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Il Cinquecento italiano, Appunti di Letteratura Italiana

Riassunto discorsivo e completo delle principali espressioni culturali e letterarie del Rinascimento italiano

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 18/10/2022

gi.gi00
gi.gi00 🇮🇹

4.8

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Scarica Il Cinquecento italiano e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! La civiltà umanistico-rinascimentale (1492-1600) Il Rinascimento si può definire come la seconda fase della civiltà umanistico-rinascimentale che inizia all’incirca 1492, con la morte di Lorenzo de’ Medici. A sua volta, la fase rinascimentale può essere suddivisa in due periodi, segnati da eventi storici decisi: la prima fase è quella del Rinascimento maturo, la seconda è quella del Manierismo. Il cosiddetto Rinascimento maturo si svolge tra il 1492 e il 1545, data che segna l’apertura del Concilio di Trento, e porta a conclusione il processo culturale già avviato nel Quattrocento con l’Umanesimo. La svolta storico-culturale segnata dal Concilio di Trento determina l’aprirsi della seconda fase di questo periodo, il Manierismo, che si afferma come tendenza soprattutto dopo la conclusione del concilio; il periodo manierista rappresenta la crisi della civiltà umanistico-rinascimentale e delle sue istanze classicistiche, fungendo così da preludio all’esperienza barocca del Seicento. Il 1492 è un anno decisivo dal punto di vista storico e culturale per tutta l’Europa: infatti da un lato in Italia morte di Lorenzo de’ Medici segna la crisi politico-culturale di Firenze e rivela la generale debolezza degli stati italiani; dall’altro la scoperta dell’America produce importanti rivolgimenti sul piano geo-politico perché le grandi monarchie atlantiche si rafforzano e il centro del mondo cessa di essere il Mediterraneo e si sposta sull’Atlantico. Prima fase del Rinascimento italiano: Rinascimento maturo (1492-1545) Durante questa prima fase, del cosiddetto Rinascimento maturo, l’Italia prosegue nel suo ruolo di maestra di civiltà e di cultura per l’Europa, ma si accompagna adesso lo svelamento della sua fragilità socio-politica. Con la morte di Lorenzo de’ Medici termina la politica di equilibrio che era stata perseguita attraverso la pace di Lodi, e la conseguenza più vistosa è la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII che, favorito dal pontefice Alessandro VI, estende il proprio potere in tutta la penisola. Seguono poi due momenti storici fondamentali: il sacco di Roma nel 1527 da parte delle truppe di Carlo V, e l’incoronazione dello stesso nel 1530; questi episodi registrano la sconfitta del Papato e sanciscono il dominio spagnolo in Italia. Benché il potere spagnolo si sia affermato in tutta la penisola, restano comunque indipendenti la Repubblica di Venezia, lo Stato della Chiesa, i Ducati di Mantova, Ferrara, Lucca e Savoia. Fra questi stati, però, solo Venezia riesce ad esercitare ancora a pieno la sua potenza economico-militare grazie alla prosecuzione dell’attività mercantile e alla sua posizione strategica che costituiva un'importante barriera tra l’Europa occidentale e l’oriente turco. Dal punto di vista culturale Firenze perde il proprio ruolo egemone, che passa a Roma e si sviluppa soprattutto grazie a papi-principi come Alessandro VI Borgia, Clemente VII e Leone X. Questi papi-principi, infatti, mondanizzano la Chiesa e la coinvolgono in speculazioni religioso-finanziarie per finanziare il mecenatismo e il lusso pontificio. Nel Rinascimento maturo permangono ancora i temi della stagione umanistica, quali la concezione di vivere un momento storico separato da quelli precedenti, il valore della fama e della gloria, il motivo della fortuna. Tuttavia gli avvenimenti storici del periodo determinano anche lo sviluppo di nuovi motivi, in particolare: il sacco di Roma modifica l’immaginario degli intellettuali perché pone in crisi la loro fiducia umanistica di poter svolgere un ruolo civilizzatore decisivo e apre così un periodo di declino e ripiegamento pessimistico; le trasformazioni in campo militare, in relazione alle nuove politiche colonizzatrici, ridimensionano il ruolo della nobiltà feudale perché i nobili cessano di essere i depositari delle virtù guerresche e si caratterizzano come ufficiali posti al servizio della monarchia e la cavalleria viene sostituita dall’uso delle armi da fuoco, di conseguenza si sviluppa in questa classe il disprezzo per le armi da fuoco e il vagheggiamento dell'antica civiltà cavalleresca e dell’ideale guerriero quattrocentesco; le nuove scoperte geografiche portano l’uomo occidentale a doversi confrontare con il “diverso”, e si sviluppa la nozione del selvaggio che l’uomo bianco, portatore della civiltà e della vera fede, deve addomesticare. Nel suo rifiuto del Medioevo, considerato come un’età di pregiudizi e di superstizioni, il Rinascimento riafferma il predominio della visione antropocentrica rispetto a quella antropocentrica, collocando al centro la persona umana in grado di controllare le forze della natura ed artefice del proprio destino. Questa concezione viene portata alle sue più mature conseguenze dallo storico svizzero Burckhardt, nel cui saggio emerge la nozione di rinascimento come quella stagione di fioritura intellettuale, artistica e letteraria che animò la vita delle corti italiane nei primi decenni del secolo. Il Rinascimento porta quindi a compimento l’atteggiamento classicistico già avviato dall’Umanesimo, ribadendo l’idea della necessità di imitazione dei classici e trasferendolo a pieno titolo nella letteratura in volgare, che