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Il Cinquecento (Passignat), Dispense di Storia Dell'arte

Riassunto completo di "Il Cinquecento. Le fonti per la storia dell'arte" di Emilie Passignat. Non è presente la parte finale delle fonti.

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 08/08/2023

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Scarica Il Cinquecento (Passignat) e più Dispense in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! I. LA FIGURA DELL’ARTISTA NEL CINQUECENTO ❖ Scritti di Leon Battista Alberti Formula il piano dell’ascesa sociale e del riconoscimento della professione dell’artista: il pittore deve essere “uomo buono et dotto in buone lettere”. ❖ Emancipazione dal sistema corporativo (pittore, scultore e architetto) ❖ Nuovo modello culturale e comportamentale dell’artista Gli autori cinquecenteschi, su spunti di fonti antiche – come Vitruvio e Plinio il Vecchio – riscoperte, ristudiate, diffuse e volgarizzate (grazie al settore dell’editoria in pieno sviluppo), crearono un nuovo modello culturale e comportamentale dell’artista, difendendone la sua dignità di professione. ❖ Mutazione dell’immagine dell’artista + mutazione del rapporto tra artista e bottega ❖ Nascita delle accademie d’arte 1) L’ARTISTA DIVINO → 2 significati: associato a Dio o all’aggettivo “ingegno”/“spirito”/“intelletto” Gli artisti – anche durante il Medioevo – ebbero sempre privilegi, perché lavoravano per committenti prestigiosi e usavano materiali preziosi; perciò, erano collocati all’apice della struttura gerarchica dei mestieri. Suscitano meraviglia nello spettatore perché rimettono in questione il confine tra finzione e realtà, e la loro arte ha concetto di “miracolo” divino per il contenuto. Nel Rinascimento l’opera è miracolosa in associazione al suo creatore; se è tale, l’artista assume dimensione divina perché autore di un miracolo, ed è protetto dal suo talento; artisti non più umani ma divini (culto dell’artista e dell’icona miracolosa). Nel Cinquecento i topos letterari dell’icona miracolosa sono tre: 1. L’icona miracolosa → Aneddoto vasariano attinto dal racconto pliniano su Protogene durante l’assedio di Rodi: mentre i lanzichenecchi stanno saccheggiando Roma nel 1527, vengono colpiti dalla bellezza della “Visione di San Gerolamo” che sta realizzando Parmigianino, e lo lasciano vivere (arte superiore alla guerra; libertà dell’artista di fronte al potere). 2. Tema della creazione → Aneddoto vasariano sul Bacco del garzone di Jacopo Sansovino ispirato al mito di Pigmalione: mentre fa la statua, immobile e muto perde il senno e viene tanto assorbito dalla condizione della statua che desidera tramutarsi in tale, come se lo scultore, come uno stregone, risucchiasse l’energia vitale del giovane per infonderla nel suo Bacco (casi di Donatello e Michelangelo). 3. Tema della resurrezione → Benvenuto Cellini salva e resuscita il “Perseo” dai collaboratori che lo stavano compromettendo, e si presenta come un nuovo Prometeo (mito di Prometeo che con la saetta che infiamma il forno allude al fuoco celeste che dà vita a tutto); tema della resurrezione dell’opera d’arte malgrado un materiale scarso/danneggiato grazie alle facoltà dell’artista (es: David di Michelangelo scolpito in marmo malconcio). La figura dell’artista assume sempre più spessore nei testi (più tardi il suo contesto lavorativo); si forma una nuova coscienza dell’essere artista, da artifex (artista-creatore) ad alter deus (dio-artista): -Leonardo → Pittura come legittima figliola della natura e nipote di Dio; pittore rivestito di aura divina; artista demiurgo “signore e creatore” che ricrea il reale, l’essenza e l’immaginabile col pennello -Erasmo da Rotterdam → Per elogiare l’arte di Albrecht Durer e dimostrare la sua superiorità su Apelle, fornisce un elenco di elementi e stati d’animo tradotti dal bulino del Tedesco -Pomponio Gaurico → Non attribuisce allo scultore natura divina ma lo considera al pari del poeta e dell’oratore, che immagina e riproduce molte situazioni che hanno tutte come soggetto la rappresentazione dell’uomo (pone il vincolo della realtà contro la rappresentazione di figure fantasiose) -Francisco de Holanda → L’artista ideale è divino, ma pochi lo sono -Giorgio Vasari → Divini sono solo Michelangelo (mito michelangiolesco diffuso tramite fonti dagli anni ’30 del Cinquecento; figura simbolica e leggenda vivente in Francia; momento più alto di gloria rappresentato dalle sue esequie fiorentine, in quanto le spoglie furono trasferite da Roma a Firenze segretamente in una balla di mercanzia, come successe con san Marco, e la sua salma non aveva alcun segno di decomposizione) e Raffaello (elevato a mito per la sua possibile morte prematura in un venerdì santo) 2) IL PITTORE NOBILE La riscoperta dell’arte classica portò a una rivalutazione dell’artista, e per alcuni (Paolo Pino, pittore Fabio) dalle loro descrizioni ne emergeva la figura del perfetto cortigiano (non divino o genio), infatti in antica Grecia l’arte era praticata dai nobili e vietata ai servi, e da qui la questione della nobiltà dell’arte che si delineava con la nascita delle figure di committenti di famiglie potenti; perfetto cortigiano di Baldassare Castiglione (modello educativo nobiliare dell’antica Grecia). -Andrea Gilio → La causa principale della decadenza dell’arte era dovuta al fatto che era stata lasciata a gente povera e ignorante -Gabriele Paleotti (cardinale) → Stesso pensiero, ma prende una distanza a posteriori dal concetto di nobiltà dell’arte distinguendo la “nobiltà accidentale dell’arte” (dipende dall’opinione che ne hanno le persone, varia in funzione delle circostanze) dalla “nobiltà intrinseca o assoluta” (stabilita con l’argomentazione dell’ut pictura poesis) -Romano Alberti → Si avvale della doppia accezione di nobiltà: nobiltà dovuta all’appartenenza alla categoria sociale e nobiltà dovuta all’eccellenza ed elevatezza morale; propone di considerare il guadagno in senso meno stretto (rifacendosi in parte a Paleotti) Per quanto inusuale, alcuni artisti conseguirono lo statuto nobiliare: -Tiziano → Conte palatino da Carlo V -Baccio Bandinelli → Cavaliere; disprezzato e deriso dai contemporanei per le sue opere e il cambiamento del nome -Michelangelo → Il più consapevole dell’alto statuto sociale raggiunto dalla propria arte. Da alcune lettere al nipote era preoccupato per il rango sociale della famiglia; rivendicazione della discendenza dai conti di Canossa, per legittimare sia la sua nobiltà che quella della sua arte; alta coscienza di sé, voleva distinguersi nell’arte “da chi ne fa bottega”; solo committenti prestigiosi; distingue tra “artista” (parola di dimensione nobile in senso di scultore/poeta poiché ritiene anch’esso di esercitare un’arte liberale, che viene usata in senso comune solo dalla fine del Settecento con la nozione di belle arti) e “artefice” (di uso comune); primo promotore del proprio mito di sé stesso e difensore dello statuto sociale dell’artista) -Leonardo → Bisogna disegnare in compagnia per stimolare l’emulazione e l’invidia, ma al tempo stesso sono fondamentali i momenti di solitudine perché propizi allo studio e alla creazione; bisogna trovare il giusto compromesso tra emarginazione e solitudine -Michelangelo → Confidò all’amico Sebastiano del Piombo le sue preoccupazioni quando si era concesso tempo libero, definendo questo suo isolamento come “malinconia” -Torquato Tasso → Poeta malinconico per eccellenza, fu il primo a descrivere/analizzare la malinconia: è un’“alienazione di mente” scaturita dalla pazzia/divino furore, che distrae la mente con pensieri, visioni, fantasmi, in un continuo flusso di immagini astratte legate all’immaginazione, in una confusione tra reale e finzione (da una rilettura della tradizione classica del furor poetico e da uno sguardo sul contributo dell’Accademia platonica fiorentina) -Romano Alberti → Riadatta il contributo di Tasso sulla questione dell’atto creativo, ma al contrario formula una visione della malinconia ancorata al mondo reale, cioè quando il pittore è malinconico, la sua mente non è occupata dall’immaginazione ma dallo sforzo di memoria per imitare la natura; riallaccia la malinconia alle immagini reali e allo studio della natura (quasi “demonizza” la fantasia, in linea ai dettami tridentini); ne tenta una riabilitazione cristiana -Giorgio Vasari → Nei Ragionamenti inserisce richiami alla malinconia (il suo personaggio è malinconico), ma la cela dietro altri tipi di malessere (caldo estivo), perché per lui non è lodevole ed è sinonimo di irrisolutezza e stravaganza e indipendenza, nell’ombra della follia, vita vissuta all’insegna della feritas (il più vile grado dell’esistenza, opposto alla divinitas), quindi da sradicare. Nelle Vite tramite la galleria di ritratti letterari elabora una norma comportamentale in reazione all’ondata di umor malinconico (l’amico Francesco Salviati e altri fiorentini lo esportarono in Francia), e incoraggia l’adozione del modello di artista ideale accademico, infatti il modello michelangiolesco nella seconda edizione viene ridimensionato; considera la malinconia come simbolo di stranezza, bizzarria, esuberanza, eccentricità; ritrae gli artisti malinconici in modo grottesco e caricaturale come contro- modelli (Sodoma descritto come eccentrico, dissoluto, vive in una dimora piena di animali, veste in modo strano; Amico Aspertini; entrambi derisi pubblicamente) -Giovan Battista Armenini → Alla fine del Cinquecento condanna l’umor malinconico e i suoi eccessi, in quanto porta a una mancanza di profitto a livello creativo (da qui dibattiti) Artisti malinconici: Michelangelo, Benedetto Varchi, Federico Barocci; il loro carattere non era apprezzato e spesso anche per la lentezza dei tempi di produzione (questione centrale). Raffaello: artista modello post-tridentino e primo rappresentante dell’ideale di artista (gentiluomo virtuoso, socievole e dinamico). 