un libro o un brano musicale è usato come strumento di lotta sociale, per rivendicare un riconoscimento identitario o di diritti da parte di gruppi che sono o si percepiscono come svantaggiati o discriminati. Spettatore di Mariagrazia Fanchi 1. Introduzione Nel 1914 Emilie Altenloh pubblica la sua tesi di dottorato: “Per una sociologia del cinema. L’intrattenimento cinematografico e gli strati sociali dei suoi fruitori”. Nel volumetto Altenloh espone i risultati della sua ricerca sul profilo sociale degli spettatori che, in quei primi anni 10, affollano le sale cinematografiche di Mannheim, una città industriale del sud-est della Germania. Questa indagine costituisce una felice anomali nel panorama degli studi: si tratta di una ricerca sul campo e il baricentro della ricerca è sulla relazione fra l’ambiente di vita dello spettatore, la classe sociale a cui appartiene e l’andare al cinema. Infine emerge un giudizio complessivamente positivo sull’esperienza cinematografica e un’immagine di spettatore attivo, in contrapposizione all’idea corrente e ampiamente condivisa di un pubblico inutile, che si lascia irretire dal nuovo e avvincente spettacolo delle immagini in movimento. 2. Classical views Il modello di spettatore che si afferma in coincidenza con il processo di istituzionalizzazione del cinema è quello di uno SPETTATORE MESMERIZZATO, dissociato dal contesto, concentrato in modo esclusivo sullo schermo e immerso nei mondi fittizi che i film costruiscono. Il cinema come potente strumento di manipolazione e di persuasione ha vicino la figura di uno spettatore in balia delle suggestioni e degli allettamenti dello spettacolo filmico, tanto più se appartiene a categorie considerate “a rischio”: i bambini, le donne, e, negli USA, gli immigrati. L’esperienza di fruizione da parte dei bambini nei primi decenni del 900 diventa oggetto di un numero crescente di interventi e di ricerche, che culminano nel monumentale progetto voluto dal reverendo William Short e i primi anni e finanziato dalla Payne Study and Experiment Fund, tra la fine degli anni 20 e i primi anni 30, che raccoglie un impressionante volume di dati sugli “effetti” deleteri del consumo di cinema nei bambini e negli adolescenti. I Payne Fund Studies rafforzano i peggiori timori che la società occidentale nutre nei confronti del cinema e dei mezzi di comunicazione. I Payne Fund Studies rappresentano un fondamentale snodo negli studi sulla spettatorialità cinematografica: da quella esperienza si dipartono due linee di ricerca per i successivi 50 anni. • - Da un lato, le ricerche empiriche sui pubblici di cinema, sulla loro ampiezza e composizione, sulla frequenza e le abitudini di consumo, che assumono un tratto schiettamente amministrativo. • - Dall’altro, una riflessione di carattere marcatamente teorico che accompagna i Film Studies. Dagli anni 40, la questione del pubblico di cinema diviene marginale. Occorre attendere fino agli anni 70 perché il problema dello spettatore di cinema torni a occupare la riflessione e gli studi filmici. Gripsrud descrive questa riemersione come il “ritorno del rimorso”, formula efficace che sottolinea due elementi essenziali: il SUPERAMENTO DELLA CENSURA e la RILEVANZA DELLA PSICOANALISI come quadro teorico e metodologico “quasi esclusivo” con cui si affronta ed esamina l’esperienza dello spettatore. In particolare, la storiografia, riconosce due nuclei di riflessione che catalizzano il dibattito sull’esperienza di visione e il pubblico agli albori degli anni 70: gli studi sull’apparato, che si concentrano sulle condizioni strutturali dell’esperienza del cinema e che hanno come riferimento essenziale il lavoro di Jean-Louis Baudry; e gli studi sul dispositivo, che si focalizzano, principalmente sul testo filmico e sulle sue strategie di coinvolgimento dello spettatore, e che trovano nelle sofisticate teorie di Metz il principale referente. Entrambe le linee di studio restituiscono l’immagine di uno spettatore modellato dalle condizioni della visione e dalle strutture del testo e indotto a identificarsi con i mondi che i film rappresentano e con “il punto di vista” costruito dal cinema. 3. Vedere oltre Il superamento delle teorie dell’apparato e del dispositivo e dell’idea di spettatore avviene dall’interno. Le cosiddette “teorie cine- psicoanalitiche” stabiliscono un nesso inscindibile fra la visione cinematografica e i processi di costituzione della soggettività. Semplificando si può dire che l’esperienza di visione innesca un processo regressivo, che induce lo spettatore a rivivere alcune delle fondamentali fasi che hanno segnato il percorso di costruzione della soggettività. L’analogia più nota è quella fra l’esperienza filmica e la fase dello specchio, enunciata da Metz. Il rapporto con il film dentro la sala coinvolge lo spettatore e diventa una parte costitutiva della sua identità e quindi uno strumento che lo “posiziona”, sia rispetto al film e a quanto rappresenta, sia rispetto alla realtà sociale. Questo assunto costituisce il fondamento delle teorie dello spettatore posizionato, ovvero le teorie che attribuiscono alla fruizione cinematografica un ruolo decisivo nella costruzione della soggettività degli spettatori e del loro modo di essere nel mondo. L'idea che lo spettatore venga costruito dal cinema come soggetto alimenta nel corso degli anni '70 un ampio dibattito sulle responsabilità del cinema nella costruzione e nella legittimazione del sistema sociale. Questo dibattito si salda con la critica femminista. A inizio anni '70 i movimenti femministi entrano in quella che viene comunemente chiamata la “seconda fase” e che si caratterizza per un’estensione dell'azione politica verso la dimensione del simbolico. In questi anni matura il convincimento che la lotta per l'emancipazione femminile non si debba condurre solo nelle piazze, ma anche e primariamente intervenendo sull’industria culturale, sulle sue logiche e sui modelli