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Il Cinquecento. Le fonti per la storia dell'arte, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Riassunto del libro IL 500, di Emilie Passignat Istituzioni di storia della critica d'arte.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Scarica Il Cinquecento. Le fonti per la storia dell'arte e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! IL CINQUECENTO 1. La Figura dell’Artista Leon Battista Alberti: i suoi scritti furono il punto di partenza per l’evoluzione della figura dell’artista. L’idea di partenza era che il pittore dovesse essere “uomo buono et dotto in buone lettere” e da ciò si formulò un piano programmatico dell’ascesa sociale e del riconoscimento della professione dell’artista. Si delineò una nuova conoscenza del fare arte. La figura dell’architetto: già nel ‘500 aveva assunto una certa importanza e sulle sue tracce si mossero anche i pittori e gli scultori. Le fonti di Vitruvio e Plinio il Vecchio, ebbero un impatto fondamentale perché da esse gli autori del ‘500 trassero spunto e forgiarono un nuovo modello culturale e comportamentale dell’artista. Dimostrare, rivendicare e difendere la figura dell’artista divenne una questione ricorrente nel ‘500; gli aspetti e le implicazioni delle fonti, riorganizzarono e riformularono sia la patica che la teoria artistica. 1.1.L’Artista Divino Gli artisti avevano sempre goduto di privilegi ed erano sempre stati collocati all’apice della gerarchia dei mestieri. La vera forza degli artisti consisteva nella vocazione mimetica, nella propensione a mettere in discussione il confine tra finzione e realtà: ciò suscitava, in chi osservava, un misto di meraviglia e fascino. Nel Rinascimento il concetto di “miracolo”, legato all’opera d’arte, ebbe una traslazione: non più associato al contenuto figurativo ma anche al suo creatore. L’opera, considerata un miracolo, conferiva un’aura divina all’artista (il tema dell’icona miracolosa diventò un topos letterario nel ‘500); l’artista era aiutato, protetto e schermato dal proprio talento (ex: Parmigiano, “Visione di San Gerolamo”). Vasari: credeva nella superiorità dell’arte sulla guerra, e della libertà dell’artista davanti al potere. Sulla scultura, il Vasari ribaltò il tema degli automi e delle statue parlanti (ex: Jacopo Sansovino, “Bacco”). Anton Francesco Doni parlava della forza incantatrice della scultura; Benevento Cellini descriveva, con tratti eroici e rocamboleschi, la creazione del “Perseo”, la cui scampata fusione, era vista come una resurrezione (Cellini si presentava come un nuovo Prometeo). Frances Yates diceva che “i maghi effettivi del Rinascimento furono gli artisti” perché essi seppero modellare e valorizzare la loro immagine. Il topos della “risurrezione” dell’opera d’arte fu significativo per le rinnovate e immense facoltà acquisite dall’artista. Le riflessioni elaborate dall’Accademia Napoleonica Fiorentina in merito all’atto creativo e alla dimensione divina del poeta e dello scrittore, provocarono una profonda revisione della definizione di arte. Nacque una nuova coscienza dell’essere artista: -Leonardo Da Vinci: l’evoluzione della figura da artifex ad alter deus. L’analogia tra dio-artista e artista- creatore ebbe importanti conseguenze teoriche sull’evoluzione delle nozioni di disegno, d’immaginazione e di idea. Leonardo rivestiva direttamente il pittore di un’aura divina: si disegnò così l’immagine dell’artista demiurgo definito “signore e creatore”. Il pittore aveva uno sguardo privilegiato sul mondo e l’immenso potere di ricrearlo tramite il pennello. Leonardo spostò la questione dall’oggetto della pittura al di là del mondo visibile, riconoscendo all’artista la facoltà di restituire ciò che è nell’Universo. Pomponio Guarico, poneva come unico vincolo alla creazione e all’immaginazione, la realtà e la critica alla rappresentazione di figure fantasiose. Francisco de Holanda vedeva nella questione della divinità nella figura dell’artista, un tassello primordiale. Per lui l’artista doveva vivere per raggiungere il nome di “divino” (che veniva spesso associato a “spirito”, “ingegno” o “intelletto”), anche se era accessibile a pochi; per il Vasari, “divino” divenne epiteto solo per Michelangelo e Raffaello. Giovanni Alberto Albicante diceva che non bisognava abusare dell’appellativo “divino”, perché si rischiava di banalizzarlo. L’uso del termine “divino” risultò uno dei segni più importanti per l’attuazione del culto dell’artista. 1.2.Il Pittore Nobile Paolo Pino si allontanava dalla concezione di pittore “divino” ed espresse la sua idea di pittore “perfetto”, che era lontano dall’aura divina, la quale impediva una definizione concreta a livello sociale. Pino si opponeva alla tendenza di mitizzare l’artista, partendo dal presupposto che nessun uomo era mai nato con tali doni e, quindi, proponeva di partire da cose possibili per l’uomo: il personaggio che ne emergeva era quello del perfetto cortigiano. Partendo dalla questione della nobiltà dell’arte, si delineavano delle nuove figure di committenti: erano esponenti di spicco delle più importanti famiglie, intorno alle quali si evolveva la società delle corti. In tale contesto la rilettura della letteratura classica, fornì importanti elementi di confronto che servirono a rivalutare le arti. L’arte della pittura era praticata dai nobili e proibita ai servi: per molti la causa principale della decadenza dell’arte, fu che venne lasciata nelle mani di gente “povera et ignorante”. Gabriele Paoletti distingueva due tipi di nobiltà dell’arte: - Accidentale: dipendeva dall’opinione del popolo ed era variabile a seconda delle circostanze; - Intrinseca/assoluta: era stabilita in base all’argomentazione dell’“ut pictura poesis”. Con questa distinzione tra “sempliciter” e “secundum quid”, Paoletti prendeva le distanze dal concetto di nobiltà dell’arte. Anche Romano Alberti si dedicò alla questione della nobiltà artistica e ne trasse un incastro di definizioni a più livelli; per stabilire la condizione dell’artista si avvalse della doppia accezione di nobiltà: - Appartenenza alla categoria sociale; - Legame con l’eccellenza e l’elevatezza morale. Intorno a ciò si innestò l’ascesa sociale dell’artista; il suo ragionamento, però, non prendeva in considerazione il guadagno, il quale era incoerente con il concetto di nobiltà di un’arte liberale. Alberti proponeva di vedere il guadagno in senso meno stretto e, rifacendosi in parte a Paoletti, diceva che la merce e il premio non influenzavano l’azione; in questo modo, però, si definiva la tesi della nobiltà della pittura ma non la condizione sociale dell’artista. Non tutti gli artisti riuscirono ad arrivare allo statuto nobiliare ma alcuni, come Tiziano e Jacone, si. Di Jacone, ne parlo Vasari usandolo come pretesto per il confronto, schiacciante, tra il pittore a cavallo “vestito di velluto” e l’artista che viveva “alla filosofica”; fu Michelangelo, però, il caso esemplare dell’evoluzione della figura dell’artista. La questione della nobiltà si affermò con il passare degli anni: il concetto di nobiltà giustificava di per sé una dimostrabile continuità storica, una dote costante che era al di sopra di ogni vita umana; avere origini remote e illustri, era il principale stratagemma di legittimazione, il quale era valido per rivendicare sia la nobiltà di un’artista, sia la nobiltà dell’arte. Quando Michelangelo utilizzava il termine “artista” si rifaceva all’ “auctoritas” dantesca, per infondere alla parola una dimensione e nobile: nel senso di “scultore/poeta” che non avrebbe assunto, invece, con l’impiego del termine “artefice”. Tale termine prevalse per tanto tempo, fino a quando alla fine del ‘700, si affermò “artista”. Per Michelangelo la figura dell’artista e quella del poeta erano allo stesso livello; egli fu il primo promotore del suo stesso mito e difensore dello statuto dell’artista. 