5) L’ARTISTA E IL LAVORO Testimonianze che permettono di approfondire la rete di relazioni tra artisti: -bramosia → Sebastiano del Piombo pochi giorni dopo la morte di Raffaello chiede invano all’amico Michelangelo di farlo lavorare nei cantieri dei Palazzi Vaticani -mutuo soccorso tra artisti dopo il sacco di Roma → Lorenzo Lotto in una lettera raccomanda al Consorzio della Misericordia di Bergamo gli scultori Jacopo Sansovino e un giovane non identificabile (forse Bartolomeo Ammannati) -lettere di raccomandazione → vengono riportati ritratti rivelatori della personalità degli artisti, come identikit; nella lettera di Paolo Giovio per Vasari, Giovio lo descrive già avido di successo (inizio della carriera), ingegnoso, rapido, disponibile; Michelangelo è spesso nominato come garante o termine di paragone -rapporti complessi col committente → l’artista deve essere uno scaltro diplomatico se vuole gli incarichi prestigiosi, o un abile gestore dei propri beni se vuole vivere stabilmente; raramente si rifiutano le lusinghe (Alfonso I d’Este con Raffaello: Raffello non gradiva la committenza e ritardava, ma poteva permetterselo) -artisti e denaro → il rapporto degli artisti con il denaro è spesso avido (dai carteggi), o i mecenati sono poco magnanimi; Baccio Bandinelli, Tiziano -competizioni tra artisti → i committenti stimolano la competizione tra artisti per selezionare i candidati a cui assegnare i lavori; sempre più aspra in concomitanza di concorsi → Albrecht Durer messo a dura prova per integrarsi nell’ambiente artistico veneziano; Leone Leoni scrive una lettera a Michelangelo in merito al concorso per la Fontana di Nettuno, perso perché il duca scelse l’Ammannati, è perplesso ma confessa di non aver neanche visto il suo lavoro; rivalità tra Baccio Bandinelli (antipatico a molti) e Benvenuto Cellini -sette → Vasari nelle Vite testimonia la presenza di molte “sette”, cioè fazioni di poche persone, avverse, di ostacolo e impedimento alla carriera personale, che nascevano quando venivano avviati grandi cantieri e scaturivano invidie, pressioni psicologiche ecc., avevano lo scopo di escludere, con lo scopo di prendere distanza dall’esempio fiorentino di quegli anni, e di valorizzare il proprio percorso virtuoso; gruppo degli anni ’40-’50 del Cinquecento alla corte medicea, setta della cupola del Brunelleschi, setta sangallesca -gruppo di Raffaello → per Vasari in antitesi alle sette; concordia, sana emulazione, inclusione, lavoro collegiale ben gestito e coeso (al contrario di Michelangelo e Pontormo), giusta tempistica anche nei grandi cicli decorativi; su questo modello Vasari propone di fondare l’Accademia del Disegno -difficili condizioni di lavoro → importante la comodità della posizione a garanzia della nobiltà e del primato della pittura; Michelangelo e Pontormo lavoravano solitari e sofferenti per le condizioni di lavoro (posizioni scomode per decorare): Pontormo durante la decorazione del coro di San Lorenzo (dalle sue pagine del diario, usato come supporto mnemonico), Michelangelo durante la Sistina (in un sonetto si autoritrae in una caricatura con una postura goffa e sofferente; forse Vasari gli progettò una sedia a sdraio) II. SCRIVERE D’ARTE NEL CINQUECENTO Le nuove forme di trasmissione e di ricezione delle informazioni e delle idee (per lo sviluppo dell’editoria nel Cinquecento) hanno avuto come conseguenza diretta un profondo ripensamento della tradizionale gerarchia dei generi letterari; la carta stampata diventa un mezzo di espressione complementare all’arte, per promuovere la figura dell’artista e dell’opera stessa quale vettore d’identità culturale. 1) CHI SCRIVE D’ARTE? La rigida compartimentazione dei saperi e delle discipline portò a un dilemma: è lecito per un letterato trattare di arte (di cui non ha esperienza pratica), o per un artista esprimersi tramite la scrittura? Si aprì una disputa tra artisti e letterati (specie nell’ambiente fiorentino) sulla legittimità per i letterati di esprimersi sulle arti, e un dibattito sulla maggioranza delle arti: sebbene la figura dell’artista sia stata spesso messa in discussione e spinta a dover giustificare la sua intrusione nel mondo della scrittura, molti artisti consideravano invasiva l’incursione degli uomini di lettere: -Leonardo → Resistente di fronte alla comunità scientifica (ne critica la metodologia investigativa, prevalentemente teorica e basata principalmente sullo studio dei testi); approccio empirico; per lui la pittura non si dimostra col suo fine nelle parole, ma il procedimento di nobilitazione dell’arte deve implicare anche l’elaborazione di una teoria articolata, quindi è necessario il ricorso alla scrittura -Benvenuto Cellini → Gli artisti stessi devono scrivere sulla loro arte (“ben fare” più importante del “ben dire”); l’artista non è incapace di scrivere della propria arte, ma la ragione della mancata teorizzazione è causata dal difficile rapporto dell’artista con la scrittura -Lodovico Dolce → I grandi artisti avrebbero eccelso anche con la penna, se avessero voluto o potuto; nel suo “Dialogo” dice che la pittura è arte nobile, infatti i due protagonisti sono due uomini di lettere -Francesco Albertini (antiquario e studioso appassionato di arte) → Non si riconosce all’altezza di giudicare per iscritto le opere d’arte -Anton Francesco Doni → Ne il “Disegno” si scusa coi lettori e assicura di essersi informato presso artisti prima di avanzare opinioni sull’arte (scuse dissimulate; è chiaro che è in favore della scultura); reputa la scrittura decisiva per il progresso delle arti Il crescente interesse verso l’arte – intesa come argomento dilettevole di conversazione, degna di essere trattata dai letterati, che giova il perfetto gentiluomo –, soprattutto da parte dei nobili, portò alla necessità di produrre un discorso sulle arti per un pubblico crescente di lettori non specialisti (specie in campo architettonico). Molti artisti e letterati si misero a scrivere d’arte: -Alvise Cornaro (mecenate a Venezia) → scrive un trattato (rimasto manoscritto) di divulgazione per architetti dilettanti -Paolo Pino (pittore) → forma dialogica (approccio più letterario); polemizza contro l’eccesso di scientismo, dicendo ad esempio che il De Architectura di Leon Battista Alberti è più un libro di matematica che di pittura Oltre alla questione su chi dovesse scrivere arte, stava emergendo anche la questione sul come scriverla. 2. Il filone topografico In parallelo alla trattatistica rivolta alla teorizzazione dell’arte, crebbe un altro tipo di discorso sull’arte, appartenente alla famiglia della letteratura odeporica, cioè la narrativa di viaggio: incentrata sulle opere, con una forte componente topografica, generale tendenza storicizzante, vide spesso come protagonisti i letterati. Con il proliferare delle descrizioni geografiche nate dai viaggi di esplorazione, iniziò a moltiplicarsi il genere delle descrizioni cittadine, gettando le basi per lo sviluppo di un nuovo settore dell’editoria: le guide di viaggio. Proseguiva così l’antica tradizione della periegesi, mantenuta viva dalle Mirabilia Romae, già riassorbita dalla cultura cristiana medievale mediante la produzione di libretti rivolti ai pellegrini con le indicazioni degli itinerari sacri da seguire nelle città sante, e che ora riemergeva con più vigore volgendo l’attenzione ai monumenti profani per soddisfare così i nuovi interessi antiquari. Inizialmente gran parte di questo tipo di produzione riguardava solo Roma (che a poco a poco divenne una delle tappe fondamentali della formazione educativa degli artisti e topos letterario nelle loro biografie); poi il fenomeno si allargò alle altre città. Questa letteratura era caratterizzata da una vena encomiastica che accresceva la competizione tra città e nazioni (dalle laudes civitatum), dopo la nuova concezione di identità culturale fondata sul patrimonio