di femminile di maschile che essa veicola. Ad inaugurare la seconda stagione del Feminist Film Criticism è un saggio pubblicato su “Screen” da Laura Mulvey: Visual Pleasure and Narrative Cinema. Siamo nel 1975, Mulvey ha letto i testi di Baudry e di Metz e ne ha tratto una fondamentale lezione su come il cinema entri in gioco nei processi di costruzione dell'identità degli spettatori, compresa l'identità di genere. In “Visual Pleasure” la teoria del dispositivo viene impiegata per denunciare la complicità fra cinema hollywoodiano interessi patriarcali e per spiegare come i film classici costruiscono il primato del maschile sul femminile. L'analisi di Mulvey rileva, che nelle tipiche narrazioni proposte da Hollywood, il soggetto portatore dell’azione ha tratti maschili, mentre ai personaggi femminili viene riservato il ruolo di oggetto del desiderio: figure passive, negate, assenti. Che sia uomo o donna, lo spettatore è quindi indotto ad allinearsi con il personaggio maschile, a guardare il mondo con i suoi occhi, ad aderire al suo punto di vista che, secondo Mulvey, è un punto di vista irrimediabilmente patriarcale. La struttura del cinema classico sembra in effetti prevedere una posizione di visione pienamente gratificante solo per gli uomini. Nella sua empirica insostenibilità Visual Pleasure and Narrative Cinema inaugura un ampio dibattito che si protrarrà per tutti gli anni '80 e che porterà la riflessione sulla spettatorialità cinematografica oltre il modello dello spettatore posizionato, facendo emergere una nuova e più complessa figura di fruitore: quella dello spettatore esuberante. Tracce di questo modello, oltre che nel dibattito femminista, si trovano anche nelle ricerche che vengono avviate in questo periodo in ambito storico e che ha il suo momento costitutivo nel Convegno di Brighton del 1978. Se una parte degli studi femministi, soprattutto dagli anni '90, si dedicano sempre più a una minuziosa ricostruzione 2. TARANTINO à un prodotto concepito come un unico film, ma distribuito e fruito in due puntate assolutamente concatenate, imprescindibili, cronologicamente ordinate. Le formule di racconto seriale che abbiamo descritto si prestano alla migrazione dei contenuti narrativi su diverse piattaforme di fruizione, nonché al riciclo e riuso di nuclei tematici. assistiamo infatti con grande frequenza all’offerta di sequels, remakes, spin- offs, crossovers e reboot. La produzione di seguiti e remakes è tipica della storia del cinema: Il remake è però una pratica che spesso si basa sulla conoscenza diretta dell’originale. L'originale viene utilizzato come materia prima ritrovando un’attualità perduta. Storie, personaggi e situazioni si ripetono. A cambiare è il contesto culturale da cui il prodotto audiovisivo prende le mosse e inevitabilmente il modo in cui ogni singolo regista decide di mettere in scena la medesima storia. 5. I prodotti derivati Spin-off e crossover sono pratiche tipiche della serialità televisiva, ma di cui si possono trovare ricorrenze anche in ambito cinematografico. 1. SPINOFF à utilizzo di un personaggio secondario di una serie come protagonista di un nuovo prodotto: “Angel” spinoff di “Buffy – L’ammazzavampiri” / “Il gatto con gli stivali” di “Shrek 2”. 2. CROSSOVER à sovrapposizione di due diversi universi narrativi, facendo incontrare personaggi che appartengono a prodotti diversi: “ER” e “Squadra emergenza” / “Freddy vs Jason”. Accade che il pubblico distolga l’interesse da prodotti, personaggi e ambienti che fino a quel momento avevano riscosso un buon successo. Come fare a riaccendere la passione nei confronti di un determinato prodotto? La strada spesso praticata è quella del REBOOT, o riavvio, che punta a riscrivere, interamente o parzialmente, eventi che sono già stati raccontati in altre sequenze di racconti riutilizzando una materia narrativa già nota con l’intento di ricavarne qualcosa di nuovo. Riavviare una serie allora significa toglierle di dosso la polvere, ritoccando personaggi e ambientazione per ottenere un successo ancora maggiore rispetto a quello già riscosso (“Il cavaliere oscuro” di Christopher Nolan). 6. Dal cinema alla televisione e ritorno Un caso peculiare di rapporto seriale fra cinema e televisione è quello di film per il grande schermo ispirati a serie TV o quello di serie TV ispirate a film per il grande schermo. 1. PRIMO CASO à Si fa leva sul piacere di ritrovare il già noto, che lega lo spettatore al prodotto televisivo, dandogli la possibilità di continuare a ritrovare anche al cinema personaggi e situazioni che ha imparato a conoscere attraverso le serie televisive (come il prequel “I segreti di Twin Peaks” di David Lynch). Prodotti di questo genere chiamano in causa la memoria dello spettatore, assieme all’affetto per un determinato universo narrativo, che in questo modo viene reso nuovamente disponibile, ma anche attualizzato, rinfrescato e aperto alle variazioni. 2. SECONDO CASO à la conoscenza del film di riferimento non è necessaria. Per “Fame”, originata dall’omonimo film di Alan Parker, successo del 1980, la serie riscosse grande consenso di pubblico in Europa. 