1.3.Professione e Formazione Nell’500 si assistette anche alla rivoluzione concettuale tra artista e bottega; si fece sempre più ricorrente la nozione di libertà, soprattutto nelle argomentazioni di Romano Alberti: l’arte doveva considerarsi liberale perché rendeva l’uomo libero. I concetti di nobiltà, intelletto e libertà si opponevano sempre di più a quelli di bottega, fatica del corpo e servitù. Nell’opera scritta di Cellini si avevano diverse testimonianze dell’aspirazione verso una nuova condizione sociale; emerse anche la volontà di dipingere un’immagine liberale di sé stesso. Da una parte si coglieva la tipica organizzazione da bottega, alla quale l’artefice era sottomesso, dall’altra si presentava l’artista voglioso di conoscere le antichità per conto proprio e che non apparteneva a nessuno. Da ciò era ben visibile la situazione di transazione sociale, in cui l’artefice tendeva a svincolarsi dalla struttura corporativa della professione; Cellini non risparmiò parola esaltanti per evidenziare la sua autonomia, la quale garantiva abile diplomatico, soprattutto se voleva arrivare agli incarichi più prestigiosi, e un abile gestore dei propri beni, se voleva assicurarsi un’esistenza stabile; era molto raro che un’artista rifiutasse una commissione. La cosa che più metteva nei guai gli artisti era il non rispettare le scadenze. Anche il guadagno era molto importante per gli artisti che non si preoccupavano della sua “non nobiltà”, tanto che in alcuni documenti veniva sottolineata una certa avidità. I committenti stimolavano una certa competizione tra gli artisti, tanto che all’inizio del ‘500, in alcune aree della penisola, il livello di concorrenza aveva raggiuto livelli eccezionali; infatti, in occasione dei grandi concorsi, non mancavano risse, gelosie e schieramenti. Nelle Vite, il Vasari usa il termine “setta” per descrivere il gruppo che si era formato tra gli anni ’40 e ’50 del ‘500 alla corte medicea; il termine aveva un’accezione negativa, in quanto esprimeva un ostacolo e un impedimento alla carriera personale. In antitesi alle “sette”, Vasari colloca l’episodio di Raffaello: il suo gruppo di allievi e collaboratori veniva dipinto come un’isola felice, perché intorno alla sua figura regnava un’utopica concordia e una sana emulazione, che era molto propizia al fiorire delle arti. Proprio su questa modello, Vasari proponeva di fondare l’Accademia del Disegno, la quale era concepita come un modello di inclusione. Raffaello e la sua cerchia rappresentavano il modello vincente di un lavoro collegiale bene gestito e coeso, che riusciva a rispettare le giuste tempistiche e soddisfaceva i committenti. Michelangelo e Pontormo, invece, hanno lasciato un’immagine opposta del lavoro, dato che questi due artisti praticavano un’arte prevalentemente solitaria e sofferente. La loro era anche una sofferenza fisica, date le varie e diverse posizioni che dovevano assumere per certi lavori. Proprio la comodità della posizione fu un argomento nella contesa tra scultori e pittori, il quale, inoltre, fu decisivo e importante per la garanzia della nobiltà e del primato della pittura. 2. Scrivere d’Arte nel Cinquecento Le nuove forme di trasmissione e di ricezione delle informazioni e delle idee, ebbero come diretta conseguenza un ripensamento sulla gerarchia dei generi letterari. Anche gli artisti, all’interno delle cerchie accademiche, trassero vantaggio da questi mutamenti: essi vennero invitati a riflettere e a intellettualizzare sulla loro arte, e pertanto a farne scritto. Nacquero diverse problematiche dal rapporto tra arte e scrittura: la carta stampata, ideale per diffondere scritti e immagini, fu subito utilizzata come mezzo d’espressione complementare all’arte, per promuovere sia la figura dell’artista sia l’opera stessa. I due quesiti fondamentali che emersero nel ‘500, furono: - Chi scriveva arte? - Come si scriveva d’arte? Per rispondere a ciò bisogna prendere in esame le grandi opere di scrittura, nelle quali si potevano ritrovare sia la questione della scelta di genere che la questione della lingua. 2.1.Chi Scrive d’Arte? La tradizionale e rigida compartizione dei saperi diede inizio a un dilemma: decidere se fosse lecito che un letterato trattasse di arte, materia di cui non aveva l’esperienza pratica, e, viceversa, se un artista potesse utilizzare le lettere, le quali non erano attinenti alla propria disciplina; entrambe le figure vennero viste come invasori nelle rispettive discipline. La protesta di Leonardo, su diritto di poter teorizzare, indicava la resistenza che aveva incontrato davanti alla comunità scientifica; di quest’ultima, Leonardo criticò la metodologia di ricerca, che era prevalentemente teorica e basata sullo studio dei testi e a questo metodo, egli oppose il suo approccio empirico. Sempre nell’ottica della difesa della propria arte, e costatando che pochi pittori erano anche letterati, egli notò come l’impegnativo e interminabile studio lasciasse poco tempo per scrivere gli esiti delle proprie ricerche. Per Leonardo, la pittura non poteva trovare il suo fine nella scrittura ma, era vero anche, che il percorso per nobilitarla implicava anche l’elaborazione di un’articolata teoria e quindi era necessario ricorrere alla scrittura. La tradizione di bottega, non negava la facoltà di poter associare la pratica al pensiero, ma restava comunque il fatto che il fare e lo scrivere risultavano comunque al limite dell’incompatibilità. Benvenuto Cellini riteneva che la mancata teorizzazione derivasse dal difficile rapporto dell’artista con la scrittura; egli privilegiava il “ben fare” al “ben dire” ma non per questo credeva che l’artista fosse incapace di scrivere, tanto che pensava che dovessero essere gli artisti stessi a scrivere della loro arte. Lodovico Dolce riteneva che i grandi artisti, se avessero voluto, avrebbero eccelso anche con la penna. Nel suo Dialogo, cercò di legittimare la scelta di un soggetto ancora da molti ritenuto atipico, ribadendo che “la pittura è arte nobile”; nello scritto di Dolce si vedeva come la pittura non fosse solo un tema degno di essere trattato dai letterati ma che fosse anche capace di giovare al perfetto gentiluomo -> la pittura, quindi, era intesa come un dilettevole argomento di conversazione. Invece, sia per Francesco Albertini che per Anton Franceso Doni, era meglio che i letterati non scrivessero d’arte, dato che non era materia di loro competenza, e che se lo avessero fatto dovevano garantire di essersi informati presso i massimi esperti in materia. Alvise Cornaro, noto mecenate veneziano, osservò la necessità di produrre dei discorsi sulle arti, soprattutto in campo architettonico, per un pubblico di lettori non specialisti. Fatto sta che molti artisti e letterati iniziarono a scrivere d’arte, tanto che anche Lomazzo, dedico un capitolo della sua opera su “gli scrittori dell’arte”; preziose furono le sue indicazioni sulla produzione di “scritti e disegni a mano” che indicavano la relazione di complementarietà tra testo e immagine nella trattatistica artistica: gli autori di cui parlava erano allo stesso tempo scrittori e disegnatori. Tale connubio veniva considerato