assume una poetica precisa. Nella primi decenni del Cinquecento, la corte continua ad essere il centro della vita culturale perché considerata luogo entro il quale si elaborano i contenuti e i valori della letteratura e dell’arte; essa presenta, dunque, ancora un ruolo dominante nell'elaborazione dell’ideologia ufficiale perché delinea un sistema di valori omogeneo e comune. Ma già a partire dagli anni Trenta e Quaranta, in concomitanza con la discesa di Carlo VIII in Italia, la loro egemonia culturale entra in crisi e di conseguenza entra in crisi anche il ruolo dell’intellettuale: infatti, se nel Quattrocento gli intellettuali avevano la possibilità di esercitare una gamma di compiti rispetto ai quali prevaleva sempre la loro funzione letteraria e umanistica, adesso gli vengono sempre più richieste prestazioni burocratiche che lo trasformano in un funzionario. Bembo Pietro Bembo nasce a Venezia nel 1470 da una nobile e influente famiglia. Durante la sua formazione culturale venne a contatto con gli ambienti più vivaci del tempo. Fu ordinato cardinale da papa Paolo III e morì a Roma nel 1547. Prose della volgar lingua Prose della volgar lingua è un trattato in volgare composto da Bembo tra il 1512 e il 1524, e pubblicato l’anno successivo. Con quest’opera Bembo prende posizione all’interno del dibattito circa la questione della lingua. In esso si confrontavano tre posizioni: quella mista di una lingua cortigiana che parta dalla realtà dell’uso della lingua nelle corti, proposta da Castiglione nel Cortegiano; quella fondata sull’esemplarità del fiorentino contemporaneo, proposta da Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua; quella basata sulla differenza tra lingua scritta e lingua parlato e sulla istituzionalizzazione del modello petrarchesco per la lirica e del modello boccacciano per la prosa, proposta da Bembo in questa sua opera. Obiettivo del trattato è porre un fondamento sia linguistico sia di civiltà perché esalta la scrittura e, attraverso essa, il ruolo superiore degli intellettuali. Con la scrittura, infatti, gli intellettuali possono sottrarsi ai condizionamenti del tempo e raggiungere l’eternità che spetta agli autori di grandi opere letterarie; per questo motivo è necessario che essi si basino su regole fisse, fondate sul modello petrarchesco per la poesia e sul modello boccacciano per la prosa. Ciò, ovviamente, presuppone una concezione elitaria della cultura e della letteratura, considerate come realtà separate. Il trattato è un resoconto in tre libro di una conversazione che sarebbe avvenuta alcuni anni prima tra Giuliano de’ Medici figlio di Lorenzo il Magnifico, Carlo Bembo fratello di Pietro, il cardinale Fregoso e l’umanista Strozzi. Ogni personaggio sostiene una precisa posizione sulla questione della lingua, in relazione al loro reale vissuto: Carlo Bembo sostiene le tesi di Pietro; Giuliano de’ Medici si batte per il primato del fiorentino contemporaneo; Fregoso affronta la questione storica della tradizione del volgare; Strozzi difende l’uso del latino. Nel primo libro si affronta prima il problema della scelta tra volgare e latino, propendendo per l’uso del volgare, e poi si discute su quale sia il volgare da utilizzare. Nel secondo libro si considerano le qualità che fanno bella la scrittura, prendendo a modello Petrarca. Nel terzo libro è presente una descrizione morfologica del toscano del Trecento. Così come nell’opera si afferma la posizione si afferma la posizione di Carlo Bembo, specchio di Pietro, allo stesso modo nella realtà si afferma la teorizzazione di Bembo. In particolare il bembismo si impone perché celebrava il primato della scrittura su qualunque attività pratica, elevando la missione civilizzatrice e separata dell’intellettuale, e perché forniva un’apparente unità linguistica seppur circoscritta all’ambito letterario. Castiglione Baldesar Castiglione nasce presso Mantova nel 1478, in una nobile famiglia feudale. Compie gli studi a Milano, dove riceve una raffinata preparazione umanistica, e inizia la pratica delle corti al servizio di Francesco Gonzaga, per poi passare a quello dei Montefeltro. Il periodo a Urbino è il più felice di Castiglione, in quanto gli si presenta una comunità ideale molto vicina al modello di vita cortigiana che ha in mente. Rimasto vedovo, va a Roma e intraprende la carriera ecclesiastica. Muore a Toledo nel 1529. Il Cortegiano Il Cortegiano è un trattato in volgare che delinea la figura del perfetto cortigiano. La prima redazione si compie nel 1516, quando Castiglione si trovava ad Urbino presso la famiglia dei Montefeltro; seguono poi altre due redazioni e la pubblicazione definitiva dell’opera nel 1528. Il trattato si compone di quattro libri, ed è dedicato a Michele de Silva, vescovo di Viseu in Portogallo, al quale è indirizzata la stessa lettera dedicatoria iniziale. L’intento dell’opera è definire in cosa consistano la natura e le qualità del perfetto cortegiano con una implicita esaltazione del ruolo della corte, che viene proposta come modello superiore e insuperabile del costume di vita rinascimentale. Nella sua proiezione ideale, la figura del perfetto cortigiano diviene simbolo della civiltà colta e raffinata dei piccoli Stati italiani che il presente rischiava di travolgere con l’affermarsi delle grandi potenze europee. Quest’opera si impone rispetto agli altri trattati sul comportamento perché dà espressione alla massima ambizione umanistico-rinascimentale da un lato di riunire in un modello unico la grazia e l’utilità, e dall’altro di fondare un ideale perfetto di comportamento a partire dallo studio concreto della realtà. La narrazione si