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il Cinquecento, le fonti per la storia dell'arte, Dispense di Storia Dell'arte

riassunto del libro (programma nf disco)

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 12/06/2023

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Scarica il Cinquecento, le fonti per la storia dell'arte e più Dispense in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! Il Cinquecento, Le fonti per la storia dell’arte Emilie Passignat Carrocci Editore 2017 (489 pagine) Introduzione:                                                   Il volume prende in esame le principali problematiche della cultura artistica del 500 sulla base di scritti d’arte e documenti meno conosciuti, per illustrare al meglio quel momento cardine per lo sviluppo dell’editoria e del mercato dell’arte. 1. La figura dell’artista:                              - grandi musei, biblioteche ed archivi offrono ormai l’accesso alle proprie collezioni mediante strumenti telematici multimediali, rivoluzionando il rapporto tra opera e spettatore, tra libro e lettore.                                                        – inizio 500 à successo dell’invenzione di Gutenberg (stampa a caratteri mobili), che avrebbe soppiantato la tradizionale trasmissione manoscritta del sapere.                                                                                                                                        – “letteratura artistica” à trattati teorici e tecnici ma anche riflessioni estetiche e commenti critici sugli artisti e sulle loro opere + epistolari, contratti, arbitrati, inventari ed altri documenti di carattere notarile e carte d’archivio + registri e statuti di accademie, cataloghi di salons e musei.              – il volume è suddiviso in: 1. I percorsi di lettura 2. L’antologia delle fonti Gli scritti di Leon Battista Alberti (1404-1472) costituiscono un punto di partenza imprescindibile dell’evoluzione della figura dell’artista.                           Con l’idea che il pittore dovesse essere un “uomo buono et dotto in buone lettere” (de pictura), egli formulava il piano programmatico dell’ascesa sociale e del riconoscimento della professione dell’artista, delineando una nuova coscienza del fare arte.                                                                                                 La figura dell’architetto aveva già allora assunto un notevole spessore ed il pittore e lo scultore i mossero di conseguenza.                                                              Ebbero un impatto fondamentale le fonti antiche progressivamente riscoperte e ristudiate, in specie Vitruvio e Plinio il Vecchio, diffuse e volgarizzate grazie al fiorente settore dell’editoria ormai in pieno sviluppo, dalle quali gli autori cinquecentesci trassero spunti e forgiarono un nuovo modello culturale e comportamentale dell’artista. à dimostrare, rivendicare e difendere la dignità della professione artistica fu tra le questioni più ricorrenti nella trattaristica del periodo. 1.1 L’artista divino:                                                 Gli artisti godettero sempre, anche durante il Medioevo, di certi privilegi         e furono spesso collocati all’apice della struttura gerarchica dei mestieri.         La vera forza dell’artista consisteva (oltre che nei privilegi dovuti alla loro affermazione all’interno delle corti più importanti e dai più importanti committenti) nella VOCAZIONE MIMETICA delle loro opere d’arte, nella propensione a rimettere in questione il confine tra finzione e realtà riuscendo così a suscitare nello spettatore un misto di meraviglia e di fascino. à Leon Battista Alberti riconosce la forza divina insita nella pittura (“tiene in se la pittura forza divina, fa i morti dopo molti secoli ere quasi vivi”), dopo un secolo Paolo Pino (scrittore e pittore italiano morto tra il 1534 ed il 1562) definisce la pittura come un’invenzione divina.                             Nel corso del Rinascimento (fine 400-metà 500) il concetto di miracolo legato all’opera d’arte (una prerogativa del culto delle icone) subì una sorta di traslazione, non più soltanto associato al suo contenuto figurativo potenzialmente miracoloso, bensì al suo creatore à opera = miracolo; autore = autore di un miracolo.                                                                                              Il tema dell’icona miracolosa tende ad evolvere in topos letterario durante il 500, come attesta il noto aneddoto vasariano: mentre i lanzachinecchi stanno saccheggiando Roma nel 1527, il giovane Parmigianino ha salva la vita poiché al lavoro sulla “visione di san girolamo” (pala d’altare).                        1°aneddoto: “Il Miracolo Parmigianino” (G.Vasari, Le Vite dé più eccellenti pittori, scultori ed architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, Firenze 1568): i soldati restarono stupefatti e lo lasciarono seguitare a patto che pagasse con molti disegni. Allusione all’intercessione protettiva della Vergine dipinta. A lasciare gli intrusi interdetti è la bellezza intrinseca del fare arte e dell’opera stessa. L’artista dunque è aiutato, protetto e schermato dal proprio talento.                                                                                                                             Per questo aneddoto Vasari attinge al racconto pliniano sull’assedio di Rodi (“so che fai la guerra a Rodi, non alle arti”): allo stesso modo, l’episodio romano si carica per Vasari di un chiaro messaggio di superiorità dell’arte nei confronti della guerra e della libertà dell’artista di fronte al potere,       una visione cara al biografo e ad i suoi contemporanei. 2°aneddoto: ” Le piacevoli pazzie di Pippo” (G.Vasari, Le Vite, 1568): durante l’elaborazione del “Bacco” di Jacopo Sansovino, il garzone, che faceva da modello, “abbandona la condizione umana fino a perdere il senno”, come se Il concetto di nobiltà giustificava di per se una dimostrabile continuità storica, una dote costante che si poneva al di sopra delle oscillazioni di ogni singola vita umana o di ogni singolo episodio sfortunato.                                           Rintracciare le origini più remote e più illustri costituiva pertanto il principale stratagemma di leggitimizzazione, valido per rivendicare sia la nobiltà di un artista sia la nobiltà dell’arte. 25°aneddoto: “servire i papi, non i comuni cittadini” (Michelangelo, lettera al nipote, 1548): Michelangelo conferma l’alta coscienza di se e la ferma rivoluzione a distinguersi, anche nel modo di fare arte, da chi “ne fa bottega”. Si percepisce la volontà di scegliere liberamente i committenti (prestigiosi). Quando Michelangelo usa la parola “artista”, nel 178°aneddoto: “non ha l’ottimo artista alcun concetto”(sonetto,1547), si rifà all’auctoritas dantesca per infondere alla parola una dimensione nuova, nobile ed intellettualizzata, nel senso di scultore-poeta, che non avrebbe assunto invece con il vocabolo “artefice”, di uso comune all’epoca. 26°aneddoto: “sull’uso del termine artista” (Benedetto Varchi, lezione sul sonetto di Michelangelo) Per molto tempo continuò ancora a prevalere l’uso del termine “ARTEFICE”, mentre “ARTISTA” si andò affermando soltanto alla fine del 700, in parallelo alla nascita della nozione di belle arti, ma la figura dell’artista per Michelangelo era ormai da ritenersi pari a quella del poeta, convinto di professare a tutti gli effetti un’arte liberale.                                                               Michelangelo per primo si fece difensore dello statuto sociale dell’artista. ° 1.3 Professione e formazione: Mentre stava prendendo avvio una profonda mutazione dell’immagine dell’artista, nel corso del 500 si assistette anche ad una progressiva rivoluzione concettuale tra artista e bottega.                                                                   Sulla scia dei dibattiti in merito alla nobiltà ll’arte si fece sempre più ricorrente la nozione di libertà. Per Romano Alberti l’arte era da considerarsi liberale perché rva l’uomo libero, “libero cioè di poter liberamente proferir quel che vuole”. Nobiltà, intelletto e libertà si opponevano sempre di più a bottega, fatica del corpo e servitù, almeno in teoria.                                                                                       L’opera scritta di Benvenuto Cellini contiene una delle testimonianze più significative di quella aspirazione verso una nuova condizione sociale                 à 27°aneddoto: “l’insubordinato artista” (Benvenuto Cellini, Vita, 1558- 1567 ca): l’artista racconta del litigio avvenuto con il maestro orafo detto “Firenzuola” dopo aver completato la sua prima opera in bottega. Tutto ruota attorno alla personale e peculiare iniziativa di cambiare maestro in gioventù. Da una parte si coglie la tipica organizzazione della bottega alla quale l’orefice è sottomesso, in specie per la questione legata al guadagno. Dall’altra, in totale contrasto, si presenta l’artista voglioso di studiare le antichità per conto proprio, dichiarandosi “nato libero”, “lavorante libero”, non appartenente a nessuno.                                                                                                 Ciò illustra una situazione di transizione sociale in cui l’artefice tende a svincolarsi dalla struttura corporativa della professione.                                             Cellini à parole atte a mettere in evidenza la propria autonomia. 28°aneddoto: “i prediletti del papa” (Paolo III Farnese, Motu proprio del 3 marzo 1539)à il papa esonera alcuni scultori (Michelangelo, Pierantonio Sangallo, Cecchino Cecchini) dalla carica del consolato dei marmorari e dall’arte degli scalpellini.                                                                                                           Motu proprio a difesa degli scultori, “i diletti figli nostri”, dichiarati appunto “liberi, immuni ed esenti” dalle corporazioni.                                                                   Un documento di fondamentale importanza che attesta dell’indubbia attenzione del pontefice in merito alla questione. Di li a poco sarebbe stata fondata a Firenze l’Accademia del Disegno,                   la prima accademia di artisti che avrebbe modificato sensibilmente i rapporti con le vecchie gilde.                                                                                                       Fortemente connesso alla figura dell’artista, uno dei fenomeni più notevoli di tutto il 500 fu pertanto la nascita delle accademie d’arte.                                   A quanto pare, la prima volta che il nome di un artista venne associato al termine “accademia” fu nella Milano di Ludovico Sforza con l’iscrizione “Accademia Leonardo Vinci”. 29°aneddoto: “un’accademia milanese” (Enrico Boscano, Isola Beata, 1513 ca): testimonianza dell’esistenza di un’accademia milanese, nell’accezione umanistica del termine; si ricoda come la casa di Boscano fosse diventata il luogo di incontri tra i maggiori studiosi, poeti, artisti e musicisti presenti in città, tra i quali Leonardo, Bramante e Caradosso.                                                         Gli indizi lasciano pensare che Leonardo fosse il personaggio di maggior spicco, tanto da dare il nome a quella cerchia accademica animata da dibattiti e conversazioni erudite sul tema della rti, delle lettere, della musica e delle scienze. I membri delle accademie erano soliti riunirsi in incontri informali.                       Per la prima volta il termine “academia” presente nell’iscrizione è chiaramente associato all’attività del disegno e tra i suoi membri si contano giovani apprendisti. Si è soliti considerare quale precursore delle accademie d’arte il giardino di sculture di San Marco, avviluppato nella leggenda e intrrinsecamente legato alla giovinezza di Michelangelo                                                                                              30°aneddoto: “il giardino di San Marco” (G.Vasari, Le Vite, 1568): nella Vita di Michelangelo, Vasari racconta la scuola voluta da Lorenzo il Magnifico, nella quale il giovane Michelangelo avrebbe svolto parte della sua formazione artistica. Lorenzo il magnifico desiderava creare una scuola di pittori e di scultori eccellenti sotto la guida del Bertoldo (scultore, discepolo di Donato), così chiese a Domenico Ghirlandai se in bottega avesse giovani da inviarli al giardino. Esso (il giardino) contribuisce ad esaltare l’unicità del percorso formativo dell’artista fiorentino, con il distacco dalla bottega del Ghirlandaio, sottolineando il generoso e longevo mecenatismo della famiglia Medici. La scuola di San Marco diventò infatti un elemento di notevole rilievo per i fondatori dell’Accademia del Disegno, in vista di dimostrare una certa continuità tra il clima culturale fiorentino al tempo del Magnifico (1449.1492) e quello del duca Cosimo I (de Medici, 1519-1574). Nel 1563 nacque a Firenze la prima accademia d’arte, quale membro fondatore, Vasari porta dettagliamente le circostanze nelle Vite.                            31°aneddoto: “la nascita dell’accademia del disegno” (G.Vasari, Le Vite, 1568). L’iniziativa si concretizzò per volontà del frate e scultore Giovanni Angelo Montorsoli, con la concessione di una cappella del convento della Santissima Annunziata trasformata per accogliere la propria sepoltura e quella di artisti privi di mezzi (tra cui le spoglie del Pontormo).                               L’idea di una riforma dell’antica Compagnia di San Luca mirava anzitutto a ragruppare gli “uomini del Disegno”(architetti, scultori, pittori) sotto una stessa bandiera comune, il principio del disegno. Ogni artista presente in città poteva quindi aderirvi e partecipare alle riunioni.                                               Inoltre, alcuni membri erano chiamati a formare un’accademia, costituendo un gruppo di artisti di incontestanile e riconosciuta eccellenza, selezionati tramite una votazione à 32°aneddoto: “Gli atti fondatori” (accademia del disegno, capitoli e ordini dell’accademia et compagnia dell’arte del disegno, firenze gennaio 1563): L’atto di nascita ufficiale dell’accademia del disegno di firenze fu sancito dall’approvazione di Cosimo I.                                                   L’accademia del disegno, secondo gli statuti del 1563, era dunque nata come una ristretta cerchia, un’eilte di artisti sotto la diretta protezione                           del duca, una sorta di comitato di consulenza artistica, posta in posizione gerarchicamente superiore all’interno della Compagnia.                                           Con il pretesto di fornire una solida formazione per i giovani nonché di favorire una sana competizione tra i più esperti, l’Accademia permetteva in realtà, per chi “mosso da onorata e lodevole concorrenza”, di distinguersi,       di acquisire in un certo senso un “titolo di nobiltà culturale”.                                   “Cicalerie” e risse di vario tipo erano spesso all’ordine del giorno e sorgevono primo luogo dalla problematica coabitazione tra le diverse specializzazioni, soprattutto tra pittori e scultori.                                                           E’assai nota la disputa sul primato delle arti che avvenne l’anno successivo durante le preparazioni delle esequie di Michelangelo                                               146° e 147° aneddoto: ”sulle lettere degli artisiti a varchi” (Vincenzo Borghini, lettera a Giorgio Vasari, Poppiano, agosto 1564) e “sulle vedute delle statue”(vincenzo borghini, selva di notizie, firenze 1564). Dai carteggi tra il duca di firenze, i suoi segretari e Vincenzo Borghini                  (il luogotenente), si evince che le elezioni dei nuovi membri erano soggette a contestazioni e che il luogotenente non sempre era in grado di placare le discussionià 33°aneddoto : ”una petizione diretta al duca” (Vincenzo Borghini, lettera al duca di firenze, firenze 28 marzo 1563).                                      Borghini chiese dopo appena un anno di essere sostituito, del resto era lo stesso duca a ricordare quanto il ruolo richiedesse un notevole dispendio di energie per regolare i “capricci”à 34°aneddoto: ”l’arduo compito di luogotenente”(Bartolomeo Concino segretario di Cosimo I, lettera al duca di firenze, febbraio 1565): il segreatrio informa il duca delle elezioni del nuovo luogotenente dell’accademia del disegno. L’Accademia del Disegno non era paragonabile ad altre ma un’istituzione innovativa, definita non a caso un’ ”accademia del fare”                                           à 35°aneddoto: “l’accademia del fare” (V.Borghini, appunti per un discorso agli accademici del disegno, firenze 1564): Il luogotenente invitava gli artisti a non avventurarsi in un campo a loro non consono, quello cioè delle conversazioni e delle dispute caratteristiche delle accademie umanistiche, insomma a non prendersi per dei veri accademici e a concentrarsi invece sulla realizzazione delle opere (“accademia del fare non del ragionare”).          L’importanza del fare era un’idea basilare diffusa nella cerchia degli eruditi coinvolti in un tale progetto, di stampo aristotelico e al concetto di “arti fattive” di Benedetto Varchi.                                                                                                    Duca à”far con l’opere non con le parole”.                                                                      In un passo della Vita di Cellini riemergono queste stesse riflessioni, insieme al problema della distinzione delle competenze tra erudito ed artista à259°aneddoto: “voi avete detto e io farò” (Benvenuto Cellini, Vita, 1558- 67): l’episodio risale al soggiorno romano, genesi dell’invenzione della saliera per la corte del re di francia Francesco I. Con il distacco dell’architettura, la scultura e la pittura dalle gilde (1571) dove erano tradizionalmente affiancate da discipline connesse, l’Accademia certo promosse le 3 arti del disegno, ma contribuì notevolmente a formare una nuova gerarchia del sistema delle arti: molte attività, in particolare l’oreficeria prima tenuta di gran conto e praticata dai più insigni scultori del Rinascimento, vennero lasciate in secondo piano per poi essere designate sotto la formula discriminatoria e riduttiva di “arti minori” (e di contro “arti maggiori”.                                                                                                                                      Il caso genovese della lite scoppiata tra pittori e doratori nel 1590 fornisce una delle testimonianze, quella di Giovanni Battista Paggi, che meglio illustra la gerarchizzazione delle arti e la diffusione del modello fiorentino à 36°aneddoto: “pittori vs doratori” (Giovanni Battista Paggi, lettere al fratello Girolamo, Firenze 1591): nel 1590 a genova insorsero controversie sui nuovi capitoli proposti dai consoli dei pittori al senato del governo comunale, che intendevano accomunare pittori e doratori.                                              Tra gli oppositori vi fu in particolare Girolamo Paggi, il quale scrisse al fratello Giovanni Battista, residente a firenze e membro dell’accademia del disegno, per chiedere consiglio. Con “un’accademia del fare” prendeva forma una nuova concezione di accademia, non più fondata sul dibattito dunque, ma legata alla politica culturale di Cosimo I, formano una generazione di artisti in grado di far prosperare le arti nella Firenze medicea.                                                                            Per raggiungere elevati gradi di eccellenza e longevità dell’istituzione, diventava fondamentale la trasmissione dei saperi tramite un nuovo tipo       di insegnamento.                                                                                                                   Come sottolinea bene il Paggi, quello tradizionale dispensato in bottega sotto la guida di un solo maestro non poteva dar esito a buoni risultati.     Altro potenziale vantaggio dell’istituzione pilota fiorentina era quello di accorciare i tempi di apprendimento per ottenere in poco tempo dei giovani talenti. Tale scopo era parte integrante del progetto formativo iniziale,              ma non trovò a quanto pare immediata e completa applicazione                          à 37°aneddoto: “a buon’ora acquistar onore e fama” (Bartolomeo Ammannati, lettera agli accademici del disegno, firenze agosto 1582): l’autore si lamenta di una lacuna educativa, della mancanza di insegnamenti impartiti dall’accademia del disegno (“non basta il vedere le ben fatte e belle figure, ma conviene anche saper bene l’arte e perché elle così son fatte”). Pochi anni prima Federio Zuccari (membro dell’accademia) aveva del resto proposto un programma di studio innovativo e ben curato, lasciato senza seguito à 38°aneddoto: ”un programma di studio per l’accademia”(Federico Zuccari, lettera al luogotenente e ai consoli dell’università, compagnia ed accademia del disegno, firenze 1578-79 ca): es le proporzioni, preparare i colori, creare modelli, ritrarre dal vero per cogliere meglio luci ed ombre ecc. Federico Zuccari si spostò poi a Roma, sotto il protettorato di Romano Alberti, che seppe esaltare l’operato di Zuccari, cercando di introdurre una dimensione più intellettualizzante in un ambiente però non particolarmente accogliente verso tali ambizioni à 156°aneddoto: “un concetto così nuovo e molto difficile” (Romano Alberti, Origine et progresso dell’Accademia del Disegno de’pittori, scultori et architetti di Roma, Pavia 1604):                                  Zuccari = principe (la massima carica dell’accademia), Alberti = il segretario Dando alla stampa il suo volume sull’Origine et progresso dell’Accademia del Disegno de’pittori, scultori et architetti di Roma del 1604, egli contribuì non poco a creare una certa leggenda sull’origine dell’Accademia.                                 pubblicamente nelle esequie di Michelangelo Buonarroti in Firenze nella Chiesa di San Lorenzo, Firenze 1564): l’autore difende Michelangelo dalle critiche e dalle accuse dei contemporanei. Il grande Petrarca stesso diceva “cercato ho sempre solitarita vita”, perché non giudicavano l’asocialità di    Petrarca ma quella di Michelangelo si?.                                                                             Per i commienti il “terribile” artista era da tempo considerato poco affdabile ed intrattabile à 51°aneddoto; “artisti capricciosi” (Balia di Firenza, lettera agli ambasciatori fiorentini in Francia, Firenze 1503)                                                   e 52°aneddoto: “la fuga di Michelangelo” (breve di Giulio II ai Priori della libertà ed al gonfaloniere di giustizia del popolo fiorentino, Roma 1506): questo testo è testimonianza dei tentativi attuati dalle corte pontificia per convincere il maestro a far ritorno a Roma, da dove era fuggito dopo uno scontro con il papa a proposito della commissione del suo mausoleo. Un’altra famosa vittima della malinconia fu Federico Barocci, la cui lentezza fece disperare i suoi protettorri à 53°aneddoto: “la disperata lentezza di Barocci”(Francesco Maria II della Rovere, lettera a Bernardo Maschi ambasciatore del duca di pesaro a madrid, 1590).                                                         