come ausilio pedagogico per affrontare le tematiche inerenti alla proporzione e alla prospettiva, che erano le fondamenta scientifiche dell’arte stessa. In contrasto con questo filone c’era il pittore Paolo Pino che adottò un approccio più letterario utilizzando la forma dialogica, che si adattava meglio alla sua polemica contro lo scientismo. Per Lomazzo, però, i dialoghi di stampo cortigiano e le dispute accademiche, lasciavano troppo spazio ai non pratici. Vicino alla questione di chi poteva scrivere d’arte, stava nascendo anche la problematica su come si dovesse scrivere d’arte, e quindi su come trovare il giusto equilibrio tra lettere e scienza. Nell’elenco di Lomazzo si vede una netta gerarchia tra i due canali di diffusione: in un primo momento, egli trattò la produzione manoscritta, con un raggio circoscritto, sottolineando il fenomeno di dispersione che colpiva questa letteratura; in seguito egli riportò tutte le opere a stampa. La pubblicazione permetteva di allargare il raggio d’impatto, tanto che la lista assunse una dimensione internazionale. Pubblicare tuttavia non era semplice: l’accesso alla stampa comportava una selezione che si andava rafforzando con il progressivo successo delle topografie. Per l’editore l’accurata selezione definiva fin da subito la stabilità dell’azienda. Inoltre, la Chiese definì subito un sistema di controllo che imponeva agli editori la necessità di avere l’imprimatur. Anche il duca Cosimo I diede alla stampa un ruolo chiave nel mecenatismo di propaganda medicea, che voleva svilupparsi oltre i confini toscani. Anche Vasari fu coinvolto nella questione della lingua ed egli contribuì notevolmente alla diffusione del volgare, imprimendo il primato del toscano in campo artistico. Vasari divenne l’artista-scrittore per eccellenza; la sua fama la si deve principalmente a Pietro Aretino che in uno dei suoi scritti sottolineò le sue grandi capacità descrittive, presentandolo come un maestro dell’ekphrasis e mettendo in luce la sua capacità di porre sotto gli occhi del lettore luoghi, persone e opere. 2.2.Questioni di Genere: Come Scrivere d’Arte? 2.2.1. I trattati d’arte: Lunghi Studi e Grandi Progetti Le osservazioni di Polo Pino e Giovanni Paolo Lomazzo, ponevano in diretta contrapposizione i trattati monologici, criticati per trasmettere una teoria troppo scientifica, con quelli dialogici, che davano una teorizzazione troppo letteraria. Però, la situazione era molto più varia e la vena sperimentale che contraddistingueva il ‘500aveva portato a una permeabilità tra i generi, cosa che portò all’affermarsi di nuove soluzioni. Il progetto più imponete di inizio ‘500, era sicuramente quello di Leonardo: l’immensa quantità di studi, disegni e annotazioni era destinata ad essere rielaborata e riordinata dal maestro stesso. Gli scritti erano destinati alla circolazione, come si vede in alcuni appunti, dove si vedono dei tentativi di sintesi con la compilazione di codici provvisori e miscellanei. Uni dei più famosi tentativi di rielaborazione è il Libro di pittura, fatto negli anni ’40 del ‘500 da Francesco Melzi, allievo ed erede di Leonardo; dopo la morte di Melzi, ci fu una grande dispersione dei manoscritti. Anche Albrecht Dürer, cercò di fornire un’esauriente sintesi delle conoscenze acquisite, e per questo provò a compiere una vasta opera di teorizzazione della pittura. Nella sua opera aveva molta importanza, data la nuova coscienza della figura del pittore, la questione della formazione dei giovani pittori, la quale era costituita su severi precetti morali. Dürer portò a termine l’edizione dei suoi scritto molti anni dopo: il tempo servì a rielaborare il proprio pensiero ma anche a individuare una forma definitiva più consona alla stampa. La scelta ricadde su un approccio incentrato su argomenti specialistici, in primis sulla matematica. Il progetto di Michelangelo, invece, era un trattato incentrato sull’anatomia e sul movimento del corpo umano; ma egli aveva sempre mostrato una certa resistenza nella trasmissione scritta dei suoi saperi. A ciò però rimediarono i suoi allievi, più versati nelle lettere. De Holanda, prese Michelangelo come uno dei suoi personaggi dei Dialoghi Romani, con l’intento di trasmettere il pensiero del grade artista. Ma molti studiosi misero in discussione l’attendibilità di questi dialoghi, dato che era ben visibile il fatto che l’autore avesse inserito le sue idee e le personali ambizioni. Anche lo scultore Vincenzo Dati elaborò una teoria che seguiva i precetti michelangioleschi ed era incentrata sullo studio delle opere del maestro. Gli aspetti principali dell’impresa erano l’ampiezza del progetto editoriale e della materia studiata (anatomia e movimento del corpo). La forma che Dati aveva scelto era quella monologica, che insisteva sullo stretto rapporto tra testo e immagine; ciò fu lo scoglio più grande da superare. Il doppio Trattato di Cellini, si proponeva di condividere “segreti et precetti” legati alle tecniche artistiche, legate all’esperienza, alla pratica e al fare. Lomazzo nella sua opera, diede una sintesi delle problematiche del secolo: prima con il Libro dei sogni, e poi con la sua versione più alleggerita, il Trattato, nella quale Lomazzo abbandonò la forma dialogica, in favore di una riorganizzazione ella materia che seguiva le strutture astrologiche, caratteristiche dell’arte della memoria. Anni dopo egli rimodellò le sue idee in una forma più coincisa. Anche se Lomazzo era conscio dell’efficacia didattica del binomio testo-immagine, a causa della perdita della vita, nel Trattato era assente la parte illustrata. Alla fine, nel ‘500 non ci fu quell’imponente ed esaustivo trattato che ci si aspettava, il quale avrebbe dovuto essere ricco di tavole illustrative, con una dettagliata anatomia artistica, che avrebbe fatto da cardine tra arte e scienza e avrebbe concretizzato il grande progetto di Leonardo. 2.2.2. Il Filone Topografico Durante il 500 nacque anche un'altra questione sull’arte appartenente alla letteratura diaristica, che era incentrata sulle opere e aveva una componente topografica; tale filone aveva una tendenza a storicizzare e vide spesso come protagonisti i letterati. Con il grande aumento delle descrizioni geografiche nate dai viaggi d’esplorazione, cominciò a moltiplicarsi il genere delle descrizioni cittadine -> ciò è alla base del prosperoso settore editoriale delle guide di viaggio. Ciò era un proseguimento della periegesi (guide che illustravano i percorsi dei pellegrinaggi nelle diverse città sante) ma che adesso rivolgeva l’attenzione ai monumenti profani, così da soddisfare i nuovi interessi antiquari. In questo contesto fu stampato ne XV secolo, il poema Antiquarie prospettiche romane, nel quale veniva presentata una rassegna dei resti delle architetture romane e delle più belle sculture antiche. Roma era una delle tappe fondamentali della formazione educativa degli artisti, diventando anche un topos letterari importante nelle loro biografie. Questo tipo di produzione, che inizialmente riguardava solo Roma, poi si espanse anche alle atre città, come risposta al grande patrimoni artistico che era stato acquisito nei Per quanto riguardala suddivisione della pittura la tripartizione albertina (circoscrizione, componimento e ricevimento dei lumi), durante il ‘500, ebbe molte rielaborazioni. Tra queste, quella di Paolo Pino, che la ripensò nei termini di “disegno, inventione et colorire”. Anche Leonardo aveva riorganizzato la sua arte in funzione di una serie di principi: “tenebre, luce, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete”; nella Genesi, ad esempio, si parte dalla coppia antitetica tenebre/luce, per poi giungere alla vita grazie al moto -> parallelismo tra opera divina e opera pittorica. Giulio Camillo suggerì agli artisti un percorso graduale di sette tappe e applicò all’arte gli schemi logici della costruzione del discordo eloquente, con particolare attenzione alla questione del movimento e dal giudizio. Anche Giovanni Paolo Lomazzo tentò di strutturare la disciplina. Giunti a fine secolo, le riflessioni erano molteplici e articolate; per definire l’arte, ognuno aveva teorizzato una procedimento mentale che rispecchiava i propri studi personali e si poneva al centro sia il problema del genere del sistema classificatorio che la metodologia argomentativa. Le soluzioni che vennero adottate miravano a ricalcare l’elaborazione effettiva dell’opera, ispirandosi anche ad altre discipline e integrando degli elementi simbolici. Per quanto riguardava la questione del fine dell’arte, uno dei temi più frequenti fu la nozione di diletto (di riferiva al diletto dell’occhio che scaturiva dalle qualità formali dell’opera). Ma durante gli ultimi decenni del secolo si ebbe la crisi controriformistica, dalla quale la polemica sulle immagini; ciò rese impellente la questione sulla natura dell’effetto procurato dall’arte -> contrapposizione tra diletto e utilità. Gabriele Paoletti, contrariamente all’idea della Chiesa sul diletto (futile e troppo legato al culto della bellezza), diede la sua definizione di diletto: associato sempre ai sensi ma introducendo una gerarchia in cui inserì anche la ragione e lo spirito. 3.1.2. Ut Pictura Poesis La dottrina dell’ut pictura poesis, ossia il parallelismo tra arte e pittura, fu una delle tematiche più importanti e ricorrenti del ‘500; essa, però, fu anche l’argomento di maggior successo letterario per elevare la pittura al rango di arte liberale, diventando un saldo punto di riferimento per la sua elaborazione teorica, soprattutto per le nozioni di mimesis, invenzione e licenza poetica. Come conseguenza della questione del legame tra arte e poesia si era sviluppato il fenomeno degli artisti-poeti; addirittura, secondo alcuni, tra cui Lomazzo, non esisteva pittore che non fosse anche poeta. La discussione però non si fermò alle dimostrazioni delle corrispondenze tra arte pittorica e arte poetica, bensì si estese anche alla decisione tra quale delle due assegnare il primato. All’interno di questo dibattito veniva spesso chiamata in causa la complessità della raffigurazione dell’invisibile (= la rappresentazione dei concetti astratti”; proprio per questo, il genere del ritratto fu posto al centro delle riflessioni. Le prove più significative dell’interdipendenza e della complementarietà tra arte e poesia, le diede il binomio Tiziano(pittore)- Pietro Arentino(poeta), i quali venivano considerati due maestri dell’arte adulatoria. Per Albicante, però, gli artisti erano condannati a trasferire nelle loro opere solo la parte migliore, senza poter sottolineare tutte le sfaccettature e in questo modo i ritratti restituivano solo parzialmente il carattere delle persone raffigurate, dato che erano intrisi di una bellezza idealizzata. Anche per Shakespeare, la cosa che accumunava il pittore e il poeta era l’atteggiamento lusinghiero -> egli dava uno sguardo critico della società che emergeva dal parallelismo poesia-pittura (era anche la prova che i dibattiti italiani si erano spostati a livello europeo). 3.1.3. Il Paragone La disputa cinquecentesca che più animò gli ambienti accademici artistici fu la questione del paragone tra pittura e scultura. Per difendere il primato dell’una o dell’altra vennero avanzati diversi argomenti, più o meno originali; tra questi, le principali tematiche erano: - L’elenco delle “difficultà” delle arti: ovvero, ciò che solo una delle due sapeva fare; - La durabilità delle opere; - L’affaticamento fisico derivante dallo sforzo compiuto. Al di là della fisicità e delle condizioni di lavoro, i quali erano segni dell’appartenenza alle arti meccaniche, era il rapporto con la materia che giocava a sfavore della scultura, in un contesto pieno di implicazioni filosofiche -> scultore imprigionato nella materia. Il momento culmine della disputa si ebbe nel 1547, dopo un intervento tenuto da Benedetto Varchi all’Accademia fiorentina, egli per sostenere la sua posizione super partes aveva coinvolto i maggiori esperti in materia presenti in città; ciò scatenò un clamore tale che molti artisti, di tutta Italia, gli inviarono le proprie risposte. Il volume di Varchi uscì nel 1549 e includeva anche le lettere degli artisti: in questa forma epistolare, egli decise di dare voce agli artisti. Fu un’operazione di grande impatto che metteva in evidenza la rete di relazioni e rivelava gli schieramenti presenti nel clima fiorentino. La questione del Paragone venne discussa anche nelle Vite vasariane e tornò anche nel secolo successivo, grazie a Galileo e il pittore Lodovico Cigoli. Il dibattito sul Paragone fu decisivo per la teorizzazione delle arti. 3.2.Evoluzione dei principali Aspetti Teorici 3.2.1. Le Parti dell’Arte 3.2.1.1. Il Disegno tra Segno Grafico e Operazione Mentale La nozione di disegno fu uno dei cardini fondamentali attorno a cui ruotò tutta la discussione che permise di riunire tutte quelle arti che prima erano separate dal sistema corporativo; il disegno richiamava all’idea delle arti sorelle, un concetto che spesso veniva ribadito per placare le controversie e porre la pittura e la scultura sullo stesso gradino. Ciò era già implicito nel termine greco graphein, il quale racchiudeva in sé l’insieme delle attività grafiche: scrittura, disegno e pittura. Diversi illustri vedevano il disegno come punto di congiunzione della pittura e della scultura, le quali erano viste come sorelle nate dalla stessa madre/padre, che era appunto il disegno. Proprio da questa genealogia, si raggiunse la definizione di disegno, il quale era visto come l’origine universale di tutte le arti; esso era definito come la componente generatrice della forma di tutte le cose create, necessariamente presente in tutto e all’origine anche delle bellezza esteriore. Emerse l’essenza astratta del Disegno, che per alcuni autori si sovrapponeva a quella di Idea, che faceva acquisire lo spessore intellettuale. Ma in questo processo di intellettualizzazione del disegno emergeva anche la tensione tra l’astrazione del concetto e la manualità dell’azione, con il rischio di svalutare la dimensione pratica dell’arte e, quindi, di rilegare l’aspetto esecutivo a un ruolo secondario. Per colmare la discrepanza, si tentò di innalzare la pratica del disegno al rango di esercizio mentale, reputando nobile l’esercitazione della mano. Giovan Battista Armenini esaltò il valore del lavoro manuale, che serviva a svegliare la mente e a tenere viva la memoria; egli rifiutava il ricorso agli strumenti, ritenendo che solo con il disegno a mano libera il gesto poteva mantenere la sua spontaneità e derivare direttamente dal cervello, rendendo la mano un’estensione della mente. 