7. Conclusioni Da sempre cinema e televisione adottano modelli produttivi e narrativi di tipo seriale volti a economizzare le produzioni e a ridurre il rischio imprenditoriale nonché a facilitare il lavoro degli sceneggiatori e a conquistare un pubblico fedele e appassionato. Per scongiurare alcuni rischi si sono poi adottati meccanismi di crossover e reboot, che contribuiscono a rinnovare l’interesse del pubblico. Non va dimenticato che il modello produttivo e narrativo della serialità si è spostato negli ultimi anni anche sul web. Un esempio nostrano è “Freaks!”, serie italiana di fantascienza nata per il web nel 2011, composta da 2 stagioni, che nonostante una produzione low budget, grazie al passaparola ha ottenuto mln di visualizzazioni su YT. Si tratta di web-series, di prodotti a episodi, con una durata media piuttosto breve (8-10 minuti), adatti a essere fruiti attraverso il computer o dispositivi mobili. Il loro punto di forza è la facile accessibilità, nonché dal fatto di essere prodotti pensati e plasmati per sfruttare al massimo le potenzialità interattive di Internet. Attore di Francesco Pitassio 1. Uomini e api: introduzione all’attore cinematografico L’attore cinematografico costituisce una costante per il cinema. I confini costitutivi e operativi dell’attore cinematografico sono sempre stati difficili da specificare per la riflessione storiografica e teorica sul medium. Anzi, la maggior parte delle riflessioni si è incentrata sul DIVISMO. La riflessione sull’attore nel corso della storia del cinema ha incontrato nodi difficili da districare. In maniera particolare, il cinema è in grado di produrre situazioni rappresentative e narrazioni a prescindere dall’intenzionalità degli interpreti; ugualmente, gli attori cinematografici non devono necessariamente avere sembianze antropomorfe. Una rapida conferma è riscontrabile lungo la storia del cinema: una delle prime produzioni dei fratelli Lumière, “Le repas de bébé”, inscena un luogo (una terrazza), un’azione articolata in una breve porzione temporale (l’alimentazione di un neonato) e dei personaggi; il grado di intenzionalità dei soggetti incaricati di produrre i personaggi è variabile, in base alla consapevolezza di ognuno di sé stesso e della condizione rappresentativa. Si può arrivare a 3 considerazioni: 1. 1- Difficoltà nel riconoscere i termini della tradizionale opposizione natura/cultura nell’operato dell’interprete cinematografico 2. 2- La fusione fra attore e personaggio, determinante nella rappresentazione 3. 3- Il parziale invecchiamento (obsolescenza) delle categorie abitualmente impiegate negli studi 2. Corpi e macchine: il ruolo della tecnologia L’introduzione di tecnologie di ripresa e riproduzione tecnica delle immagini, a cavallo fra XIX e XX secolo, ha avuto una serie di conseguenze. Prima di tutto, una ritrovata centralità della dimensione corporea, dopo secoli di predominio del linguaggio e della scrittura. Come sostiene il teorico Balazs: “L’uomo della cultura visiva non sostituisce con i suoi gesti le parole, come fanno ad esempio i sordomuti con il loro linguaggio dei segni. I suoi gesti non esprimono concetti, bensì il suo Io immediato e irrazionale. Qui lo spirito si fa direttamente corpo, senza parole, visibilmente”. L’idea di un corpo capace di produrre senso a dispetto della coscienza di un soggetto individuale è alla base anche di specifiche poetiche di autore; tra queste, una delle più note, è la poetica dei modelli di Robert Bresson. Si tratta di cogliere un elemento di senso generato inconsapevolmente da un corpo, a prescindere da una coscienza e da un’intenzionalità psicologica. In opposizione a questo modello, a più riprese durante la storia del cinema si è diffusa un’ipotesi alternativa: il CORPO- MACCHINA. Tale modello coincide con la presunta esigenza di sottomettere tutte le componenti significanti a un controllo matematico. Il corpo-macchina è tema diffuso nella culturale della modernità e postmodernità, come dimostra “Metropolis” e “Io robot”. Una serie di specificità paiono, sin dai primi decenni del XX secolo, evidenti agli occhi di artisti e commentatori. Due sono i fattori più rilevanti: la frammentazione e l’autonomia dell’immagine. Rispetto all’interpretazione teatrale, quella cinematografica è sottoposta a parcellizzazione in differenti modi. È il corpo stesso dell’interprete a essere sezionato (dettagli di occhi, mani, braccia...), ciò comporta un differente impiego del corpo attoriale, e una sua diversa concezione da parte dello stesso interprete. • - Da una parte, l’unità fisica dell’attore è pregiudicata dall’organizzazione della successione delle immagini: è il caso di alcuni celebri esperimenti di montaggio degli anni 20 del regista russo Kulesov ma anche della pratica più diffusa di stuntmen e controfigure. • - Da un’altra parte, ciò ha condotto a una valorizzazione di specifiche parti del corpo, in funzione di una loro maggiore efficacia significativa, narrativa ed emotiva; su tutte, il volto, attraverso l’impiego del primo piano. Il primo piano ha costituito un elemento per definire l’identità dei personaggi. Una volta data questa priorità a personaggi psicologizzati, si è affermata progressivamente l’idea della personalità. Il volto è divenuto anche il luogo cinematografico per antonomasia, la sede in cui più chiaramente si affermano le emozioni; il volto è inoltre l’oggetto meglio capace di specificare tratti identificativi non solo di un soggetto, ma anche di una classe o di una tipologia. Infine, lo stesso controllo da parte dell’interprete sulla propria immagine è di fatto impossibile, salvo in virtù di specifiche clausole contrattuali o di scelte poetiche particolari: l’immagine è svincolata dall’attore che ha contribuito a produrla, e può essere maneggiata, alterata, riprodotta e diffusa ben al di là della sua volontà. Il contributo di ogni interprete alla rappresentazione cinematografica appare unico: è sufficiente eseguire un confronto per verificare l’insostituibilità di uno specifico attore (differenze fra la recitazione composita di Paul Muni in “Scarface – Lo sfregiato” di Hawks e quella nevrotica di Al Pacino nel remake omonimo del 1983 di Brian De Palma). 