Lentezza naturale incredibile e indisposizione che lo rendono inoperabile la maggior parte del tempo. La questione dei tempi di produzione era centrale, come attestano le preoccupazioni di Annibal Caro, che chiede a Vasari di dimostrare quanto fosse possibile far presto e bene a patto di agire sotto l’effetto del furore; una posizione di non trascurabile importanza nell’evoluzione delle nozioni di idea, di disegno e di schizzoà 54°aneddoto: “più ispiditivo (veloce) che eccellente?” (Annibal Caro, lettera a giorgio vasari in firenze, roma 1548):       in questa lettera annibal caro commissiona un dipinto a vasari lasciando carta bianca ma in realtà dando chiare indicazioni sul da farsi.                               Vasari era noto per essere appunto più veloce che eccellente nella pittura, Annibal Caro sostiene che si possa fare anche presto e bene dove corre il furore, come nella pittura; a volte il metterci più tempo non è sinonimo di eccellenza perché con il progredire del tempo tende a sparire/diminuire l’ispirazione/furore iniziale e quindi l’opera conclusa non sarà eccellente. Fatela quando e come ben vi torna che già ha dato prova della sua prontezza ad operare. Dunque la malinconia, pur essendo anch’essa intrensicamente legata al furor poetico, divenne pressocchè sinonimo di irrisolutezza, soprattutto per i teorici come Vasari. La galleria di ritratti letterari che forniscono le Vite vasariane hanno il compito di elaborare meticolosamente una certa norma comportamentalemin reazione all’ondata d’umor malinconico ancora in costante espansione.                                                                                                 Significativi l’esempio dell’amico Francesco Salviati che insieme ad altri fiorentini avrebbe esportato tale atteggiamento in Francia.                                  à 55°aneddoto: “non abbastanza cortigiano, troppo malinconico” (Giorgio Vasari, Le Vite, Firenze 1568): il biografo traccia un resoconto del soggiorno, guastato da un comportamento non adeguato e poco accorto; “Francesco non fu mai molto amato, per esser di natura tutta contraria a quella degli uomini di quel paese (allegri, gioviali ecc), egli era di natura malinconico, sobrio, malsano e stitico.” Non a caso, il modello michelangiolesco venne ridimensionato nella seconda edizione per incoraggiare l’adozione dell’altro modello di artista ideale che si tentava di forgiare, quello dell’artista accademico; proprio ora che era nata l’Accademia del Disegno, grande orgoglio dell’autore.                                        Stranezze e bizzarrie, imprevedibilità ed esuberanze, vengono ora registrate sotto forma di ritratti grotteschi e caricaturali eretti a contromodelli. E’ il caso dell’eccentrico Sodoma, condannabile si per la sua dissolutezza, sia per il suo vivere in una dimora colma di animali, sia per le sue scelte vestimentarie à 56°aneddoto : “un pittore buffone” (G.Vasari, le vite, 1568): il biografo sottolinea l’inadeguatezza delle scelte vestimentarie sfoggiate dal pittore (abiti pomposi in brocato, fregi di tela d’oro, cuffioni ricchissimi, collane ecc)                                                                                                                                Così come la descrizione di Amico Aspertinià 57°aneddoto : “il diavolo di san macario”(G.Vasari, le vite, 1568): “amico bolognese, uomo capriccioso e di bizzarro cervello”, dipingeva a due mani, intorno alla vita boccette e ampolle piene di colori, con gli occhiali sul naso e molto spesso parlava da solo dicendo cose assurde.                                                                                                       In entrambi i casi ritroviamo la derisione pubblica che agli occhi di un Vasari strenuo difensore della nobiltà dell’arte, al di la della funzione comica propria dell’aneddoto, doveva essere la peggior disgrazia che potesse colpire un artista. Quel modello di artista, nell’ombra della follia, suscitava troppi problemi comportamentali incoraggiando un’ideale di artista oltremodo indipendente. Per molti autori dopo il Concilio di Trento, in particolare per gli accademici, Raffaello apparve dunque come la figura ideale, quasi come il Messia, contrapponendosi proprio a quei casi malinconici e stravaganti che si erano messi in luce negli ultimi decenni del 400, diventando in tal modo il primo rappresentante dell’altro idelae d’artista, ossia un gentiluomo virtuoso, socievole e dinamico                                                                                                                 à 58°aneddoto : “un Dio mortale con ottimi costumi ”(G.Vasari, le vite, 1568): tutte le più rare virtù d’animo, grazia, studio, bellezza, modestia, ottimi costumi.                                                                                                                           Alla fine del 500, diversamente da Alberti che ne tentava una ribilitazione cristiana, Giovan Battista Armenini condannava l’umor malinconico                     à 59°aneddoto : “la moda della malinconica bizzarria” (G.B.Armenini, De’veri precetti della pittura, Ravenna 1587): “par come naturale che non possa esser pittor molto eccellente che non sia macchiato di qualche brutto e nefando vizio, umor capriccioso, bizzarrie di cervello”.                                             Armenini ne deplorò quindi gli eccessi e ne denunciò la mancanza di profitto a livello creativo, mettendo così in evidenza una situazione che sfociò in svariati e durevoli dibattiti. Il concilio di Trento o concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, convocato per reagire alla diffusione della riforma protestante in Europa. L'opera svolta dalla Chiesa per porre argine al dilagare della diffusione della dottrina di Martin Lutero produsse la controriforma.[1] Il concilio di Trento si svolse in tre momenti separati dal 1545 al 1563  1.5 L’artista ed il lavoro: Al di la della divinitas, dei miti e dei modelli da seguire, l’artista cinquecentesco non potè svincolarsi dalla realtà quotidiana del suo lavoro, non libero quanto auspicato, sempre alle prese con delle questioni di ordine pratico e d impegnato nel giostrare i delicati rapporti con i committenti. In merito alla ricerca degli incarichi di lavoro, vi sono numerose testimonianze che permettono di approfondire la rete di relazioni tra artisti. Resta famosa la richiesta d’aiuto di Sebastiano del Piombo all’amico Michelangelo, pochi giorni dopo la mort di Raffaello, agognando invano i prestigiosi cantieri dei Palzzi Vaticani à 60°aneddoto: “per un incarico in vaticano” (Sebastiano del Piombo, lettera a Michelangelo, Roma 1520) e 61°aneddoto : “Michelangelo raccomanda Sebastiano” (Michelangelo Buonarroti, lettera al cardinale Bernardo Dovizi detto il bibbena, Roma 1520). Nel primo del Piombo chiede la raccomandazione di Michelangelo, nel secondo, in seguito alla richiesta, Michelangelo lo raccomanda nella lettera al cardinale Dovizi detto il Bibbena. Interessante anche la lettera con cui Lorenzo Lotto raccomanda due scultori (Jacopo Sansovino e presumibilmente Bartolomeo Ammannati) al Consorzio della Misericordia di Bergamo à 62°aneddoto: “Lotto suggerisce due scultori ai bergamaschi”(lorenzo lotto, lettera ai presidenti del loco di santa maria de la misericordia, bergamo 1527).                                                                         Tale missiva attesta il mutuo soccorso tra artisti nei mesi successivi al Sacco di Roma, evidenziando quanto già ovunque il nome di Michelangelo fungesse da garante e da termine di paragone. ll sacco di Roma (saccheggio)[1] ebbe inizio il 6 maggio 1527 a opera delle truppe imperiali che erano state al soldo di Carlo V d'Asburgo, composte principalmente da lanzichenecchi tedeschi, circa 14000, oltre che da 6000 soldati spagnoli e da un imprecisato numero di bande di italiani.[2]                                                                         Il sacco di Roma ebbe un tragico bilancio, sia nei danni alle persone sia al patrimonio artistico.                                 Circa 20000 cittadini furono uccisi, 10000 fuggirono, 30000 morirono per la peste portata dai lanzichenecchi. La devastazione e l'occupazione della città di Roma sembrarono confermare simbolicamente il declino dell'Italia in balia degli eserciti stranieri e l'umiliazione della Chiesa cattolica impegnata a contrastare anche il movimento della Riforma luterana sviluppatosi in Germania. à63°aneddoto: “ il letterato raccomanda il pittore” (Paolo Giovio, lettera al cardinale alessandro farnese, roma 1543): qui troviamo la lettera di paolo giovio per Vasari; l’immagine del pittore aretino ancora all’inizio della sua carriera, già avido di successo, ingegnoso, estremamente rapido ed ormai ripreso dalla delusione dichiarata dovuta all’assassinio del duca di fireze qualche anno prima à64°aneddoto: “l’inganno delle corti” (G.Vasari, lettera a suo zio don antonio vasari, firenze 1537): dopo l’assasinio di alessandro de medici duca di firenze, vasari si rifugiò ad arezzo.                                 Questa lettera ed altre mostrano un vasari molto provato dalla situazione. I rapporti con i committenti erano indubbiamente piuttosto complessi. L’artsita doveva dimostrarsi uno scaltro diplomatico se intendeva ambire agli incarichi più prestigiosi, nonché un abile gestore dei propri beni se voleva assicurarsi un’esistenza meno incerta, più serena e stabile. E’abbastanza raro il rifiuto di fronte alle lusinghe dei committenti.                        Solo artisti di un certo calibro, come Raffaello, potevano permettersi di trascurare committenze non gradite:                                                                    à48°aneddoto: “raffaello impensierito” (Alfonso Paolucci, Lettera ad Alfonso I d’Este in Ferrara, Roma 1519)                                                            à65°aneddoto: “trattato di vil plebeio ” (Alfonso I d’Este, lettera al segretario Alfonso Paolucci, Ferrara, 1520): il duca di ferrara aspettò invano un dipinto di Raffaello. Alla voce “scadenze non rispettate” che mettono nei guai l’artista, tra le situazioni più esemplari vi è quella narrata nel 66°aneddoto: “Parmigianino, Giulio Romano e la steccata”(Parmigianino, lettera a Giulio Romano, Casalmaggiore 1540): al Parmigianino fu affidata la decorazione della volta di Santa ,aria della Steccata a Parma nel 1531, ma il lavoro, protrattosi troppo a lungo, occasionò svariati problemi legali e perfino                            un periodo di incarcerazione per l’artista.                                                                                 Rifugiatosi a Casalmaggiore, l’artista seppe allora di essere stato sostituito da Giulio Romano, da qui il motivo di questa lettera, con la quale intendeva dissuaderlo dall’impresa. Il Parmigianino non avrebbe però mai ripreso i lavori della Steccata, deceduto prematuramente meno di 5 mesi dopo. Il tema dei compensi è un’altra questione ricorrente nelle fonti.                             Sono soprattutto i carteggi ad offrirci informazioni sul rapporto degli artisti con il denaro, spesso tutt’altro che distaccato dal “non nobile”problema del guadagno. Certi documenti sottolineano anzi l’avidità di alcuni:                                                   à67°aneddoto: “pagato due volte troppo” (Baldassare Turini, lettera al cardinale Innocenzo Cibo, 1540): Baldassare Turini critica Baccio Bandinelli (antipatico a molti) e le tombe di Leone X di Clemente VII da lui realizzate.      à68°aneddoto: “un nobil pittore che non riscuote” (Tiziano Vecellio, lettera a filippo II, Venezia 1576): in svariate lettere il pittore insiste e supplica il re di spagna nel tentativo di risolvere la questione del pagamento in sospeso (da circa 25 anni). Il pittore si pegnarà 6 mesi più tardi.                                              Nell’ottica opposta, tali scritti possono anche essere intesi come testimonianze di mecenati poco magnanimi.                                                                    I committenti d’altronde, consapevoli del proprio potere decisionale, stimolavano la competizione tra artisti per selezionare i candidati a cui assegnare i lavori. All’inizio del 500, il clima di concorrenza sviluppatosi in alcuni centri della penisola italiana sembra aver raggiunto livelli eccezionalime attesta l’esperienza di Albrecht Dürer, messo a dura prova per integrarsi ed affermarsi nell’ambiente artistico veneziano à69°aneddoto: “un tedesco a venezia”(Albrecht Dürer, lettera a Willibald Pirckheimer, venezia 1506); quando infine vi riuscì, riconobbe perfine con una certa amarezza quanto sarebbe stato difficile il suo rientro in patria, in un contesto molto diverso per le arti. In occasione dei grandi concorsi, talvolta ritenuti i momenti cardine di una periodizzazione della storia dell’arte, i risentimenti, le risse, le gelosie e gli schieramenti accrescevano inevitabilmente.                                                                    à70°aneddoto : ”commenti su un concorso” (leone leoni, lettera a michelangelo, firenze 1560): Leoni rivela a michelangelo il suo punto di       vista assai critico sulla situazione fiorentina in occasione del concorso per       la fontana di nettuno. Leoni resta piuttosto perplesso della scelta del duca,     ma non si permette di giudicare apertamente il progetto dell’Ammanati, protetto dello stesso michelangelo, confessando di non aver potuto osservare il suo lavoro.                                                                                                      Ricordato con disprezzo dallo stesso Leoni, è forse Benevenuto Cellini a fornire la più clamorosa testimonianza di concorrenza a corte tra il medesimo Cellini e Baccio Bnadinelli, fomentata del resto da un committente divertito                                                                                             à71°aneddoto : “a un passo dal crimine” (Benvenuto Cellini,Vita,1558-67): siamo nella firenze di Cosimo I de Medici, nel 1545.                                                     Cellini sta eseguendo per il duca i lavori di oreficeria, oltre alla recente commissione del Perseo. L’artista si lamenta spesso di non riuscire a trovare collaboratori per realizzare l’opera, convinto che la principale causa sia l’invidia dello scultore ufficiale del duca, Baccio Bandinelli. Quando ricorda nelle Vite il gruppo formatosi negli anni 40-50 del 500 alla corte medicea, Vasari impiega il termine “setta”: termine con chiara accezione negativa, prendendo il senso di fazione avversa, di ostacolo e di impedimento alla personale carriera à72°aneddoto : “la setta del riccio”(G.Vasari, Le Vite, Firenze 1568): setta sotto il favore del detto messer Pierfrancesco Riccio. si ragiona assai acconciamente, è arte nobile”.                                                               Dimostra quanto la pittura stesse allora diventando un tema non solo degno di essere trattato dai letterati, ma soprattutto capace di giovare al perfetto gentiluomo; dunque una pittura intesa quale dilettevole argomento di conversazione; e non a caso, i due protagonisti del Dialogo di Dolce sono uomini di lettere. La necessità di produrre un discorso sulle arti per un pubblico crescente di lettori non specialisti appare forse con più evidenza in campo architettonico, come attesta l’82°aneddoto: “per insegnar solamente alli cittadini”(Alvise Cornaro, Trattato di architettura, 1556-66 ca) àdopo aver ricordato il testo di riferimento in materia (Vitruvio), il nobile veneziano e noto mecenate specifica il pubblico di lettori ed i suoi obiettivi (quindi a cittadini non ad architetti, usa parole e vocaboli in uso).                                                                           Cornaro si discosta quindi dai dotti studi vitruviani per fare, in un certo senso, opera di divulgazione con un trattato, rivolto ad un pubblico di architetti dilettanti prevalentemente interessati a conoscere le possibili e concrete applicazioni, in ambito privato, della nuova norma architettonica. Fatto sta che molti artisti e letterati si misero a scrivere d’arte, tant’è che alla fine del secolo, nella grande impresa di catalogazione condotta da Lomazzo con il Trattato e l’Idea del tempio della pittura, non poteva ormai mancare un capitoletto su “gli scrittori dell’arte”                                                                     à 83°aneddoto : ”degli scrittori dell’arte” (giovanni paolo lomazzo, Idea                 del tempio della pittura, milano,1590). Permetteva anzitutto all’autore,            non privo di un certo regionalismo, di rivendicare un ruolo pionieristico,           in campo teorico, dell’ambiente lombardo.                                                                   Preziose sono le sue indicazioni sulla produzione di “scritti e disegni a mano” che mettono l’accento sulla stretta relazione di complementarietà tra testo ed immagine della trattatistica artistica.                                                                             I suoi autori sono pertanto allo stesso tempo scrittori e disegnatori.                   Tale connubio viene considerato come un imprescindibile ausilio pedagogico peer affrontare le tematiche inerenti le proporzioni e la prospettiva, fondamenta scientifiche dell’arte stessa, rimanendo al centro delle attenzioni dei trattaisti europei del 500. Dichiaratamente in contraso con tale filone predominante nella penisola, era già insorto il pittore Paolo Pino, il quale, pur conscio di “mancar di quella candidezza di stile”, aveva adottato un approccio più letterario utilizzando la forma dialogica. Più adatta alla sua polemica contro l’eccesso di scientismo, in apertura egli nota che “Leon Battista Albert, pittore non menomo, fece un trattato di pittura in lingua latina, il qual è più matematica che di pittura, ancor che prometti il contrario”. Ma agli occhi di Lomazzo, le dispute accademiche ed i dialoghi di stampo cortigiano lasciavano fin troppo aperto il campo all’ingerenza di figure     “poco intendenti”, ai non pratici insomma, e chiude parafrasando la pragmatica e notissima risposta di Michelangelo all’indagine di Varchi à144°aneddoto : ”a me soleva parere che la scultura fussi la lanterna della pictura”(Michelangelo Buonarroti, lettera a Benedetto Varchi, roma 1547) Dietro alla questione relativa agli scrittori d’arte, dunque, stava emergendo con maggiore vigore anche la discussione sul come scrivere d’arte, su come in sostanza idividuare il giusto equilibrio tra lettere e scienze. Nell’elenco di Lomazzo si avverte inoltre una netta gerarchia tra i due canali di diffusione dei testi elencati. In un primo momento egli tratta della produzione manoscritta con una mappatura di raggio poco più che regionale, sottolineando il fenomeno di dispersione che colpisce questa letteratura e rammaricandosi del fatto che gli scritti leonardeschi ”niune se ne ritrovano in stampa”. In seguito egli riporta tutte le opere a stampa. La pubblicazione, il “dare in luce, l’uscire dall’ombra per non cadere nell’oblio, permetteva di allargare notevolmente il proprio raggio d’impatto, cosicchè questa lista assume una dimensione internazionale.                                 Pubblicare non era tuttavia un’impresa semplice o scontata ne tantomeno sempre ambita dagli stessi autori.                                                                                       L’accesso alla stampa comportava una certa selezione che si andava affermando e rafforzando di pari passo con il crescente successo delle tipografie. Per l’editore, l’accurata selezione dei titoli fu fin da subito un aspetto determinante che assicurava la stabilità dell’azienda.                                  La Chiesa definì ben presto un sistema di controllo imponendo agli editori la necessità di ottenre l’imprimatur: per evitare la diffusione incontrollata dielle dottrine eterodosse, i provvedimenti di carattere censorio divennero sempre più sistematici e rigidi, soprattutto in seguito al clamoroso divampare delle tesi luterane in europa e al fallimento della riconcilizione con i protestanti.                                                                                                                           Di fronte alla crescita esponenziale del patrimonio librario, alla fine del secolo uscì la grande sintesi bibliografica di Antonio Possevino*,                            in reazione alla Biblioteca universalis compilata dal protestante svizzero Conrad Gesner nel 1545. *84°aneddoto: “una bibliografia ragionata” (antonio possevino, societatis iesu tractatio de poesi et pictura ethnica, humana, et fabulosa collata cum vera, honesta, et sacra, lyon 1594): “l’arte della pittura è risorta in questo secolo, così come hanno fatto gli studi letterari”.                                                            Dopo aver ricordato gli autori antichi che hanno trattato dei precetti della pittura egli propone un panorama piuttosto selettivo della letteratura artistica moderna.                                                                                                                         Possevino, gesuita mantovano, costruì la sua Bibliotheca selecta in base all’Index librorum prohibitorum, per distinguere i libri utili da quelli giudicati pericolosi. Egli indiuca una ristrettissima selezione di scritti d’arte che possiamo far corrispondere alla categoria dei “moralisti”àassenza in questa rassegna di Lomazzo (veicolo qual era di fonti non raccomandabili). Nell’ambito degli obiettivi del programma educativo fissato dalla Compagnia di Gesù, occorre invece sottolinerae quanto l’utilità dei volumi vasariani venisse ora a mancare. Nel 1547 Cosimo I de Medici e Lorenzo Torrentino stipulano un famoso contratto che coferisce a Torrentino il peculiare statuto di stampatore di Stato. Ottenendo in tal modo un maggiore controllo sulla dissidenza politica, il duca di Firenze intese conferire alla stampa un ruolo chiave all’interno del meccanismo di propaganda medicea che intendeva allargare quell’impero culturale ben oltre i confini fiorentini e toscani.                                                              E’ in quel frangente che videro la luce le Vite vasariane. Come tutte le pubblicazioni di quegli anni, anche l’impresa editoriale condotta da Vasari fu ovviamente coinvolta dalla spinosa questione della lingua. Affiancato dai più accreditati revisori e specialisti in materia*, egli contribuì notevolmente alla diffusione stessa del volgare, imponendo il primato toscano in campo artistico. *85°aneddoto : ” vorrei la scrittura apunto come il parlare”(Annibal Caro, lettera a giorgio vasari, roma 1547) L’umanista fiammingo Domenico Lampsonio dichiara di aver imparato l’italiano proprio leggendo le Vite à 86°aneddoto : ”imparare l’italiano leggendo le vite”(D.Lamposio, lettera a giorgio vasari, liegi 1564).                      