articola come un dialogo fittizio che l’autore sostiene essersi svolto alla corte di Urbino nel 1506, mentre lui era in viaggio; in sua assenza alcuni cortigiani, riunitisi alla presenza della duchessa Elisabetta Gonzaga, cercano di definire il perfetto cortigiano. Nel primo libro si definisce la qualità principale del cortigiano, ovvero la grazia, che consiste nel far diventare naturale ogni artificio comportamentale cancellando ogni affettazione attraverso la sprezzatura, ovvero la disinvoltura. Nel secondo libro si indicano le altre qualità del cortigiano: deve essere un buon letterato, intendersi delle varie arti, deve essere un uomo di spirito ma sempre in modo elegante per non scadere nella licenziosità. L’ideale sarebbe quindi la padronanza di una medietà che lo tenga lontano da ogni eccesso. Nel terzo libro l’argomento si sposta sulla figura della perfetta cortigiana. Si prospetta un ideale di donna che padroneggi grazia e sprezzatura, come l’uomo, ma che sia anche bella ed elegante, che sappia ridere e scherzare ma restando sempre casta e virtuosa. Nel quarto libro si registra uno scarto rispetto agli altri tre in quanto la figura del cortigiano non è più intesa in modo autonomo, ma in relazione a quella del principe; le sue qualità, dunque, non esistono in sé e per sé ma devono essere orientate ad influenzare le scelte e le decisioni del principe. Le posizioni di Castiglione circa la naturalezza e la spontaneità del comportamento si inseriscono anche nella stessa struttura formale dell’opera, e in particolar modo investono la sua posizione circa la questione della lingua dibattuta in quel periodo. L’autore si distacca dal bembismo corrente sottraendosi alla pura imitazione del linguaggio boccacciano per la prosa. Trattatistica e storiografia La crisi italiana si riflette più che altrove a Firenze. Questa situazione, segnata da rapidi capovolgimenti politici, costituisce il punto di osservazione di due fiorentini, Machiavelli e Guicciardini, entrambi nati sotto Lorenzo de’ Medici ma vissuti nel clima turbolento che è seguito con la morte di quest’ultimo. Machiavelli e Guicciardini pongono in essere una riflessione storica che nasce proprio da questo clima politico e si alimenta anche del loro vissuto diplomatico. Il loro pensiero si sottrae a sistemi precostituiti e diventa sempre più interpretazione individuale, così la trattatistica e la storiografia si modificano radicalmente volgendosi nelle forme della moderna saggistica. Machiavelli è il primo tra i due che dà inizio a questa trasformazione, ma è Guicciardini che la accentua e la porta alle estreme conseguenze. La loro riflessione presenta la rinuncia a qualsiasi intento celebrativo e la scelta di privilegiare l’analisi dei conflitti e delle contraddizioni del reale: entrambi non scrivono per fare l’encomio di un principe o per celebrare la storia di una città, ma per verificare la tenuta di alcuni concetti teorici alla luce delle lacerazioni storiche; da qui il carattere saggistico della loro storiografia. La prosa: degradazione del trattato Uno tra i generi della prosa interessato dal fenomeno è quello del trattato. La trattatistica rinascimentale aveva selezionato ed esemplificato i diversi aspetti delle esperienze umane nella convinzione che uno stile elevato e raffinato dovesse regolare tutte le manifestazioni della vita; all’origine di ciò c’è la fiducia classicista nell’efficacia dei modelli ricavati dal mondo classico e rielaborati in nuove forme aderenti alla realtà contemporanea. L’atteggiamento anticlassicista si muove soprattutto nel filone del trattato sul comportamento, e il suo rappresentante più esemplare è Aretino. Aretino Pietro Aretino nasce ad Arezzo nel 1492. Si trasferisce poi a Roma appoggiato e appoggiandosi a Giulio de’ Medici, che poi diventerà papa con il nome di Clemente VII. Costretto ad allontanarsi da Roma a causa delle sue polemiche spregiudicate, si trasferisce a Venezia. Venezia, in quanto stato repubblicano e più vicino al raggiungimento di status di uomo anti-cortigiano da parte di Aretino, gli consente di sviluppare un’intensa attività di pubblicista. Muore lì nel 1556. Ragionamenti Ragionamenti: sei giornate è l’opera di Aretino dove meglio si esprime la sua polemica anticlassicista, che si traduce in questo caso in uno svuotamento del genere del trattato sul comportamento. L’opera è infatti un trattato in volgare frutto dell’unione di due opere di Aretino: la prima si intitola Ragionamenti della Nanna e della Antonia ed è stata composta nel 1534; la seconda si intitola Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa ed è stata composta nel 1536. Le due opere sono state unite perché presentano uguale struttura, quella del dialogo, il medesimo personaggio della Nanna, e si svolgono entrambe lungo un arco di tre giorni; di conseguenza l’opera complessiva ha assunto il titolo di Ragionamenti: sei giornate. Nella prima opera la più anziana Antonia e la più giovane Nanna discutono e commentano le tre possibili condizioni sociali della donna, la vita da scostumate, la vita da sposata, e la vita da prostituta; nella seconda opera la madre Nanna istruisce la figlia Pippa sull’arte della prostituzione, sul come difendersi dagli inganni degli uomini e di come ingannarli a loro volta, e sull’arte della ruffianeria. Lo schema dell’opera è quello del dialogo morale e pedagogico, assunto però con un’intenzione parodica poiché domina l'elemento comico e popolare con materia apertamente oscena, che introduce una concezione ideologica alternativa basata sul prevalere degli istinti e su una cruda demistificazione del costume sociale. Pertanto Aretino va in