artistico acquisito nel corso dei secoli. Il genere della guida storico-artistica giunse a maturità nei due ultimi decenni (si era affermata la figura del viaggiatore forestiero e amatore dell’arte). Sulla scia di questi modelli, altre città in breve ebbero una loro descrizione pubblicata a stampa. Esempi di autori di descrizioni delle città (ad oggi fonti preziose per lo studio delle architetture, delle opere e delle collezioni distrutte/disperse/scomparse): -Bramantino → Nelle “Antiquarie prospetiche romane” (poema degli ultimi anni del XV secolo) viene presentata una rassegna dei testi delle architetture romane e delle più belle sculture antiche; sembra esortare Leonardo a compiere il viaggio a Roma (come pellegrinaggio artistico) -Francesco Albertini (sacerdote fiorentino) → Scrisse la prima guida artistica di Firenze (“Opusculum de mirabilius novae et veteris Urbis Romae”, 1510) -Gilles Corrozet → Elencò le belle cose della Parigi dei Valois (es: opere), per iscriverle nella storia ed esaltare Parigi -Pietro Summonte → Scrisse a un amico una lettera per riepilogare lo stato dell’arte a Napoli -Anton Francesco Doni → Nelle lettere in calce al “Disegno” fece elenchi di cose degne di essere viste -Pietro Lamo (pittore bolognese) → Inventario delle opere d’arte di Bologna (inedito e incompleto) -Francesco Sansovino (scrittore ed editore, figlio di Jacopo scultore) → “Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia” (volume in ottavo, dialogo sulla città tra un veneziano e un forestiero, 1556); “Venetia città nobilissima et singolare”/Venetia descritta” (volume in quarto, guida completa e più accurata sul piano tipografico, 1581); ristampe e riedizioni -Francesco Bocchi → “Bellezze della città di Firenze”: contesto storico all’essenziale; si concentra sulle bellezze, ma senza volontà storicizzante; struttura descrittiva basata su itinerari di strade, piazze ecc. 3. Il genere biografico: tra vita e storia ❖ Marcantonio Michiel (erudito veneziano) -impresa scrittoria pionieristica, incompiuta, a metà strada tra i diversi generi testuali: filone topografico nella “Notizia delle opere del disegno” (inedito fino al 1800; classificazione per luogo e carattere descrittivo) e chiara ambizione storicizzante (il metodo scelto per la stesura si fonda sulla ricognizione autoptica effettuata di persona visitando le collezioni, e sulla raccolta di dati tramite una fitta rete di informazioni) -viaggi, studi e ricerche dal 1521 al 1543 -in una lettera Pietro Summonte disse che Michiel scrisse la vita dei pittori e scultori antichi e moderni, ma non fu stampata perché a Firenze uscì un volume “grande e pieno” (la Torrentiniana di Vasari), si scoraggiò e non ultimò il suo lavoro -non si può definire la forma definitiva del suo lavoro In questo periodo sono peculiari le riflessioni di ordine metodologico degli scrittori attratti sia dal formato pliniano che dalle biografie plutarchiane. In questo senso è significativa l’affermazione che Vasari attribuisce a Paolo Giovio nelle Vite, in cui si percepisce la volontà di superare il lavoro di Plinio e di proporre un’opera di un nuovo genere per le arti. Nella prima metà del Cinquecento ci furono molti tentativi di rassegne biografiche incentrate attorno alle figure di artisti (progetti abbozzati e abbandonati). ❖ Paolo Giovio Specialista del genere biografico. Redisse gli Elogia, ovvero biografie coincise destinate ad accompagnare la rassegna di ritratti collezionati nel museo allestito nella sua dimora a Como. Il primo volume uscì nel 1546; il progetto di farle anche per gli artisti fu incompiuto. Ne rimangono le biografie di Michelangelo (osservazioni di fortuna, come la contrapposizione tra il biasimo di Michelangelo e l’ammirevole Raffaello), Leonardo e Raffaello (scritte intorno al 1527 e scoperte e ristampate da Girolamo Tiraboschi nel 1781); progetto antesignano ufficiale delle Vite di Vasari (ricordato da quest’ultimo come all’origine delle Vite) ❖ Vite → modello unico nel suo genere, senza antecedenti o imitatori per decenni Struttura tripartita, diacronica, progressiva, larga, in volgare, stile non troppo ricercato, tutta incardinata attorno alla figura di Michelangelo e in generale basata sul primato dei toscani (specie fiorentini). L’opera ha una stretta affinità con i progetti di Giovio, anche nella forma (dalla prima edizione si volevano inserire i ritratti, poi da Giovio si sa che non si fece per non perdere tempo e denaro) I revisori furono Giovio e Annibal Caro. Giovio suggerì il titolo dell’opera e seguì da vicino il suo sviluppo, incoraggiando Vasari a dare maggior peso alla scrittura più che alle incisioni; Annibal Caro definì l’opera un “commentario” (genere tornato in auge nel Quattrocento, caratterizzato da una resa in chiave personale della storia; Lorenzo Ghiberti modello di Vasari), e si dimostrò per certi aspetti riduttivo dell’operato vasariano. Vasari nel Proemio della seconda parte delle Vite stabilisce la biografia un genere storico a tutti gli effetti, in quanto per lui la storia era “specchio della vita umana”; era nata la prima storia dell’arte. Dopo la prima edizione, iniziò altri cantieri di scrittura (dialogo con Michelangelo; i Ragionamenti, dialogo descrittivo ed esegetico del ciclo decorativo in Palazzo Vecchio), che accantonò per la seconda edizione La seconda edizione (1568) è aggiornata e più copiosa, con aggiunte che già aveva promesso ai lettori (dopo il successo), ovvero le biografie degli artisti ancora in vita (“le vite de’ vivi”). Michelangelo è l’unico artista ancora in vita rispetto alla vecchia edizione, e lo trasforma in modello assoluto; però morì nel 1564, quindi alla sua pubblicazione il mito michelangiolesco è rivisitato e ci sono modifiche per cambiamenti politici e spirituali. Opera ampliata (arco temporale e geografico dilatati) con artisti di tutta Italia e anche di Francia e delle Fiandre, in linea con l’internalizzazione su cui si fondava l’ideologia dell’Accademia del Disegno (per garantire l’espansione dell’impero culturale che Cosimo I era impegnato a costruire intorno a Firenze); maggior accento sulla componente storiografica e topografica dell’opera invece che biografica (come suggerito dall’amico e letterato Vincenzo Borghini, che curò le tavole fin dalla prima edizione, e spronava Vasari a compiere nuovi studi, indagini, viaggi, per documentare con precisione le opere o scoperte tecniche come quella dell’invenzione della pittura ad olio, al contrario di Giovio); tavole tanto ampliate da essere segnalate anche nel titolo dell’opera; approccio globale alle arti (combinava storia, teoria, topografia, biografie, spunti sulle tecniche e materiali). Vasari racconta come alcuni amici fiamminghi gli avessero chiesto di completare le Vite con trattati illustrati; doppia, audace, esauriente, spiazzante per i contemporanei, completa. L’opera aprì una breccia e generò reazioni nei contemporanei, che volevano completare e/o correggere il suo lavoro: -Guglielmo della Porta (rivale di Michelangelo) → trattatello rimasto poi solo progetto -Vincenzo Borghini → “Riposo” (forma dialogica, lunghi monologhi con concise biografie di artisti) -Karel Van Mander → “Schilderboek” (la prima opera paragonabile alle Vite, colma le lacune sugli artisti fiamminghi e tedeschi) -Ascanio Condivi → “Vita di Michelangelo” (con l’intento di fornire una sua versione dei fatti, al limite dell’autobiografia, in opposizione alla biografia vasariana) -Domenico Lampsonio → “Lamberti Lombardi vita” (Bruges, 1565) + un volume di stampo gioviano con i ritratti accompagnati da epitaffi di una decina di artisti -Benvenuto Cellini → la più celebre autobiografia del Cinquecento; non rispetta lo schema storiografico usuale con una distinzione tra autore e protagonista, e per non sembrare troppo vanitoso affida la scrittura della sua biografia a un giovane illetterato; autoreferenzialità e pratica del mestiere; per lui l’inizio dell’attività di scrittura derivava dalla disperazione di essersi ritrovato senza lavoro; siccome non sarebbe mai stata pubblicata con Cosimo I (per l’immagine della corte medicea che mandava), rimase solo un trattato con personali riflessioni teoriche, competenze tecniche, qualche saliente cenno biografico Durante tutto il Seicento e oltre crebbe il successo del modello vasariano. Importanti le annotazioni lasciate in margine ai testi (specie nella Giuntina) da commentatori, letterati, artisti. “materia sculta”). La scultura era sfavorita sia per la fisicità e le condizioni di lavoro che la portavano a essere considerata arte meccanica, sia per la natura del rapporto con la materia che portava a implicazioni filosofiche (lo scultore per fare l’opera deve eliminare molto materiale, che si scatena attorno a lui, lui cerca di dominare la materia ma invano, ed essa lo imprigiona); opposto a Michelangelo, che denuncia la scomoda posizione lavorativa del pittore di