3. Una questione di stili: le forme dell’attore cinematografico L’attore cinematografico è una funzione della rappresentazione cinematografica, soggetta a variare in base alle trasformazioni storiche, estetiche e produttive della rappresentazione stessa. Una molteplicità di tipologie attoriali si è succeduta lungo la storia del cinema in base alle trasformazioni stilistiche, alle innovazioni tecnologiche e alle esigenze culturali. Nel cinema-attrazione la recitazione spesso mantiene i codici stabiliti nell’ambito originario: il circo, la danza, il teatro di prosa... La funzione dei gesti e della mimica è spesso dimostrativa come nella pantomima: a un gesto o a una posa corrisponde uno specifico significato. La transizione a uno stile recitativo fondato sulla verosimiglianza e la continuità avviene con la progressiva egemonia della narrazione. Il modo di rappresentazione negli USA nel corso degli anni 10 ha maggiormente integrato la recitazione in un sistema nel quale la dominante è costituita dalla narrazione e le differenti componenti le sono in qualche modo funzionali. Questo insieme di processi, uniti all’affermazione di una cultura della celebrità nel corso del XIX secolo, ha contribuito all’affermazione del divismo nel nascente cinema hollywoodiano. Infatti, il divismo sin dagli albori di Hollywood è stato un fattore di identificazione e differenziazione del prodotto; lo star system ha contribuito a stabilizzare l’offerta e la domanda di prodotti cinematografici e allo stesso tempo proprio lo strumento del divismo nel sistema produttivo hollywoodiano, ha consentito sul piano ideologico di preservare una concezione di soggettività unitaria, minacciata dalle trasformazioni inerenti ai processi della modernità. Il modello attoriale hollywoodiano soggetto all’egemonia narrativa non è unico. Non lo è nel sistema hollywoodiano stesso (Chaplin, Astaire, The Rock), né su scala internazionale. Per nominare solo alcune fasi particolarmente significative della storia del cinema, per il montaggio sovietico le opzioni sono molteplici: dall’impiego dell’attore come semplice materiale costruttivo, alla concezione dell’attore come una macchina composita, fino all’attore come corpo generatore di senso. Nella storia del cinema mondiale si è affermato il modello del non professionista, dal periodo interbellico all’esplosione del fenomeno durante il Neorealismo italiano. Lo stesso cinema hollywoodiano, successivamente alla crisi dello studio system, ha ridefinito il fenomeno divistico. Al fianco della concezione della star come personalità, essa stessa soggetta a modificazioni, si sono affermate la star come professionista, diligente esecutore della parte, e la star quale performer, la cui interpretazione costituisce un valore aggiunto della produzione, come per Robert De Niro, Al Pacino o Meryl Streep. La svolta digitale del cinema contemporaneo ha nuovamente problematizzato la natura dell’interprete e molte nozioni consolidate. La natura mutevole dell’attore richiede prospettive di studio internamente coerenti, ma adeguate a un oggetto sfuggente. 4. Lo specchio a 4 facce: prospettive sulla recitazione cinematografica 20 Esistono 4 punti di vista dai quali osservare il fenomeno dell’attore cinematografico. Si tratta di 4 metodi di lavoro: iconologia e studi sulla visione, storia dello spettacolo, studi sul modo di produzione e studi divistici. La PROSPETTIVA ICONOLOGICA assume la presenza umana nella rappresentazione per come essa viene figurata; l’attore viene esaminato come motivo visivo all’interno di un testo o di una serie di testi. La prospettiva iconologica ha una sua valenza complessiva, ma risulta particolarmente proficua nello studio del cinema muto, nel quale la ricerca di un’efficacia plastica della presenza umana è spesso prioritaria. Ad esempio, per comprendere il funzionamento dell’attore nel cinema espressionista tedesco è utile considerare la recitazione antimimetica e con posture esasperate che caratterizza “Il gabinetto del Dottor Caligari” di Robert Wiene (1919). Tuttavia, lo stesso cinema contemporaneo, nel quale le tecnologie digitali hanno accentuato le possibilità di manipolazione e invenzione visiva, sollecita analoghi approcci. Inoltre, la prospettiva iconologica permette di raccordare la riflessione sull’attore cinematografico con i più ampi problemi di storia della visione (come si rappresenta la presenza umana?). La PROSPETTIVA DELLA STORIA DELLO SPETTACOLO considera l’attore nel più ampio sistema dello spettacolo e privilegia il mestiere dell’attore e le condizioni in cui esso opera. Infatti, gli interpreti cinematografici attraversano percorsi formativi. Un attore declina il proprio mestiere in una molteplicità di forme e di media che contribuiscono a plasmarne lo stile. Un simile approccio consente di ricostruire la forza esercitata da istituzioni, media e prassi professionali nel definire lo stile di recitazione, la concezione dell’interprete e lo spazio assegnatogli da una cultura scenica. Tale prospettiva può chiarire l’influenza di altre forme spettacolari nella definizione del lavoro attoriale (sistema teatrale ottocentesco – genesi studio system; organizzazione diva film per moduli – da tradizione grande attore italiano). Infine, l’attenzione alla dimensione stilistica considera il lavoro dell’attore quale contributo attivo alla rappresentazione. Gli STUDI SUL MODO DI PRODUZIONE si concentrano sull’organizzazione e realizzazione e sulle più ampie esigenze culturali cui queste rispondono. Un determinato sistema riproduttivo assegna ruoli diversi agli interpreti in base alle esigenze complessive di organizzazione e divisione del lavoro. ad esempio, notevoli sono le differenze fra la rigida divisione professionale dello studio system hollywoodiano e il Neorealismo. La varietà dei modi di produzione, in base alle epoche storiche e ai contesti geopolitici, induce a comprenderne meglio le logiche per poter definire adeguatamente la funzione svoltavi dagli interpreti; anche nozioni apparentemente univoche quali quelli di attore, caratterista o stella richiedono di essere vagliate alla luce di specifiche modalità di produrre e suddividere i ruoli professionali. Gli STUDI SUL DIVISMO sono stati tra i primi dei filoni degli studi cinematografici a cogliere il funzionamento dello star system e della singola stessa cui si richiede un’attenzione alle modalità con cui questa è costituita attraverso una pluralità di apparizioni filmiche ed