Nella seconda edizione delle Vite, Vasari inserisce una parte della missiva scritta dall’umanista fiammingo. Occorre ricordare come il percorso formativo del pittore aretino (Vasari),    il quale beneficò di un’educazione da principe con l’assidua e prossima frequentazione di Ippolito ed Alessandro de Medici, lo portasse più di chiunque altro artista o letterato del momento a potersi confrontare con          un tale cantiere di scrittura. Egli divenne pertanto l’artista-scrittore per eccellenza, lo “scrittore dell’arte”, scoraggiando a quanto pare, simili iniziative da parte di altri. à 87°aneddoto: “noi altri tramontani ne restiamo stupefatti” (Lamberto Lombardo, lettera a giorgio vasari, liegi 1565): Lombardo, uno dei suoi ammiratori più entusiasti, si meravigliò del perfetto connubio tra arte e lettere. Vasari venne elogiato anche da Lomazzo nella sua rassegna. Le qualità e competenze del Vasari furono ben presto riconosciute, un particolare da Pietro Aretino (una figura paterna per il giovane aretino). Vasari fu subito inserito all’interno dell’importante rete di relazioni del letterato, resa pubblicamente nota con Il primo libro delle lettere, stampato nel 1538. Per l’Aretino queste pagine rappresentano l’occasione per sottolinerae le grandi capacità descrittive e presentandolo già in un certo senso, come un vero e eproprio maestro dell’ekphrasis, capacissimo di porre sotto gli occhi del lettore, con ineguagliabile efficacia, luoghi, persone e opere. Una dote che sarebbe stata rilevata più tardi anche da Lampsonio.* La sua carriera era decisamente lanciata. à89°aneddoto : “vasari e l’ekphrasis” (domenico lampsonio, lettera a giorgio vasari, liegi 1565) 2.2 Questioni di genere: come scrivere d’arte? 2.2.1 I trattati d’arte: lunghi studi e grandi progetti Le osservazioni di Paolo Pino e di Giovanni Paolo Lomazzo pongono in diretta contrapposizione i trattati di forma monologica con quelli dialogici:     i primi criticati per trasmettere una teorica troppo scientifica e tecnica,              i secondi tassati invece di una teorizzazione troppo letteraria.                                La vena sperimentale che contraddistinse questo secolo avrebbe portato ad una certa permeabilità dei generi, nonché all’affermarsi di nuove soluzioni. Il più imponente progetto dell’inizio del 500, già avviato allo scadere del 400, resta senza dubbio quello di Leonardo.                                                                           Nella rassegna di Lomazzo spiccano appunto gli scritti leonardeschi. Notevole testimonianza del genio rinascimentale, essi risultano il più clamoroso caso di dispersione di opere scritte.                                                             L’immensa quantità di studi, disegni e annotazioni era destinata ad essere meticolosamente rielaborata e riordinata dallo stesso Leonardo                           à 90°aneddoto: “disordine e ripetizioni” (Leonardo da Vinci, Codice Arundel, 1508).                                                                                                                       Aveva già un potenziale pubblico di lettori al quale svelava il proprio modus operandi (la pratica della riscrittura) confessando le sue difficoltà e le sue preoccupazioni di fronte a quell’interminabile impresa di tipo enciclopedico. Il lascito leonardesco ebbe inevitabilmente una travagliata fortuna.                     Uno dei più precoci e famosi tentativi di rielaborazione, prezioso perchè probabilmente avviato sotto la gida di Leonardo, è Libro di pittura, un codice del fondo Urbinate della Biblioteca Vaticana, forse già completato negli anni 40 del 500 da Francesco Melzi, allievo, amico nonché erede ed esecutore testamentario del maestro.                                                                                                       Alla morte di Leonardo, Melzi tornò in Italia; la notorietà del giovane crebbe notevolmente e molti potenti avrebbero agognato il prezioso tesoro che egli custodiva à 91°aneddoto: “i manoscritti di leonardo” (Alberto Bendidio, lettera ad Alfonso I d’Este, milano 1523): il segretario di alfonso I d’este informa il duca di ferrara del vero e proprio tesoro (es libri di anatomia)       che custodisce il Melzi,e lo raccomanda al servizio del duca.                                    Deceduto il Melzi nel 1570, ebbe inizio la storia della dispersione dei manoscritti. Una parte fu acquistata dallo scultore ed ambizioso collezionista Pompeo Leoni (tra cui il famoso Codice Atlantico, conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano).                                                                                                     Riuscire a fornire un’eusariente sintesi che rendesse conto dei lunghissimi studi compiuti e delle conoscenze acquisite fu anche una delle preoccupazioni di Albrecht Dürer, non poco stimolato dall’esempio del contemporaneo di Leonardo.                                                                                               Arricchito dall’esperienza italiana, dopo il 1507 si era lanciato in una vasta opera di teorizzazione della pittura, come ci indicano alcuni appunti tra cui l’abbozzo di un progetto di trattato à 92°aneddoto: “l’elaborata scaletta per un trattato”(albrecht dürer, schizzo di un trattato generale sulla pittura, norimberga ante 1512-13). Segno di una nuova coscienza della figura del pittore, un posto di prim’ordine spettava alla questione della formazione del giovane pittore costruita su severi precetti morali.                                                       L’edizione dei suoi scritti richiese molti anni; la scelta ricadde dunque su un approccio incentrato più su argomenti specialistici, in primis la matematica à così nel 1525 uscì il suo Underweysung der Messung mit dem Zirckel und Richtscheyt, il primo volume di geometria euclidea pubblicato in tedesco, che intendeva illustrare i metodi di misurazione sottomettendo la costruzione delle diffrenti figure, con una costante preoccupzione tipicamente rinascimentale, a saldi principi matematici. Seguì nel 1527 un trattato sulle fortificazioni, nonché nel 1528 un altro importante volume sulle proporzioni del corpo umano stampato post mortem.                                     Immediate furono le traduzioni in latino del primo e del terzo libro,                     e altrettanto immediato du il successo europeo. Michelangelo non apprezzava il lavoro del Tedesco in quanto da tali istruzioni si ottenevano soltanto delle “figure ritte come pali”                                à 93°aneddoto: “il progetto abortito di un trattato” (Ascanio Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, roma 1553).                                                                           A tal proposito, il Condivi svela al suo lettore il progetto michelangiolesco di un trattato incentrato sull’anatomia e sul movimento del corpo umano.           Il maestro mostrò sempre una certa riluttanza nei confronti di una trasmissione scritta del proprio sapere, seppure molti lo ritenessero quasi un dovere visti gli straordinari livelli da lui raggiunti. es Francesco Doni propose svariati elenchi di “cose degne d’esser vedute et considerate” nelle lettere in calce al Disegno*, annunciando ai suoi corrispondenti di aver ideato una vera e propria guida illustrata della città di Firenze. *à 101°aneddoto : “le meraviglie d’italia” (Anton Francesco Doni, lettera a Simon Carnesecchi, in Disegno, firenze 1549): il Doni stipula un rapido elenco delle cose più belle da vedere in Italia, escludendo Firenze, residenza del destinatario. Il genere della guida storico-artsitica giunse a maturità nei due ultimi decenni del secolo, in un periodo in cui si era ormai pienamente affermata la figura del viaggiatore forestiero e amatore d’arte.                                                     A questi visiatatori, curiosi ed avidi di conoscenze, era destinata la lettura del copioso volume “Venetia città nobilissima et sigolare” (1581) di Francesco Sansovino: si tratta di una guida completa e molto curata sul piano topografico, include apparati decisamente evoluti come una tabella cronologica ed una serie di indici dettagliatissimi); conobbe numerose ristampe e riedizioni accresciute à 102°aneddoto: “arte, chiese, palazzi, storie, vite, usi e costumi”(Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et sigolare, descritta in 14 libri, Venezia 1581).                                                                      Con le “Bellezze della città di Firenze”, Francesco Bocchi si dimostrò più selettivo, riducendo all’essenziale il contesto storico.*                                                 Egli si concentrò non sulle “cose notabili” ma sulle “bellezze”, come a voler inculcare al visitatore che il belle avesse fissato la propria dimora a Firenze. Il suo approccio privo di volontà storicizzane è evidenziato anche dalla struttura descrittiva basata su degli itinerari, fornendo in tal modo un inventario esaustivo di tutte quelle opere realizzate nelle strade, nelle piazze, nelle dimore pubbliche e private, segnalando persino le collezioni librarie. *à103°aneddoto: “perché serva questo trattato a chi non è usato in Fiorenza”(Francesco Bocchi, Bellezze della città di Firenze, Firenze 1591) Sulla scia di questi grandi modelli, molte altre città ebbero in breve tempo una loro descrizione pubblica a stampa. 2.2.3 Il genere biografico, tra vita e storia: A metà starda tra i diversi generi testuali a causa dlla sua incompiutezza l’impresa scrittoria pionieristica di Marcantonio Michiel occupa un posto          a parte nelle fonti per la storia dell’arte.                                                                             La classificazione per luogo ed il carattere descrittivo degli appunti contenuti nell’autografo della Notizia delle opere del disegno, rimasto inedito fino al 1800, lo riallacciano al filone topografico, ma il metodo investigativo scelto, che si fonda da un lato sulla ricognizione autoptica effettuata di persona visitando le collezioni, dall’altro sulla raccolta di                                 dati tramite una fitta rete d’informatori, indica una chiara ambizione storicizzante di tutt’altro spessore.                                                                                                              Una tale attività, di viaggi, studi e ricerche, occupò l’erudito veneziano               per oltre 20 anni, almeno tra il 1521 ed il 1543. “Marcantonio scrisse la vita dei pittori e scultori antichi e moderni, la quale non si stampò per esserne uscito uno volume stampato a Fiorenza molto grande e pieno” à con molta probabilità fu quindi la Torrentiniana di Vasari a scoraggiare il Veneziano, decidendo così di non ultimare il proprio lavoro. Genere biografico o testo ispirato al modello della Naturalis Historia                   di Plinio il Vecchio, strutturato cioè come un’evoluzione delle tecniche artistiche tramite un’esemplificazione di opere? Mancano purtroppo tropppi elementi per poter ipotizzare la forma definitiva del lavoro di Michiel. Peculiari di questo periodo sono le riflessioni di ordine metodologico                 degli scrittori attratti sia dal formato pliniano sia dalle biografie plutarchiane. Molto significativa in tal senso l’affermazione che Vasari attribuisce a Paolo Giovio sul progetto delle Vite, in cui si percepisce la volontà di superare il lavoro di Plinio e l’ambizione di proporre un’opera di un nuovo genere per       le arti à 105°aneddoto: “genesi del progetto delle vite” (G.Vasari, Le Vite, Firenze 1568): l’autore racconta come, durante le serate romane, sarebbe nata l’idea di scrivere le vite degli artisti su suggerimento di Paolo Giovio (che possedeva ritratti di molti uomini illustri). Grande specialista del genere biografico, Giovio aveva intrapreso la redazione degli Elogia, biografie piuttosto concise destinate ad accompagnare la rassegna di ritratti collezionati nel museo allestito nella sua dimora comasca.                                                                                                           Avrebbe in seguito voluto interessarsi anche agli artisti, ma di un tale progetto sono superstiti soltanto le biografie di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, scritte attorno al 1527 e riscoperte nel 1781                                               à 104°aneddoto: “la vita di Raffaello” (Paolo Giovio, Raphaelis Urbinatis Vita, 1527 ca) struttuta: 1) introduzione sulla personalità artistica 2) una selezione d’opere 3) osservazioni sulle generalità (cenni biografici e fisionomia) 4) cenni sull’impatto artistico (discepoli, scuola, seguaci o concorrenti).                                                                                                                 Nell’ultima parte delle biografie di Michelangelo e soprattutto di Raffaello, l’autore fornisce un notevole quadro d’insieme degli ambienti artistici attorno a queste figure, ricordandone gli allievi e i coevi rivali. Anche se nella prima metà del 500 furono svariati i tentativi di rassegne biografiche incentrate attorno alle figure di artisti, tutte fonti per Vasari           di cui i nessi e le divergenze con le Vite sono stati da tempo indagati,                 il progetto di Giovio risultava per così dire l’antesignano ufficiale di quello di Vasari, esplicitamente ricordato da quest’ultimo come all’origine delle Vite (105°aneddoto), testimoniando se non una filiazione diretta delle Vite dagli Elogia, per lo meno una stretta affinità con i progetti di Giovio. L’impronta gioviana si avverte persino nella forma, con l’idea, fin dalla prima edizione, di voler illustrare ogni vita con un ritratto inciso, seppure           poi l’opera venne stampata “senza figure per non perdere tempo e denari”, come rivela lo stesso Giovio. Questi segui da vicino lo sviluppo del progetto, incoraggiando l’autore a dar maggiore peso al suo impegno di scrittura, proponendosi ache come revisore. à106°aneddoto: “le opere d’arte si consumano, gli scritti restano” (Paolo Giovio, Lettera a Giorgio Vasari, Roma 1547) à107°aneddoto: “meglio scrivere le vite che dipingere la sistina” (Paolo Giovio, Lettera a Giorgio Vasari in Firenze, Roma maggio 1547) Quando un altro dei revisori, Annibal Caro, ebbe sotto mano il testo,                  lo definì un “commentario, che avete scritto degli artefici del disegno”               à 85°anedddoto: ”vorrei la scrittura apunto come il parlare”(Annibal Caro, lettera a Giorgio Vasari, Roma 1547).                                                                                    Nell’impiego di questo termine, l’opera vasariana era ricollegata all’antico genere storiografico dei commentarii, nuovamente in augee durante il 400: si pensi a Lorenzo Ghiberti, importante fonte e modello di cui si dichiara debitore lo stesso Vasari.                                                                                                         Nei commentarii la storia era generalmente restituita dall’autore in chiave personale. Il giudizio di Caro si dimostra riduttivo dell’operato vasariano. Fu Giovio a suggerire a Vasari il titolo del libro “Le vite degli excellenti artefici”, adottato con qualche significativa variante.                                                    Le intenzioni di Vasari sono del resto chiaramente esposte nel proemio della seconda parte delle Vite à108°aneddoto: “l’anima della istoria” (Giorgio Vasari, Le Vite, Firenze, 1550) nel quale presenta il suo approccio metodologico, ben in linea tra l’altro con le idee gioviane, stabilendo la biografia quale genere storico a tutti gli effetti, considerando in sostanza la storia come “specchio della vita umana”.                                                                           Era nata, in fin dei conti, la prima storia dell’arte. “Non pensava io però da principio distender mai volume si largo” confessò Vasari in conclusione alla sua opera.                                                                                     Tale abbondanza fu di per se un unicum, un vero e proprio monumento agli artisti, clamoroso anche per quella scelta dell’autore di voler conferire ai toscani il primato, come aveva ben colto Giovio definendo appunto i protagonisti del libro “Vostri Immortali Toscani”, e sottolineato dallo stesso vasari nella dedica al duca di Firenze, scrivendo che i più eccellenti artefici “sono stati quasi tutti Toscani, e la più parte Suoi Fiorentini”. Non era certo la dimensione quantitativa ad intimidire l’autore, dal momento che già prometteva ai lettori future aggiunte à109°aneddoto: “agli artefici et a’ lettori” (G.Vasari, Le Vite, Firenze 1550)                                        Con il successo delle Vite – modestamente definite “questa nota, memoria o bozza”, proprio perché scritte in volgare, con uno stile non troppo ricercato, come avrebbe invece voluto Giovio – egli si impose quale scrittore, anche se, a mo’ di captatio benevolentiae (accattivarsi la simpatia), volle aggiungere “non perché io ne aspetti o me ne prometta nome di istorico o di scrittore”. Subito egli avviò altri cantieri di scrittura, tra cui un dialogo con Michelangelo, nonché un dialogo descrittivo ed esegetico (interpretativo) sul ciclo decorativo eseguito in Palazzo Vecchio, i Ragionamenti: progetti che vennero entrambi accantonati per dedicarsi ad una nuova edizione delle Vite, aggiornata ed ancora più copiosa. Alle nuove biografie degli artefici nel frattempo passati a miglior vita, egli aggiunse le “vite de’vivi”.                                                                                                   L’operazione piuttosto delicata poneva alcuni non trascurabili problemi strutturali in un’opera dapprima tutta incardinata attorno alla figura di Michelangelo, costituendone il punto culminante del percorso, il modello assoluto, il capostipite della scuola fiorentina à 110°aneddoto: “Le vite de’vivi”(Vincenzo Borghini, lettera a giorgio vasari, firenze 1567): nella seconda edizione delle Vite si pone il problema di dove collocare le biografie degli artisti ancora in vita. Metterle prima o dopo Michelangelo? Le Vite sono uno dei capisaldi della letteratura storico artistica. Sono state pubblicate in due edizioni, una del 1550 (presso l’editore Torrentini, ragion per cui “Torrentiniana” L’unico artista vivente della Torrentiniana si spense nel 1564 all’età di 90 anni. La nuova edizione stampata nel 1568 si fece subito testimone sia di una revisione in corso del mito michelangiolesco sia dei rapidi e notevoli mutamenti del contesto politico e spirituale dell’epoca.                                             Con l’intento di allargare gli orizzonti, alcune aggiunte furano sostanziali, dilatando tanto l’arco temporale quanto l’area geografica.                                       In effetti, il biografo non solo conferì una dimensione più italiana all’opera, spingendosi oltre i confini toscani, ma si interessò anche ai territori al di fuori della penisola, in particolare alla Francia e alle Fiandre (111°aneddoto*), in linea con le prospettive internazionalizzanti su cui si fondava l’Accademia del Disegno, aperta a “forestieri d’ogni nazione”(32°aneddoto). à111°aneddoto: “qualche notizia sugli artefci fiamminghi” (Domenico Lampsonio, lettera a giorgio vasari, Liegi 1565) La manovra intendeva garantire l’espansione dell’impero culturale che Cosimo I era impegnato a costruire intorno alla capitale italiana. Oltretutto fu l’orientamento metodologico di base a esserne rettificato. Vincenzo Borghini, con la quale si era rafforazata l’amicizia e la collaborazione, era in realtà tutt’altro che favorevole a considerare gli artisti come degli uomini illustri e, in vista di ridurre l’assetto biografico d’insieme, tentò di e emergere con più forza la componente storiografica e topografica dell’opera à 112°aneddoto: “la revisione delle vite” (vincenzo borghini, lettera a giorgio vasari, Poppiano 1564) Vasari, solerte e perspicace qual era, assimilò le indicazioni del Borghini e seppe farne tesoro.                                                                                                                       Borghini spronava ora Vasari a compiere nuovi studi, nuove indagini e nuovi viaggi per documentare con più precisione le opere o ancora le scoperte tecniche (un atteggiamento di indubbia ascendenza pliniana) come la spinosa questione dell’invenzione della pittura ad olio (113°aneddoto*), volendo prendere le distanze da colui che aveva assecondato la natura già poco incline di Vasari a far opera d’inventario (108°aneddoto). *à113°aneddoto: “sul libro dell’arte di Cennini” (Vincenzo Borghini, lettera a giorgio vasari, Poppiano 1564): la lettera è testimonianz del ritrovamento del trattato quattrocentesco, ulteriore fonte per le considerazioni tecniche di vasari. Fin dalla prima edizione, Borghini fu il curatore delle “tavole”.                                E in questa seconda versione furono così ampliate da essere segnalate fin dal titolo dell’opera, diventando uno strumento determinante della funzione periegetica trasversale.                                                                                                    Con questa seconda versione, con un approccio globale alle arti, essa combinava storia, teoria, topografia, biografiw, ampi spunti sulle tecniche e i materiali, offrendo angolature e percorsi di lettura multipli. Vasari racconta come alcuni amici fiamminghi gli avessero chiesto di completare le Vite con dei trattati illustrati à 114°anedddoto: “risposte alle richiese dei lettori”(G.Vasari, le vite, firenze 1568).                                                       Ma, fermamente convinto della propria idea, non si dipartì dalla funzione storiografica dell’impresa, il cui scopo non era quello d’insegnare la pratica dell’arte, bensì la storia dell’arte. L’opera vasariana fu per i contemporanei veramente spiazzante, proprio perché doppia, audace ed esauriente nella sua vastità. “Speditezza” e “compiutezza” erano del resto diventati pe Vasari dei criteri valutativi decisivi e insiti del personale giudizio critico.                                               Così le Vite si distinsero da quei tanti progetti abbozzati e abbandonati, in quanto monumento unico nel suo genere, senza veri antecedenti e senza imitatori per vari decenni. Non mancarono di li a poco reazioni, tutte tese a completare e/o correggere il suo lavoro. Si dovette aspettare lo Schilderboek di Karel van Mander, stampato nel 1604, per avere un’opera paragonabile alle Vite, andando a colmare quelle lacune vasariane sugli artisti fiamminghi e tedeschi.                     