affreschi. Il culmine della disputa si raggiunse nel 1547, quando Benedetto Varchi tenne le Lezioni all’Accademia fiorentina; per difendere la sua posizione super partes chiese l’opinione per lettere ai maggiori artisti attivi alla corte di Cosimo I e oltre, suscitando molta agitazione tra loro, e il clamore portò alla risposta dei veneziani (Paolo Pino fece un’offensiva contro la scultura), perché Venezia si stava affermando come la patria degli amatori di pittura (da Francesco Sansovino). Da Firenze a Roma avevano risposto per iscritto a Varchi almeno otto artisti: Bronzino, Vasari e Pontormo per la pittura; Giovanbattista del Tasso, Francesco da Sangallo, Tribolo, Benvenuto Cellini per la scultura; Michelangelo, con il suo giudizio distaccato e conclusivo dava il primato alla scultura. La conclusione di Varchi fu che pittura e scultura costituivano un’unica arte e quindi nessuna era più nobile dell’altra. Nel 1549 uscì il volume di Varchi, presso il nuovo editore Lorenzo Torrentino, in forma epistolare con le lettere degli artisti in calce per evitare la finzione letteraria tipica della forma dialogica allora in voga (artisti da una rete di relazioni selezionata); fu anche l’occasione di far circolare a stampa due scritti michelangioleschi (un sonetto e una lettera), dando forma scritta al pensiero teorico del maestro (stava iniziando il suo processo di mitizzazione nella Firenze di Cosimo I de’ Medici). Nel volume era chiaro il primato dei toscani; all’appello mancava il parere di Baccio Bandinelli (uno dei più grandi scultori della Firenze dei Medici), perché non era ben visto dalla cerchia di Varchi, ma fece comunque sentire la sua voce quando venne scelto dal Doni come protagonista difensore della scultura nel suo dialogo “Il Disegno”, forse attribuibile a Bandinelli. Il dibattito si riaccese a Firenze nel 1564 (morte di Michelangelo), quando Cellini (per la scultura) andò contro a Vincenzo Borghini (compose la “Selva di notizie”, libro con i contributi stampati nel 1549, rimasto a lungo inedito). La questione del paragone ebbe fortuna: a lungo dibattuto nel Cinquecento (Vite di Vasari, pittori che nelle opere volevano dimostrare la superiorità della pittura facendo gioco di specchi di vedute e inficiando sulla qualità delle opere), tornò all’inizio del Seicento (Galileo in linea con le opinioni di Michelangelo), ripresa all’alba del Novecento (quando Edmond Claris volle ripetere l’indagine di Varchi, ottenendo da Claude Monet lo stesso genere di risposta: per lui queste discussioni andavano lasciate a quelli appassionati o a scrittori, non a pittori). 2) EVOLUZIONE DEI PRINCIPALI ASPETTI TEORICI 1. Le parti dell’arte: Il disegno tra segno grafico e operazione mentale Il dibattito sul Paragone fu uno stimolo per la teorizzazione delle arti, per la loro ridefinizione alla luce dei nuovi obiettivi che si stavano presentando. La nozione di disegno fu uno dei cardini fondamentali attorno a cui ruotò tutta la discussione, permettendo di riunire sotto un’unica bandiera quelle arti che prima erano separate dal sistema corporativo. Il disegno era ritenuto come fondamento di entrambe, e richiamava all’idea delle arti sorelle (concetto ribadito da molti per placare le controversie e porre pittura e scultura sullo stesso gradino); ciò è implicito nel termine greco “graphein”, che racchiude in sé l’insieme delle attività grafiche (scrivere, disegnare, dipingere). Discorso del disegno universale → Aspetto più teorizzato del Cinquecento; disegno come origine universale di tutte le arti, componente elementare generatrice e costituente della forma di tutte le cose create (quindi anche all’origine della bellezza esteriore): -Petrarca → Pittura e scultura “artes cognatae”, disegno “fons artium” -Baldassarre Castiglione: stesso pensiero; le due arti provengono dalla stessa fonte del buon disegno -Benedetto Varchi → Il disegno è l’origine, la fonte e la madre di pittura e scultura -Vasari → Nel “Proemio di tutta l’opera” scrisse che la scultura e la pittura sono sorelle, nate dall’unico padre disegno; disegno come essenza astratta che si sovrappone all’essenza di Idea (e per altri) -Benvenuto Cellini → Il disegno (specie il bozzetto) è padre di pittura e scultura; il vero disegno è l’ombra del rilievo, quindi il rilievo è padre di tutti i disegni -Baccio Bandinelli → All’origine del disegno universale c’è Dio (il primo creatore) -Lomazzo → Versione distaccata dalla spiritualità post-tridentina; si rifece alla nozione di euritmia (ispirato al commento vitruviano di Daniele Barbaro, per il quale essa è madre della grazia e del diletto) -Alessandro Allori → Più pragmatico e riluttante; limitò la sua definizione del disegno alla semplice linea di contorno (prediligendo l’uso della matita appuntita spesso), e la sottigliezza della linea (che in natura non esiste) serve a cancellare la dimensione materica del disegno per restituire meglio l’illusione ottica della realtà In questo processo di intellettualizzazione del disegno emergeva qualche tensione tra l’astrazione del concetto e la manualità dell’azione (tra mente e mano), rischiando di relegare a ruolo secondario la dimensione pratica dell’arte. Quindi alcuni tentarono di innalzare la pratica del disegno al rango di esercizio mentale (faticosa esercitazione della mano reputata nobile da Vasari e altri): -Giovan Battista Armerini → Esaltò il valore del lavoro manuale (sveglia la mente e tiene viva la memoria) -Bandinelli → Le fatiche del disegno sono un’imitazione in scala umana del gesto divino; nessun ricorso agli strumenti (es: per le proporzioni; critica a Durer), ma solo disegno a mano libera, così che la mano è spontanea e pura estensione della mente Questi concetti circolarono più rapidamente tra i libri a stampa che tra le varie realtà degli ambienti artistici. A Roma alla fine del Cinquecento all’Accademia di San Luca, Federico Zuccari non riuscì a stimolare un vero e proprio dibattito teorico; poi sviluppò una distinzione tra disegno interno e disegno esterno nei primi capitoli de “L’idea de’ pittori scultori et architetti” (1607), e il disegno come trait d’union tra intelletto e manualità. 1. Le parti dell’arte: il colore e la luce La formulazione della teoria del colore e della luce fu penalizzata sia dal primato del disegno nel dibattito (in ambito fiorentino dalla tripartizione albertiana il colore fu giudicato come la terza e ultima parte dell’arte), sia per tutti i pregiudizi. Paragonato con la poesia, il colore era associato all’elocuzione (terza parte della poesia). Sul colore non sorsero precise rivendicazioni intellettualizzanti, relegandolo a un ruolo ornamentale; su questo punto importanti le osservazioni di Vasari in merito alla Cappella Sistina, perché permettono di illustrare il dibattito tra disegno e “varietà di tinte ed ombre di colori” (confrontando Michelangelo per la scultura con Raffaello per la pittura). Nella contesa tra superiorità del disegno o del colore, tutti sostengono la necessità di entrambi. In generale c’è una presa di distanza dai colori sfarzosi capaci di ammaliare i non esperti d’arte. -Benvenuto Cellini → Nei suoi trattati l’attenzione al colore è marginale (tranne nella sezione dedicata alla smaltatura, equiparata a una sorta di pittura); per lui la pittura è inferiore alla scultura anche per il colore (considera il grado di eccellenza raggiunto da Michelangelo nella pittura come intrinsecamente legato alla sua attività di scultore; ammira le opere di Bronzino); critica i colori del periodo (dal Quattrocento, in contrapposizione all’oro e azzurro medievali), preziosi e sfarzosi, che ingannano il volgo che pensa sia buona pittura (anche Leonardo, Lodovico Dolce, Cristoforo Sorte) -Leonardo → Assegna al colore primaria importanza, con un’inedita attenzione al fenomeno delle ombre e delle luci (interdipendenti), che fanno emergere i volumi e quindi il rilievo; indaga la variabilità del colore in funzione delle ombre e delle distanze; questione dello “sfumato”/chiaroscuro (combinazione di luci e ombre che applicò specie ai lineamenti) -Vasari → Punta l’attenzione sul concetto di amicizia dei colori, subordinando la variazione del colore locale alla nozione di “unione nella pittura”, alla ricerca di una “bellissima discordanza accordatissima”; relativizza il primato del disegno -Paolo Pino e Lodovico Dolce → Intento di imporre il colore come peculiarità della scuola veneta; autori di descrizioni sulla pittura tonale (Dolce sottolinea il perfetto connubio tra disegno e colore nelle opere di Tiziano) -Lomazzo → Separa il colore dalla luce, rifacendosi alla sua definizione aristotelica in quanto proprietà intrinseca della superficie dell’oggetto; il colore e la luce (di rinnovato spessore simbolico) come vettori emotivi (con valenza astrologica) 1. Le parti dell’arte: l’espressione del movimento e delle passioni Una delle preoccupazioni più ricorrenti della