extrafilmiche definita dal teorico inglese Dyer, polisemia strutturata. Da un lato, per descrivere una star è necessario costituire un intertesto che includa le manifestazioni extrafilmiche della sua immagine: materiali promozionali, apparizioni pubbliche, interviste, biografie ecc. Dall’altro lato, la star configura una personalità esemplare attraverso i suoi tratti caratterizzanti, sulla base dei modelli di individualità in una data società e in uno specifico periodo storico. Infatti, le star sono una delle realizzazioni più complesse ed efficaci della più ampia cultura della celebrità, caratteristica della modernità e della postmodernità. Ad esempio la parziale trasformazione delle idee sulla femminilità avvenuta nella cultura italiana del secondo dopoguerra, sulla relazione fra la donna e una certa concezione della nazione italiana, e sulla selezione e formazione delle attrici contribuisce a generare il fenomeno delle maggiorate negli anni 50, da cui emergeranno Sofia Loren, Gina Lollobrigida e Silvana Pampanini. L’attenzione alla fruizione delle star nei processi di identificazione collettiva è Negli anni della contestazione la critica cinematografica militante anima un dibattito che ha per oggetto il rapporto fra pratica filmica e pratica rivoluzionaria. È il problema principale del cinema politico. In Francia prende forma una riflessione fra dispositivo cinematografico, tecnica e ideologia. Sotto l’influenza del marxismo e della psicoanalisi lacaniana si sviluppa una critica all’ideologia della rappresentazione. La rivista “Cahiers” si politicizza in senso radicale negli anni 70 ma cerca di conciliare la critica dell’ideologia con la necessità di continuare a studiare e amare il cinema classico. Serge Daney, uno dei critici di cinema più apprezzati e influenti degli anni 70, fa parte della seconda generazione di critici che giunge ai Cahiers quando i giovani turchi sono già maestri affermati, e che ha saputo mediare fra le istanze cinefile e le urgenze politiche degli anni 60-70. Questo mix di interessi e competenze si ritrovano nell’Italia degli anni 70 in Ungari, Buttafava e Aprà. Il nuovo gusto cinefilo è strettamente connesso con le attività dei club-cinema. La cinefilia degli anni 70 non rinuncia a uno sguardo politicizzato sul cinema di consumo, ma insegue il progetto di una conciliazione tra l’immaginario cinefilo e quello popolare. Così facendo favorisce, indirettamente, il percorso dei saperi cinematografici verso la loro istituzionalizzazione lungo gli anni 80 e a seguire. Mentre il mondo del cinema entra in crisi, la cultura cinematografica vive un momento abbastanza florido: la storia del cinema entra nelle università e all’interno di alcuni programmi scolastici. Il critico fatica a stare dietro all’incremento dell’offerta culturale tipica degli anni 80 e 90. La critica è tesa: da una parte opera la volontà di recuperare il piacere della visione e dall’altra la consapevolezza che l’esercizio critico-teorico si è allontanato dalla radicalità del pensiero politico degli anni 70. 5. Questioni di metodo: critica, interpretazione, retorica Lungo il percorso evolutivo la critica ha consolidato abitudini, routine di pensiero, pratiche interpretative standardizzate. Essa quindi può essere studiata attraverso ricostruzioni storiche e anche come un mestiere dotato di regole stabili di funzionamento. Secondo Bordwell, la critica funziona soprattutto come un’attività di problem solving. Il critico ha di continuo a che fare con la nozione di significato. Un significato che va reperito nel testo e che va anche costruito attraverso il discorso critico-interpretativo. Secondo Bordwell i significati sono di 4 tipi: • - SIGNIFICATI REFERENZIALI E SIGNIFICATI ESPLICITI à costituiscono il processo di comprensione del film • - SIGNIFICATI IMPLICITI E SIGNIFICATI SINTOMATICI à che costituiscono l’operazione di vera e propria interpretazione. 1. Impliciti riguardano elementi simbolici che lo spettatore può attribuire al film 2. Sintomatici si ottengono partendo dall’idea che il film comunichi in modo indiretto e involontario, è la società che parla attraverso significati sintomatici. • Queste 4 tipologie non compaiono sempre insieme nelle recensioni. Mentre il critico affronta il suo problema principale deve al contempo cercare di risolvere altri sottoproblemi. Che per Bordwell sono sempre 4: • - Appropriatezza: il critico deve dimostrare al proprio lettore che è appropriato parlare del film di cui sta parlando • - Corrispondenza: corrispondenza fra analisi e unità testuali • - Originalità: impostazione originale al proprio lavoro • - Plausibilità: strategia per rendere credibile il proprio discorso. Chi scrive è soggetto sia all’argomentazione che a vincoli esterni. Un critico organizza i materiali reperiti in una struttura (dispositio) e sceglie forma e stile per esprimersi (elocutio). I problemi di struttura riguardano lo stile di scrittura o il registro discorsivo. Esistono formati editoriali fondamentali attraverso cui i critici si esprimono: scritto accademico, saggio... con vincoli di scrittura e di struttura. La forma più diffusa di discorso critico è la FORMA-RECENSIONE: 24 • - MINI RECENSIONE: settimanali, 2.500-4.000 battute • - RECENSIONE STANDARD: 5.000-8.000 battute, format dominante • - RECENSIONE LUNGA da rivista specializzata, fra le 10.000-20.000 battute 6. La critica di cinema nella cultura digitale La recensione è un esempio perfetto di persistenza nonostante il digitale. Essa rimane uno dei format di scrittura tuttora più praticati da blogger e critici del web. Tuttavia il cambiamento che il web ha introdotto nel mondo della critica cinematografica è evidente: 1. Assistiamo a una mescolanza delle tipologie discorsive. Anche la recensione è sempre più liberata da vincoli (uso di un linguaggio colloquiale che richiama la formula diaristica) 2. Tramite Internet si assiste a una ridefinizione della nozione di gusto. Si assiste a un fenomeno inverso: i differenti stili di consumo e apprezzamento culturale influenzano e/o generano reti sociali. 