opposizione a Bembo, sostenitore del classicismo e del petrarchismo nonché autore lui stesso di tratti, e a Castiglione, uno degli autori più eminenti del trattato comportamentale con il suo Cortegiano. La Nanna si ripromette di fare della figlia una perfetta prostituta esattamente come il Castiglione voleva contribuire alla formazione del perfetto cortigiano. L’opera si erge quindi come paradossale antimodello fondato non su eleganza e grazia ma sull’impudicizia, non sulla idealizzazione della realtà ma sulla riduzione ai suoi aspetti più materialistici. La stessa scrittura dell’Aretino è lontana da quella raffinata e classicheggiante dei maggiori trattatisti, e tende invece a una immediatezza plebea, al parlato scurrile. Il dialogo è spesso teatralizzato, infatti non si basa su argomentazioni filosofiche ma sullo scambio di battute di una conversazione riportata in presa diretta. Il mondo che ne esce è basso e cinico, e l’autore esibisce una sorta di scetticismo circa la possibilità di elevazione che i valori dovrebbero portare; l’unico aspetto positivo di questo mondo è la forza della natura e l’istinto. La poesia: Petrarchismo e Antipetrarchismo Il petrarchismo è un fenomeno di imitazione della poesia petrarchesca che si sviluppa a partire dall’ultimo decennio del Quattrocento; in questa prima fase il petrarchismo convive con altre tendenze liriche, prima tra tutte quella cortigiana, ma già va ponendosi come centro ispiratore prevalente. A partire dal 1525, con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua, Bembo, inserendosi nella questione della lingua, teorizza l’imitazione e l’assunzione di Petrarca per la lirica. Alla fine degli anni Venti del secolo, dunque, si impone il petrarchismo bembistico, con il suo canone di topoi, stilemi e lessemi che doveva essere seguito in modo quasi obbligato. La ragione di una affermazione così radicata del modello di Petrarca dipende dal fatto che l’armonia e la rarefazione dell’opera ben si saldavano alla ricerca di equilibrio del classicismo rinascimentale; e inoltre fornivano un modello univoco, almeno sul piano letterario, facile da riproporre ed imitare anche perché il vocabolario petrarchesco poteva essere ridotto ad un catalogo di termini ben definiti e limitati. Sul piano tematico, i canzonieri del Cinquecento ripropongono per lo più le dinamiche fondamentali della poesia di Petrarca: da un lato una passione esclusiva e ideale che, anche se non corrisposta, ha la forza di sopravvivere alla morte; dall’altro il contrasto tra amore terreno e amore divino, vissuto come profondo ed insanabile dissidio. Anche la tipologia del personaggio poetico presenta analogie con quello petrarchesco, infatti la donna è spesso una creatura stilizzata e quasi soprannaturale che conserva attributi costanti sul piano fisico e spirituale, come la bellezza, la virtù e lo sguardo che costringe all’amore. Il petrarchismo non restò circoscritto alla pratica letteraria, ma andò a costituire un vero e proprio fenomeno sociale e culturale perché divenne punto di riferimento per chi, attraverso la sua pratica, ambiva all’affermazione sociale. La sua diffusione permise di caratterizzare maggiormente la società cortigiana come una società letteraria omogenea e unificata sia linguisticamente sia culturalmente grazie al nesso petrarchismo-platonismo. Il petrarchismo si poneva infatti come codice di comunicazione sociale raffinato ma alla portata di chiunque ambisse ad una certa elevazione, dato che il canone da seguire veniva da un’unica fonte, il Canzoniere, accessibile grazie alle numerose ristampe. All’interno di questo panorama occupa un posto significativo la presenza dei poetesse e di una produzione lirica tutta femmnile. Già nella seconda metà del secolo precedente spiccava la figura della donna di palazzo come organizzatrice della politica culturale della corte. Adesso in campo letterario la donna non è solo un termine di riferimento ideale, ma è soggetto attivo nella letteratura stessa. In questa nuova lirica femminile spiccano autrici come Gaspara Stampa, Isabella di Morra e Veronica Franco. Così come la generale tendenza al classicismo suscita un atteggiamento anticlassicista, allo stesso modo in ambito lirico si sviluppa ben presto una controtendenza al petrarchismo, che si caratterizza come un drastico rifiuto dei modelli canonizzati. Questo atteggiamento, che prende il nome di antipetrarchismo, proviene soprattutto dall’ambiente toscano. Qui era ancora forte la tradizione comico-realistica del Duecento e del Trecento, che i poeti toscani riprendono e ripropongono in chiave antipetrarchista. Il massimo esponente dell’antipetrarchismo è Francesco Berni, che si rifà la linea del Burchiello e di Pulci rovesciando le tradizionali gerarchie della poesia lirica intessendo elogi paradossali anche con allusioni oscene. La prosa narrativa: la novella Dopo la stagione di decadenza vissuta nel Quattrocento, in cui si era diffuso l’uso di scrivere novelle in modo occasionale e sotto forma di spicciolate senza un’architettura precisa, nel Cinquecento si assiste ad una ripresa del genere novellistico con l’impiego di strutture più complesse sull’esempio del Decameron di Boccaccio. La forma della novella cinquecentesca è in relazione alla posizione di Bembo circa la questione della lingua, egli infatti, nelle Prose della volgar lingua, aveva assunto Boccaccio come modello per la prosa narrativa, contribuendo a fissarne i caratteri. Le ragioni della ripresa del genere in questo secolo sono di ordine sociale e culturale. La novella, infatti, si poneva come punto di incontro tra la letteratura alta, destinata a pochi, e la