teoria cinquecentesca fu la sfida di arrecare alle figure l’illusione del movimento, senza la quale, secondo Leonardo, sarebbero “morte due volte”. A questo aspetto si riconduce la figura –piramidale, serpentinata, moltiplicata per uno due e tre –, che Lomazzo enunciò come il segreto della pittura, a lui tramandata da un allievo di Michelangelo; modello (semplificato rispetto al pensiero di Michelangelo) di postura e di proporzione, perfetta combinazione di bellezza ideale e di grazia. Da un lato l’imitazione del moto ondulatorio senza applicare questo modello portava a virtuosismi anatomici e pose contorte (dice Alberti), oppure veniva usato troppo andando contro al principio della varietà delle espressioni (dice Lodovico Dolce). Per il problema della rappresentazione del movimento, Leonardo fece indagini anatomiche approfondite sulla meccanica del corpo umano (studio del significato delle espressioni facciali e della gestualità), al fine di raggiungere un elevato grado di eloquenza in pittura. Quest’aspetto dei “moti dell’animo” (o “affetti”, o “teoria dell’espressione delle passioni”) si sviluppò molto nel Cinquecento, con l’idea che i movimenti esterni del corpo (anche i muscoli facciali) sono causati dai movimenti interni della mente: Lodovico Dolce (si disinteressa però della loro applicazione teorico-artistica), Lomazzo (il moto è una delle 5 parti fondamentali della pittura). 2. L’arte e la natura: La questione dell’imitazione della natura dei maestri L’arte è imitazione della natura (legata alla nozione di mimesis). Nel Cinquecento si affrontò la problematica riguardante come e in quale misura imitare la natura. Tutto si articolò attorno alla definizione del bello (inteso come ricerca di una bellezza ideale), riconoscendo che la natura è imperfetta (per Paolo Pino alterata e soggetta all’ “impotentia della materia”). C’era quindi la teoria dell’electio, cioè la necessità di selezionare dei frammenti di bellezza per poi ricomporre una figura intera (sintetizzato dall’aneddoto pliniano delle cinque ragazze di Crotone). Vincenzo Danti propose la distinzione tra ritrarre (riprodurre la realtà delle cose) e imitare (intenzione artistica di trasfigurarle). Atteggiamento in merito al rapporto tra arte, natura e ruolo di immaginazione di Leonardo, Michelangelo, Raffaello: -Leonardo → L’osservazione di tutto ciò della natura apparentemente in disordine (pietre, macchie, nuvole) è stimolo all’invenzione; per creare (fare invenzioni) ha bisogno del supporto iniziale di un’immagine fornita dalla natura, anche se casuale o senza forma (metodo empirico anche nelle invenzioni); anche per Paolo Pino, perché la natura imita sé stessa -Raffaello → Fedele alla teoria dell’electio (Zeusi redivivo; lettera a Castiglione a proposito della Galatea) -Michelangelo → Aspetto concettuale dell’arte, fonda la sua arte sull’Idea (immagine ideata della natura, di fantasia), disinteresse al mondo naturale Due bellezze: 1. Bellezza corporale → dogmatica, invariabile; ottenuta applicando misurazioni e regole matematiche; aristotelica 2. Grazia → Bellezza interiore dell’animo; difficilmente rappresentabile; platonica; per Benedetto Varchi è superiore perché di origine divina, anche per Vincenzo Danti (a patto che obbedisse ai precetti aristotelici e fosse riconducibile alla materia, per originare la bellezza d’animo) Tutte queste considerazioni, da un lato aprirono la strada a un’interpretazione più arbitraria delle proporzioni delle figure, lasciando una maggiore libertà d’azione all’invenzione dell’artista (la “licenza” degli artisti della Maniera: necessità di una grazia che eccedesse la misura, dice Vasari); dall’altro, tutto il discorso sulla grazia fu decisivo per il processo creativo e la bellezza complessiva dell’opera. Idee accolte dai teorici dell’arte: -la bellezza non deve risultare troppo lavorata → Alberti, Leonardo (Leonardo parla dell’eccessiva ricercatezza delle figure) -l’artista deve avere già buona predisposizione, altrimenti è inutile lo studio e la diligenza → Vasari -sprezzatura (la grazia si deve trasmettere attraverso una spontaneità dei gesti; attraverso una finta facilità si presta il talento) → Castiglione; altra proprietà della sprezzatura è l’“altro ornamento” (il talento dell’artista è rivelato da un solo colpo di pennello); Francisco de Holanda a riguardo vi aggiunge che per esercitare la sprezzatura bisogna fare le opere velocemente, come di fretta; Tolomei parla del legame tra grazia e prestezza; tutto ciò contribuì a esaltare l’attrazione nei confronti dell’abbozzo, dello schizzo, del non-finito (da Pietro Aretino) 3) L’ANTICO: UN MODELLO, UNA PASSIONE 1. L’alba dell’archeologia o dell’anticomania (ossessione degli oggetti antichi): scavi, scoperte, smanie Nel Cinquecento scoppiò la passione per l’Antico (cultura antiquaria): -molti viaggiarono verso Levante sulle tracce dell’antica Grecia per prendere antichità → dagli scritti di Sabba da Castiglione (faentino che andò a Rodi come cavaliere gerosolimitano, e procurò antichità alla marchesa di Mantova) si sa che internazionalmente gli italiani erano visti come idolatratori di queste “follie” -molti scavi a Roma e appassionati (come Isabella d’Este) → gruppo del Laocoonte (1506), collocato nel cortile delle statue del Belvedere (descritto dagli ambasciatori veneziani, perché pochi potevano accedervi in quanto Adriano VI fece sbarrare tutte le porte di accesso tranne una; infatti molti temevano un suo slancio iconoclastico) -cardinali accumulano statue e medaglie nelle loro dimore, e scambiano pezzi con altri collezionisti (anche Pietro Bembo) -mercato fiorente → alimentato dagli scavi, stimolato da richieste, molte frodi (il più celebre falso antico è il Cupido di Michelangelo; in generale, Enea Vico testimonia di medaglie moderne scambiate per antiche), furti (anche prima del Sacco di Roma, per alcuni l’occasione di aumentare le proprie collezioni, come il duca di Mantova) -Paolo III promulgò un provvedimento per controllare il traffico dei reperti antichi (1534) → un commissario generale proibiva l’uscita di materiale antico senza autorizzazione (con eccezioni: missione di Primaticcio per il re di Francia; Tiziano che trasportò dei doni ricevuti dai Farnese senza dichiararli); le diverse tipologie di permessi divennero uno strumento politico per gestire le relazioni diplomatiche (duca di Baviera tra i beneficiari di queste licenze nel 1570) 1. L’alba dell’archeologia o dell’anticomania: l’Antico: studio, conservazione e restauro Il Sacco di Roma diede luogo a molte testimonianze → lettera a Leone X di Raffaello con l’amico Castiglione, in cui: -si constata il degrado dell’urbe (Pietro Aretino) -si attaccano personalità di spicco: Bartolomeo della Rovere (nipote di Sisto IV; da Raffaello), Jean du Bellay (cardinale arcivescovo di Parigi, collezionista; Pirro Ligorio lo accusa di depredare Roma per conto della Francia); Raffaello e Ligorio grandi antiquari (summa enciclopedica di Ligorio); nel 1537 Sebastiano Serlio fissò per iscritto voci cittadine sulla distruzione di alcune grottesche per la natura maligna di alcuni (Lomazzo poi ne rivelò i nomi nel suo “Trattato” per sentito dire: Raffaello, Polidoro, il Rosso, Perino) -esprimono da un lato l’attenzione nei confronti del patrimonio emergente, dall’altro la sfrenata passione per lo studio dell’Antico → nuovi interessi storici e topografici affrontati con una nuova metodologia alle origini dell’archeologia moderna (Raffaello trova i testi di architettura limitanti, come quello di Vitruvio): primi confronti e riscontri tra fonti scritte e indagini sul campo (da Enea Vico), volontà di una ricostruzione filologicamente corretta della topografia antica anche a Firenze (Vincenzo Borghini cercò reperti antichi in città per dimostrare che Firenze non è stata distrutta e ricostruita in età longobarda, ma che è romana) Antico modello assoluto di riferimento (dopo la natura, precisa Francisco de Holanda): -l’ottima conoscenza antiquaria divenne requisito per tutti gli artisti -dalle opere rinvenute gli artisti si confrontavano con il modello antico e tra di loro (es: Giulio II sfidò a chi avrebbe eseguito la copia più perfetta del Laocoonte) -interventi diretti sulle opere antiche per restaurare (scultori sempre sollecitati da antiquari e collezionisti), integrare e reinterpretare (Ganimede di Cellini, pretesto per una litigata con Bandinelli) -la maggior parte delle collezioni private (a parte quelle principesche) avevano più frammenti di opere che opere frammentarie: Anton Francesco Doni derideva un collezionista, Enea Vico ricorda il caso dell’Adorante (statua bronzea posseduta da Andrea de’ Martini, rinvenuta sull’isola di Rodi e condotta a Venezia alla fine del Quattrocento, ora all’Altes Museum di Berlino), perché Bembo la completò attingendo dalla sua collezione un piede perfettamente combaciante (ciò dimostra: la politica dei