Un crescentre successo del modello vasariano si sarebbe poi registrato spostando pertanto l’attenzione sul valore dell’oggetto realizzato:                         egli poneva in tal modo la pittura in cima alla gerarchia delle                                  realizzazioni umane à 121°aneddoto: “l’alta invenzione della pittura”(Paolo Pino, Dialogo di pittura, Venezia 1548).                                                Come definizione di base, che rispecchiava l’andamento tipico del pensiero dell’epoca, Lodovico Dolce evoca la nozione di mimesis, la quale permetteva di accomunare intrinsecamente la pittura e la poesia à 122°aneddoto: “definizione della pittura” ( lodovico dolce, dialogo della pittura, venezia 1557): “la pittura, brevemente parlando, non essere altro che imitazione della natura, e colui che più nelle sue opere le se avvicina, è più perfetto maestro; anche il poeta si affatica intorno all’imitazione: il pittor è intento ad imitar per via di linee e di colori, tutto quello che si dimostra all’occhio; et il poeta col mezzo delle parole va imitando non solo ciò che dimostra l’occhio ma che ancora si rappresenta all’intelletto. Sono in questo differenti, ma simili in tante altre parti che si posson dir quasi fratelli”. Sul rapporto mimetico che legava l’arte alla natura, lo scultore Vincenzo Danti aggiugeva un ulteriore tassello con il termine “trasfigurazione”                 che implicava di per se una certa mutazione del reale à 123°aneddoto: “l’ordine, la natura e le arti”(vincenzo danti, Trattato delle perfette proporzioni, firenze 1567): la nozione di ordine rappresenta il mezzo razionale dell’organizzazione della natura.                                                                         “il fine delle arti, ed in particolare di scultura, pittura e architettura, una trasfigurazione, per dirla così, delle cose naturali, imitando la natura; e dal momento che la natura nelle sue operazioni consegue perfettamente il suo fine per mezzo dell’ordine, è per mezzo dell’ordine che le arti, specialmente le 3 sopradette, possono conseguire perfettamente il loro fine”. Per quanto riguarda la suddivisione della pittura, l’ideale tripartizione albertiana attinta alle antiche classificazioni retoriche (circoscrizione, componimento e ricevimento dei lumi) conobbe non poche rielaborazioni cinquecentesce. Paolo Pino preferì ripensarla “a modo suo” à 124°aneddoto: “lo spirito della pittura”(paolo pino, dialogo di pittura, venezia 1548): “per farvi ,eglio intendere l’arte della pittura, la dividerò in 3 parti a modo mio: disegno, inventione et colorire”à termini che nel 500 avranno molto successo. Già Leonardo serava propenso ad organizzare la sua arte in funzione di una serie più esaustiva di principi, quali “tenebre, luce, colore, corpo, figura, sito, remozione, ropinquità , moto e quiete” (120°aneddoto), chiamati altrove i “dieci vari discorsi, con li quali esso conduce al fine le sue opere” à136°aneddoto: “differenza tra la pittura e la scultura” (leonardo da vinci, libro di pittura I, 1490-92): brano i cui dimostra la superiorità della pittura sostenedo che, dal momento cha la scultura non si occupa ne di tenebre/luce, ne di colore, “ha meno discorso e per conseguenza è di minore fatica d’ingegno che la pittura”. Come nella Genesi, partendo dalla coppia antitetica tenebre/luce – l’ombra rappresenta la forma primordiale anche nel mito della nascita della pittura – si giunge alla vita grazie al moto. Una tale progressione intendeva sottolineare ancora una volta il parallelismo tra opera divina e opera pittorica. Resta piuttosto originale il percorso graduale in 7 tappe suggerito agli artisti da Giulio Camillo applicando all’arte gli schemi logici della costruzione del discorso eloquente à 125°aneddoto: “i sette gradi dell’arte del disegno”(Giulio Camillo detto Delminio, Trattato della imitazione, venezia 1544) (6°= movimento, 7°=giudizio). Giunti alla fine del secolo, le riflessioni erano oramai divenute ampie ed articolate. In tal contesto si deve collocare lo sforzo teorico di Giovanni Paolo Lomazzo nel tentativo di strutturare la disciplina à 126°aneddoto: “la divisione della pittura”(giovanni paolo lomazzo, Trattato dell’arte de la Pittura, milano 1548): la pittura si divede in teorica (proporzione, posizione, colore, lume, prospettiva) e pratica (prudenza, giudizio). Per definire l’arte pertanto ognuno teorizzò un procedimento mentale che rispecchiava piò o meno il percorso di studi personali, ponendo al centro sia il problema del genere del sistema classificatorio sia la metodologia argomentativa. Sulla riflessione del fine delle arti, uno dei temi più frequenti fu la nozione di diletto. Per Lodovico Dolce, il diletto rappresentava il criterio principale per giudicare un pittore à 127°aneddoto: “la pittura deve dilettare” (lodovico dolce, Dialogo della pittura, venezia 1557): si trattava specialmente del diletto dell’occhio nella sua formulazione classica, che scaturisce dalle qualità formali dell’opera. Negli ultimi decenni del secolo, la crisi controriformistica e la polemica      sulle immagini resero impellente però l’interrogarsi sulla natura dell’effetto procurato dall’arte, mettendo più che mai in contrapposizione il diletto all’utilità, come si legge in Gregorio Comanini à 128°aneddoto: “l’arte è dilettevole o utile?”(Gregorio Comanini, il Figino, Mantova 1591):                       utile à “la facoltà civile e la teologia si servono della pittura per lo diletto si, ma principalmente per l’utile, mentre ordinano quello a questo, come a fine più degno e più proprio”.                                                                                               Dunque, nel moneto in cui la Chiesa stava ridimensionando il ruolo del diletto considerato ora inutile, futile, moralmente negativo e fin troppo legato al culto della bellezza, anche come reazione alle pressioni iconoclastiche*, spostando l’attenzione sulla funzione utilitaria dell’arte, Gabriele Paleotti intervenne invece sulla definizione stessa di diletto, solitamente associato ai sensi, introducendo nella sua teoria della dilettazione una gerarchia in cui inserì anche la ragione e lo spirito                      à 129°aneddoto: “il diletto del senso, della ragione e ello spirito”                     (Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane,                       bologna 1582): il vescovo di bologna, dopo aver individuato i 3 obiettivi           del pittore (dilettare, insegnare e muovere l’affetto di chi la guarda),       spiega i 3 gradi del diletto che l’opera d’arte può e deve arrecare allo spettatore (dilettazione del senso, della ragione e dello spirito). *iconoclastia= movimento religioso sorto nella chiesa bizantina nel sec              VIII e IX contrario ad ogni forma di culto per le immagini scare e propungatore della loro distruzione 3.1.2 Ut pictura poesis: “poesia pittura parlante et la pittura poesia mutola” Nella definizione di Lodovico Dolce, abbiamo già incontrato la dottrina dell’ut pictura poesis, ossia il parallelismo tra poesia e pittura, di gran lunga una delle più importanti e ricorrenti tematiche nelle fonti cinquecentesche e una delle più durature nei secoli.                                                                                           Fu senza dubbio l’argomento di maggior successo letterario per elevare la pittura al rango delle arti liberali, diventando un saldo punto di riferimento in seno alla sua elaborazione teorica, in specie per le nozioni di mimesis, di invenzione e di licenza poetica. Quale corollario del sodalizio tra arte e poesia, si era d’altronde sviluppato il fenomeno degli artist-poeti. Nel ricordare i componimenti di Bramante, Leonardo, Michelangelo, Gaudenzio Ferrari, Bernardino Luini e Bronzino, secondo Lomazzo addirittura non esisteva pittore che non fosse allo stesso tempo anche poeta à130°aneddoto: “il pittore, un poeta innato” (giovanni paolo lomazzo, trattato dell’arte de la pittura, milano 1584). Le discussioni non si fermarono tuttavia alla dimostrazione delle corrispondenze tra arte pittorica ed arte poetica.                                                           In quel clima di diffuso gusto per la disputatio si trattò anche di decidere a quale delle due assegnare il primato. Le riflessioni di Leonardo produssero in merito non poche astute conclusioni a favore della pittura à 131°aneddoto: “de pittura e poesia”(leonardo da vinci, libro di pittura I, 1508-10). Dal canto loro, gli uomini di lettere spesso si schierano a favore della propria disciplina, a prescindere dalla loro ammirazione per le arti, sostenendo generalmente l’idea di un’inferiorità della pittura: in tal senso Paolo Giovio esortava Vasari alla scrittura (106° e 107°aneddoto) o un Luca Valerio paragonava i discorsi di Galileo Galilei (1564-1642) ai ritratti dipinti da Lodovico Cigoli à 132°aneddoto: “il vero ritratto dell’animo” ( Luca Valerio, Lettera a Galileo Galilei, Roma 1609). All’ interno di questo dibattito veniva spesso chiamata in causa anche la complessità della raffigurazione dell’invisibile, ovvero di quei concetti più astratti. Proprio per la sfida di restituire in immagini i cosiddeti “affetti”,            i “moti dell’animo”, il genere del ritratto fu posto al centro di tali riflessioni. Sotto questo punto di vista, il binomio Triziano-Pietro Aretino fornì le più significative prove dell’interdipendenza e della complementarietà tra poesia e pittura à 133°aneddoto : “ritratto dal pennello, ritratto dalla penna ” (Pietro Aretino, Lettera a Veronica Gambara, Venezia 1537): in questa lettera alla poetessa veronica gambara, pietro aretino descrive i ritratti tizianeschi del duca di urbino e della consorte, allegando due sonetti in dedica a tali opere. “Fuor mostra ogni invisibile concetto” recitava il poeta,                              il quale, non volendo essere da meno, gareggiava con il pittore a colpi di sonetto, spinto da un’amichevole emulazione.                                                           Attraverso un doppio omaggio, al pittore a all’effigiato, l’Aretino           evidenziava a penna quello che l’amico era veramente riuscito ad esprimere con il pennello, intendendo tuttavia lodare più l’effigiato che il pittore.              Del resto, entrambi vennero considerati due maestri dell’arte adulatoria à 134°aneddoto: “tiziano e l’aretino” (sperone speroni, dialogo d’amore, venezia 1544) Per contro, ritroviamo altrove alcune opinioni più reticenti sul ruolo encomiastico da attribuire alla poesia e alla pittura in ambito cortigiano.          Per l’Albicante ad esempio, gli artisti erano condannati a trasferire nelle loro opere soltanto quegli aspetti migliori, senza voler o poter sottolineare tutte le sfaccettature, ache quelle negative, degli animi umani che popolavano le corti. In tal modo, i ritratti restituivano solo parzialmente il carattere                              delle persone effigiate, intrisi qual erano di una bellezza idealizzante (8°aneddoto).                                                                                                                             Ciò che accomuna il pittore ed il poeta, entrambi protagonisti della scena d’apertura del Timone di Atene di William Shakespeare (135°aneddoto*),        è l’atteggiamento lusinghiero: una testimonianza interessante proprio per lo sguardo critico di quella società che emerge ancora una volta attraverso il parallelismo tra poesia e pittura, prova di come questi dibattiti italiani si fossero ormai spostati anche a livello europeo. *à135°aneddoto : “un poeta, un pittore” (William Shakespeare, Timone di Atene, 1604-08 ca) 3.1.3 Il Paragone: La disputa che più animò gli ambienti accademici cinquecenteschi in ambito artistico fu la notissima questione del paragone tra la pittura e la scultura à137°aneddoto: “dibattiti a corte” (Baldassare Castiglione, Il libro del Cortegiano, venezia 1528). Per difendere il primato dell’una o dell’altra arte vennero avanzati numerosi argomenti tramandati da un autore all’altro con delle varianti più o meno originali. Le principali tematiche del discorso riguardavano l’elenco delle “difficoltà”delle arti – puntando l’attenzione su ciò che solo una delle due era in grado di riprodurre, come nel caso del numero delle vedute, degli scorci, degli elementi impalpabili o immateriali -, la durabilità delle opere e anche frequentemente l’affaticamento fisico derivato dallo sforzo compiuto. Su questo ultimo aspetto, negli appunti di Leonardo emerge ad esempio un’immagine caricaturale dello scultore messo a dura prova dalla “materia sculta” à 136°aneddoto: “differenza tra la pittura e la scultura” (leonardo da vinci, libro di pittura I, 1490-92): al di la della denuncia della fisicità e delle condizioni di lavoro quali segni di una manifesta appartenenza alle arti meccaniche, è la natura del rapporto con la materia che ora gioca a sfavore della scultura. L’eccesso di materiale, che lo scultore è costretto ad eliminare per liberare la sua composizione, si scatena attorno a lui, come se fossero delle cattive imperie. Invano egli cerca di dominare la materia, che si incrosta sulla propria pelle à immagine dello scultore imprigionato nella materia. Siamo qui di fronte ad un concetto in totale opposizione a quello michelangiolesco (178°aneddoto*) che mette alla berlina la scomoda posizione lavorativa del pittore di affreschi à 75°aneddoto: “i’ho già fatto un gozzo in questo stento ” (Michelangelo Buonarroti, in Rime, 1508-12 ca): contrariato dall’incarico pittorico assegantoli, lo scultore si rappresenta con una postura senz’altro goffa e infelice, achizzando una vera e propria caricatura del pittore al lavoro in preda alle fatiche fisiche. à*178°aneddoto: “non ha l’ottimo artista alcun concetto” (michelangelo buonarroti, in Rime, ante 1547) Il momento culmine della disputa si raggiunse nel 1547, quando il tema della maggioranza delle arti fu oggetto di una specifica lezione tenuta da Benedetto Varchi davanti all’Accademia fiorentina.                                                       Per sostenere e difendere la serietà del suo approccio inteso quale posizione assolutamente super partes, Varchi aveva coinvolto i maggiori esperti in materia presenri in città*, suscitando molta agitazione tra loro.                             à *138°aneddoto: “Il parere degli artisti” ( Benedetto Varchi, Due lezioni di M.Benedetto Varchi, firenze 1549) Fatto sta che tale clamore generò un’immediata risposta da parte dei veneziani, tanto che Paolo Pino anticipò la pubblicazione di Varchi con una Ciò era già implicato nel termine greco graphein, che racchiude in se l’insieme delle attività grafiche: lo scrivere, il disegnare o il dipingere. Benedetto Varchi sintetizzò: “il disegno è l’origine, la fonte e la madre di amendue loro”. Nel Proemio di tutta l’opera, dopo aver ricordato il dibattito sul primato delle arti, Vasari sancì definitivamente il discorso in questo modo:                                   “la scultura e la pittura per il vero son sorelle, nate di un padre, che è il disegno, in un sol parto et ad un tempo”. Si raggiunse, risalendo a siffatta genealogia, la definizione di disegno come origine universale di tutte le arti.                                                                                          E’ il caso ad esempio di Benevenuto Cellini (150°aneddoto) o di Anton Francesco Doni. Il polemico Cellini difese anche il primato del bozzetto in questa genealogia, sostenendo che “il vero disegno non è altra cosa che l’ombra del rilievo, di modo che il rilievo viene a esser padre di tutti e disegni”. E all’origine del disegno universale vi era Dio, il primo creatore, “quel sommo Artefice che prima disegnò” stando alle parole di Baccio Bandinelli (151°aneddoto). à150°aneddoto : “disegno e natura feconda” (B.Cellini, Sigilli e caratteri della scuola del disegno fatti da Benvenuto Cellini, firenze 1563) à151°aneddoto: “vertù certo tanta necessaria et univerale” (Baccio Bandinelli, Libro del disegno, firenze post 1550) Il disegno è definito come la componente elementare generatrice e costituente della forma di tutte le cose create, necessariamente presente in tutto, e dunque, in un certo senso, all’origine anche della bellezza esteriore.  Federico Zuccari: “DI,seg,no “= vero segno di Dio in noi.                                            Lomazzo si referisce alla nozione di euritmia, ispirandosi probabilmente al commento vitruviano di Daniele Barbaro, per il quale essa è “madre della gratia et del diletto” à152°aneddoto: “il disegno è euritmia” (Giovanni Paolo Lomazzo, Idea del tempio della pittura, Milano 1590): lomazzo ricorda quanto il disegno sia fondamento dell’arte della pittura. Euritmia = Disposizione armonica e proporzionale delle varie parti di un’opera d’arte. Era emersa l’essenza astratta del disegnoche per alcuni autori andava a sovrapporsi peraltro con quella di Idea, specialmente in Vasari (153°aneddoto), acquisendo quindi l’agognato spessore intellettuale. à153°aneddoto: “che cosa sia il disegno” (giorgio vasari, le vite, firenze 1568) Alessandro Allori limitò invece la sua definizione di disegno alla semplice linea di contorno (154°aneddoto), prediligendo quell’uso della matita frquentemente appuntita.                                                                           Un chiaro riferimento all’aneddoto pliniano dell’origine della pittura e allo stesso tempo un’allusione alla gara tra Protogene e Apelle nel tracciare la linea più sottile. Dal momento che in natura la linea non esiste in quanto tale, la sottigliezza della linea, o se vogliamo riprendere la terminologia leonardesca, dei “lineamenti”, serviva a cancellare la dimensione materica del disegno per meglio restituire l’illusione ottica della realtà.                                à154°aneddoto: ”apologia della linea sottile” (Alessandro Allori, Il Primo Libro de’ragionamenti delle regole del disegno d’Alessandro Allori con Messer Agnolo Bronzino, firenze 1560): “ecco dunque che tutte le volte che per la forza dell’ombre e de limi si cerca o da il rilievo con qualsivoglia colore, è pittura e non disegno; il qual disegno non vuoli essere altro che quello che la linea più sottilmente dimostrar possa”. In questo processo di intellettualizzazione del disegno, emergeva comunque regolarmente una qualche tensione tra l’astrazione del concetto e la manualità dell’azione, in un certo senso tra mente e mano, con il rischio immanente e alquanto paradossale di svalutare la dimensione pratica dell’arte, ovvero l’aspetto esecutivo, relegandolo ad un ruolo secondario. Per colmare una tale discrepanza, alcuni tentarono di innalzare la pratica del disegno al rango di esercizio mentale, reputando nobile persino la faticosa esercitazione della mano, quel lungo apprendimento e costante esercizio, quella partica che Vasari considerava “il vero lume del disegno” (153).     Nello stesso modo Giovan Battista Armenini riuscì a ribaltare la problematica, esaltando il valore del lavoro manuale, che doveva servire a svegliare la mente, nonché a tener viva la memoria à155°aneddoto:                 “la pratica del disegno”(Giovan Battista Armenini, De’veri precetti della pittura”, ravenna 1587): serie di raccomandazioni che delineano un vero e proprio metodo di lavoro per gli artisti, dato che secondo l’autore “l’inventioni non si debbono cominciare a caso”. Per Bandinelli tali “istreme fatiche et exercitii plecari”erano tutto sommato un’imitazione in scala umana del gesto divino.                                                               Anche per le misurazioni, egli aborriva il ricorso agli strumenti, mettendo in dubbio il sistema di codificazione delle proporzioni e pretendendo che l’eccellenza si dovesse acquisire “senza sesta e riga”.                                                    Solo attraverso il disegno a mano libera, il gesto poteva mantenere la sua spontaneità e promanare direttamente dal cervello, rendendo la mano una pura estensione della mente. Questi concetti a quanto pare circolarono più rapidamente fra i libri a stampa che tra le varie realtà degli ambienti artistici.                                                   A Roma in particolare, alla fine del secolo, sembra che all’Accademia di San Luca, Federico Zuccari non riuscisse, seppur incitando i colleghi a ragionare “come pittore e come filosofo”, a stimolare un vero e proprio dibattito teorico à156°aneddoto: “un concetto così nuovo e molto difficile” (Romano Alberti, Origine et progresso dell’Accademia del Disegno de’pittori, scultori et architetti di Roma, Pavia 1604).                                                                                            Egli avrebbe comunque poi sviluppato la famosa distinzione tra disegno interno e disegno esterno nei primissimi capitoli de L’Idea de’ pittori scultori et architetti (1607), costruendo le basi della sua teoria artistica, imponendo il termine “disegno” inteso come trait d’union tra intelletto e manualità; rivendicando d’altronde la formazione di uno specifico vocabolario artistico senza attingere al lessico di altre discipline. 3.2.1.2 Il colore e la luce: La questione del colore e della luce risultava alquanto penalizzata in                   un dibattito che assegnava il primato al disegno senz’altro l’aspetto più teorizzato di tutto il Cinquecento.                                                                         Specialmente in ambito fiorentino, fin dalla tripartizione albertiana,                   il colore fu giudicato come la terza e ultima parte dell’arte, gerarchicamente meno rilevante ed un argomento generalmente tratto con maggiore superficialità. Nell’ambito del paragone con la poesia, il colore era solitamente associato all’elocuzione, la terza parte della poesia.                           Come una sorta di ultima mano necessaria alla conclusione dei lavori, relegando pertanto il colore ad un ruolo prevalentemente ornamentale.     Su questo punto, le osservazioni di Vasari in merito alla Cappella Sistina sono di fondamentale importanza phè permettono di illustrare quel dibattito in corso tra disegno e “varietà di tinte et ombre di colori” à157°aneddoto: “l’altra via dell’arte”(giorgio vasari, le vite, firenze 1568): l’autore commenta il Giudizio Universale di Michelangelo; a differenza di altri, Michelangelo non ha negletto(?) il colore, rendendolo un maestro. Nella lettera di Sebastriano del Piombo, è presente una vivida testimonianza in cui si evidenziano le implicazioni teoriche emerse dal confronto a distanza tra Michelangelo e Raffaello, intrinsecamente legate alla disputa tra scultura e pittura à158°aneddoto : “il raffaello delle figure troppo sfumate” (sebastiano del piombo, lettera a michelangelo, roma 1518).      