letteratura di intrattenimento, rivolta invece ad un pubblico più ampio e di formazione più modesta. Per via del successo pubblico a cui tendeva, venne fortemente spinta dal campo editoriale; questa spinta produsse due conseguenze: da un lato la scrittura di novelle anche da parte di autori poco colti, e dall’altro una tendenza al realismo, spesso esasperato, per attirare maggiormente i lettori che si immedesimavano nella dimensione ormai del tutto laica e borghese in cui erano inseriti i personaggi. Nonostante le disposizioni di Bembo, che aveva prescritto per i prosatori il modello del Boccaccio della cornice e delle “novelle tragiche”, non si poteva prescindere dall’impiego anche dello stile “basso”, comico, poiché costituiva un elemento essenziale della narrazione. Per questo motivo, in questo secolo, all’interno del genere si possono distinguere due linee diverse: quella toscana che continua ad ispirarsi alla cronaca comunale, cittadina, sull’esempio di Boccaccio; quella cortigiana che invece assume caratteri più autonomi dal modello boccacciano sia nella lingua utilizzata, sia nella materia trattata, sia nelle tecniche narrative. Il filone cosiddetto cortigiano si sviluppa tra gli autori settentrionali; le novelle presentano vicende storiche o problematiche intellettuali e/o morali, e un linguaggio che risulta intessuto fortemente intaccato dalla lingua locale. Bandello Il maggior novelliere del cinquecento è Matteo Bandello, che racchiuse le sue novelle nei Quattro libri delle novelle. Bandello rifiuta di aderire alla precettistica bembiana e di conseguenza all’imitazione di Boccaccio, rifiuto che non è solo stilistico ma si inserisce in una precisa poetica: l’autore adopera una lingua cortigiana secondo le indicazioni di Castiglione, pertanto mantiene come base il fiorentino letterario ma lo arricchisce di numerose infiltrazioni lombarde; e abbandona in modo programmatico l’uso della cornice, sottolineando il carattere di godibilità della novella nella sua autonomia narrativa. Nella costruzione della sua opera, comunque, si nota ugualmente una struttura calcolata in quanto ogni novella è sempre introdotta da una lettera dedicatoria rivolta ad un importante personaggio del tempo, e qui l’autore riferisce l’occasione in cui ha sentito narrare la storia. L’espediente della dedicatoria ha una doppia funzione: da un lato uno sfondo preciso permette di fornire spessore storico e verosimiglianza alle novelle, in modo da inserirle nel quadro dei costumi della società rinascimentale e cortigiana; dall’altro lo stesso autore, narrando le vicende della propria vita cortigiana, mette in mostra la sua prestigiosa rete di relazioni sociali, indicando implicitamente nel pubblico cortigiano il destinatario delle sue novelle. Bandello scrive novelle di ogni tipo, erotiche, tragiche, comiche, orrorose, narrando episodi storici o avvenimenti di cronaca. Egli non idealizza la realtà nè la sottopone ad una misura di perfezione ed equilibrio, atteggiamenti tipici del classicismo, ma al contrario, tende ad una rappresentazione realistica dei costumi; è significativo, a tal proposito, l’inserimento dell’orroroso, perché è segno della crisi della cultura rinascimentale avvertita da Bandello: il venir meno della fiducia nell’uomo e nella armonia del mondo e della natura. La materia della Gerusalemme liberata non è dunque inedita, ma possiede le caratteristiche del verosimile individuate da Tasso nei Discorsi: scegliendo infatti di narrare della prima crociata, egli si rifà ad un fatto storicamente accertato di cui si conservava una memoria collettiva che però non è così precisa e puntuale per via della distanza nel tempo, permettendo così all’autore di intervenire con inserti fantastici. L’opera presenta fine didascalico e pedagogico perché attraverso la narrazione di una storia vera, resa più allettante dall’introduzione dell’elemento meraviglioso, il lettore cristiano deve assimilare la lezione morale di cui il testo si fa veicolo, ovvero la necessità che l’Occidente cristiano si mobiliti contro la minaccia degli infedeli. Tasso si presenta dunque come il perfetto poeta cristiano, cantore degli ideali della Controriforma e celebratore della vera religione e delle sue istituzioni, di cui solo la Chiesa è depositaria. Vi è in lui una volontà conformistica, di totale adeguazione ai codici dominanti della sua epoca: con la Gerusalemme liberata vuole fornire il perfetto poema, nel rispetto sia dei canoni religiosi della Controriforma sia di quelli letterari della Poetica di Aristotele. Al di là del progetto, però, nella struttura formale del poema si manifesta un’ambivalenza che è stata definita come bifrontismo. Il bifrontismo della Gerusalemme liberata muove primariamente dalla posizione ideologica del poeta, che si traduce nella contrapposizione molteplice-uno, e investe la struttura più profonda del poema. Lo stesso scontro tra cristiani e pagani non è uno scontro tra due religioni e due culture diverse, ma il conflitto tra due codici all’interno della stessa cultura, quella tardo-rinascimentale: i pagani sono i portatori della visione ancora laica dell’epoca (esaltazione dell’individualismo energico, della forza dell’uomo artefice del proprio destino, esclusione di ogni ottica trascendente, atteggiamento edonista); i cristiani sono portatori del nuovo codice culturale della Controriforma (rigida subordinazione di ogni fine individuale al fine religioso, imposizione di un’unica verità, repressione dell’eros in nome di una austera moralità). Dunque ciò che si contrappone alla “vera religione” non è un’altra religione, quella pagana, ma è una negazione interna ad