doni tra collezionisti, la ricerca ostinata per ricompletare le opere, la prova dell’antico legame tra terre greche e italiane) 2. L’Antico e la teoria architettonica: i vitruviani “De architectura” di Vitruvio: -trattato sull’architettura in 10 libri -di fortuna -uno dei più interessanti casi di trasmissione culturale per la sua lunga tradizione manoscritta (con annotazioni/illustrazioni di ogni periodo storico o esperienza culturale) -con l’apparizione della stampa aumentò il suo studio: studi romani nei primi due decenni del Cinquecento (Raffaello in una lettera promette una serie di disegni per il progetto di Fabio Calvo) -Antonio da Sangallo tentò di fare una traduzione commentata del testo, ma trovò difficoltosa la sua comprensione generale (legata al contesto semantico del vocabolario e all’assenza delle originali figure vitruviane), così criticò i suoi predecessori (Giovanni Sulpicio, fra Giocondo, Cesare Cesariano, membri dell’Accademia della Virtù) per le interpolazioni del testo negli anni precedenti, perché per lui per scrivere arte bisogna avere competenze specifiche da studi classici e da formazione pratica; si conserva solo la prefazione; il suo tentativo è da ricondurre agli studi vitruviani della cerchia accademica dei Virtuosi -Accademia dei Virtuosi: radunata attorno ad Alessandro Farnese (cardinale) negli anni Quaranta del Cinquecento; focalizzati sul “De architectura”; rimane il loro programma (sintetizzato da Claudio Tolomei); progetto di stabilire una nuova norma, teoria architettonica e nuovo lessico (traguardo non raggiunto); in quest’ambiente nacquero le “Annotationes” di Guillaume Philandrier e la “Regola” di Vignola -Daniele Barbaro e Andrea Palladio (ambiente umanistico veneto) fecero una traduzione in volgare del De architectura, con disegni; collaborazione intensa (anche se Barbaro riconosce di Palladio solo i disegni più importanti); commento più riuscito del Cinquecento 2. L’Antico e la teoria architettonica: imitare, adattare o reinventare l’Antico? “Regole generali di architectura sopra le cinque maniere de gli edifici” (Sebastiano Serlio, Venezia, 1537) fu il primo trattato a diffondere su scala europea il sistema di ordini architettonici codificati dopo il processo di ricostruzione avviato fin da Alberti (una delle più grandi problematiche della teoria degli ordini fu l’elaborazione della regola tecnica per disegnare la voluta ionica); di grande fama, ma subì anche critiche (Francisco de Holanda ne denigrò la libera interpretazione del De architectura; Lomazzo colpevole della diffusione di una regola troppo restrittiva, vera causa di una generazione di architetti dilettanti e senza genio). Stabilire un sistema di norme frutto dello studio dell’Antico fu una tappa fondamentale nel procedimento di assimilare e poi superare il modello antico; non tutto venne regolato rigidamente (es: ordine composito; Philibert De l’Orme); idea di una licenza che superasse la regola (Wendel Dietterlin autore di interpretazioni antropomorfiche degli ordini). Tipologie architettoniche Molta attenzione a templi, teatri, basiliche, città, ville (scritti di Palladio su templi e ville): -villa → ideale della villa classica, quindi modello di vita rurale civilizzata (luogo dove coltivare, di ozio, di armonia con la natura, di rifugio dalla vita cittadina in preda alla degenerazione morale); vita in villa esaltata da molti scrittori (es: epistola di Paolo Giovio a Giano Rasca sullo stile di Plinio il Giovane, autorità della villa antica); polemica nei confronti della vita mondana (ricadute a livello economico); il Veneto si riempì di ville palladiane -basilica → rifiuto dei canoni del modello antico; non tutti vittime del vitruvianesimo (Pietro Aretino in una lettera si sfoga contro i nuovi architetti e committenti non in grado di ricreare le adeguate condizioni per reiterare le prodezze dell’epoca classica) 3. Grandi temi all’antica: le entrate trionfali Gli apparati festivi effimeri erano strutture architettoniche provvisorie all’antica; sorsero alla metà del Quattrocento per feste importanti con implicazioni politiche, e nel Cinquecento conobbero la loro espressione più compiuta; i modelli elaborati nell’ambito delle feste fiorentine furono esportati a livello europeo. Gli apparati effimeri erano ampi, realizzati con carri e archi trionfali (spesso sui modelli antichi degli antichi trionfi). Gli spettacoli erano descritti in diverse tipologie testuali (cronache, diari, carteggi, relazioni ufficiali), in aumento nel secolo (Vasari nella seconda edizione delle Vite amplia le descrizioni), poi con la stampa nacquero descrizioni ufficiali (anche con corredo illustrativo).La descrizione scritta di uno spettacolo effimero era anche strumento di potere e veicolo di idee (Vincenzo Borghini per gli apparati delle nozze di Giovanna d’Austria e Francesco de’ Medici studiò i precedenti modelli, e puntualizzò l’impossibilità di realizzare apparati all’antica, per gli enormi tempi e costi o per limitare l’eccessiva ostentazione del potere ducale a Firenze) -Passo del trattato dei due Richardson padre e figlio Menzionano un documento legato alla “Disputa delle Stanze Vaticane”, che parla di una lettera originale di Raffaello ad Ariosto (non pervenutaci) per avere consigli per il quadro della Teologia (il carattere dei personaggi inseriti); dimostra che Raffaello aveva rapporti stretti con un gruppo di eminenti eruditi -Lettera di Raffaello a Baldassarre Castiglione In risposta alle sue indicazioni, inviava alcuni disegni sullo stesso soggetto affinché Castiglione scegliesse il migliore. -Lettera di Vincenzo Borghini a Vasari Riguardo il cantiere delle cappelle vaticane: grande punto di riferimento per Vasari; gli consiglia di rivolgersi anche ad altri e di rifarsi ai grandi maestri dell’Antichità; gli dà informazioni su fonti testuali da consultare per rintracciare dettagli sulle storie scelte. -Lettera di Remigio Fiorentino a Francesco Salviati Vasari ricorda che all’amico Salviati piaceva collaborare con i letterati; chiede indicazioni al monaco (traduttore del “De remediis utriusque fortunae di Petrarca) per la realizzazione di una Fortuna; il monaco gli dà una serie di spunti. -Lettera di Vasari ad Annibal Caro In relazione alle invenzioni per le figure allegoriche dei mesi nel palazzo di Bindo Altoviti; arrivato al punto di affrescare gli chiede di trasmettergli dei soggetti, e Caro risponde di aver prestato ad altri uno scritto a riguardo (documento non conservato, ma ne resta una traccia nello Zibaldone di Vasari). -Lettera di Annibal Caro a Taddeo Zuccari Trascritta da Vasari interamente nella biografia di Zuccari; dettagli sulla genesi della Stanza del Sonno di Palazzo Farnese a Caprarola. Giorgio Vasari → Strinse importanti relazioni con una cerchia di letterati (Annibal Caro, Paolo Giovio, Cosimo Bartoli, Vincenzo Borghini), a cui si rivolgeva per farsi aiutare a scegliere i soggetti iconografici, e poi elaborare da solo il suo programma decorativo. I rapporti tra artisti ed eruditi potevano essere amichevoli e collaborativi o conflittuali e vincolanti. Il talento dell’artista si notava dalla capacità di cogliere le migliori indicazioni iconografiche dei letterati per comporre le proprie invenzioni. Gli eruditi dopo aver elaborato un’invenzione per qualcuno dovevano conservarne una copia alla stregua di un componimento letterario qualsiasi (questi componimenti dovevano circolare tra eruditi e artisti per stimolare nuove invenzioni, scambi di informazioni e facili reimpieghi), e poi utilizzarla in seguito alla giusta occasione. 