3. Online si ridefinisce il ruolo dell’expertise, dell’esperto di qualsivoglia materia, cinema incluso. Funziona come un sistema meno affidabile e chiuso ma anche molto più testabile. Tutti i fenomeni fin qui considerati rispondono a una logica profonda di deistituzionalizzazione della critica cinematografica. Al punto che per i più scettici si può parlare di una vera e propria scomparsa: la critica si sarebbe dissolta nel trionfo dell’opinionismo incompetente reso pubblico dal web. Luca Malavasi sostiene che la maggior parte dei portali di cinema italiani si ispiri a un modello di critica conservatore, interamente costruito sull’emulazione delle formule proprie della critica cartacea, rivolto a uno spettatore ideale ingordo di film ma sostanzialmente indifferente alla qualità della scrittura e del pensiero. D’altra parte i difensori della rete insistono sull’EFFETTO QUANTITATIVO: il web ha generato l’avvicinamento di un gran numero di utenti al discorso critico, cosa che è da considerarsi in termini positivi, indipendentemente dal livello dei risultati. Ma nessuno nega il carattere di novità rappresentato dall’irruzione delle tecnologie digitali nel campo della cultura umanistica. Lo stesso può dirsi del cinema e della cultura cinematografica nelle loro totalità. Per quanto riguarda la critica di cinema è qui per restare. Sonoro di Paola Valentini DIFFICILE*** Teoria di Ruggero Eugeni 1. Commenti Il cinema si presenta fin dalla sua nascita accompagnato da un insieme di brevi interventi occasionali; questi testimoniano il suo immediato radicamento all’interno di una multiforme relazione di saperi scientifici, politici, filosofici, religiosi... di fine 800, per altro verso l’esigenza di donare un senso socialmente condiviso al nuovo oggetto di esperienza. Può trattarsi di interventi che affrontare il fatto cinematografico a partire da interessi pratici. Oppure possono essere testimonianze dei primi spettatori soprattutto se questi sono giornalisti o scrittori. 2. Discorsi A partire dalla seconda metà del primo decennio del 900, e soprattutto dagli anni 20 in poi, si fa più evidente e continuo l’intervento di giornalisti, organizzatori culturali, scrittori e registi nella riflessione sul cinema. Esistono due ordini di influenze. Per un verso, il cinema adotta la forma del lungometraggio, viene accolto in sale appositamente attrezzate per la proiezione e acquisisce quindi una visibilità sociale più definita. Per altro verso, l’opera di legittimazione del cinema come arte moderna si lega alla riqualificazione della figura ottocentesca dello studioso o del letterato nel nuovo ruolo di “intellettuale”, operante nel contesto industriale della società di massa. Di qui un legame stretto fra gli anni 10 e gli anni 30 tra il cinema e le avanguardie artistiche, promotrici di un rinnovamento in senso moderno delle arti e della cultura: saranno in particolare il Futurismo e il Surrealismo a incidere sulla teoria del cinema. In questo senso quasi tutte le riflessioni sul cinema di questo periodo sono state considerate “moderniste”, in quanto esaltano la capacità del cinema di riformulare il reale mediante le moderne tecnologie della percezione. Le forme del discorso teorico rimangono fino agli anni 30 piuttosto frammentate: articolo su quotidiano o rivista, alcuni, riviste specializzate... I temi degli interventi sono anch’essi vari. Una prima ondata di studi è caratterizzata dalla preoccupazione di annettere il cinema al campo di discussione dell’estetica, legittimandolo in quanto forma d’arte. Alcuni sostengono che l’appartenenza del cinema al campo dell’arte derivi dal suo costituire un tipo di arte sincretica, in grado di conciliare arti plastiche e musica; è la posizione espressa da Canudo. Altri ritengono, invece che, il cinema costituisca una forma d’arte in virtù di caratteristiche proprie: queste consentono un tipo di esperienza del tutto inedito, che né il vivere ordinario né nessuna altra arte precedente avevano reso possibile. Un primo gruppo di studiosi insiste sul fatto che il cinema esternalizza e rende oggettivi i movimenti interni e soggettivi della coscienza e del pensiero. Nel caso di Ejzenjstejn è lo strumento del montaggio a tradurre in forme oggettive una serie di processi di pensiero collegati a processi emozionali, innescando una forte sintonia emotiva e intellettuale fra il film e lo spettatore. Opposta, ma complementare, la posizione di un secondo gruppo di studiosi definibili “rivelazionisti”: in questo caso la felice anomali dell’esperienza filmica consiste nell’assistere a un’esteriorizzazione “epifanica” degli aspetti segreti e normalmente invisibili del mondo reale. Ad esempio, Epstein – regista e teorico dagli anni 20 agli anni 50 – indica con il termine “fotogenia” il rivelarsi di qualità sensibili e morali nascoste del mondo visibile, rivelazione resa possibile da un “cinema puro”. Per Balazs il cinema rende L’uomo visibile, ovvero permette al suo corpo e al suo volto di esprimere la sua anima: con ciò non si intende solo la capacità espressiva di volti e corpi ma anche quella delle folle, dei paesaggi naturali o di quelli industriali. La tendenza “esternalista” e quella “rivelazionista” sono opposte ma complementari: in entrambi i casi il cinema mobilita una tecnologia che coinvolge in modo inedito i sensi, l’intelletto e le emozioni dello spettatore e produce in modo altrettanto inedito un movimento artificiale di manifestazione. Il cinema si pone come un dispositivo artificiale di regolazione dei rapporti fra soggetto e oggetto. Una seconda ondata di studi si interroga sulla possibilità di assimilare il cinema a un linguaggio dotato di regole, norme e grammatiche specifiche. Per la scuola dei formalisti russi il film assume la piatta realtà fotografica delle immagini per