essa stessa; e questo spiega perché nella guerra che contemporaneamente si combatte in cielo, non si scontrano le due divinità delle due religioni contrapposte, Dio e Maometto, ma i principi di bene e male all’interno del cristianesimo stesso, appunto Dio e Satana. Lo scontro sulla terra traduce quello del cielo, di conseguenza non è uno scontro tra religiosità ortodossa e religiosità eterodossa ma tra valori cristiani e valori rinascimentali laici. Inoltre gli stessi valori rinascimentali si ritrovano anche in campo cristiano, incarnati in quei cosiddetti cristiani erranti che, dimenticato il loro alto compito, perseguono fini strettamente individuali. Queste spinte dispersive sono comunque percepite come errori, e sui traviamenti agisce la forza repressiva e unificatrice rappresentata dal protagonista, Goffredo, che incarna i valori del codice cristiano. ● Dal punto di vista tematico, i temi dell’amore, della morte e della religiosità presentano una doppia ambivalenza. L’amore è presentato a volte come voluttà, svincolato da ogni legge morale, e a volte come sofferenza; in entrambi i casi, comunque, il sentimento amoroso dei crociati compromette il clima epico perché impedisce loro di svolgere le proprie mansioni. La guerra è sia esaltata come necessaria manifestazione di eroismo e di forza, sia considerata nei suoi aspetti più crudi che generano solo dolore e lutto. La religione è vista sia come verità razionalmente definita dalla teologia e dai riti consacrati, sia come attrazione per il soprannaturale magico e demoniaco. ● Dal punto di vista narrativo, la struttura del poema è omologa alla struttura ideologica perché vi è una perenne tensione tra molteplicità e uno. Per quanto riguarda l’unità di azione, il rapporto che si instaura tra uno e molteplice è ben diverso da quello che caratterizza il Furioso: nel poema ariostesco, infatti, la molteplicità di azioni è prevista a priori dall’autore, e viene ricondotta ad un superiore equilibrio armonico; invece in quello tassesco si fa strada contro i principi di unità affermati dal poeta, che cerca di negare senza però mai riuscirci del tutto. ● Dal punto di vista della focalizzazione, ci si aspetterebbe un punto di vista unico fisso sui crociati, dal momento che il poema vuole essere il trionfo della religione cristiana sul mondo pagano. Ma l’attenzione si colloca alternativamente nel campo cristiano e nel campo pagano e sono presentati dall’interno non solo gli eroi cristiani ma anche quelli pagani. Il privilegio della focalizzazione interna anche sui nemici traduce quella simpatica che il poeta nutre per gli sconfitti, a riprova che il dominio del codice controriformistico non è assoluto nel poema. ● Dal punto di vista dell’organizzazione dello spazio, nel poema si intersecano uno spazio orizzontale, teatro dello scontro tra cristiani e pagani, e uno spazio verticale, teatro dello scontro tra Dio e Satana. Gli spazi sono fortemente polarizzati in bene e male, e in essi si manifesta doppiamente l’opposizione tra uno e molteplice: il Cielo, inteso come sede di Dio, è la manifestazione dell’istanza unificatrice che si contrappone al molteplice dell’Inferno, inteso come sede di Satana; la terra appare divisa tra campo cristiano e campo pagano. Lo spazio narrativo è limitato, e non vario e labirintico come nel Furioso, perché è la proiezione dell’aspirazione del poeta all’unità di luogo aristotelica. Tuttavia è anch’esso investito dall’ambivalenza di Tasso perché all’unità spaziale, e dunque narrativa, che ha il suo centro nel campo di battaglia, si pongono forze centrifughe che spingono i soldati ad allontanarsi dal centro e dunque a determinare una devianza dall’unità del filone narrativo perché si fanno protagonisti di episodi devianti. Al principio di unità di spazio, dunque, si oppone la molteplicità dei luoghi. ● Dal punto di vista del tempo, lo sviluppo è pressoché unitario e limitato: Tasso non narra tutta la prima crociata, ma si concentra solo sulle sue battute finali. Gerusalemme Liberata, proemio (stanze 1-4) 1 Canto l'arme pietose e 'l capitano che 'l gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co 'l senno e con la mano, molto soffrí nel glorioso acquisto; e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano s'armò d'Asia e di Libia il popol misto. Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni erranti. 2 O Musa, tu che di caduchi allori non circondi la fronte in Elicona, ma su nel cielo infra i beati cori hai di stelle immortali aurea corona, tu spira al petto mio celesti ardori, tu rischiara il mio canto, e tu perdona s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte d'altri diletti, che de' tuoi, le carte. 3 Sai che là corre il mondo ove piú versi di sue dolcezze il lusinghier Parnaso, e che 'l vero, condito in molli versi, i piú schivi allettando ha persuaso. Cosí a l'egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso: succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l'inganno suo vita riceve. 4 Tu, magnanimo Alfonso, il quale ritogli al furor di fortuna e guidi in porto me peregrino errante, e fra gli scogli e fra l'onde agitato e quasi absorto, queste mie carte in lieta fronte accogli, che quasi in voto a te sacrate i' porto. Forse un dí fia che la presaga penna osi scriver di te quel ch'or n'accenna. 55 Non schivar, non parar, non ritirarsi voglion costor, né qui destrezza ha parte. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi: toglie l'ombra e 'l furor l'uso de l'arte. Odi le spade orribilmente urtarsi a mezzo il ferro, il piè d'orma non parte; sempre è il piè fermo e la man sempre 'n moto, né scende taglio in van, né punta a vòto. 56 L'onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l'onta rinova; onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s'aggiunge e cagion nova. D'or in or piú si mesce e piú ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: dansi co' pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi. 57 Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, ed altrettante da que' nodi tenaci ella si scinge, nodi di fer nemico e non d'amante. Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge con molte piaghe; e stanco ed anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira. 58 L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue su 'l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l'ultima stella il raggio langue al primo albor ch'è in oriente acceso. Vede Tancredi in maggior copia il sangue del suo nemico, e sé non tanto offeso. Ne gode e superbisce. Oh nostra folle mente ch'ogn'aura di fortuna estolle! 59 Misero, di che godi? oh quanto mesti fiano i trionfi ed infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. Cosí tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perché il suo nome a lui l'altro scoprisse: 60 "Nostra sventura è ben che qui s'impieghi tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci neghi e lode e testimon degno de l'opra, pregoti (se fra l'arme han loco i preghi) che 'l tuo nome e 'l tuo stato a me tu scopra, acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o la vittoria onore." 61 Risponde la feroce: "Indarno chiedi quel c'ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese." Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, e: "In mal punto il dicesti"; indi riprese "il tuo dir e 'l tacer di par m'alletta, barbaro discortese, a la vendetta." 62 Torna l'ira ne' cori, e li trasporta, benché debili in guerra. Oh fera pugna, u' l'arte in bando, u' già la forza è morta, ove, in vece, d'entrambi il furor pugna! Oh che sanguigna e spaziosa porta fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna, ne l'arme e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita. 63 Qual l'alto Egeo, perché Aquilone o Noto cessi, che tutto prima il volse e scosse, non s'accheta ei però, ma 'l suono e 'l moto ritien de l'onde anco agitate e grosse, tal, se ben manca in lor co 'l sangue vòto quel vigor che le braccia a i colpi mosse, serbano ancor l'impeto primo, e vanno da quel sospinti a giunger danno a danno. 64 Ma ecco omai l'ora fatale è giunta che 'l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s'immerge e 'l sangue avido beve; e la veste, che d'or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e 'l piè le manca egro e languente. 65 Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch'a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme: virtú ch'or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. 66 "Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l'alma sí; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa lave." In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza. Nel testo sono numerosi gli enjambement, che determinano una sospensione perché la pausa metrica non coincide con quella grammaticale e logica. Attraverso l’utilizzo di questa figura retorica, l’autore è come se volesse sospendere la scena, invitando il lettore a soffermarsi su quel determinato passaggio. -“io perdono, perdona … tu” con chiasmo e anastrofe con poliptoto, il pronome diventa da complemento oggetto a soggetto perché Clorinda da passiva si fa attiva, da colei che viene perdonata diventa la non cristiana che perdona il cristiano Tancredi (ottava 66) . Tasso secondo De Sanctis Il Tasso voleva fare un poema seriamente eroico, animato da spirito religioso, possibilmente storico e prossimo al vero o verisimile, di un maraviglioso naturalmente spiegabile, e di un congegno così coerente e semplice, che fosse vicino ad una logica perfezione. Questo era il suo ideale classico, che cercò di realizzare, e che spiegò ne' suoi scritti sul poema eroico e sulla poesia, ne' quali mostrò che ne sapeva più de' suoi avversari. […] Se fosse nato nel medio evo, sarebbe stato un santo. Nato fra quello scetticismo ipocrita e quella coltura contraddittoria, vive tra scrupoli e dubbi, e non sa diffinire egli medesimo se gli è un eretico o un cattolico, più crudele inquisitore di sè che il tribunale dell'Inquisizione. [...] Se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento religioso, la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo mondo, animato da quello stesso spirito che senti nella Messiade o nel Paradiso perduto. Ma il movimento era superficiale e formale, prodotto da interessi e sentimenti politici più che da sincere convinzioni. [...] Il Tasso non era un pensatore originale, nè gittò mai uno sguardo libero su' formidabili problemi della vita. Fu un dotto e un erudito, come pochi ce n'erano allora, non un pensatore. Il suo mondo religioso ha de' lineamenti fissi e già trovati, non prodotti dal suo cervello. La sua critica e la sua filosofia è cosa imparata, ben capita, ben esposta, discorsa con argomenti e forme proprie, ma non è cosa scrutata nelle sue fonti e nelle sue basi, dove logori una parte del suo cervello. Ignora Copernico, e sembra estraneo a tutto quel gran movimento d'idee che allora rinnovava la faccia di Europa, e allettava in pericolose meditazioni i più nobili intelletti d'Italia. Innanzi al suo spirito ci stanno certe colonne d'Ercole, che gli vietano andare innanzi; e quando involontariamente spinge oltre lo sguardo, rimane atterrito e si confessa al padre inquisitore, come avesse gustato del frutto proibito. La sua religione è un fatto