2. Invenzione: tra arte e lettere -Lettera di Annibal Caro Famosa; Vasari le dedicò sette pagine nell’edizione Giuntina. -Lettera a Cosimo I de’ Medici Vincenzo Borghini riferisce dell’apparato per le nozze del figlio Francesco nel 1565. -Lettere tra Vasari, Bartolini, Borghini Per l’elaborazione della decorazione di Palazzo Vecchio (spazi di rappresentanza, Studiolo di Francesco I). In questi testi è difficile stabilire i confini dell’operato dell’artista e dell’erudito; di solito l’erudito sceglieva e forniva spiegazioni sulle storie da illustrare, ma a volte consigliava sulla disposizione dei personaggi o sulla composizione e organizzazione spaziale delle decorazioni, assumendo anche il ruolo di direttore dei lavori. Vincenzo Borghini → Era accondiscendente con l’artista per l’urgenza e la natura effimera delle decorazioni (lettera a Cosimo, lettera a Bronzino), ma anche esigente e meticoloso, e forniva spiegazioni con schemi o disegni commentati (caso di Isabella d’Este e Perugino); molti schizzi schematici (dice lui “sproporzionati e goffi”) utili per le invenzioni (dalle lettere con Vasari), quindi anche lui invadeva l’ambito disciplinare dell’artista (dimensioni e proporzioni dei soggetti…) Quindi in questi casi spesso la collaborazione non era amichevole, e certi artisti facevano capire cortesemente o veementemente di non accettare queste intrusioni, poiché già sotto le indicazioni non volute del committente. Esempi: -Giovanni Bellini e Isabella d’Este → Rifiuta le sue imposizioni dettagliate e difende la propria libertà d’espressione -Tiziano e i deputati della città → Per le pitture del Palazzo della Loggia di Brescia, sotto imposizione di un preciso programma iconografico, rispose cortesemente ai deputati della città, dispiaciuto per il ritardo e stizzito da tale situazione di indicazioni dettagliate al quale non era abituato -Michelangelo e Pietro Aretino → Mancata collaborazione per il Giudizio Universale; Michelangelo respinse scortesemente la sua proposta d’aiuto -Taddeo Zuccari e Annibal Caro → Annibal Caro riferì al cardinale Farnese la poca collaborazione di Zuccari a causa del programma troppo dettagliato, infatti concluse molte scelte personali scartando quelle di Caro (Vite) -Benvenuto Cellini e gli eruditi (autobiografia) → Ippolito d’Este (colto protettore dello scultore) si reca quotidianamente in visita con amici eruditi (topos della visita del grande protettore alla bottega dell’artista), che fanno proposte sulla genesi del progetto della Saliera di Francesco I. Cellini le rifiuta cortesemente perché vuole essere protagonista, e ricerca autonomamente i significati dell’opera (autonomia dell’artista e rifiuto di eseguire tutto ciecamente). Descrivendo la propria invenzione evita il lessico mitologico (linguaggio dei letterati), anche se le figure dagli attributi sono in realtà mitologiche (Mare è Nettuno, Terra Cerere); dà più importanza alle forme 3. Il gusto per il complesso Fattori del pensiero artistico cinquecentesco alla base dell’invenzione: 1) Ricerca dell’originalità → Spesso ambita dal committente (per avere un’opera che lo mettesse in rilievo nella società): -Ippolito d’Este per la Saliera -Remigio Fiorentino a Francesco Salviati -Annibal Caro per la volta della Stanza del Sonno a Caprarola -Vasari quando descrive i 12 mesi della Sala di Opi (realizzati attingendo alle invenzioni di Caro) dice che questi sono raffigurati in modo originale come li facevano i greci antichi, e quindi per farli capire ognuno ha sotto il segno dello zodiaco -Vincenzo Borghini è sensibile a questa prerogativa: dubita che il suo progetto per lo Studiolo di Francesco I sia originale, perché il principe aveva richiesto una cosa unica e rara; per la celebrazione delle nozze di Francesco de’ Medici studiò le entrate trionfali del passato, ma respingendo l’idea di una loro imitazione 2) Abbondanza dei significati → Specie per i manieristi (lettura ed esegesi dell’opera complesse); un’opera senza senso era interpretata come il risultato di un programma iconografico mal concepito/interpretato; dalla ricerca di abbondanza nasce l’“horror vacui” (atteggiamento dell’epoca di riempimento dello spazio pittorico, per il timore del vuoto di senso): -Isabella d’Este risponde a Bellini che gli lascia la scelta del soggetto da illustrare, a condizione che sia “di bello significato” -Cosimo Bartoli nei “Ragionamenti accademici” inserisce invenzioni personali e a guisa di ekphrasis scrive che i significati sono importanti in campo artistico (no superficialità e nonsenso), quindi occorre abbondare di storie, allegorie, simboli, exempla virtutis -Vasari descrivendo un ciclo decorativo come quello di Palazzo Vecchio parla di “intessuto” e “doppia orditura” (fitta trama di significati interconnessi) -Vincenzo Borghini scrive che è importante non lasciare nulla di vuoto nello Studiolo di Francesco I; nella lettera a Vasari il suo modus operandi per uno degli archi dell’apparato per le nozze del 1565 è utilizzare ogni intervallo per inserire raffigurazioni piene di significati, poi registro ornamentale di imprese (non putti reggifestoni come voleva Vasari), e per un’altra zona più ampia piccole storie in chiaroscuro per illustrare le gesta del duca; gerarchizzazione delle varie tipologie di ornamento in funzione della loro capienza di significati (denigrava ogni soluzione di riempimento povera da lui chiamata “borra”, giusto per soddisfare l’occhio, che invece offende la vista; es: Veronese nell’Ultima Cena) -Annibal Caro nella lettera a Zuccari ha come motto riempire metodicamente ogni interstizio 3) Tendenza alla complessità (cura per i dettagli iconografici, ricerca di soluzioni non ordinarie) → Mise in difficoltà osservatori, amatori e studiosi nel decifrare i contenuti delle opere, e gli artisti, impegnati nel tradurre in immagini eloquenti i concetti escogitati dai letterati: -Isabella d’Este vigilava Perugino a distanza affinché rispettasse le indicazioni iconografiche senza iniziative, e raccomandava al suo agente di riesaminare il programma allegorico e magari fare correzioni insieme a Perugino -Borghini correggeva le bozze di Vasari; per lui nei sistemi decorativi tutto deve avere senso e rispettare un ordine di organizzazione spaziale -Ludovico Capponi si assicurava delle scelte di Giacomini per le decorazioni del soffitto e delle pareti del suo salone per non essere criticato dall’entourage 4) Descrizioni scritte (specie degli apparati effimeri, ma anche dei grandi cicli decorativi) → Nuovo fenomeno da ricondurre al gusto per la costruzione dotta dei programmi iconografici. Per iscritto la lettura dell’opera era facilitata allo spettatore, che a volte non riconosceva i soggetti delle pitture anche con le iscrizioni (es: nessun fiorentino capì l’apparato festivo di carnevale di Baccio Baldini, ma tutti capirono l’apparato di Borghini per le nozze di Francesco de’ Medici, perché Domenico Mellini curò la descrizione); quindi ci fu una diffusione di significati ricchi a un pubblico più ampio, promuovendo i committenti e valorizzando l’erudizione degli autori di queste invenzioni. Quest’esercizio letterario si rifaceva agli esempi di ekphrasis della letteratura classica. Era nata una sorta di scienza dell’immagine incentrata sull’invenzione, tra arti e lettere, di cui elaborazione e descrizione erano in contesa tra artisti e letterati. Esempi di descrizioni: -Vasari nei “Ragionamenti” spiega i suoi cicli decorativi (stimolato da una lettera di Anton Francesco Doni sugli affreschi del Salone del Palazzo della Cancelleria) -Jacopo Zucchi descrive le sue realizzazioni in Palazzo Rucellai-Ruspoli a Roma (grazie al crescente successo dei repertori mitologici utili per l’elaborazione delle invenzioni, anche se da lui considerati lontani dalla “nostra professione”) Il tema della nudità non viene citato ma è il cuore del problema: alla bellezza – intesa come impura e concupiscente (si condanna quindi l’estetica del nudo intrisa di paganesimo del Rinascimento durante gli artisti della Maniera) – si oppone la bellezza devozionale (funzionale all’indottrinamento dei fedeli) Uscirono trattati sulla questione delle immagini sacre basati sul Concilio: -Konrad Braun -Ambrogio Catarino Politi -Nicholas Sanders -Nicholas Harpsfield -Johannes Molanus -Carlo Borromeo (cardinale e arcivescovo di Milano) → Nell’“Instructionum” (in latino, 1577), nell’esaminare i canoni per la realizzazione delle nuove chiese, segue i dettami delle direttive tridentine fissando forme e funzioni di ogni area all’interno dell’edificio, e indicando le iconografie più adeguate alla decorazione degli spazi e le forme della suppellettile necessaria alla liturgia -Gabriele Paleotti (vescovo di Bologna) → A Bologna nuova generazione di pittori (Carracci e scuola bolognese), fine della Maniera: 1. “Discorso” (in volgare, incompiuto) → parla di come le opere devono essere poste cristianamente nelle chiese, case, ecc.; normalizzare il rapporto quotidiano dei fedeli con l’arte, tracciando una linea di confine tra arte sacra e arte profana (generi confusi dalla Maniera moderna); contrappone all’oscurità e alla confusione (delle pitture oscure e difficili, di cui elenca tipologie e cause) l’eloquenza (persuadere e rappresentare la verità è il fine principale delle arti visive per istruire i fedeli, perciò le opere devono essere chiare e ordinate), quindi invece che il legame tra arte e poesia parla del legame tra arte e oratoria; impresa incompiuta di normalizzazione iconografica (nel 3 libro avrebbe dovuto parlare del nudo, nel 4 del repertorio iconografico di soggetti sacri, nel 5 del tema della decorazione dei luoghi sacri pubblici e privati, e altre professioni per le immagini) 2. “De tollendis imaginum abusium novissima consideratio” (1596) → memorandum ma nato come un indice di soggetti proibiti 2. Censura e controllo delle immagini Giudizio Universale (Michelangelo, Cappella Sistina) Fu vittima di sdegno generale a causa della mancanza di decoro (Giovanni Paolo Lomazzo testimonia che Paolo IV non gradiva l’opera e che nacquero le tensioni per gli affreschi e le voci su una sua distruzione). L’ammirazione generale per Michelangelo rese più complessa la ricerca di eventuali compromessi