3.2.1.2. Il Colore e la Luce La questione del colore e della luce risultava penalizzata nel dibattito che assegnava il primato al disegno; il colore fu giudicato come la terza e ultima parte dell’arte e paragonato all’elocuzione poetica, che era la terza parte della poesia. Sul colore non sorsero rivendicazioni intellettualizzanti e fu relegato a ruolo ornamentale. Per Benvenuto Cellini, il colore era una delle principali ragioni dell’inferiorità della pittura sulla scultura; questa opinione era nata in contrapposizione alle usanze coloristiche medievali. I pregiudizi e il primato del disegno penalizzarono la formulazione della teoria del colore. I temi della vaghezza dei colori ingannatori e del volgo incapace di riconoscere la buona pittura erano presenti anche negli appunti di Leonardo; ma il maestro superò tali ragionamenti e assegnò un posto di primaria importanza al colore, con un’attenzione particolare al fenomeno delle ombre. Leonardo era molto interessato dallo studio della percezione visiva, e per questo conscio dell’importanza della luce, si accorse che la luce era essenziale per far emergere i volumi e, quindi, il rilievo. L’attenta osservazione della natura lo aveva portato a osservare la variabilità del colore in funzione delle ombre e delle distanze -> colore e luce erano fenomeni interdipendenti. Nella discussione disegno-colore fu interessante notare come tutti sostennero la necessità di entrambi. Affianco all’evoluzione di queste teorie artistiche, Lomazzo diede la sua originale formulazione dell’approccio simbolico del colore: egli separava il colore dalla luce, in quanto proprietà intrinseca della superficie dell’oggetto. Il colore e la luce divennero testimoni del clima controriformistico: essi assunsero un forte e rinnovato spessore simbolico e divennero dei vettori emotivi, con una valenza astrologica che derivava direttamente dalle teorie di Agrippa sull’associazione tra pianeti e colori. 3.2.1.3. L’Espressione del Movimento e delle Passioni Tra le preoccupazioni teoriche più frequenti nel ‘500, vi era la sfida di dare alle figure l’illusione della vita e del movimento. A ciò dobbiamo ricondurre la “figura piramidale, serpentina, et moltiplicata per uno doi e trè” che Lomazzo enunciò e che derivava da Michelangelo: era un modello di postura e di proporzione che imprimeva “furia nella figura” e che veniva considerata come la perfetta combinazione di bellezza ideale e di grazia; tutta via essa poteva generare degli eccessi si virtuosismo anatomico e un ricorso troppo frequente a questo modello sarebbe stato contrario al principio della varietà delle espressioni. Gli studi anatomici leonardeschi sulla meccanica del corpo umano furono essenziali per il problema della rappresentazione del movimento; infatti, oltre agli studi di carattere scientifico dei “moti”, Leonardo, indagava anche la loro dimensione letteraria, ossia il significato delle espressioni facciali e della gestualità, al fine di raggiungere un elevato grado di eloquenza in pittura. La “teoria dell’espressione delle passioni” (definiti anche “affetti” o “moti dell’anima”) durante il ‘500 si sviluppò largamente e avvalorò l’idea che i movimenti esterni del corpo fossero causa dai movimenti interni della mente. Anche Lodovico Dolce si interessò ai “moti” ma non alla loro applicazione teorico-artistica; Lomazzo, invece, nel Trattato, disse che il moto era una delle cinque parti fondamentali della pittura. 3.2.2. L’Arte e la Natura 3.2.2.1. La Questione dell’Imitazione della Natura e dei Maestri Che l’arte fosse imitazione della natura fu da sempre uno dei principi fondamentali della storia dell’arte e un elemento chiave per la sua definizione. Restava da chiarire come e in quale misura tale imitazione potesse avvenire; tale problematica venne lungamente affrontata nel ‘500. La questione si articolava attorno alla definizione del bello, inteso come la ricerca di una bellezza ideale, e partendo dal presupposto che la natura era imperfetta, data che era soggetta alla mutazione della materia. Teoria dell’electio: necessità di selezionare frammenti di bellezza per poi ricomporre la figura intera; da essa nacquero diverse oscillazioni teoriche, che contrapponevano spesso in maniera antitetica natura e arte, realtà e ideale, mondo sensibile e immaginazione. Vincenzo Danti fece una distinzione tra i termini “ritrarre” (=riprodurre la realtà delle cose) e “imitare” (=trasfigurare artisticamente la realtà delle cose). Anche Michelangelo, Leonardo e Raffaello si espressero in merito al rapporto tra arte, natura e il ruolo dell’immaginazione: - Leonardo: non abbandonò il metodo empirico, nemmeno durante la fase delle invenzioni. Egli per creare aveva comunque bisogno di un supporto iniziale di un’immagine, che gli era fornita dalla natura, anche se casuale o senza forma. - Raffaello: fu una dei più fedeli adepti alla teoria dell’ electio -> selezione di frammenti di bellezza per poi ricomporre la figura intera. - Michelangelo: con lui prese il sopravvento l’aspetto concettuale dell’arte, trascurando il modello naturale -> regno dell’Idea. non solo con il modello antico, ma anche fra gli artisti. Erano frequenti anche gli interventi diretti sulle opere antiche, nel tentativo di restaurarle, integrarle e reinterpretarle; infatti, l’attività di restauro occupò molti scultori, che erano stati assunti da antiquari e collezionisti, anche perché la maggior parte delle collezioni private, più che delle opere intere, abbondavano di frammenti-> tentativo di ricostruire l’integrità delle opere. Tramite le opere antiche si voleva creare un legame tra le terre italiane e quelle greche, dalle quali stavano spuntando le radici di una cultura comune. 3.3.2. L’Antico e la teoria Architettonica 3.3.2.1. I Vitruviani Nel contesto dello studio Antico, un posto a parte spetta al De architectura di Vitruvio; nel proemio l’autore dichiarava di non voler ricavare denaro dalle sue opere, bensì preferiva rimanere in povertà, ma sperava che il suo scritto lo avrebbe fatto conoscere ai posteri. E così fu; infatti, l’opera di Vitruvio rappresentò uno dei più interessanti casi di trasmissione culturale manoscritta, costituita da annotazioni e illustrazioni attribuibili a ogni periodo storico e provenienti da diverse esperienze culturali -> il testo vitruviano circolò molto dopo l’avvento della stampa. Ci furono svariati commenti del testo, tra cui quello di Antonio da Sangallo il Giovane pose al centro sulle difficoltà di comprensione generale del testo, che erano legate al contesto semantico del vocabolario e all’assenza delle originali figure vitruviane. Il tentativo di Sangallo era legato gli studi vitruviani fatti dalla cerchia dei Virtuosi (radunati dal cardinale Farnese negli anni ’40 del’500), che si erano focalizzati sul De architectura. Da questo derivava il programma sintetizzato di Claudio Tolomei, il cui obbiettivo finale era stabile una nuova teoria architettonica e, quindi, un nuovo lessico; tale progetto avrebbe coinvolto un gran numero di architetti e di eruditi, anche a livello internazionale. Esso, però, non arrivò ai traguardi ambiti da Tolomei. Una valida traduzione in volgare del testo di Vitruvio, la quale aveva anche un corredo illustrativo di qualità, fu quella nata dalla cooperazione di Daniele Barbaro e Andrea Palladio. La loro collaborazione fu molto intensa, perché: oltre alle competenze filologiche e alla personali speculazioni teoriche e filosofiche di Barbaro, essa fu arricchita dalla grande perizia archeologica e tecnica di Palladio, che diede un esito a questo nuovo e cospicuo commento del testo vitruviano, che fu senza dubbio il più riuscito di tutto il ‘500. 