Anche Vasari, sempre nel nome del disegno, criticava quel Raffaello, da un lato per “l’avergli fatto colorire ad altri col suo disego”, dall’altro per avere “quasi per capriccio, adoperato il nero di fumo da stampatori” nella sua Trasfigurazione. Nei trattati di Benevenuto Cellini, l’attenzione rivolta al colore resta piuttosto marginale, tranne che nella sezione dedicata alla smaltatura, equiparata ad una sorta di pittura. Per lui, una delle principali ragioni dell’inferiorità della pittura sulla scultura è da attribuire proprio al colore. Rifacendosi al concetto di rilievo discusso da Michelangelo nella lettera a Varchi, egli considera il grado di eccellenza raggiunto da Michelangelo nella pittura come intrinsecamente legato alla sua attività di scultore.                                            Il tema della vaghezza dei colori ingannatori o quello del volgo incapace               di riconoscere la buona pittura emerse in contrapposizione alle usanze coloristiche medievali dell’oro e dell’azzurro oltremarino ricavato da lapislazzuli; è un tema che si riscontra tanto negli appunti di Leonardo (161) quanto presso Lodovico Dolce (159) o ancora nel trattato di Cristoforo Sorte (160).                                                                                                                           Tutti prendono le distanze da quel gusto per lo sfarzo dei colori preziosi. à159°aneddoto: “l’apparenza ingannevole dei colori” (Lodovico Dolce, lettera a Gasparo Ballini, venezia ante 1559): prima testimonianza tangibile della comparazione tra Raffaello e Michelangelo.                                                         Nel brano, riguardo al colore, Tiziano è considerato dall’autore, assieme a Raffaello e Michelangelo, come uno dei “tre chiarissimi lumi della Pittura”. Per lui chi critica raffaello o è invidioso o “apprezza di più certa superstiziosa vaghezza dei colori, che l’arte” e “non dico che i bei colori non adornino,        ma se avviene che sotto il colorito et insieme al colorito non si contenga la bellezza e perfezione del disegno, la fatica è vana” à per spiegarsi ricorre all’esempio di donne che si truccano (se si truccano ma non sono belle,           il trucco non impedirà alla bruttezza di apparire). à160°aneddoto: “per appagare gli ignoranti” (Cristoforo Sorte, osservazioni nella pittura, venezia 1580): l’autore riflette sui colori che convengono ala rappresentazione delle cose divine, qui in particolare del corpo del Cristo, per il quale raccomanda l’uso di colori dolci e soavi invece che colori fissi come per quelli di ogni uomo. à161°aneddoto: “qual è il primo obbiettivo internazionale del pittore” (Leonardo da Vinci, Libro di Pittura III, 1508-10): l’obioettivo non è la bellezza dei colori ma la bellezza e meraviglia “del dimostrare di rilievo la cosa piana”(quindi rendere una figura piatta in rilievo grazie a ombre e luci o anche chiaroscuro). Oltre al valore degli ori e degli azzurri, venne non di meno discusso l’impiego del colore puro. Fatto sta che la formulazione della teoria del colore fu penalizzata si ada questi pregiudizi sia dal primato del disegno. Visionario sotto molti punti di vista, il pensiero leonardesco superò invece tutti questi ragionamenti, assegnando un posto di primaria importanza al colore con un’inedita attenzione al fenomeno delle ombre (161), tanto da affermare: “di molta maggiore investigazione e speculazione sono le ombre nella pittura che li loro lineamenti”.                                                                                      Interessato qual era allo studio della percezione visiva, fu ben conscio di quanto la luce, senza la quale l’occhio no vede, fosse essenziale per far emergere i volumi e pertanto il rilievo.                                                                              L’attenta osservazione della natura lo aveva portato ad indagare la variabilità del colore in funzione delle ombre e delle distanze (162 e 163). à162°aneddoto: “quanta distanza si perdano li colori delli obbiettivi de l’occhio”(leonardo da vinci, libro di pittura II, 1505-10 ca) à 163°aneddoto: “dell’azzurro di che si mostrano essere li paesi lontani”(leonardo da vinci, libro di pittura III, 1510-15 ca): le cose remote sono più azzurre Colore e luce erano per Leonardo dei fenomeni interdipendenti. Fondamentale quindi lo sviluppo che diede al pensiero di Alberti sulla questione del chiaroscuro, o del cosiddetto “sfumato”, quella sapiente combinazione di luci e ombre che egli applicò in particolare ai lineamenti (164 e 165): una pratica che, sotto l’azione delle luci e delle ombre, conduceva proprio alla dissoluzione del disegno. à 164°aneddoto: “del chiaro e scuro” (leonardo da vinci, libro di pittura V, 1508-10 ca) à 165°aneddoto: “luci, ombre, lineamenti e diligenza” (leonardo da vinci, libro di pittura, II 1492 ca) Sulle orme di Alberti, Vasari puntò l’attenzione soprattutto sul concetto di amicizia dei colori, subordinando la variazione del colore locale alla nozione di “unione nella pittura”, alla ricerca cioè di una “bellissima discordanza accordatissima” (166). à 166°aneddoto : “l’unione nella pittura” (giorgio vasari, le vite, Firenze 1550): “la unione nella pittura è una discordanza di colori diversi accordati insieme, i quali, nella diversità di più divise, mostrano differentemente distinte l’una da l’altra le parti delle figure”. In contrasto con questo approccio e con l’intento di imporre il colore quale peculiarità della scuola veneta, Paolo Pino e Lodovico Dolce furono autori       di decisive descrizioni al riguardo della pittura tonale à167°aneddoto:            “un color bruno”(lodovico dolce, dialogo della pittura, venezia 1557)                 “è la principale parte del colorito il contendimento che fa il lume con l’ombra, è il colore che fa pare le figure tonde e più o meno distanti e a rendere morbide le carni”. Colore bruno anziché nero. Se Dolce sottolineò il perfetto connubio tra disegno e colore nelle opere di Tiziano (159), Vasari dal canto suo volle relativizzare il primato del disegno (non basta solo il saper disegnare).                                                                                      Nella contesa tra i difensori del disegno e quelli del colore, è interessante dunque notare come tutti sostenessero la necessità di entrambi. In parallelo all’evoluzione di queste teorie artistiche, l’approccio simbolico del colore ereditato dai secoli precedenti trovò in Lomazzo una sua originale formulazione. Contrariamente agli sviluppi teorici leonardeschi e veneti, à181°aneddoto : ”imitare in parte la natura, in parte l’antico” (lodovico dolce, dialogo della pittura, venezia 1557): ma anche delle opere d’arte antiche solo le parti migliori. Se non regolato dal “buon giudicio”, il ricorso ai reperti classici era considerato piuttosto rischioso.                                                                                             Lo stesso genere di rischio riguardava l’imitazione dei maestri,                              già aspramente criticata da Leonardo quale scorciatoia troppo comoda à182°aneddoto: ”de l’imitare li pittori” (leonardo da vinci, libro di pittura II, 1508-10). In tale contesto l’accusa coinvolgeva altresì quella tradizionale formazione artistica di bottega, prendendo a modello le opere di un solo maestro. Al crescere della nozione di invenzione, si diffuse anche l’opinione negativa nei confronti dei cosiddetti “imitatori”.                                                                               Il dibattito sulla legittimità dell’imitazione si era avviato pure in ambito letterario. Le osservazioni di Giulio Camillo ebbero indubbiamente degli echi presso i teorici dell’arte à183°aneddoto :”imitare un perfetto” (giulio camillo detto Delminio, trattato della imitazione, venezia 1544): l’autore prende la difesa di cicerone quale valido modello di lingua e d’eloquenza. Imitare “la perfezion di mille raunata in uno” era un buon metodo per progredire, quand’invece seguire il modello della natura comportava in se un’involuzione artistica.                                                                                                     Vincenzo Danti sembrava voler proprio sottolineare l’essenzialità di questi concetti, innalzando la figura di Michelangelo al rango di modello assoluto à184°aneddoto :”imitare la bellissima maniera di michelangelo” (vincenzo danti, trattato delle perfette proporzioni, firenze 1567). Si noti come per Giulio Camillo il principio di imitazione conducesse ad       una tangibile classificazione storico-cronologica degli autori, quasi che               tale filiazione generasse una genealogia di stili.                                                             La non imitazione comportava invece la mancanza d’ordine, la bruttezza       e il bizzarro. E’ interessante constatare come alcuni deridessero fin da subito la straordinaria ondata di epigoni delle opere di Michelangelo.                               In particolare Pietro Aretino notò quanto l’imitazione incondizionata di Michgelangelo, oiramai già quasi diventata topos, conducesse alla perdita del proprio stile. Era solo il preludio della sfortuna che avrebbe colpito gli artisti dell’epoca della Maniera.                                                                                              Per non pochi critici, l’imitazione dei maestri, perfino dei migliori, conduceva alla ripetizione a alla poca varietà, ovvero a “quello che da pittori oggi in mala parte è chiamata maniera, cioè cattiva pratica, ove si veggono forme e volti quasi sempre simili” scriveva Lodovico Dolce.                                                        Ecco che nello stesso tempo in cui prendeva campo la dottrina dell’Idea,          di un’arte fondata sulla fantasia dell’artista, accogliendo in una certa misura pure il concetto dell’imitazione dei predecessori, crebbero ugualmente i sostenitori di una natura intesa quale unica fonte primordiale di ispirazione per gli artisti. Del resto, specialmente per la Chiesa, non doveva essere accettabile l’idea di una natura imperfetta, poiché opera divina.                                                                     Alla fine del secolo, Gregorio Comanini riprese la distinzione evidenziata          da Danti, ma rovesciandone i termini e criticando, anche se un po' suo malgrado, l’ ”imitazione fantastica” (186).                                                                         Così facendo egli avrebbe ridimensionato il ruolo dell’immaginazione nel processo creativo, anticipando la condanna belloriana della Maniera.à186°aneddoto : ”l’imitazione icastica e fantastica” (gregorio comanini, il figino, mantova 1591): l’imitazione icastica imita le cose quali sono, quella fantastica finge cose non esistenti. 3.2.2.2 Il ritratto: Nell’ambito del parallelismo tra poesia e scrittura, il tema del ritrattistica è stato spesso presente tramite il confronto tra il ritratto dipinto e quello scritto. Dopo la pittura di storia, il genere del ritratto godeva di una peculiare attenzione poiché legato alla leggenda pliniana della circumductio umbrae. Fin dalle orogini dunque, al ritratto era associata una funzione commemorativa, cosiichè la raffigurazione dal vivo risultava una componente determinante per raggiungere tale fine.                                                  La ricerca di ritratti i più somiglianti possibili all’effigiato fu una delle costanti preoccupazioni ad es di Vasari, non solo per quanto concerne le incisioni delle Vite, ma anche per le innumerevoli pitture di Palazzo Vecchio legate alla storia della famiglia Medici à187°aneddoto :”render vive le persone morte”(giorgio vasari, Ragionamenti, Firenze 1588). Sulla scia dei modelli di Varrone e di Giovio, Vasari aveva creato una vera     e propria collezioni di ritratti da inserire all’interno della pittura di storia.     Le sue osservazioni sul metodo adottato sono singolari e forniscono un condensato della storia ritrattistica 400esca fiorentina, ricordando inoltre        la pratica delle maschere mortuarie messa a punto da Verrocchio, un’innovazione tecnica di non poco conto.                                                                        La somiglianza era un criterio essenziale e necessario per garantire il riconoscimento dell’effigiato, ma non più sufficiente per la teoria 500esca sempre più orientata alla rappresentazione del mondo delle idee.                       Si trattava di superare la natura svelando i temperamenti i moti dell’anima. Non a caso le teorie fisiognomiche, sintetizzate nel De humana physiognomonia di Giambattista della Porta, ebbero un certo successo durante il secolo, considerate ad esempio utili allo scultore,                                     secondo Pomponio Gaurico, soprattutto per rappresentare gli uomini illustri del passato di cui si erano persi i tratti à188°aneddoto : ”lo scultore e la fisiognomica”(pomponio gaurico, de sculptura, firenze 1504)                                 es occhi grigi e poco incavati=coraggioso e forte; occhi infossati=simulatore, ingannatore, malizioso; chi li ha immobili e fissi=severo ecc. Se di Vasari occorre ricordare la famosa descrizione della Gioconda,                    non sono da trascurare neppure le notevoli descrizioni dei ritratti di Lorenzo il Magnifico e di Alessandro de’ Medici, in quanto paradigmatici ritratti di Stato à189°aneddoto : ”il ritratto di alessandro de medici” (giorgio vasari, lettera a ottaviano de medici, firenze 1534). Spinto ben oltre il concetto di somiglianza, ora il pittore si addentra a tutti gli effetti nel campo dell’emblematica per dare risalto alla funzione encomiastica, complessa a tal punto da giudicare necessario dissipare “l’oscurità della cosa” con l’ausilio di un epitaffio.                                                                                                                   Non più sufficiente, l’impronta della natura divenne perfino ingombrante per Armenini, giungendo alla conclusione paradossale che i migliori ritratti sono “le più volte men somiglianti” à190°aneddoto : ”il primato dei ritratti meno somiglianti ” (giovan battista armenini, de’ veri precetti della pittura, ravenna 1587). Da una parte si imponeva una netta gerarchia dei generi,                                         dall’altra si concretizzava in tal modo l’egemonia dell’invenzione anche a livello del ritratto. In una lettera del 1543, Claudio Tolomei commissionava il suo ritratto               a Sebastiano del Piombo (191) Il documento rappresenta una chiara testimonianza dei dibattiti in corso sul diritto al ritratto, animati dalle             stesse problematiche sociali e morali che riguardavano il diritto alla biografia. à191°aneddoto : ”uno specchio divino” (claudio tolomei,                     lettera a sebastiano del piombo, roma 1543): non è noto se l’opera sia mai stata realizzata. L’artista voleva ritrarlo, tolomei non era sicuro perché il suo desiderio di venire ritratto poteva essere ambizione o vanità. In questo campo ebbero certamente un grande impatto le osservazioni di Pietro Aretino a difesa di una ritrattistica elitaria à192°aneddoto: “non dee lo stile ritrar testa, che prima non l’habbia ritratta la fama”(pietro aretino, lettera a leone leoni, venezia 1545).                                                                                     A emulazione di Erasmo da Rotterdam, egli fu l’uomo di lettere più     effigiato dei suoi tempi: le medaglie e i ritratti a lui dedicati sono paragonabili in quantità soltanto a quelli di Carlo V.                                                      E proprio perché conscio del potere dell’immagine, volendo imporre la propria autorità e temendo forse una svalutazione di siffatto strumento di propaganda, ne biasimava una sua eccessiva democratizzazione. Con tono retorico, Tolomei s’interogava invece sulla legittimità della sua commissione. Le parole dell’erudito senese già contenevano in se tutte quelle preoccupazioni legate al farsi ritrarre che si trasformarono inevitabilmente in rimprovero quattro decenni più tardi nel Discorso di Gabriele Paleotti (193). Per il cardinale, questa categoria di ritratto era              da considerarsi un chiaro manifesto di peccato di vanità, un tema peraltro sempre più frequente in quegli anni.                                                                                    à193°aneddoto : ”un non so che di onore e di riputazione” (gabriele paleotti, discorso intorno alle immagini sacre e profane, bologna 1582): l’autore si interroga sulla funzione del ritratto, distinguendo chi fa ritrarre se stesso e chi fa ritrarre un altro. Intanto il discorso intorno al ritratto proseguì il suo corso anche in seno            alle corti europee, come nella Praga di Rodolfo II, dove Arcimboldo (giuseppe arcimboldi) fece molto parlare di se con i suoi famossissimi       ritratti capricciosi, scombinando più che mai quell’equilibrio già assai precario tra natura ed invenzione à194°aneddoto : ”il successo di arcimboldo” (g.p.lomazzo, idea del tempio della pittura, milano 1590). 3.2.2.3 L’emergenza di nuovi generi: Nella gerarchia dei generi, per molto tempo il primato della figura umana relegò ad un ruolo di secondo piano sia la pittura di paesaggio che la natura morta (termine non ancora in uso).                                                                                      Tuttavia, è nel corso del Cinquecento che si devono rintracciare le prime avvisaglie di tali tipologie di pittura in quanto generi autonomi. L’importanza del paesaggio è già evidente negli scritti di Leonardo. Sia la pittura di paesaggio che la pittura di natura morta assunsero un ruolo non trascurabile in quanto criteri valutativi per distinguere le differenti scuole pittoriche: così si disprezzava la pittura dei fiamminghi (195) a causa di quella loro tendenza a voler insistere troppo su una minuta e dettagliata rappresentazione degli oggettio del paesaggio stesso.                                                 Paolo Pino, sicuro al contrario della difficoltà di simili raffigurazioni, spostava l’attenzione sulla differenza dei paesaggi (196). à195°aneddoto : ”sulla pittura fiamminga” (francisco de holanda, da pintura antiga, lisboa 1548) à196°aneddoto : ”dipingere i lontani” (paolo pino, dialogo di pittura, venezia 1548) Il paesaggio sarebbe diventato la prerogativa dei pittori veneziani.                       Pietro Aretino contribuì non poco a rafforzare quest’idea, descrivendo a Tiziano una veduta del Canal Grande in un giorno di regata (197): ekphrasis di un paesaggio storico di un vero e proprio inno alla natura, al paesaggio, alla pittura, al colore e a Venezia. à197°aneddoto :”una regata sul canal grande” (pietro aretino, lettera a tiziano, venezia 1544) Diversamente dal paesaggio, che tutto sommmato poteva anche fungere         da cornice al racconto della storia, rimanendo quest’ultima a volte in secondo piano, la natura morta era nettamente relegata ai margini dell’opera, associata alla nozione di parergon (per i greci “parerga”= aggiunte superflue) à198°aneddoto: ” i presenti rustici ” (blaise de vigenère, les images ou tableaux de platte-peinture de philostrate lemnien sophiste grec, paris 1578). L’origine antica di questo tipo di pittura è rilevabile inoltre nell’innovativa nomenclatura dei generi iconografici elaborata da Lomazzo, in cui le ocmposizioni di frutti, foglie e fiori rientravano nella categoria dei trofei, indicati con i termini di “trofei satirici e allegri”, appartenendo al registro ornamentale dei grandi cicli decorativi.                                                                               E’ chiaro che il nesso con la pittura fiamminga era all’epoca sicuramente più evidente di quello con la pittura antica.                                                                               Fatto sta che di fronte a queste immagini dagli accenti dionisiaci apparentemente prive di significato, condizionato non poco dalla cultura emblemaica nella quale era immerso, Vigenère colse la loro forza espressiva e le loro potenzialità allusive. 3.2.3 Il bello, la grazia, la sprezzatura Le riflessioni cinquecentesche sull’idea del bello ruotarono prevalentemente intorno alla teoria dell’electio, rifacendosi anche alla classica definizione aristotelica di armonia delle forme fondata sull’ordine e le proporzioni, ricordata ad esempio da Armenini à199°aneddoto : ”cosa sia la bellezza”(giovan battista armenini, de veri precetti della pittura, ravenna 1587). Sull’onda del pensiero neoplatonico ficiniano, la questione della bellezza fu per lo più dibattuta in ambito accademico assieme alla tematica dell’amore, intendendo così indagare soprattutto la componente fisica del corpo umano. Molte furono le ripercussioni in mabito artistico, come nel caso della nozione di grazia, ben riassunta da Benedetto Varchi à200°aneddoto : ”le due bellezze”(benedetto varchi, libro della beltà e grazia, firenze 1543): può esistere la grazia senza la bellezza? E quale delle due è superiore? La bellezza non può essere senza la grazia ma la grazia può stare bene anche senza bellezza.                                                                                           Grazia= “bellezza spiritale e platonica”;                                                                                 bellezza= “bellezza corporale et aristotelica”                                                                        La grazia è qui intesa quale bellezza interiore, la “bellezza dell’animo” visibile dagli effetti indotti sull’atteggiamento di un individuo, provocando quel non Nel tentativo di arginare o perlomeno di controllare la questione del traffico dei reperti antichi, fu promulgato un breve, dal papa appena eletto.                    Non era il primo provvedimento del genere, ma si trattava questa volta di metterlo in pratica con la nomina di un commissario generale, proibendo l’uscita di materiale natico dalla cità senza debita autorizzazione.                         A questa regola sfuggirono alcun peculiari situazioni.                                                 Non era rintracciabile nessuna licenza al riguardo della famosa missione condotta da Primaticcio per il re di Francia à214°aneddoto : ”una delle spedizioni del primaticcio”(francesco primaticcio detto Bologna, cedula quitantie per francesco primaticcio, roma 1544): spedizione degli stampi destinati a riprodurre in bronzo le più celebri sculture antiche di roma,             il primaticcio fece però pervenire alla corte francese anche una serie di reperti antichi. Il rilascio delle diverse tipologie di permessi divenne in realtà uno            strumento politico utile per gestire le tensioni diplomatiche.                                   Il duca di Baviera fu tra i beneficiari di questo tipo di licenze nel 1570 à215°aneddoto: “licentia extrahendi marmorea” (camera apostolica, diversa cameralia, roma 1570). Ma in pratica i controlli non furono mai             un grosso problema per coloro che intendevano accaparrarsi un ricordo romano. 