esteriore al suo spirito, un complesso di dottrine da credere e non da esaminare, e un complesso di forme da osservare. [...] Nel suo spirito ci è una coltura letteraria e filosofica indipendente da ogni influenza religiosa, Aristotile e Platone, Omero e Virgilio, il Petrarca e l'Ariosto, e più tardi anche Dante. Nel suo carattere ci è una lealtà e alterezza di gentiluomo, che ricorda tipi cavallereschi anzi che evangelici. Nella sua vita ci è una poesia martire della realtà; vita ideale nell'amore, nella religione, nella scienza, nella condotta, riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce. Fu una delle più nobili incarnazioni dello spirito italiano, materia alta di poesia, che attende chi la sciolga dal marmo, dove Goethe l'ha incastrata, e rifaccia uomo la statua. [...] Che cosa è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione alla italiana, dommatica, storica e formale: ci è la lettera, non ci è lo spirito. I suoi cristiani credono, si confessano, pregano, fanno processioni: questa è la vernice; quale è il fondo? È un mondo cavalleresco, fantastico, romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si fa la croce. La religione è l'accessorio di questa vita, non ne è lo spirito, come in Milton o in Klopstock. La vita è nella sua base, quale si era andata formando dai Boccaccio in qua, col suo ideale tra il fantastico e l'idillico, aggiuntavi ora un'apparenza di serietà, di realtà e di religione. De Sanctis espunge Tasso dalla costruzione del canone della letteratura italiana così come tutti gli altri autori che vanno dal Trecento al Settecento, ad eccezione di Dante; il critico, infatti, ritiene che loro e le loro opere siano specchio della storia letteraria di un’Italia fittizia in quanto propongono un senso comune e una coscienza collettiva che non sussiste realmente perché, fino a quel momento, non esiste l’Italia dal punto di vista politico. Tasso è considerato un bravo poeta nella misura in cui si prefigge come obiettivo cantare la morale religiosa del tempo applicando la poetica classica. “Se fosse nato nel medio evo, sarebbe stato un santo” scrive il critico, proprio perché Tasso si presenta come il poeta perfetto tanto dal punto di vista letterario, in quanto poeta epico, tanto dal punto di vista religioso, in quanto poeta epico ma ispirato da una musa cristiana. Il suo poema, dunque, sarebbe potuto essere il modello dello scenario controriformista italiano, come lo sono stati quelli di Klopstock e di Milton per i loro rispettivi paesi. Ma De Sanctis ritiene che l’adesione di Tasso ai valori del tempo sia “superficiale e formale” perché scaturita unicamente da una volontà di passivo adeguamento etico e politico che gli avrebbe permesso di non incorrere nella condanna da parte della Chiesa. Questa poco convinta vicinanza all’ideologia del tempo lo porta a rimanere legato alla tradizione e a limitarsi a una mera riproposizione dei modelli senza aggiungere nulla di nuovo e soggettivo. Pertanto Tasso non è “un pensatore originale” ma solo un “erudito”: nel suo poema dimostra di conoscere e di saper applicare alla perfezione il canone tradizionale lasciando fuori la riflessione sulla contemporaneità, e in particolare le grandi scoperte rivoluzionarie come quelle copernicane. L’influenza della Controriforma fa sì che la stessa fine del poema sia scontata, in qualità di poema cristiano, infatti, non può che essere teleologicamente orientato alla vittoria dei buoni, cioè della cristianità e dei suoi valori, sui cattivi, cioè degli infedeli. De Sanctis, pertanto, riconosce che in Tasso ci siano delle “colonne d’Ercole” oltre cui non si spinge ma da cui è contemporaneamente attratto, e ciò si presenta nel poema stesso, determinando sostanzialmente la debolezza dei valori cristiani che propugna. Questa posizione ambivalente emerge in particolare nel modo in cui il tema religioso è trattato all’interno dell’opera. Secondo De Sanctis l’adesione religiosa non è mossa da un vero spirito di fede, ma è “un fatto esteriore al suo spirito, un complesso di dottrine da credere e non da esaminare”. Tasso si pone il problema di far prevalere nel suo poema l’omogeneità, ovvero l’armonia, ma deve fare i conti con la varietà che implica necessariamente anche il male, prevalentemente riproposto in chiave antagonista con il tema della guerra ed erotica con il tema dell'amore. L’elemento religioso nella Gerusalemme Liberata, quindi, perde quella funzione di rendere l’opera il perfetto poema della cristianità e diventa un semplice paradigma di italianità perché gli autori entrano nel canone nel momento in cui dimostrano la loro comunione con una certa idea di Italia. Di contro, quindi, l’elemento cavalleresco è presentato come negativo perché corrisponde all’edonismo rinascimentale che è condannato dalla morale controriformistica. Tuttavia Tasso parteggia segretamente per questo codice ideologico culturale, e i suoi stessi personaggi finiscono per essere degli edonisti mascherati da bravi crociati. Secondo Galileo, Tasso si potrebbe collocare nel Manierismo perché non ha inventato nulla di nuovo. Galileo non sapendo usare categorie letterarie, propone un paragone tra pittura e poesia, che si riassume nell’espressione oraziana “ut pictura poesis”: la poesia deve essere interpretata con le categorie della pittura. Egli descrive così l’opera tassiana usando la categoria vasariana di maniera, in cui rientrano gli artisti che non copiano nè creano, ma pongono insieme i pezzi; ai manieristi si contrappongono i grandi artisti, tra cui Ariosto, che rientrano nella categoria di classico.
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