3.3.2.2. Imitare, Adattare o Reinventare l’Antico? Stampato a Venezia nel 1537, Regole generali di architettura sopra le cinque maniere de gli edifici di Sebastiano Serlio, fu il primo trattato a diffondere su scala europea il sistema di ordini architettonici codificati alla fine del processo di ricostruzione che si era avviato con Alberti -> l’elaborazione della regola tecnica per disegnare la voluta ionica fu una delle grandi problematiche della teoria egli ordini. La fama che Serlio ricevette gli procurò diversi denigratori, come Francisco de Holanda, il quale criticò la libera interpretazione del testo vitruviano, o come Lomazzo, il difensore della “licenza poetica”, che gli attribuì la colpa, diversi decenni dopo, di aver diffuso una regola troppo restrittiva e che aveva creato una generazione di architetti dilettanti e privi di genio. Stabilire un sistema di norme, derivanti dallo studio dell’Antico, fu una tappa fondamentale nel procedimento che mirava prima ad assimilare il modello antico per poi superarlo (elaborazione dei “concetti anticamente moderni e modernamente antichi”). A livello delle tipologie architettoniche, si prestò molta attenzione (cercando di adattare le loro forme in base ai criteri delle pratiche culturali e delle esigenze del nuovo tempo) ai templi, alle basiliche, ai teatri, alle città e alle ville. Gli scritti di Palladio, spiegarono bene sia la questione del tempo che quella delle ville; l’ideale della villa classica, portava con sé un modello di vita rurale civilizzata, che si contrapponeva alla vita cittadina, che era in preda a una degenerazione morale. La polemica sulla vita cittadina fu a lungo discussa ed ebbe ripercussioni anche a livello economico. Non tutto era compatibile con i canoni del modello antico e non tutti furono vittime del vitruvianesimo: infatti, per alcuni, gli architetti e i commentatori vitruviani non erano in grado, materialmente ed economicamente, di ricreare le condizioni per rientrare nelle prodezze dell’epoca classica. 3.3.3. Grandi temi all’Antica 3.3.3.1. Le Entrate Trionfali Gli apparati festivi “all’antica” furono molto sviluppati nel ‘500; in questo contesto, i modelli elaborati nell’ambito delle feste fiorentine furono esposti a livello europeo. Le feste nelle quali essi erano usati, avevano una grandissima importanza a livello politico, e quindi, anche gli apparati effimeri non potevano essere da meno: carri e archi trionfali. Ci furono numerose testimonianza scritte, nelle quali ritroviamo spesso riferimenti all’antico; infatti, la volontà di imitare gli antichi trionfi era estremamente evidente. La memoria di questi eventi fu affidata a diverse tipologie testuali: cronache, diari, carteggi e relazioni ufficiali; anche vasari nella seconda edizione delle Vite, ampliò la descrizione degli apparati effimeri. La pratica della memoria si ampliò ancora di più con l’arrivo della stampa, e, successivamente, venne anche dotata di un corredo illustrativo. La descrizione degli spettacoli effimeri divenne un indispensabile strumento di potere e un utile veicolo di idee. 3.3.3.2. Le Grottesche Le decorazioni pittoriche parietali a grottesche unirono diverse questioni teoriche nate nel ‘500. L’entusiasmo per la riscoperta di quelle bizzarre invenzioni la si può trovare nel saggio di Serlio Antiquarie prospettiche romane, nel quale descriveva i principi base che le caratterizzavano. Dato che non erano vincolate alla storia ma avevano un origine antica, esse erano delle pitture in cui l’artista poteva dare l’libero sfogo alla propria fantasia. Ma tale ragionamento fu messo in discussione; sulla base del Dictum Horatii si cercava di determinare il limite dell’immaginazione e fissare un confine tra il falso e il verosimile in pittura. Per Francisco de Holanda, a patto che il luogo fosse adatto e la “non conformità” fosse “proporzionata”, l’ibridazione delle forme non poneva nessun inconveniente, e, anzi, offriva un ottimo spettacolo alla vista, oltre a rivelare il talento dell’artista. Ma tale ammirazione ebbe tempo breve, e presto emersero diversi contestatori; la principale fu la Chiesa che disprezzava il gusto per il fantastico. Anche la questione del luogo fu fondamentale; Lomazzo, ad esempio, raccomandava un uso delle grottesche moderato e relegato ai soffitti. 4. L’Invenzione tra Regola e Licenza L’invenzione, che faceva parte della fase progettuale dell’opera, fu una nozione di grande rilievo nella teoria dell’arte del’500. Se per Leon Battista Alberti, essa era come un “componimento” e “circoscrizione”, con Lomazzo, l’invenzione, si sarebbe sovrapposta al concetti di Idea. Essendo considerata un’attività letteraria, la sua interpretazione fu affidata alla nascente figura del consigliere iconografico -> grande interferenza dei letterati e dei committenti nel lavoro degli artisti. Così mentre le opere d’arte si arricchivano di simboli e di allegorie, grazie alla collaborazioni tra letterati e artisti, i vescovi della Controriforma provavano a frenare questo sviluppo. 4.1.Verso una Scienza dell’Immagine 4.1.1. L’Artista, l’Erudito e il Committente Anche se gli artisti disponevano di un grande bagaglio culturale, i pittori non ricevevano una vera e propria formazione umanistica. L’invenzione, che era a cavallo tra l’arte e le lettere, veniva considerata parte integrante dell’attività lavorativa dell’artista; ma, essa, era anche una delle attività intellettuali più congeniali all’erudito. Si giunse progressivamente alla costituzione di una triade, che era alla base del processo produttivo dell’opera d’arte i cui ruoli erano: - Il committente: era colui che ordinava e finanziava l’opera, avanzando specifiche richieste; - Il consulente: era il responsabile dell’invenzione e garantiva la validità del progetto a livello iconografico; - L’artista: gli spettava l’elaborazione della composizione nella sua globalità e l’interpretazione in chiave figurativa sia dei soggetti, che voleva il committente, sia dei suggerimenti proposti dal consigliere. Il rapporto tra artisti ed eruditi avveniva, nella maggior parte dei casi, di persona; infatti, si hanno poche testimonianze scritte e, la maggior parte di queste, sono documentazioni epistolari. Da queste testimonianze nacque uno dei documenti più interessanti per lo studio della genesi dei grandi cicli decorativi: molti commettenti, davano delle direttive molto strette agli artisti, che avevano poco margine di invenzione. Anche se sembra che Michelangelo abbia avuto carta bianca per decorare la Cappella Sistina, ciò non esclude la presenza, più o meno diretta, dell’erudito; anche lo stesso Raffaello aveva rapporti stretti con gli eruditi. I rapporti tra rapporti ed eruditi potevano essere sia complessi, vincolanti e conflittuale, sia amichevoli, collaborativi e franchi. Quindi, il talento dell’artista, si esprimeva anche attraverso la capacità di rintracciare presso i letterati le migliori e più appropriate indicazioni iconografiche per comporre le proprie invenzioni. Gli eruditi, dunque, una volta elaborata un’invenzione per una determinata destinazione, dovevano tenerne una copia, che poi dovevano far circolare fra gli altri eruditi, gli artisti e i committenti; in questo modo si stimolavano nuove invenzioni e scambi di informazioni. 