3.3.1.2 L’Antico: studio, conservazione e restauro Il saccheggio della città romana diede luogo a numerose e svariate testimonianze, la più nota delle quali risulta sicuramente la lettera di Raffaello a Leone X, scritta insieme all’amico Castiglione à216°aneddoto:      ”il cadavero di quella nobil pittura”(raffaello sanzio, baldassare castiglione, lettera a leone x, roma 1519).                                                                                                  Accanto alla constatazione generale del degrado dll’Urbe, venivano talvolta attaccate alcune personalità di spicco. Testimonianze esprimevano da un lato l’attenzione nei confronti del patrimonio che stava emergendo, dall’altro quella sfrenata passione per          lo studio dell’Antico, caratterizzata da nuovi interessi storici e topografici affrontati con una nuova metodologia alle origini dell’archeologia moderna. Tra gli artisti e gli eruditi, Raffaello e Pirro Ligorio furono anche degli antiquari di notevole rilievo.                                                                                                     Come attesta Enea Vico, si avviarono i primi confronti e riscontri tra fonti scritte ed indagini sul campo à217°aneddoto: ”per lo studio delle medaglie, alla ricerca della vera storia antica”(enea vico, discorsi di m. enea vico parmigiano sopra le medaglie de gli antichi, venezia 1555): con un’appassionata esortazione al collezionismo, l’erudito antiquario Enea         Vico spiega quanto sia determinante lo studio dei “fragmenti dell’antica Città”(rovine, iscrizioni, medaglie, statue, camei ecc) a completamento delle testimonianze degli scrittori antichi. La volontà di una ricostruzione filologicamente corretta della topografia antica non riguardò soltanto Roma, ma si fece particolarmente sentire persino a Firenze. Volendo confutare la tesi di una ricostruzione e rifondazione della città in età longobarda, Vincenzo Borghini si adoperò molto per rintracciare tutti quei reperti antichi ancora presenti in città               e attestarne l’origine romana à218°aneddoto: “la scoperta del lacoonte         e altri scavi fiorentini”(francesco da sangallo, lettera a vincenzo borghini, firenze 1567). L’ottima conoscenza antiquaria divenne quindi un requisito indispensabile per tutti gli artisti. L’Antico era diventato il modello assoluto di riferimento, ovvero il secondo modello dopo la natura, come precisava cautamente Francisco de Holanda à219°aneddoto: “il secondo maestro del pittore” (francisco de holanda,       da pintura antiga, lisboa 1548-49): per lui l’eccellente pittore deve seguire solo due modelli, il primo è la natura, il secondo è l’antico. Sul piano artistico, le opere rinvenute fornivano l’occasione di un confronto non solo con il modello antico, ma anche fra artisti.                                                     Nella storia di ricezione del Lacoonte, è ben nota la sfida lanciata da papa Giulio II a chi eseguisse la copia più perfetta à220°aneddoto : “ritrarre il lacoonte”(g.vasari, le vite, firenze 1568). Non mancarono neppure degli interventi diretti sulle opere antiche,                   nel tentativo di restaurare, integrare e, a volte, reinterpretare le opere stesse, come nel caso esemplare del Ganimede di Cellini, ulteriore pretesto per un ennesimo litigio con Bandinelli à221°aneddoto: “ il ganimede di cosimo I”(benvenuto cellini, vita, 1558-67).                                                                       L’attività di restauro occupò moltissimi scultori, continuamente sollecitati        da antiquari e da collezionisti per risistemare le lacunose opere.                           In realtà, al di fuori delle grandi raccolte principesche, la maggior parte            delle collezioni private abbondavano più di frammenti di opere che di opere frammentarie. Sul tema del frammentato, Enea Vico ricordava il “maraviglioso caso” di           una statua bronzea molto ammirata all’epoca, posseduta da Andrea de’ Martini, rinvenuta sull’isola di Rodi e condotta a Venezia alla fine del 400, ovvero l’Adorante dell’Altes Museum di Berlino (222).                                                 Attingendo alla propria raccolta, Pietro Brembo avrebbe fornito un frammento di piede perfettamente combaciante, rimediando in tal modo       ad una lacuna del bronzo. Un caso sintomatico sia della politica dei doni tra collezionisti che                       di quell’ostinata ricerca volta a ricostituire l’integrità dell’opera.                             Ma tra le righe di Vico si legge anche quella chiara volontà di fornire, attraverso l’esemplare ricongiungimento, la prova diretta dell’antico       legame tra le terre italiane e le terre greche, da dove in quegli anni stavano rispuntando le radici di una cultura comune.        à222°aneddoto: “la storia del mezzo piede mancante” (enea vico, discorsi di m.enea vico parmigiano sopra le medaglie de gli antichi, venezia 1555): la statua è oggi nota come “l’Adorante di Berlino”. 3.3.2 L’Antico e la teoria architettonica 3.3.2.1 I vitruviani: Alla voce studio dell’Antico, un posto a parte spetta alla fortuna dei dieci libri del De architectura di Vitruvio.                                                                                             Il suo trattato rappresenta uno dei più interessanti casi di trasmissione culturale dovuto a una lunga tradizione manoscritta (paragonabile ad esempio a quella degli scritti biblici), costituita da annotazioni o illustrazioni ascrivibili a ogni periodo storico e provenienti dalle più disparate esperienze culturali. Ma lo studio del testo vitruviano conobbe una decisiva accelerazione con l’apparizione della stampa.                                                                 Per comprendere appieno quella fucina di studi vitruviani romani all’altezza dei primi due decenni del 500, occorre rifarsi alla lettera di Raffaello, nella quale egli promette una serie di disegni per il progetto di Fabio Calvo à223°aneddoto: “sul vitruvio di fabio calvo per raffaello” (raffaello sanzio, lettera a marco fabio calvo, roma 1514): la lettera documenta la collaborazione tra raffaello e lo studioso ravennate nel progetto di volgarizzamento del De architectura di Vitruvio.                                                            Avventurandosi nella difficilissima impresa di una traduzione commentata del testo, Antonio da Sangallo il Giovane pose subito l’accento sulle difficoltà in merito alla comprensione generale del testo, legata principalmente al contesto semantico del vocabolario e all’assenza delle originali figure vitruviane à224°aneddoto: “il vitruvio di sangallo: motivi                                     e metodo”(antonio da sangallo il giovane, codice magliabechiano c, 1531 /1539). Convinto che per scrivere d’arte si dovesse prima aver acquisito delle specifiche competenze grazie a degli studi classici e a una solida formazione pratica, consapevole poi delle infinite interpolazioni subite dal testo nel corso degli anni, egli criticò coloro che lo avevano preceduto.                    Il tentativo di Sangallo, è da ricondurre in quell’orbita di studi vitruviani della cerchia accademica dei Virtuosi, radunati attorno alla figura del cardinale Alessandro Farnese negli anni 40 del 500, focalizzati sul De architectura, e di cui è rimasto famoso il programma sintetizzato da     Claudio Tolomei, ovvero “l’ordine di questo nuovo studio d’architettura” à225°aneddoto: “un programma di studio sistematico” (c.tolomei, lettera al conte agostin de landi, roma 1542): su richiesta del conte, tolomei espone il piano di studi sul testo di vitruvio programmato dall’ccademia della Virtù. L’obiettivo ultimo era quello di stabilire una nuova norma, una nuova teoria architettonica e quindi un nuovo lessico. Interessante è l’approccio sistematico del De architectura, poiché coinvolgeva un cospicuo gruppo di eruditi e di architetti anche a livello internazionale Il progetto dell’Accademia non raggiunse però i traguardi delineati e ambiti da Tolomei. In tale ambiente però, pochi anni dopo, videro la luce ad esempio le Annotationes di Guillaume Philandrier, pubblicate nel 1544 e la Regola di Vignola nel 1562 à226°aneddoto: “ai lettori della regola” ( iacopo barozzi detto il Vignola, Regola delli 5 ordini d’architettura, roma 1562). Una valida traduzione in volgare di Vitruvio, accompagnata da un corredo illustrtivo si qualità, giunse invece nel frattempo dall’ambiente umanistico veneto, frutto del sodalizio tra Daniele Barbaro e Andrea Palladio.                       Se Barbaro riconobbe Palladio soltanto come autore dei disegni più importanti (227), sta di fatto che la loro collaborazione fu invero molto più intensa: perizia archeologica e tecnica dell’architetto per dare esito a questo nuovo e cospicuo commento del testo vitruviano, senza dubbio il più evoluto e riuscito di tutto il Cinquecento. à227°aneddoto: “daniele barbaro e andrea palladio” (i dieci libri dell’architettura di m.vitruvio, tradotti e commentati da mons.daniele barbaro, venezia 1556): sul metodo e sulla collaborazione con l’architetto per la restituzione del corpus illustrativo vitruviano. 3.3.2.2 Imitare, adattare o reinventare l’Antico? Stampato a Venezia nel 1537, il volume Regole generali di archiettura sopra le cinque maniere de gli edifici di Sebastiano Serlio fu il primo trattato a diffondere, su scala europea, il sistema di ordini architettonici codificati alla fine di quel processo di ricostruzione avviato fin da Alberti à228°aneddoto: “le cinque maniere de l’edificare”(sebastiano serlio, volume Regole generali di archiettura sopra le cinque maniere de gli edifici, cioe, thoscano, doprico, ionico, corinthio, et composito, con gli essempi dell’antiquita, che, per la magior parte concordano con la dottrina di Vitruvio, venezia 1537). L’elaborazione della regola tecnica per disegnare la voluta ionica,                         oggetto di non poche rivalità e probabili appropriazioni illecite,                              fu una delle grandi problematiche della teoria degli ordini             à229°aneddoto: “la voluta ionica” (giuseppe salviati, regola di far perfettamente col compasso la voluta et del capitello ionico, venezia 1552): emergono le preoccupazioni del pittore veneziano sull’appropriazione illecita del procedimento da lui messo a punto per disegnare correttamente la voluta del capitello ionico vitruviano. Dalle Fiandre alla Spagna, il successo di Serlio fu sconfinato.                                   La chiara fama gli procurò d’altronde qualche detrattore:                                          Francisco de Holanda, in quanto paladino di quella passione per l’Antico           in terra portoghese, denigrò la libera interpreatazione del testo vitruviano; decenni più tardi, il difensore della “licenza poetica” Lomazzo, al contrario, definì Serlio come il principale colpevole della diffusione di una regola troppo restrittiva, vera causa di una generazione di architetti dilettanti e senza genio. Stabilire un sistema di norme, frutto dell’assiduo studio dell’Antico, fu in realtà una tappa fondamentale nel procedimento che mirava prima ad assimilare il modello antico per poi superarlo, riuscendo tutto sommato a elaborare dei “concetti anticamente moderni e modernamente antichi”. Tuttavia, non tutto venne regolato rigidamente.         E’ il caso dell’ordine composito, il quale permise a Philibert De l’Orme di mostrare tutto il proprio genio                                                                                 à230°aneddoto : “l’invenzione di un composito ionico” (Philibert De l’Orme, le premier tome de l’architecture, paris 1567-68): l’autore presenta una serie di ordini compositi, come ad es questa variante ionica di sua invenzione, facendola comunque passare per antica. L’idea di una licenza che superasse la regola era molto chiara del resto anche a Wendel Dietterlin, autore di curiose interpretazioni antropomorfiche degli ordini à231°aneddoto: “contro la regola, per la bellezza” (Wendel Dietterlin, architectura de postium seu portalium ornatu vario, strasbourg, 1595). A livello dielle tipologie architettoniche, si prestò molta attenzione (cercando di adattare le loro forme in funzione dei criteri dettati dalle pratiche culturali e dalle esigenze sociali del nuovo tempo) ai templi,                                   ai teatri, alle basiliche, alla città e, in ambito privato, alle ville.                                     Gli scritti di Palladio esemplificano bene si ala questione in relazione                         al tempio (232) che alla villa (233). à232°aneddoto: “le forme dei templi” (andrea palladio, i quattro libri dell’architettura, venezia 1570): spicca la nozione di decorum sulla questione delle varie piante degli edifici sacri à233°aneddoto: “una villa all’antica a maser” (andrea palladio,                          i quattro libri dell’architettura, venezia 1570) L’ideale della villa classica portava con se un modello di vita rurale civilizzata, intesa come un luogo ameno dove coltivare, in armonia                                           con la natura, l’ozio e i poderi della campagna, un sano rifugio dalla                   vita cittadina in preda, per contro, alla degenerazione morale.                                sottosuolo, con la conseguente associazione ai mondi oscuri delle tenebre e del male. Lomazzo, disinteressato rispetto al loro impiego antico, si concentrò sul presente. Lomazzo raccomandò delle grottesche un uso moderato e regolato, limitato ai soffitti, come già suggerito da Serlio; cosicchè all’elogio della fantasia si combinava ora il caratteristico horror vacui della Maniera. Horror vacui è una locuzione latina che significa letteralmente "terrore del vuoto", concetto conosciuto in psicologia come cenofobia o agorafobia. Nell'arte definisce l'atto di riempire completamente l'intera superficie di un'opera con dei particolari finemente dettagliati. 4. L’invenzione tra regola e licenza Appartenente alla fase progettuale dell’opera, l’invenzione fu una                       nozione di grande rilievo nella teoria dell’arte del Cinquecento.                             Se per Leon Battista Alberti era da intendersi come “componimento”                  e “circoscrizione”, alla fine del ecolo con Lomazzo si sarebbe sovrapposta        al concetto di Idea. La scelta della soluzione interpretativa più idonea di un determinato soggetto ricavato da vari tipi di fonti, prevalentemente testuali, fu quasi sempre affidata alla nascente figura del consigliere iconografico.                          Nei paragrafi seguenti vedremo la notevole ingerenza degli uomini di lettere, nonché talvolta dei committenti, sul lavoro e sulle scelte degli artisti. Così, mentre le opere d’arte si arricchivano di intricati significati simbolici e allegorici, grazie alla collaborazione tra letterati ed artisti,                                  i vescovi della Controriforma tentarono al contrario di frenarne lo sviluppo, privilegiando una maggiore chiarezza e immediatezza di lettura, invitando ad una generale codificazione delle immagini e sostenendo la necessità di un “linguaggio commune a tutte le sorti di persone”, come scrisse Gabriele Paleotti à282°aneddoto: ” un linguaggio commune a tutti” (gabriele paleotti, discorso intorno alle immagi sacre e profane, bologna 1582): paragonando le pitture ai libri, il cardinale attribuiva alla pittura una funzione educativa fondamentale. 4.1 Verso una scienza dell’immagine 4.1.1 L’artista, l’erudito e il committente: Già Alberti raccomandava al pittore di avvalersi della collaborazione di un letterato, soprattutto per mettere a punto le composizioni più elaborate; generalmente infatti, il pittore non riceveva una vera e propria formazione umanistica. A cavallo tra le due discipline, l’arte e le lettere, l’invenzione venne considerata a tutti gli effetti parte integrante dell’attività lavorativa dell’artista, ma anche una delle attività intellettuali più congeniali all’erudito. Pur non mancando le eccezioni e i casi particolari, si giunse pertanto progressivamente alla costituzione di una triade alla base del processo produttivo dell’opera d’arte cui ruoli fuorono più o meno stabiliti come segue: il committente, ovvero colui che ordinava e finanziava l’esecuzione dei lavori, avanzando personali e specifiche richieste;                                     il consulente, inteso come il responsabile dell’invenzione e comunque garante della validità del progetto a livello iconografico; l’artsita,                                         a cui spettava l’elaborazione della composizione nella sua globalità e l’interpretazione in chiave figurativa sia dei soggetti imposti dal committente che dei suggerimenti proposti dal consigliere. La maggior parte dei consigli o delucidazioni erano solitamente discussi            di persona, ergo poche testimonianze del rapporto tra artisti ed eruditi.       Per quanto riguarda le fonti scritte, occorre volgere l’attenzione soprattutto alla documentazione epistolare, resasi necessari in quei casi in cui veniva a mancare il contatto diretto fra le parti; ne è un esempio il procedimento di elaborazione delle complicate iconografie dello Studiolo di Francesco I de’ Medici presente nelle lettere inviate da Vincenzo Borghini a Giorgio Vasari à249°aneddoto : “l’invenzione per lo studiolo” (vincenzo borghini, lettera a giorgio vasari, poppiano 1570). Era chiaramente più conveniente fornire le indicazioni direttamente di persona. Anche un altro insigne consulente iconogtrafico, Annibal Caro, ricorda               che “non basta che vi si dichino a parole, perché, oltre all’invenzione,               vi si cerca la disposizione, l’attitudini, i colori et altre avertenze assai”.               Proprio da questa necessità di spiegarsi per iscritto scaturì uno dei documenti più interessanri per lo studio della genesi dei grandi cicli decorativi.à248°aneddoto : “brevemente ma diatintamente” (annibal caro, lettera a taddeo zuccari, roma 1562). Tra le rare testimonianze della prima metà del secolo ricordiamo la famosa lettera scritta da Isabella d’Este a Pietro Perugino nel 1505, concernente la commissione di un quadro allegorico per il suo studiolo.                                           In questa lettera ritroviamo tutte le peculiari richieste della marchesa con precise indicazioni iconografiche a cui il pittore doveva fedelmente attenersi (247). Sono ridottissimi i margini d’azione lasciati a Perugino.                                 Isabella ricorda, in un'altra lettera, come il significato del dipinto fosse stato minuziosamnete ideato da Paris de Cesari, umanista, a cui la marchesa consigliava vivamente di rivolgersi nel caso fossero sorti dei dubbi o delle difficoltà nel decifrare gli sfiziosi desideri frutto di una maturata riflessione filosofica sull’amore. Ma se il Perugino cercò in tutti i modi di interpreatre con il pennello i concetti stilati dal Cesari, la marchesa non ottenne la stessa condiscendenza da Giovanni Bellini, più reticente di fronte ai tanti vincoli imposti. à247°aneddoto: “la poetica nostra invenzione” (isabella d’este, lettera a perugino, mantova 1503): il dipinto in questione è “la lotta tra Amore e Castità” oggi al Louvre. Come si sa, pare che Michelangelo abbia avuto carta bianca per decorare la Cappella Sistina. Ciò non esclude comunque la presenza, più o meno diretta, dell’erudito. Dobbiamo intendere l’abilità creativa del grande maestro come il frutto di conoscenze acquisite tramite lo studio personale e la frequentazione delle cerchie colte. Lo stesso Raffaello era solito mantenere rapporti stretti con un gruppo di eminenti eruditi. In materia d’invenziono sono molto rivelatrici anche le prime righe della famosa lettera di Raffaelo a Baldassare Castiglione, in cui, in risposta alle indicazioni ricevute dall’erudito, inviava alcuni disegni su un medesimo soggetto affinchè il Castiglione potesse scegliere il migliore. Come già accennato, i rapporti tra artisti ed eruditi erano talvolta complessi, vincolanti e persino conflittuali, talaltra collaborativi, amichevoli e franchi, indubbiamnete più affini a quanto auspicava Alberti.                                                   Vasari riuscì ugualmente a stringere importanti relazioni con una cospicua cerchia di letterati, da Paolo Giovio ad Annibal Caro, da Cosimo Bartoli a Vincenzo Borghini, spesso chiamati a contribuire alla scelta dei osggetti iconografici. Di particolare rilievo risulta una lettera di Borghini in risposta alle richieste      di Vasari riguardo al cantiere delle cappelle vaticane (250), che illustra quanto il pittore fosse libero di rivolgersi al proprio circolo di relazioni e           di amicizie per poi elaborare con le proprie forze il programma decorativo.      Dalle parole del Borghini s’intuisce come egli costituisse per il pittore di arezzo un insostituibile punto di riferimento, al quale probabilmente ricorrere senza troppi indugi. Ma in tale occasione il priore lo invitava a rivolgersi anche ad altre persone, fornendoci così delle preziose indicazioni sulla prassi e le modalità comunicative tra le parti.                                                        Nella stessa lettera egli raccomandava inoltre di rifarsi ai grandi maestri dell’Antichità, dando infine alcune succinte informazioni sulle fonti testuali da consultare per rintracciare ulteriori dettagli sulle storie scelte. à250°aneddoto: “nella fonda de’ teologi, predicatori e religiosi” ( vincenzo borghini, lettera a gioergio vasari, firenze 1570) Il talento dell’artista si eprimeva quindi pure attraverso la personale capacità di rintracciare presso i letterati del suo tempo le migliori e più appropriate indicazioni iconografiche per comporre le proprie invenzioni. Gli eruditi, almeno quelli più assidui in questo genere di attività, una volta elaborata un’invenzione per una determinata destinazione, dovevano tenerne una copia, conservandola alla stessa stregua di un qualsiasi altro componimento letterario, per poi utilizzarla in seguito all’occasione giusta.      E questi componenti dovevano circolare fra eruditi, artisti e forse gli stessi commitenti, stimolando nuove invenzioni, scambi di informazioni o facili reimpieghi. 4.1.2 Invenzione: tra arte e lettere In quasi tutti i testi appare a volte difficile stabilire con precisione i confini dell’operato dell’artista e dell’erudito. Di solito quest’ultimo era incaricato di scegliere e fornire le spiegazioni sulle storie da illustrare, il più di volte egli prodigava, è il caso di Caro, perfino taluni consigli sulla disoosizione dei personaggi, sulla composizione o sull’organizzazione spaziale delle decorazioni, invadendo in tal modo il raggio d’azione specifico dell’artista. Nella lunga lettera a Cosimo I, nonché in un’altra a Bronzino, Borghini si dimostra indulgente e accondiscente con l’artista, sebbene tale atteggiamneto fosse in parte dettato sia dall’urgenza con cui dovevano essere realizzate le decorazioni sia dalla loro natura effimera.                                 