manipolarla attraverso una serie di procedimenti di costruzione artificiali e convenzionali di carattere tecnico-linguistico che compongono una cine- lingua. È chiara l’opposizione alle posizioni del gruppo precedente e in particolare ai rivelazionisti: non è il reale a rivelarsi attraverso l’inquadratura ma il linguaggio cinematografico a esprimere il reale attraverso il montaggio. Anche per Arnheim, teorico dell’arte tedesco, il film introduce una serie di “fattori differenzianti” che dipendono direttamente e automaticamente dagli elementi tecnici che compongono la scrittura cinematografica e si colloca quindi già nella singola inquadratura. Arnheim avrà grande successo in Italia. Una terza ondata di studi si interroga circa il ruolo del cinema nella società, il suo statuto sociale e di mezzo di comunicazione. Per il filosofo tedesco Walter Benjamin occorre distinguere fra il cinema in quanto dispositivo tecnologico (Apparat) e il medium, che egli intende come l’insieme delle condizioni storiche, culturali e tecnologiche che determinano l’esperienza percettiva dei soggetti sociali. Per altro verso il cinema può rappresentare un sistema di training e di assuefazione dei soggetti sociali alle nuove condizioni di percezione artificializzata proprie della modernità, permettendo una nuova “innervazione” della sensibilità moderna. L’idea che il cinema possieda un “impatto sociale” si esprime in varie altre forme. Interessante è il caso dell’Italia, dove vari intellettuali sono molto attenti alle macro e micro trasformazioni introdotte dal cinema nel tessuto sociale e nella nascente cultura di massa degli anni 20 e 30: si pensi alle osservazioni circa i cambiamenti nell’arredamento, nell’abbigliamento, nella mimica e perfino nella conformazione fisica dei soggetti sociali; o alla descrizione di una “nuova Alessandria”, sorta di villaggio globale in cui il cinema convive con la rete degli altri media dell’epoca avanzata da Eugenio Giovannetti. 3. Discipline Nel secondo dopoguerra: • - Il cinema è divenuto un’istituzione centrale della società occidentale, è sempre più frequente il caso di registi-teorici e teorici-registi. • - La riflessione sul cinema si istituzionalizza all’interno di università e centri di ricerca. Si tratta di due tendenze opposte che alternano momenti di distacco a momenti di dialogo. Il primo ordine di fenomeni viene ben espresso dal gruppo di critici e teorici raccolti intorno alla rivista francese “Cahiers du cinéma”. Esso offre un’esperienza esistenziale che richiama tanto gli autori quanto gli spettatori a precisi criteri di responsabilità. La seconda tendenza si esprime attraverso la nascita della filmologia, un tentativo di inserire il cinema tra gli oggetti di studio accademici grazie a un approccio interdiscplinare. A partire da una distinzione fra fatto filmico e fatto cinematografico, la filmologia coinvolge psicologi, psicoanalisti, sociologi e antropologi, filosofi ed estetologi, storici dell’arte. I suoi esiti sono differenti, ma tutti improntati a una controllata contaminazione di strumenti. Morin analizza il cinema da un punto di vista antropologico e psicologico, e vede in esso il luogo di sintesi di oggettività e soggettività, immagine e immaginario, tecnologia e magia. Un evento capitale per l’istituzionalizzazione della riflessione sul cinema è l’avvento nella cultura francese dell’inizio degli anni 60 di nuovi paradigmi disciplinari, capaci di rinnovare profondamente il panorama delle scienze umane. Per Metz il cinema è un linguaggio, la sua natura linguistica deriva dall’ipotesi di applicare al cinema concetti elaborati in riferimento alle lingue naturali della linguistica strutturale. Per un verso, la semiotica del cinema segue lo sviluppo della semiotica tout court: da un interesse per i problemi del segno filmico (Eco e Pasolini) essa si sposta dapprima verso un interesse per il testo filmico; per poi leggere il testo nei suoi rapporti con il contesto di recezione. In quest’ultimo ambito emergono sia teorie di tipo enunciazionale, attente a comprendere come il testo filmico offra una specifica “posizione” al proprio spettatore, sia teorie di tipo pragmatico o semiopragmatico, che esaminano in periodo saranno poi via via istituzionalizzate negli anni successivi, specialmente a partire dal secondo dopoguerra, sempre in Francia, vera patria della cultura cinematografica. La straordinaria competenza in materia e la scrittura funambolica fecero di Delluc il padre simbolico della generazione “Cahiers du cinéma”, così come i suoi film, insieme a quelli di Epstein, tendono a essere considerati una sorte di première vague “prima onda”, anticipatrice della Nouvelle Vague. Delluc, redattore capo della rivista “Film” e poi dal 1918 critico fisso del quotidiano “Paris-Midi”, non distingueva fra pratica cinematografica, critica e militanza culturale. 3. Cinefilia moderna La cultura cinefila parigina del secondo dopoguerra va considerata come il momento “moderno” della passione per il cinema. Dopo la fine delle ostilità, in Francia si ha la nascita e la proliferazione di sale cinematografiche, cineclub e riviste specializzate, oltre che alla distribuzione di molti film americani rimasti inediti a causa della situazione politica e della censura. L’interesse verso il cinema come mezzo artistico, all’epoca, era diffuso e coinvolgeva differenti strati della cultura. La cinefilia poi teorizzata da Truffuat nel celebre articolo “Una certa tendenza del cinema francese” prevedeva proprio la liberazione della cultura cinematografica dai vincoli del contenuto, per fondare invece un pantheon di autori a partire dal primato della messa in scena, cioè del “gesto” cinematografico per eccellenza, lo stile. Critica moderna e cinefilia moderna trovano un terreno di coincidenza nel mescolare le carte, nobilitare la cultura dei film, affiancare gusti fino ad allora considerati gerarchicamente inavvicinabili (Hitchcock e Rossellini). La politica degli autori, secondo la quale il regista va considerato a tutti gli effetti il creatore dell’opera d’arte, fu il corollario indispensabile di un vero e proprio big bang all’interno della cultura cinematografica. Tutto il sistema ne ha subito l’influenza. La cinefilia e la critica non sempre coincidono, e la pratica cinefila vive senza la critica, pur non potendo fare a meno del giudizio di valore. 