4.1.2. Invenzione: tra Arte e Lettere Nelle testimonianze epistolari che si hanno del rapporto tra artisti e consulenti, è molto difficile stabilire i confini dell’operato dell’artista e dell’erudito; di solito quest’ultimo era incaricato di scegliere e fornire le spiegazioni sulle storie da illustrare, però, spesso, accadeva che egli desse anche consigli su come disporre i personaggi, invadendo il raggio d’azione dell’artista. L’erudito sapeva essere anche esigente e meticoloso, aggiungendo alle spiegazioni scritte, degli schemi o dei disegni commentati, che servivano per mettere in forma le parole e i concetti in funzione delle dimensioni e degli spazi concessi dal committente. Anche se i disegni erano molto schematici, ciò fa capire l’intromissione dell’erudito che entrava, addirittura, in un campo tanto importante, come quello del disegno, che era considerato all’apice dell’ iter creativo. Infatti, non sempre la collaborazione risultava facile davanti all’ingerenza dell’erudito, che talvolta assumeva il ruolo di direttore dei lavori; e non furono pochi i casi in cui gli artisti non accettarono tali intrusioni, dato che, già dovevano rispettare le direttive dei committenti, che il più delle volte non erano condivise. L’artista difendeva la propria libertà d’espressione anche al cospetto dell’committente più esigente. Tra questi, ci fu Michelangelo che rifiutò la collaborazione con Pietro Arentino, per il Giudizio Universale. Anche Cellini, nel progetto della Saliera di Francesco I, respinse le proposte degli eruditi, ricercando autonomamente i significati dell’opera, assumendo il ruolo di protagonista; il suo rifiuto nel seguire i voleri dell’erudito, invocavano la piena autonomia dell’artista -> egli, nella descrizione della sua opera, si rifiutò, addirittura, di utilizzare il lessico mitologico, quasi ad opporsi al linguaggio scelto dai letterati, dando così maggior peso e importanza alle forme. Questa posizione non fece che alimentare la già tesa questione tra testo e immagine, tra il dire e il fare, della cesura tra il contenuto e l’estetica delle forme. 4.1.3. Il Gusto per il Complesso “Uscire dall’ordinario” era una premura che avevano sia i committenti, sia gli eruditi e sia gli artisti cinquecenteschi; la ricerca dell’originalità fu la base dell’invenzione. Molto spesso i committenti erano spinti verso tale ricerca, perché volevano possedere un’opera che lo mettesse in rilievo al cospetto della società. profana e arte sacra (proprio nel momento in cui la “Maniera moderna” aveva confuso i due generi). Persuadere e rappresentare la realtà era diventato il fine ultimo delle arti visive, che servivano per istruire i fedeli; tale posizione però ebbe delle grandi ripercussioni sulla questione dell’invenzione. la chiarezza e l’ordine erano dei criteri imperativi e necessari per la composizione dell’opera. 4.2.2. Censura e Controllo delle Immagini Gli affreschi della Sistina rappresentarono un caso particolare, anche per quanto riguardava le soluzioni da adottare per rimediare alla mancanza di decoro; è nota la decisione di Pio IV di ricoprire con dai veli il pudore delle figure del Giudizio. Alcuni documenti attestano le differenzi reazioni degli artisti davanti alla censura: Paolo Veronese, dopo essere stato processato per la sua opera Ultima Cena, difese la sua opera da qualsiasi implicazione eterodossa, rifacendosi alla nozione di licenza poetica, la quale accordava agli artefici la massima libertà d’azione nel campo dell’invenzione; ma proprio la licenza poetica, durante il periodo controriformistico, era stata rimessa in discussione. Il Veronese però non si soffermava sul significato, ma sulla composizione, come se in nel clima di censura non convenisse all’artista mostrare le proprie conoscenze. Contrariamente al Veronese, lo scultore Bartolomeo Ammannati, che era stato profondamente colpito dalla crisi spirituale di quegli anni, proferì il suo totale rifiuto verso il nudo, rinnegando le sue stesse opere; Ammannati ripresa la questione della consueta giustificazione degli artisti di rifarsi ai modelli precedenti, non considerandola una valida scusa e condannando gli eccessi. Queste controversie sulla censura evidenziavano le conseguenze della Controriforma nell’ambito teorico dell’arte. Gli artisti si trovarono davanti ad un ostacolo: le richieste di maggior chiarezza delle opere e di semplicità nell’esposizione dei soggetti, si opponevano alla stratificazione dei significati, al gusto per il complesso e alle invenzioni originali tipiche della Maniera; la novità per la Chiesa era diventata sinonimo di sospetto, “peccato della novità”, e proprio da ciò possiamo osservare le nascenti tensioni tra poesie e eloquenza, tra utile e diletto, tra il compito che la Chiesa assegnava all’arte e la propensione degli artisti. Seguendo le direttive si ebbe una progressiva regolamentazione dell’invenzione, tramite una normalizzazione del repertorio iconografico. si prestò molta attenzione anche all’immaginazione; l’importanza del vero/verosimile, implicava l’imprescindibile ricorso ai testi di riferimento (un pittore più filologo che inventore); così, i trattatisti più critici misero in dubbio la formazione letteraria degli artisti e la loro scelta delle fonti usate per l’elaborazione delle iconografie. Gli artisti furono accusati di concentrarsi troppo sulle fonti forme delle figure e non sul significato e la loro lacunosa preparazione era la prima causa dei loro errori: confusione tra sacro e profano, e assenza di confini tra vero, falso e favoloso. Sulla questione della licenza poetica, che era lo strumento principale usato dagli artisti per rivendicare la loro libertà di espressione, ci furono diversi dibattiti. Gilio individuò due espressioni distinte, “poetica libertà” e “licenza poetica”: la prima indicava un’autonomia e un’assenza di vincoli; la seconda era una libertà limitata, concessa all’interno di un contesto di regole dettate da un’autorità superiore. Egli rivelò quanto fosse sottile in confine tra norma ed eccesso e quanto fosse rischioso l’esercizio dell’invenzione. Gilio, però, non escludeva totalmente l’immaginazione o l’irreale e propose di considerare “tre modi di dipingere”, definendo il pittore poetico, il pittore storico e il pittore misto; ciò permetteva di risolvere la disputa sulla licenza poetica, concedendo alla terza categoria la possibilità di rimanere in bilico tra immaginazione e realtà, a patto che tali opere non fossero destinate a luoghi sacri. Proprio in questa categoria rientravano la maggior parte dei pittori contemporanei. 5. La ricezione delle opere Nel Cinquecento acquisirono notevole importanza le opere d’arte e la nozione di pubblico; ci fu una crescente considerazione nei confronti dello spettatore e nell’uso dei termini per definirlo. Leonardo, che era sensibili alla questione della percezione visiva, alternava la parola “riguardatore” a quella “veditore”, associandole con “occhio”, l’organo essenziale nelle teorie leonardesche (negli scritti successivi prevalse il primo termine); entrambi i termini indicavano un’osservazione attenta e interessata, ma non specificavano l’oggetto che veniva guardato. Poco frequentemente veniva usato il termine “spettatore”, perché richiamava alla visione di uno spettacolo, anche se il termine derivava dal latino spettacula, miracula e mirabila, che stavano sempre nel contesto delle arti visive. Così, si iniziò a prestare maggiore attenzione alla figura del fruitore dell’opera. Il temine “spettatore” venne usato anche nel trattato di Paoletti, nel quale emergevano i primi spunti di una teoria della ricezione, in un contesto caratterizzato dalla riflessione sui potenziali effetti dell’opera d’arte, alla luce della catarsi aristotelica; le arti visive si stavano teatralizzando. Nacque il fenomeno del collezionismo dell’arte e la genesi della critica dell’arte. 5.1.Conservare ed esporre le opere d’arte Nel 1504 si riunì la commissione dell’Opera del Duomo per decidere la collocazione del David di Michelangelo; la questione