Il priore degli Innocenti sapeva all’occorrenza essere assai esigente e meticoloso a corredo delle spiegazioni scritte, egli non esitava infatti a inserire degli schemi o dei disegni commentati, come nel caso già citato di Isabella d’Este e il Perugino. Gli scambi epistolari con Vasari testimoniano della circolazione di un gran numero di schizzi utili per mettere a punto le invenzioni, necessari per completare la costruzione iconografica mentale, per mettere in forma le parole e i concetti in funzione delle dimensioni e degli spazi concessi dal committente.                                                                                  Certo, i disegni risultavano piuttosto schematici, ma è davvero significativa quest’ingenza dell’erudito in un campo tanto importante quanto quello del disegno, considerato concettualmente l’apice intellettuale dell’iter creativo. Non sempre la collaborazione si rivelò amichevole o cordiale di fronte alla palese ingerenza dell’erudito, il quale assunse talvolta quasi il ruolo di direttore dei lavori. Non pochi sono i casi in cui l’artista non accettò queste intrusioni, protestando più o meno cortesemente o veementemente.                Già non era semplice sottostare ai vincoli imposti dal committente, il iù delle volte non condivisi à es la risposta di Bellini alla marchesa di Mantova offre un chiaro esempio di come l’artista difendesse la propria libertà d’espressione anche al cospetto di un committente esigente. Tornando ai rapporti tra artista ed erudito, è arcinota la vicenda della mancata collaborazione per il Giudizio Universale tra Michelangelo e Pietro Aretino, il quale si vide respingere non poco cortesemente la proposta d’aiuto. Inserita in un contesto idealizzante, è suggestiva la testimonianza autobiografica di Benevenuto Cellini, a proposito della genesi del progetto della Saliera di Francesco I.                                                                                                        Il resoconto dell’artista illustra in questo caso una situazione alquanto               più gioviale, in cui il colto Ippolito d’Este, protettore dello scultore, si reca quotidianamente in visita all’artista accompagnato dagli amici, in una situazione tutto sommato ispirata al topos della visita del grande protettore alla bottega dell’artista.                                                                                                     Tuttavia, Cellini respinge le proposte fornite degli eruditi, ricerca autonomamente i significati dell’opera, volendo assumere un ruolo da protagonista. Con questo cordiale litigio egli ribadisce, indipendentemente dall’attendibilità storica, il suo rifiuto nell’eseguire ciecamente i voleri dell’erudito, invocando la piena autonomia dell’artista.                                           questione puramente definizionistica.                                                                                 L’altro aspetto ricorrente e centrale fu la problematica relazione tra testo         ed immagine, cosicchè tutti gli autori trattarono delle proporzioni tra “corpo” e “anima”, ovvero tra la figura e il motto, dettando minutamente i principi di composizione di questo “nodo di parole e di cose”. Particolarmente interessante la discussione sulla lingua da adottare per il motto, che Giovio raccomanda “diversa dall’idioma di colui che fa l’impresa, perché il sentimento sia alquanto più coperto”.                                                   Nascondere il senso dietro un idioma straniero ne avrebbe accentuato il diletto, perdendo l’immediatezza di lettura e rendendo a prima vista più enigmatiche le stesse parole.                                                                                             Oltre a ciò vi è in tutti gli autori la volontà di promuovere la dimensione concettuale dell’impresa, imponendola come componimento poetico dall’inconfutabile valore filosofico tanto da essere definita dall’Ammirato appunto la “filosofia del cavaliere” à275° aneddoto: ”la filosofia del cavaliere”(Scipione Ammirato, Il Rota overo delle imprese, napoli 1562). 4.2 L’invenzione e la Controriforma 4.2.1 Nel nome dell’utilità e della convenevolezza: Assai prima che fossero rese note le conclusioni del Concilio di Trento, erano da tempo già sorte svariate controversie al riguardo di certe opere d’arte. Il tenore di vita lussuoso e le abitudini a dir poco dissolute dei membri della Curia provocarono un inevitabile clima di tensione in relazione alla nascente Riforma protestante. Lo sguardo critico delle dottrine d’oltralpe sulla Roma godereccia trova il suo documento più paradigmatico nel resoconto di Johannes Fichard, il quale descrive con tono ironico la stufetta all’antica installata da Clemente VII a Castel Sant’ Angelo.                       Al cuore del problema si coglie lo stupore di fronte all’inadeguatezza dei soggetti, gli dei pagani, rispetto al luogo e al committente, ossia il Sacro Palazzo ed il Santo Padre. Ancora più note sono le reazioni causate dal Giudizio Universale della Cappella Sistina. La ricezione così negativa degli affreschi si collocava in un contesto di rapido mutamento delle scelte politichge della Chiesa, costituendo l’antefatto più clamoroso delle riflessioni sul ruolo e la forma delle immagini successivamente sviluppate durante le discussioni conciliari. Due furono gli argomenti principali avanzati dalla critica: la mancanza di decoro e la confusione narratologica. Quano al decoro, secondo Pietro Aretino, il limite era stato oltrepassato, tanto da scrivere una missiva vivace e mordente : “in un bagno delizioso, non in un coro supremo, su conveniva il far vostro” à277°aneddoto: “critica al giudizio universale”(pietro aretino, lettera a michelangelo, venezia 1545). Ripensando ai consigli iconografici fatti giugere all’artista, l’Aretino sfogava in tal modo tutta la sua amarezza.                                                           Pronto a vestire senza indugi l’agognata porpora cardinalizia, egli moltiplicava in quel periodo i suoi sforzi di traduzioni, di parafrasi e d’interpretazione delle Sacre Scritture, per rendere i testi accessibili ad                             un vasto pubblico, appoggiando la politica antiluterana con un orientamento piuttosto diverso da quello di Michelangelo, nonché dall’ambito della genesi del Giudizio.           Pur continuando ad ammirare lo stile dell’artista, considerato ancora una fonte d’ispirazione, l’Aretino si schierò dalla parte di coloro che biasimavano in alto loco l’opera michelangiolesca, dando inizio ad una disputa che avrebbe goduto di una lunga fortuna letteraria, ovvero la critica all’arte “sconvenevole” di Michelangelo, paragonata in seguito al sempre onesto Raffaello. Con una lettera a Gasparo Ballini, ma soprattutto con il Dialogo,                            il poliedrico Lodovico Dolce si fece interprete e divulgatore delle polemiche sul Giudizio sorte in ambito artistico, ribadendo le osservazioni dell’Aretino per il quale nutriva una grande ammirazione.                                                                  In questo testo, la convenienza assume una dimensione fondamentale             e costituisce, insieme alla nozione di ordine, l’elemento principale della definizione stessa di invenzione.                                                                                             Il suo Dialogo inflisse un duro colpo alla fortuna di Michelangelo,                         la quale fin da subito subì un radicale ridimensionamento favorendo al ocntrario quella di Raffaello. L’argomento del “libricciuolo” di Dolce verte infatti sul “paragone di Raffaello e di Michelangelo”.                                             Ammirativo e allo stesso tempo contrariato dalla non convenienza delle pitture, egli conclude con la seguente constatazione: “e sarebbe assai meglio che quelle figure di Michelagnolo fossero più abondevoli in onestà e manco perfette in disegno, che, come si vede, perfettissime e disonestissime”à278°aneddoto: “michelangelo sconvenevole” (lodovico dolce, dialogo della pittura, venezia 1557). Legata al principio classico del decorum, ossia alla coerenza di tutti gli aspetti di un’opera, delle parti con il tutto, nella forma e nei contenuti,                             la nozione di convenevolezza, di convenienza o di decoro si affermò sempre più nell’estetica cinquecentesca, con considerevoli ripercussioni durante tutto il 600 in Italia e non, distinguendosi dal precetto antico per la notevole dimensione moralistica suscitata e accentuata proprio dal nuovo clima controriforistico. Il Dialogo di Giovanni Andrea Gilio fu il primo, in Italia,           di una serie di testi che trattavano di tali preoccupazioni, non a caso pubblicato l’anno seguente alla chiusura del Concilio (1564) à279°aneddoto: “licenza poetica e convenienza” (giovanni andrea gilio, dialogo neil quale si ragiona degli errori e degli abusi dei pittori”, Camerino 1564): Gilio dedica il trattato ad Alessandro Farnese, il Gran Cardinal, protettore delle arti e figura protagonista del periodo controriformistico. Gilio fornisce una serie di norme ispirate a quella mantalità postridentina. Se nel primo Dialogo Gilio detta delle regole di natura comportamentale, ovvero “le buone maniere” da seguire in società, nel secondo tratta invece dei codici di rappresentazione delle arti visive, dichiarando fin dal sototitolo del suo scritto l’appartenenza al filone antimichelangiolesco e moralistico. Egli invita il pittore ad accentuare il pathos delle figure, come nel caso della raffigurazione del corpo difforme del Cristo durante la Passione, nel nome       di una verità storica e in opposizione ai sublimi e atletici Cristo-Giove,                frutti dell’età della Maniera e realizzati per “mostrare la forza de l’arte”.       La ricerca frenetica dell’ideale classico di bellezza cedeva quindi il passo ad un’attenzione sempre più marcata nei confronti del coinvolgimento dello spettatore, cosicchè anche le deformità, i segni del dolore e della bruttezza erano ora auspicabili e raccomandabili, a patto che il decoro lo richiedesse e lo autorizzasse. Nel dicembre 1563, 18 anni dopo la prima convocazione del Concilio ecumenico tridentino che doveva rifondare l’ortodossia cattolica e riformare la vita del clero per far fronte al dilagare del culto protestante,                        si aprì la 25° e ultima sessione conciliare, durante la quale i vescovi trattarono della spinosa questione delle arti figurative irrimediabilmente condannate dai protestanti. Il decreto che ne scaturì fu piuttosto succinto                            e senza approfondite esemplificazioni (281). Seppur sintetiche, le indicazioni fornite dal testo ebbero un notevole imbatto sulla ridefinizione dell’utilità e dell’uso delle scare immagini nel culto della fede. à281°aneddoto: “sull’uso delle sacre immagini” (Concilio di Trento,                   De invocatione, veneratione et reliquiis sanctorum, et de sacris imaginibus, 1563). Fin dalla prima frase del decreto, rivolto a chiunque esercitasse un ruolo educativo:                                                                                                                                       1) l’arte appare intrinsecamente legata all’insegnamento religioso.                     2) La produzione di arte sacra è ora giustificata in quanto strumento didattico essenziale alla catechesi, secondo l’antico detto gregoriano            biblia pauperum.                                                                                                                            3) Si intendeva porre il confine tra devozione e idolatria, limitando                       i possibili abusi o derive nell’esercizio delle pratiche religiose.                                 4) Si trattava inoltre di ricordare il corretto uso dei principali strumenti a disposizione del clero, ossia la lettura dei testi agiografici, il culto delle immagini e delle reliquie, educando ai corretti modelli comportamentali da attuare per veicolare la fede, quegli stessi elementi considerati dagli ambienti protestanti come pericolosi e vettori d’idolatria. Nel breve testo decretale, è assai significativa la comparsa della parola venustate intesa in un’accezione peggiorativa, etimologicamente derivata dal nome della dea Venere e generalmente usata il latino per indicare la bellezza petta e maestosa, nonché carismatica e seducente, spesso femminile. Tale impiego dimostra quanto i vescovi fossero consapevoli delle preoccupazioni teoriche degli artisti.                                                                               In contrapposizione a questa classica idea di bellezza pagana, un Gabriele Paleotti avrebbe usato il termine “pulchritudo” per definire uno dei quattro fondamenti dell’arte sacra.                                                                                                       Il tema della nudità resta eminentemente latente e al cuore del problema, benchè tale parola non sia mai citata all’interno del decreto.                                  Associando la bellezza alla lascivia e alla concupiscenza, si condanna dunque implicitamente proprio quell’estetica del nudo, intrisa di paganesimo, elaborata nel Rinascimento e diffusa dagli artisti della Maniera.                             A questo tipo di bellezza, avvertita come impura, si oppone tacitamente quella devozione funzionale all’indottrinamento dei fedeli.                                     Siffatta linea di difesa e di riforma incentrata sull’utilità didattica e devozonale, in lotta con il non decoroso, ricorre nella maggior parte degli scritti d’arte di fine secolo. Fu il nodo essenziale dell’argomentatio dei teologici in risposta agli iconoclasti in terra protestante, ribatida recocemente del resto anche               da Dürer. In Italia, il cardianle e arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, canonizzato nel 1510, fu il primo che trattò le nuove norme nel suo Instructionum, fornendo le direttive relative all’arte sacra, pubblicato in latino nel 1577. Nell’esaminare i canoni per la realizzazione delle nuove chiese, egli segue i dettami delle direttive tridentine, fissando le forme e le funzioni di ogni area all’interno dell’edificio, a cominciare dalla pianta stessa, ma anche indicando le iconografie più adeguate alla decorazione degli spazi. Il vescovo di Bologna Gabriele Paleotti scrisse il suo Discorso in volgare per un pubblico molto più variegato, rivolgendosi all’intera comunità della sua diocesi e soprattutto agli artisti.                                                                                             In merito alle opere d’arte, in realtà l’obiettivo era molto più ampio, dichiarando fin dal titolo di voler dettare “il vero modo che cristianamente si doveria osservare nel porle nelle chiese, nelle case et in ogni altro luogo”. In altre parole, egli intendeva normalizzare il rapporto quotidiano dei fedeli con l’arte, tracciando una chiara linea di confine tra arte sacra e arte profana, proprio in un momento in cui la “Maniera moderna” era giunta progressivamente a confondere con grande disinvoltura i due generi. Particolarmente esemplare il capitolo nel quale l’autore elenca le tipologie     e le cause di ciò che considera “pitture oscure e difficili da intendersi”. All’oscurità e alla confusione, aspramente combattute, la pittura di Paleotti contrappone l’eloquenza. Perciò, nel Discorso, è attenuato il viscerale legame con la poesia tanto bramato dagli artisti, esaltando piuttosto il paragone con l’arte oratoria.                                                                                         Persuadere e rappresentare la verità è il fine principale delle arti visive per istruire i fedeli, una posizione che ebbe ovviamente un notevole impatto sulla questione dell’invenzione. La chiarezza e l’ordine si affermavano ormai come criteri che dovevano imperativamente e necessariamente essere presenti nelle composizioni delle opere. Lo scritto del vescovo di Bologna, il quale prevedeva in tutto ben 5 libri,            non fu completato, laciando incompiuta la sua grande impresa di normalizzazione iconografica. Nel terzo libro, si sarebbe occupato dello spinoso problema del nudo;                nel quarto avrebbe stilato una sorta di repertorio iconografico di soggetti sacri; mentre nel quinto avrebbe affrontato il tema della decorazione dei diversi luoghi, sacri, pubblici ma anche privati, occupandosi anche delle stamperie e di tutto l’insieme di quelle professioni che avevano a che fare con le immagini. Oltre a questo trattato, intraprese la stesura di un indice di soggetti proibiti, ma siffatto progetto sfociò soltanto in un memorandum diffuso nel 1596     dal titolo De tollendis imaginum abusium novissima consideratio.                        Bastarono comunque i primi due libri del Discorso a deteminare una netta rottura con l’epoca della Maniera, inanzitutto in quella città dove si stava affermando una nuova generazione di pittori, quella dei Carracci e della scuola bolognese. 4.2.2 Censura e controllo delle immagini: Gli affreschi michelangioleschi della Sistina costituiscono un caso paradigmatico anche in merito alle soluzioni pratiche decise per                           rimediare allo sdegno generale di fronte all’imbarazzante mancanza                   di decoro. L’aura di ammirazione generale che circondava la figura dell’artista ritardò di certo le scelte sul da farsi, e forse rese più complessa la ricerca di eventuali compromessi.                                                                                 Dalla testimonianza di G.P.Lomazzo si evincono tutte le tensioni causate dall’opera del fiorentino e le voci che ne presagivano addirittura la distruzione. Il Giudizio non fu di certo mai abbattuto, ma rappresentò                                   uno dei problemi impellenti da risolvere, elencato nei 33 “decreti urgenti”                alla chiusura del Concilio di Trento.                                                                                       E’ ben nota la decisione presa da Pio IV di ricoprire con dei veli di pudore le figure del Giudizio (1536-1541), un incarico che spettò per primo a Daniele da Volterra nel 1564, pochi mesi prima della morte dell’ ”Angel divino”. Alcuni fondamentali documenti attestano, in almeno due casi, le differenti reazioni degli artisti di fronte alla censura. Raffaello Borghini valuta positivamente questa suddivisione,                                  in particolare l’idea del pittore misto, giacchè l’artista “può alquanto                  più allargarsi” nell’invenzione.                                                                                                Era per l’appunto in questa categoria, più soggetta a cadere in errore,               che sarebbero rientrati la maggior parte dei pittori contemporanei.                    In conclusione del suo trattato, Gilio torna a discutere delle “pitture miste”, e non senza un tono dispregiativo egli impiega il termine “mistura”, raccomandando nuovamente l’assidua collaborazione con gli uomini di lettere. 5. La ricezione delle opere Le attenzioni rivolte alle opere d’arte e la nozione stessa di pubblico subirono dei notevoli sviluppi nel corso del Cinqucento.                                             Inidizi di una crescente considerzione nei confronti della figura dello spettatore si riscontrarono già nell’uso dei termini scelti per dicare colui           che è di fronte all’opera.                                                                                                     Leonardo, particolarmente sensibile alla questione di percezione visiva, usava alternare la parola “riguardatore” a quella di “veditore”, spesso in associazione con “occhio”, organo essenziale della teoria leonardesca.       Negli scritti successivi, da Paolo Pino in poi, si sarebbe privilegiato invece l’uso di “riguardante”. Tutti termini che indicano un’osservazione attenta        e interessata, ma che non specificano il tipo di oggetto guardato.                         Poco frequente invece, almeno inizialmente, l’impiego in ambito artistico o architettonico del termine “spettatore”, che richiamava essenzialmente alla visione di uno spettacolo, di solito teatrale, festivo o in riferimento alle entrate trionafali; eppure, quell’accezione più ampia derivata dalla terminologia sinomica latina spectacula, miracula e mirabilia si prestava bene ugualmente al contesto delle arti visive.                                                                 Così, mentre si intensificarono i dibattiti sul fine dell’arte e sul ruolo dell’arte sacra, si prestò anche una maggiore attenzione alla figura del fruitore dell’opera. E non è un caso se riscontriamo alcune significative occorrenze del termine “spettatore” nel trattato di Gabriele Paleotti, all’interno del quale emergono i primi spunti di una teoria della ricezione , in un contesto caratterizzato da una profonda riflessione aui potenziali effetti dell’opera d’arte, alla luce della catarsi aristotelica.                                           Le arti visive si stavano decisamente teatralizzando.                                                         Occorre pertanto porre l’attenzione in questo capitolo sia sul fenomeno senza precdenti del collezionismo d’arte sia sulla genesi della critica d’arte. 5.1 Conservare ed esporre le opere d’arte: Quando nella seduta del 1504 si riunisce la commissione dell’Opera del Duomo per decidere sulla collocazione del David di Michelangelo, tutto     quel pubblico assai ampio, distratto ed in movimento davanti all’opera             del maestro viene definito “viandante”, non “riguardante” o “veditore”.           Il realtivo verbale è prezioso perché offre un importante spaccato del panorama artistico fiorentino di quegli anni.                                                                    Sono oltre a ciò interessanti i diversi pareri registrati nel verbale della seduta perché testimoniano delle consistenti connessioni simboliche e politiche che legavano il monumento alla piazza e alla storia della stessa città. Lasciare la statua alle intemperie o collocarla al riparo?                                     Questa fu la questione attorno alla quale emerse un vero e proprio dibattito, attestando peraltro già una certa idea di tutela conservativa. Molti esperti intendevano necessario il ricorso ad un’adeguata copertura, a causa del materiale marmoreo considerato di non eccelsa qualità.                                                Altri, invece, difesero con forza la soluzione della collocazione all’aperto,                     in nome di una maggiore esposizione e visibilità.                                                          