4. Cinefilia militante Dalla metà degli anni 60, si inizia a parlare di una politicizzazione della cinefilia. Si entra in un periodo in cui è difficile individuare un percorso unitario da parte della comunità cinefila, che nel frattempo si era allargata a tutto il mondo. Le nette contrapposizioni ideologiche del periodo e la nuova generazione erano destinate a cambiare le carte in tavola. I “giovani turchi” si trovarono costretti a schierarsi. Alcuni di loro, come Godard, si gettarono a capofitto nella pratica marxista- leninista, trasportata nella produzione cinematografica. La cinefilia, negli anni che vanno almeno fino al 1977, in Europa viene scossa dalle novità ed è costretta a revisionare i criteri attraverso i quali si schiera a favore o contro un film. Qualche esempio: i “Cahiers du cinéma” all’inizio degli anni 70 si votano al maoismo e abbracciano le esperienze del cinema diretto, del cinema politico... in Italia, la rivista “Ombre Rosse” di Fofi, mescola fin dal titolo l’amore per il western hollywoodiano e la militanza politica: riservava il suo interesse al cinema popolare e al cinema del Terzo Mondo, in quanto espressione di alterità espressiva. Anche i festival vengono contestati e riconfigurati. A ben pochi ormai interessavano Hitchcock e Bergman, ma si continuava a mescolare Hollywood con il suo opposto (cinema africano, brasiliano, orientale), sostenendo comunque una politica degli autori, in questo caso però registi in grado di sabotare politicamente e ideologicamente i sistemi di potere. La cinefilia militante continuava a mettere al centro del proprio discorso il cinema, interpretato però non più come mezzo artistico ma come mezzo discorsivo necessario alla lotta politica, alla formazione ideale e culturale delle coscienze... 5. Cinefilia magnetica La cinefilia ha rischiato di farsi travolgere insieme al tramonto della lotta politica. Le novità provenienti dal sistema televisivo e il lento affermarsi dei sistemi di registrazione e riproduzione domestica mutarono lo scenario in maniera radicale. La diffusione delle nuove tecnologie ha a che fare con processi apparentemente lontani, come ad esempio i primi tentativi di studiare il linguaggio del cinema nelle scuole. I cineclub persero la propria centralità mentre lo spettatore casalingo diventò il principale consumatore di cinema. Gli anni 80 e i primi anni 90 sono considerati l’inizio del periodo in cui il cinema non è più il medium principale. Ecco che nuove generazioni di cinefili possono formarsi attraverso le grandi rassegne televisive o film in videocassetta, come narra del resto la leggenda del regista più cinefilo dei tempi recenti, Quentin Tarantino, giunto alla sua enciclopedica conoscenza della storia del cinema grazie al lavoro di impiegato in un videonoleggio. Eppure cresce silenziosamente una NUOVA CINEFILIA, segnata dal rapporto culturale dello spettatore con i “film fuori della sala”: il collezionismo casalingo, l’ingresso del cinema nelle università, sono tutti aspetti che stimolano la pratica cinefila, pur mutandone ancora una volta i connotati. 6. Cinefilia postmoderna La data simbolica del 1995, centenario della nascita del cinema, ha costituito uno spartiacque simbolico anche per la cinefilia. Si è fatta strada la consapevolezza che, grazie al lavoro di storici e archivisti, alla ricerca delle università e al ruolo delle nuove tecnologie, la storia del cinema sia ormai emersa nella sua completezza. Tuttavia, si insinua il sospetto che il medium cinematografico, dominante nel 900, sia ormai lontano dal suo apice e marginalizzato da altri mezzi, in particolare dagli strumenti informatici e digitali. Tra le novità più eclatanti, va annoverata una tendenza internazionale, particolarmente forte in America e in Italia, dedicata alla rivalutazione del cinema popolare. Che lo si chiami trash, stracult, questo vasto repertorio di horror, poliziesco, erotico e ibridi vari, ha scatenato un seguito imponente, di stampo cinefilo. Ora come allora, si ricorre alle interviste documentate nei confronti di regi e a revisioni analitiche del giudizio critico. Collane di VHS e DVD, festival specializzati, riviste di settore, siti web e altri luoghi di alta visiblità. Per il resto, i film degli anni 90 hanno interiorizzato lo sguardo cinefilo fino a sostituirsi a chi di solito lo rappresentava ovvero gli spettatori. 7. Nuova cinefilia Ai giorni nostri, quando si sarebbe pensato che la cinefilia potesse venire travolta dai new media e dalla disgregazione del consumo di cinema in sala, si assiste al processo opposto. I social network, i blog e i forum sono diventati negli ultimi anni indispensabili strumenti per la trasmissione della memoria cinematografica e per la condivisione delle proprie idee; si tratta del corrispettivo del cineclub d’un tempo. Sono nate numerose testate online, piattaforme streaming per la visione legale di film rari e poco distribuiti, si è creato persino un movimento – New Cinephilia – che teorizza un importante cambio di paradigma: la nuova cinefilia rinuncia a difendere a tutti i costi la sala cinematografica, pratica il peer-to-peer allo scopo di scambiarsi lungometraggi e filmografie, vede film su qualsiasi tipo di supporto e soprattutto si connette con altri appassionati La cultura cinematografica ha dimostrato una vitalità forse imprevista e ha fatto sì che le nuove generazioni si siano rese protagoniste di una riappropriazione forse ancora acerba ma vitale.
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