principale fu se lasciare la statua all’aperto o collocarla al riparo. Da tale questione emergeva già una testimonianza di tutela conservativa; per molti esperti, il David aveva bisogno di una copertura, a causa del materiale marmoreo che non era considerato di buona qualità, mentre, per altri era importante una collocazione all’aperto, per via di una maggiore esposizione e visibilità. Contemporaneamente all’attenzione per le decorazioni dei luoghi pubblici, nasceva quella per le abitazioni private, che divennero i luoghi perfetti dove si mostrava i connubio tra arte e natura, esponendo opere antiche e contemporanee. Iniziò anche ad emergere l’usanza di esporre una parte degli oggetti, contrariamente al passato, dove essi erano conservati all’interno di armadietti. Paolo Giovio, andò oltre l’idea di studiolo, quando, negli anni ’40 del ‘500, decise di costruire un’intera dimora per conservare ed esporre la propria raccolta artistica; Giovio diede il nome di “Museo” a tale edificio. Anche Galileo, andando contro all’usanza delle Wunderkammern, ritenute anguste e derisorie, vi oppose la magnificenza delle collezioni principesche; impiegando la terminologia che era in uso all’epoca, possiamo trovare utile, per spiegare l’evoluzione che era stata messa in atto, il climax “una guardaroba, una tribuna, una galleria regia”. Le opere d’arte avevano guadagnato la loro platea e il viandante di piazza si era trasformato in una spettatore-visitatore. Emergeva persino la dimensione temporale della visita, che venne presa in considerazione anche nei Ragionamenti vasariani, che evidenziava soprattutto come si era estesa la sostanza stessa dei discorsi sull’arte (cosa che influenzò anche l’evoluzione della critica dell’arte). 5.2.Le collezioni di opere d’arte e i collezionisti 5.2.1. La circolazione delle opere d’arte Nel suo diario di viaggio nei Paesi Bassi, Dürer registrò tutti gli scambi d’arte, testimoniando quanto fosse già florido il mercato artistico all’inizio del secolo. Parallelamente alla diffusione della stampa d’invenzione, la stampa di traduzione fu il veicolo privilegiato per rendere note le opere d’arte, soprattutto quelle dei grandi artisti; tale stampa, però, fu criticata perché molti ritenevano che non riproducesse abbastanza fedelmente gli originali o che, addirittura, reinterpretasse le opere stesse. Oltre alle stampe si diffuse anche il commercio dei rotoli di disegni, che erano facilmente trasportabili, e che si espanse sempre di più quando la nozione di disegno acquisì più spessore in ambito teorico. L’ingombro e i costi dei trasporti non fermarono comunque la circolazione di opere più grandi; navi cariche di tesori, solcavano il Mediterraneo, che era diventato la principale arteria di comunicazione artistica. Il trasferimento delle opere, sia sculture che dipinti, richiedeva moltissime precauzioni e creava molte preoccupazioni. La notevole crescita del mercato dell’arte destò molte preoccupazioni, soprattutto in ambito fiorentino; Giovanni Battista Della Palla, fornitore e procacciatore di opere molto conosciuto al tempo, venne aspramente criticato da Vasari, che lo accusò di aver rastrellato Firenze, durante l’assedio, per accaparrarsi il maggior numero di opere possibili. La grande richiesta delle antichità, però, aveva contribuito anche a stimolare il commercio delle opere moderne. Si dovette aspettare il 1602, per avere il primo tentativo di tutela patrimoniale, quando l’Accademia del Disegno ricevette l’incarico di proibire l’esportazione da Firenze di ben diciotto opere dei grandi maestri. 5.2.2. Collezioni e collezionisti esemplari La storia delle collezioni delle gradi corti europee è stata ricostruita soprattutto tramite lo spoglio della successione cronologica degli inventari; altre tipologie documentarie, sono però altrettanto ricche di dettagli, con informazioni relative alla loro costituzione e alle reti di relazioni, che erano alla base degli acquisti e dei regali diplomatici. Con lo sviluppo della letteratura topografica, le descrizioni vennero usate come strumenti per conoscere le collezioni più importanti, oltre che ad esaltare la grandezza dei proprietari. Nel Riposo di Raffaele Borghini, erano annotate delle informazioni dettagliate sulle numerose collezioni fiorentine. Ci fu una clamorosa evoluzione dello statuto dell’opera d’arte e l’affermarsi di un nuovo sguardo nei confronti di tutto ciò che apparteneva al processo creativo e alla genesi dell’opera. La collezione di Niccolò Gaddi, testimoniava l’importanza che aveva assunto il disegno; egli era uno dei più grandi collezionisti d’arte e aveva raccolto una cospicua quantità di opere pregiate e un bel nucleo di disegni, tra questi anche il Libro dei Disegni di Vasari. Con Vasari, emerge la figura dell’artista collezionista; infatti, oltre al Libro dei Disegni, egli aveva raccolto molte opere di pittura e scultura. Gli artisti riuscivano a raccogliere molte opere che servivano o per il loro studio personale o per l’insegnamento agli allievi; queste collezioni avevano anche una funzione autopromozionale. Gli artisti erano esperti dei meccanismi del mercato dell’arte e quindi riuscivano a rintracciare i pezzi migliori e riuscivano, in alcuni casi, a costruire delle dimore d’eccezione, dove esporre le proprie opere. 5.3.L’opera d’arte e il suo pubblico 5.3.1. Chi giudica l’arte? Le osservazioni di Leonardo sul giudizio e la valutazione dell’opera d’arte, dimostrano quanto per il maestro fosse importante, non solo la fase creativa, ma anche la ricezione dell’opera stessa, in un processo sperimentale che vedeva il suo compimento nella verifica dell’effetto visivo del “riguardatore”. Leonardo, consigliava agli artisti l’uso dello specchio per avere diversi punti divista e per stimolare il pensiero critico e dopo di che occorreva obbligatoriamente il giudizio degli altri; egli invitava i pittori a non sottrarsi a questa prova e, come conseguenza alla ricerca del consenso generale, suggeriva persino di adattarsi al gusto prevalente e di dipingere “con diverse maniere”. In Leonardo, dunque, era già presente l’idea stessa di critica d’arte e promuoveva la tesi di un’arte giudicabile da chiunque. Di solito, però, il giudizio del lavoro restava all’interno del rapporto tra il committente e l’artista; infatti, per quest’ultimo, soddisfare il committente era l’obbiettivo principale. Tale rapporto però non era esclusivo, infatti, venivano chiamati altri artisti, per quantificare il compenso e valutare l’opera, in qualità di esperti; come ricorda Leonardo, in questo sistema, i critici erano spesso mossi da interessi personali e invidie. Si diffuse, nel Cinquecento, la poesia d’occasione: venivano chiamate “pasquinate”, ed erano fatte con toni accesi e diffamatori, che venivano affisse alle statue, per veicolare l’opinione di piazza; esse non sempre trattavano temi artistici e spesso prendevano di mira l’artista. A prescindere dalle implicazioni politiche, questa forma di reazione del pubblico trovò terreno fertile nell’ambito della critica delle opere, soprattutto quando venivano inaugurate; oltre alle poesie in vituperio, le opere stimolavano anche dei componimenti encomiastici, da dare alle stampe e che davano un’ulteriore occasione di emulazione tra arte e poesia. Particolarmente significativa è l’osservazione di Francesco Bocchi, che illustra chiaramente l’evoluzione della critica d’arte, condizionata dall’età controriformistica, che si basava sulla ricerca degli errori
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