Per Filippo Lippi e Piero di Cosimo, la decisione sarebbe dovuta spettare all’autore stesso dell’opera.                                                                                               L’ultima parola sull’argomento fu quindi probabilmente quella di Michelagelo e il colosso marmoreo del piccolo David divenne immediatamente l’eroe cittadinoIl resto lo fece anche il trasporto in città, contribuendo non poco a forgiare il mito michelangiolesco (40 uomini, diversi giorni ecc). Contemporaneamente all’attenzione per la decorazione dei luoghi           pubblici, crebbe inoltre quella nei riguardi delle abitazioni private                       per ciò che concerneva sia gli ambienti interni che quelli esterni.                          Giardini, cortili e logge divennero infatti i luoghi preferiti dove mettere in scena il perfetto connubio tra arte e natura, esponendo raccolte di opere antiche e contemporanee, allestendo sontuosi apparati scenografici effimeri e perenni, ma anche costruendo spettacolari giochi d’acqua, con fontane, organi idraulici ed automi. Quanto agli interni, uno dei ricordi di Sabba da Castiglione illustra bene gli aspetti principali del collezionismo cinquecentesco all’altezza degli anni 60, il gusto per le anticaglie e al contempo le “cose nuove fantastiche et bizzarre, ma ingegnose venute di Levante o d’Alemagna”.                                                     Quei suggerimenti in merito alal ricerca di opere d’arte, nonché il rammarico per la scrasa reperebilità di pregiati reperti antichi, sono rivolti per lo più all’amatore desideroso di avviare una collezione e allestire uno studiolo, anche a quello che non dispone di ingenti mezzi finanziari, come dimostra del resto il suo caso di “poevro Cavaliero”. Nella descrizone dello Scrittoio di Calliope allestito da giorgio Vasari in Palazzo Vecchio per Cosimo I de’ Medici pochi anni prima, ritroviamo invece il modello di studiolo di un principe che intende esporre i pezzi rari della propria collezione medicea così “facilmente si potranno senza confusione vedere”. Siamo qui di fronte ad una disposizione assolutamente innovativa. Contrariamnete all’usanza di conservare le opere all’interno degli armadietti, una parte degli oggetti è ora chiaramente ben esposta e in vista. E’ per di più un certo ordine storico e tipologico a prevalere su quello cosmologico, alla base invece dell’organizzazione spaziale del famoso Studiolo di Francesco I de’ Medici. Il gusto del secondo granduca per i complessi collegamneti tra arte e natura si ripercosse in qualche modo nel “fornimento” che Francesco Bembo fece eseguire nel 1586 per il ritratto di Bianca Cappello à299°aneddoto : “una cornice di pietre dure per Bianca”(Francesco Bembo, lettera a Bianca Cappello, venezia giugno 1586): cornice in ebano decorata un disegno complesso e da daspri, agate, corniole, lapis lazzoli e diamanti.                             Gli ornamenti della cornice riflettono le modalità in uso per i grandi cicli decorativi, intendendo completare il soggetto con un porto analogico tra ergon e parergon. L’impiego del complesso per tale dispositivo, ovvero la più raffinata soluzione in auge per esaltare le bellezze della granduchessa                e stupire il pubblico veneziano, rappresentava pure un chiaro omaggio ai risultati tecnici raggiunti dall’ambiente fiorentino, attestandone già il notevole successo, ancor prima della fondazione dell’Opificio delle pietre dure per volere di Ferdinando I nel 1588. Più abbiente di Sabba da Castiglione, Paolo Giovio andò ben oltre il concetto di studiolo. Fu in effetti pionieristica la sua idea di costruire, attorno agli anni 40, un’intera dimora destinata alla custodia e all’esposizione della propria raccolta artistica a imitazione dell’antico Museum edificato da Tolomeo II ad Alessandria in Egitto. Un edificio che Giovio appunto denominato “Museo” e che oggi è noto soltanto tramite le fonti à300°aneddoto: “il museo di paolo giovio” ( anton francesco doni, lettera     a agostino landi, como 1543): ispirato all’ideale di villa classica, il museo                           di giovio fu costruito tra il 1537 ed il 1543 sulle rive del lago di como.                                         La descrizione del Doni fornisce chiaramente il percorso di visita che procedeva attraverso le diverse sale e che comprendeva anche delle didascalie. La sezione della ritrattistica, dove si concretizzava il concetto di templum virtutis alla base dell’impresa, sarebbe stata idealmente arricchita dagli Elogia, a disposizione del visitatore come un libretto o un catalogo museale ante litteram. L’evoluzione del pensiero cinquecentesco sulle forme di raccolta del collezionismo trova una sua clamorosa sintesi nel giudizio di Galileo sulla poesia di Tasso à301°aneddoto: “Tasso vs Ariosto” (Galileo Galilei, Connsiderazioni al Tasso, 1587-89 ca): in piena disputa su Tasso e Ariosto che anima e divide il mondo letterario della fine del 500, Galileo, appassionato di poesia e fine critico, si schiera in difesa del poeta che più ammira, Ariosto, scagliando contro Tasso una severa critica senz’appello. Contrario alla voga delle Wunderkammern, ritenute anguste e derisorie,         egli ne fa addirittura una caricatura: sono colme di “coselline”, “fantoccini” (che sarebbero le mummie lol) e “qualche schizzetto” raccolti nello “studietto di qualche ometto curioso”. A questo genere di collezioni ad uso prevalentemente privato, Galileo oppoone la magnificenza delle collezioni principesche. Impiegando la terminologia descrittiva allora in uso, ritroviamo una sorta di linea evolutiva nell’efficace climax: “una guardaroba, una tribuna, una galleria regia”.                                                                                           Quindi in sostanza Galileo dice che Tasso è una Wunderkammen scaciosa mentre Ariosto una magnifica collezione principesca. Un tale assaggio dalla Wunderkammer alla galleria, dalla sfera privata a quella pubblica, si verificò nel caso paradigmatico di Francesco I de’ Medici, quando egli volle smantellare lo Studiolo di Palazzo Vecchio per costruire la Tribuna nel cuore degli Uffizzi, ultimata poco prima che Galileo scrivesse proprio le sue Considerazioni al Tasso.                                                                                 In tal modo furono avviati i lavori che proseguirono con il fratello Ferdinando I, dando origine alla prima galleria d’arte antica e moderna, concepita come un’istituzione pubblica. Ormai, le opere d’arte avevano guadagnato la loro platea, pienamente conquistata dall’idea di passeggiata erudita, cosicchè il viandante di piazza si era a tutti gli effetti trasformato nello spettatore-visitatore, soddisfatto di poter sostare a lungo e considerare opportunamente ogni opera”con miglior commodo in Galleria, che se nelle pubbliche piazze fossero collocate” à302°aneddoto: “la galleria del granduca” (Francesco Bocchi, Le Bellezze della città di Firenze, Firenze 1591): commento della Galleria degli Uffizzi. Emerge a volte persino la dimensione temporale della visita – il duca di Ferrara e il re di Francia trascorrono un’intera giornata negli studi di Palazzo Grimani a Venezia – un fattore per niente trascurabile, ricorrente anche nei Ragionamenti di Vasari, che rende conto certamente della ricchezza delle stanze e dell’ampiezza delle collezioni, ma che evidenzia soprattutto come a questo punto si sia estesa la stessa sostanza dei discorsi sull’arte, condizione necessaria ugualmente all’evoluzione della critica d’arte. testamentogno di un artista consapevole di aver raggiunto un elevato satuto sociale e conscio del valore della propria collezione. 5.3 L’opera d’arte e il suo pubblico 5.3.1 Chi giudica l’arte? Le osservazioni di leonardo sul giudizio e la valutazione delle opere d’arte dimostrano quanto egli si sia concentrato non solo sulla fase creativa,               ma anche sulla ricezione dell’opera stessa, in un processo sperimentale che vedeva il suo totale compimento soltanto con la verifica dell’effetto visivo presso il “riguardatore”. Il ruolo di primo giudice però spettava all’artista. E’assai noto come egli raccomandasse l’uso dello specchio, alternando i diversi punti di vista, per stimolare il pensiero critico e manenere una certa distanza dall’opera, evidenziandone le debolezze, specialmente riguardo alla costruzione prospettica o alle proporzioni delle figure.                                             Dopodichè occorreva sottoporre l’opera obbligatoriamente al giudizio degli altri. Egli invitava il pittore a non sottrarsi a tale prova, pur non negando l’imprescindibile parzialità di qualsiasi giudice e a non trascurare o sottovalutare quell’ulteriore fase di correzione e di ritocchi.                                     Quale conseguenza della ricerca costante del consenso generale,                         egli suggerì persino di adattarsi al gusto prevalente e di dipingee “con diverse maniere”. In Leonardo era dunque già presente, ancor prima che prendesse corpo, l’idea stessa di critica d’arte, promuovendo la tesi di un’arte giudicabile da chiunque.                                                                                            Nella prassi però, il giudizio del lavoro ultimato era confinato dentro i margini del rapporto contrattuale tra il committente e l’artista.                             Soddisfare il commitente costituiva il principale obiettivo dell’artista, e non sono pochi i casi di opere respinte per non aver corrisposto alle attese.             Il più delle volte, il rapporto con il committente non era esclusivo,                        ma venivano coinvolti altri artisti, anzitutto per quantificare i compensi e valutare l’opera compiuta in qualità di esperti.                                                               Un sistema nel quale, come ben notava Leonardo, i critici non di rado erano mossi da interessi personali, da invidia o dalle più disparte circostanze.             Ad es Cellini sfogò apertamente il suo odio nei confronti di Baccio Bandinelli, mettendo in scena un vero e proprio processo alla corte di Cosimo I, sferzando l’Ercole e Caco con una lunga requisitoria à320°aneddoto : “non si conoscie se l’è di omo o se l’è di lionbue”(benvenuto cellini, vita, 1558-67) In questo famoso passo autobiografico, Cellini ricorda del resto l’usanza di affiggere dei componimenti poetici sulle sculture, qualiu suporti ideali per veicolare l’opinione della piazza, facendo in un certo modo parlare le statue, anche su argomenti non propriamente artistici.                                                       Riscoperta durante il Rinascimento, la poesia d’occasione, risalente al mondo classico, si diffuse soprattutto nel 500, in particolare a Roma con le cosiddette “pasquinate”, di natura satirica, ma anche a Firenze dove il fenomeno lasciò evidenti tracce letterarie.                                                                       La travagliata storia dell’Ercole e Caco, contesa tra i repubblicani e i Medici, risultò infatti una sorta di Pasquino fiorentino, bersaglio di “più di cento sonettacci”. Dai toni accesi e diffamatori, essi prendevano di mira lo scultore, animato da sentimenti filoimperiali.                                                                                    A prescindere dalle eventuali implicazioni politiche o dalle infamanti allusioni, questa forma di reazione del pubblico, più o meno dotto, trovò terreno fertile nell’ambito della critica delle opere in specie nel momento della loro inaugurazione. Oltre alle poesie in vituperio, affisse e rese ubbliche direttamente sul lavoro ultimato o nelle sue vicinanze, doverosamente anonime, le opere stimolavano altrettanti componimenti in encomio da dare alle stampe, dal registro linguistico decisamente più ricercato e più retorico, un’ulteriore occasione di emulazione tra arte e poesia. Particolarmente significativa è l’osservazione di Francesco Bocchi che sembra alludere all’usanza delle poesie in biasimo, illustrando chiaramente l’evoluzione della critica d’arte in un contesto sempre più condizionato da quella principale preoccupazione dell’età controriformistica, ovvero la ricerca degli errori dell’artista. Egli constata, non senza qualche rammarico, che i “giudizi umani” si sono perfezionati a tal punto che chiunque si sente in grado di esprimere il proprio sulle opere d’arte.                                                      Accettare la critica di un più ampio pubblico possibile per poi eventaulmente apportare le dovute correzioni, come già preconizzava Leonardo, rappresentava però una grande prova di umiltà in contrasto con le nuove ambizioni di libertà degli artisti, spesso poco inclini a rimettersi in questione dietro seggerimento di soggetti ritenuti “poco intendenti”.                   Ed è forse ancora attorno alla figura di Michelangelo che nascono i più famosi aneddoti in proposito. Vasari ci descrive ad esempio lo scultore alle prese con i suoi ritocchi sul David, un’attività che avrebbe indotto il gonfaloniere fiorentino a prendere una posizione e a dire la sua (Pier Soderini dice a Michelangelo che il naso del David gli pare troppo grosso, Michelangelo allora fa finta di ridurlo facendo cadere della polvere, chiede poi cosa ne pensa adesso e Soderni risponde “a me piace di più” che gag il miche). Astuto e riguardoso qual era, con spirito beffardo, il maestro finse didargliela vinta. Ma con l’accorgimento escogitato da Michelangelo, Vasari punta il dito contro quei giudizi avventati di un pubblico non competente, esaltando la superiorità dell’artista.                                                                                     L’altro celebre aneddoto è legato al Giudizio Universale: per vendicarsi delle critiche ricevute, il maestro avrebbe raffigurato il cerimoniere papale (“tutti sti gnudi non sono da cappella di Papa ma da osterie”) nei panni di Minosse.  La costruzione letteraria in chiave aneddotica serviva in realtà all’autore per riassumere con una certa verosumiglianza, anche se con stile ironico e sdrammatizzante, la problematica ricezione dell’affresco, un fatto che non poteva ormai essere escluso dalla biografia del grande maestro.                           A ciò si aggiunge l’inviperito e arguto tono dell’artista, idealizzato e allo stesso tempo ultimo giudice, pronto a ribattere al verdetto superficiale con una condanna senz’appello di natura morale e politica, secomdo uno schema che ritroviamo nel Libro del Cortegiano nella risposta di Raffaello ai due cardinali (Raffello in pratica dice che san pietro e san paolo sono rossi in viso, che era la critica mossa dai due cardinali, “per vergongna che la Chiesa sua sia governata da tali omini come siete voi” Raffaello savage af). L’opinione del pubblico, specialmente di coloro che giudicavano a sproposito, si era a quel punto così affermata da diventare un topos, parzialmente derivata dal famoso episodio pliniano di Apelle e il ciabattino, tema piuttosto in voga all’epoca e caro al Vasari.                                                           Francisco De Holanda, fornisce elementi più espliciti al riguardo dei falsi intenditori. Rifacendosi sempre alla letteratura classica, ma all’occorrenza all’episodio della visita di Megabizo ad Apelle, egli intende allargare la discussione. Il riferimento ad Apelle e il ciabattino evidenziava tutto sommato solo una parte della questione, riferendosi ai giudizi di una sola classe sociale, i presunti esperti del popolo, legati del resto alle arti meccaniche dalle quali l’artista si stava appunto svincolando.                                 In tal modo, Francisco De Holanda si rivolge anche alle classi sociali più abbienti, puntando soprattutto l’attenzione su quella società delle corti dove il perfetto gentiluomo era ormai tenuto a mostrare un certo gusto per le arti e a saper commentare le opere. Ma come avrebbero dovuto reagire gli artisti? Alle derisorie inezie di Megabizo, Apelle preferiva il silenzio.                     Di fronte a questo nuovo tipo di pubblico e agli inevitabili attacchi, a detta di Pirro Ligorio conveniva dimostrare una certa tolleranza per non incorrere in inutili dispute. Tanto meglio concentrarsi sull’osservazione delle opere invece di parlarne, assersice, non dissimulando nella finzione del dialogo il suo disappunto. Riluttante nei confronti dello sviluppo di una critica d’arte di stampo cortigiano, egli promuveva un altro genere di esperienza del bello, più intellettuale e meditativa, di indubbia matrice michelangiolesca Ovviamente, in quanto scrittore d’arte, viepiù di dialoghi sull’arte, non poteva sostenere appieno tale posizione. 5.3.2 La nascita della critica d’arte Che fossero pochi i veri intenditori, per Francisco de Holanda era un fatto acquisito. Tuttavia egli riconsce agli italiani un primato indiscusso sottolineando come il pubblico, più di altrove, all’altezza degli anni 40, fosse in grado di fornire delle pertinenti osservazioni. Ricordiamo allora Marcantonio Michiel, uno dei maggiori conoscitori della prima metà del secolo, le cui competenze furono celebrate nelle lettere dell’Aretino.                 Lo stesso Pietro Aretino, il “gran Pietro aretino così giudiciiso ne la pittura come ne la poesia” secondo Serlio, una figura poliedrica che svolse tra l’altro un’importante attività di agente per conto dei sovrani e di mentore per numerosi artisti, è da considerarsi a tutti gli effetti il primo critico d’arte nell’accezione moderna del termine. La crescente attenzione per le arti è attestata nelle fonti ugualmente dalla presenza sempre più frequente di elenchi di opere e di artisti.                               Questo genere di liste, non per forza redatte con intenti classificatori, sono indubbiamente degli indicatori utili per misurare al fortuna critica dei diversi artisti, anche se il più delle volte sono avare di commenti.                                         Tra gli elenchi più rilevanti, con brevissime annotazioni, vi sono le liste di Francisci de Holanda, le sue Tabuas dos maiores artistas da Renascenca, poste in calce al suo trattato, significative se non altro per un confronto con la sistematica vasariana.                                                                                                           Già lo stesso autore aveva ben chiaro cosa mancasse al discorso dei “non intendenti”, i quali “non sanno farvi la critica dell’invenzione del disgeno, ne dell’abilità e della severità”, e questo principalmente perché privi di un lessico adeguato che appunto durante il Cinquecento stava conoscendo una fase evolutiva determinante. E finanche sotto questo aspetto il contributo vasariano fu notevole. All’interno della progressione delle Vite, egli seppe introdurre dei giudizi di valore sapientemente tarati, anche sottolineando urospettiva secundum quid, nell’ottica di scegliere ed evidenziare “il meglio del buono e l’oottimo dal migliore”. Inoltre egli fornì una serie di strumenti volti a forgiare il giudizio critico del suo lettore, proponendo di “far conoscere a quegli, che questo per se stessi non sanno fare, le cause e le radici delle maniere e del miglioramento e del peggioramento delle arti”. Insoimma, egli stava perfezionando la nozione di “maniera”(termine che a fine 700 sarebbe stato sostituito con “stile”), così decisivo per lo sviluppo del Connoisseurship. Ed è proprio inseguendo tale obiettivo che egli scrisse alcune delle più belle pagine della storia della critica dei suoi tempi, offrendo un compendi del più aggiornato vocabolario critico, inclusa la definizione di Maniera moderna, nel Proemio alla terza parte delle Vite. Alcuni significativi commenti di intenditori di orizzonti diversi che hanno voluto fissare, ognuno con un peculiare approccio, un ricordo delle loro reazioni davanti ad un’opera o un’opinione in merito ad un determinato artista: Dürer ad esempio rimase letteralmente senza parole, affascinato ed in ammirazione di fronte alle opere giunte dal Nuovo continente (oggetti atzechi giunti dal messico) che misero alla prova le sue categorie critiche Per Marcantonio Michiel, il giudizio critico di un’opera era inderogabilmente vincolato alla sua osservazione diretta à come si evince dalla lettera a Guido Celere: documento decisivo per comprendere quel passaggio verso la cosiddetta “Maniera moderna”; solo dopo aver osservato di persona la Cappella Sistina egli rimette in dubbio il primato di Mantegna.                               A tal proposito restano emblematici i suoi appuni, nei quli ritroviamo alcune perizie o anche delle riflessioni attribuzionistiche tipiche di una Conoisseurship in fase embrionale. Il primo testo di considerevole ampiezza e interamente dedicato al commento di una singola opera d’arte si deve allo scienziato Bartolomeo Maranta, redatto in difesa dell’ Annunciazione di Tiziano dalle accuse di Scipione Ammirato. Lungi dal limitarsi a giudcare esclusivamente quegli aspetti più dotti o prettamente letterari tipici del decoro, della conformità ai testi di riferimento o della loro destinazione, i critici intendevano ormai discutere perfino l’insieme delle scelte artistiche.                                                       Essendosi avvalso del parere degli esperti, Maranta si addentra in osservazioni di notevole spessore, interessandosi alle proporzioni,                       alla gestualità, al colore, ed esprimendo anche paragoni rilevanti come quello tra la musica e gli audaci esperimenti luministici dell’ultimo Tiziano, in particolare nel caso del volto dell’angelo in penombra. Se la vocazione teorica ed encomiastica del discorso di Francesco Bocchi gli valse l’onore della pubblicazione a stampa, la disputa napoletana tra Maranta e Ammirato venne invece archiviata e dimenticata. Solo una piccolissima qunatità dell’allora ricchissima attualità artistica, costituita da animati dibattiti e accesi commenti, riuscì a passare sotto i torchi. Resta di fatto che i maggiori esponenti della critica cinquecentesca furono senz’altro Pietro Aretino e Giorgio Vasari.                                                         Conosciuto come il flagellum principum, l’Aretino seppe ingegnosamente strumentalizzare il genere epistolare di cui era l’inventore, per imporsi come critico influente ed imprimere dei giudizi duraturi, ma che lo condussero al contempo, fin dalla sua disparita nel 1556, a una lunga damnatio memoriae. Damnatio memoriae è una locuzione in lingua latina che significa letteralmente "condanna della memoria". Nel diritto romano, la damnatio memoriae era una pena consistente nella cancellazione di qualsiasi traccia riguardante una determinata persona, come se essa non fosse mai esistita; si trattava di una pena particolarmente aspra, riservata soprattutto ai traditori e agli hostes, ovvero i nemici del Senato romano. L'efficacia della damnatio memoriae era favorita dalla disponibilità limitata di fonti storiche in età antica.
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