e ritardò le scelte sul da farsi. Alla chiusura del Concilio di Trento, il Giudizio fu elencato nei 33 “decreti urgenti” da risolvere, così Pio IV decise di ricoprire con dei veli le figure (lo fece Daniele da Volterra nel 1564). Documenti che attestano le reazioni degli artisti di fronte alla censura -Veronese (pittore veronese) → Fu processato per aver dipinto figure oltraggiose sul telero di un’Ultima Cena. Difese l’opera da qualsiasi implicazione eterodossa, dicendo che i pittori si prendono la licenza poetica come i poeti; trattò solo le questioni formali compositive, disinteressandosi del significato (in quel clima di censura era meglio che l’artista non mostrasse tutte le sue conoscenze) -Bartolomeo Ammannati (scultore e architetto fiorentino) → Nella “Lettera agli Accademici del Disegno” (1582, documento atipico) si autocensurò rifiutando il nudo e rinnegando le proprie opere scultoree (crisi spirituale e rigore morale nella Firenze di Francesco I de’ Medici), ma l’unico effetto duraturo della sua pubblicazione fu la sfortuna delle sue opere rinnegate. Per lui gli artisti non possono più giustificarsi dicendo di rifarsi ai modelli precedenti (come Veronese) perché non sono più un riferimento saldo, e ne condanna gli eccessi, ed è contro l’idea del nudo come prova di virtuosismo e conoscenza anatomica (Mosè di Michelangelo capolavoro assoluto) Conseguenze della Controriforma a livello della teoria artistica -i dottori della Chiesa erano interessati principalmente all’invenzione, intaccando uno dei capisaldi della disciplina degli artisti -le richieste di maggior chiarezza delle opere, di semplicità nell’esposizione dei soggetti, la loro finalità devozionale e dottrinale andavano in direzioni opposte rispetto alla tendenza alla stratificazione di significati, al gusto per il complesso e alle invenzioni originali tipiche dell’epoca della Maniera -la novità per la Chiesa è sinonimo di sospetto, e quindi un errore (il “peccato di novità”) -tensioni tra il compito che la Chiesa assegnava all’arte e la propensione che dimostravano gli artisti all’epoca (tra eloquenza e poesia, insegnamento e fantasia, utilità e diletto) -progressiva regolamentazione dell’invenzione, tramite una normalizzazione del repertorio iconografico → “Iconologia” di Cesare Ripa (per fornire un orientamento ai pittori nella fucina dell’allegoria manierista piena di simboli) -per Paleotti il pittore deve abbandonare l’immaginazione e aderire alle storie sicure e alle materie approvate (di libri non dell’Indice dei libri proibiti); condanna della Maniera -l’importanza della conformità al vero/verosimile implicava il ricorso ai testi di riferimento (un pittore più filologo che inventore); i trattatisti critici mettevano in dubbio la formazione letteraria degli artisti, e la scelta delle fonti usate durante l’elaborazione delle loro iconografie; per molti gli artisti erano i responsabili degli errori nella triade committente-letterato-artista (es: Giovanni Andrea Gilio accusava i pittori di essere ignoranti, di concentrarsi di più sulle forme delle figure che sul significato della storia, e per questo facevano errori come confondere sacro e profano, non rispettare la convenienza, no confini tra vero falso e favoloso; anche per Giovan Battista Armerini, che proponeva un elenco di testi per rimediare a queste lacune) La licenza poetica Nozione che accorda agli artefici la massima libertà d’azione ed espressione nel campo dell’invenzione (messa in dubbio nel periodo controriformistico). Nel dialogo di Gilio il concetto è espresso in due forme distinte: -“poetica libertà”, libertà → autonomia senza vincoli -“licenza poetica”, licenza → libertà limitata concessa all’interno di un contesto di regole dettate da un’autorità superiore; facilmente si passa da norma ad eccesso, infatti l’esercizio dell’invenzione è rischioso Gilio non voleva escludere totalmente l’immaginazione o l’irreale, e propose una suddivisione (approvata da Raffaello Borghini) di 3 modi di dipingere: 1. pittore poetico 2. pittore storico 3. pittore misto: può stare in bilico tra realtà e immaginazione e creare invenzioni in cui inserire cose vere finte e fantasiose (la “mistura”), a patto che c’entrino e non siano destinate a luoghi sacri; il pittore misto deve collaborare con gli uomini di lettere V. LA RICEZIONE DELLE OPERE Nel corso del Cinquecento si sviluppò maggior considerazione nei confronti della figura dello spettatore (colui che è di fronte all’opera, il fruitore dell’opera). Veniva chiamato “riguardatore”/”veditore” (Leonardo, in associazione con “occhio”), in seguito “riguardante” (da Paolo Pino in poi), tutti termini che indicano un’osservazione attenta e interessata ma senza specificare il tipo di oggetto guardato; poco frequente il termine “spettatore” (visione di uno spettacolo teatrale o festivo o entrate trionfali, anche se si presta bene al contesto delle arti visive), anche se a volte si legge nel trattato di Gabriele Paleotti (primi spunti di una teoria della ricezione, partendo da una riflessione sui potenziali effetti dell’opera d’arte alla luce della catarsi aristotelica). Teatralizzazione delle arti visive: fenomeno del collezionismo d’arte e genesi della critica d’arte. 1) CONSERVARE ED ESPORRE LE OPERE D’ARTE Attenzione per la decorazione dei luoghi pubblici: il David di Michelangelo Nel 1504 si riunì la commissione dell’Opera del Duomo per decidere la collocazione del David di Michelangelo, cioè se lasciarlo alle intemperie (con davanti il pubblico che passava distratto, definito “viandante”) o collocarlo al riparo: molti volevano conservarlo perché il materiale marmoreo non era di grande qualità, altri lasciarlo all’aperto per renderlo più esposto e visibile. Michelangelo ebbe l’ultima parola, e venne lasciato in città (contribuì al mito michelangiolesco). Attenzione per la decorazione delle abitazioni private -ambienti esterni: giardini, cortili e logge divennero luoghi preferiti di esposizione delle raccolte di opere antiche e contemporanee, con sontuosi apparati scenografici effimeri e perenni, o giochi d’acqua spettacolari (fontane, organi idraulici, automi) -ambienti interni: gusto per le anticaglie, nuovi oggetti dal Levante o dall’Alemagna (da Sabba da Castiglione, che illustra gli aspetti principali del collezionismo cinquecentesco negli anni Settanta, e dà suggerimenti a coloro che vogliono ricercare opere d’arte per fare collezioni e allestire uno studiolo ma c’è scarsa reperibilità di reperti antichi pregiati; anche chi non è ricco) Collezionisti -Cosimo I de’ Medici: Scrittoio di Calliope (Palazzo Vecchio, Giorgio Vasari) → Studiolo in cui espone i pezzi rari della collezione medicea (di solito invece si tenevano negli armadietti) -Francesco I de’ Medici: Studiolo → Organizza gli oggetti sulla base di un ordine storico e tipologico (non cosmologico); gusti per i complessi collegamenti tra arte e natura (anche in Francesco Bembo, che per il ritratto di Bianca Cappello fece eseguire ornamenti nella cornice e l’impiego del commesso, soluzione per esaltare la bellezza, era un omaggio ai risultati tecnici raggiunti dall’ambiente fiorentino) -Paolo Giovio: Museo → Attorno agli anni Quaranta costruì un’intera dimora per custodire ed esporre la propria raccolta artistica (a imitazione dell’antico Museum edificato da Tolomeo II ad Alessandria in Egitto); oggi noto solo tramite le fonti (es: il Doni descrive il percorso di visita che procedeva attraverso le diverse sale e che comprendeva anche didascalie); sezione della ritrattistica idealmente arricchita dagli “Elogia” (libretto/catalogo museale per i visitatori) L’evoluzione del pensiero cinquecentesco sulle forme di raccolta del collezionismo è sintetizzata da Galileo: nelle “Considerazioni al Tasso” (giudizio sulla sua poesia), al genere delle Wunderkammern (piccole collezioni a uso privato piene di “coselline” e “qualche schizzetto” nello studietto angusto di qualche ometto curioso) oppone le collezioni principesche (magnifiche collezioni pubbliche: guardaroba, tribuna, galleria regia). 3) L’OPERA D’ARTE E IL SUO PUBBLICO 1. Chi giudica l’arte? Osservazioni di Leonardo sul giudizio e la valutazione delle opere d’arte Promuove la tesi di un’arte giudicabile da chiunque (idea di critica d’arte); parla della fase creativa indagando le ragioni delle forme, e anche della ricezione dell’opera stessa, in un processo sperimentale che vede il suo compimento solo con la verifica dell’effetto visivo presso il riguardatore. Per Leonardo l’artista è il primo giudice: raccomanda di usare lo specchio per alternare i diversi punti di vista e per stimolare il pensiero critico, e mantenere una distanza dall’opera per evidenziarne le debolezze (costruzione prospettica, proporzioni delle figure…). Poi deve sottoporre l’opera al giudizio degli altri (invita a non sottrarsi a questa prova e a fare, se necessario, ulteriori correzioni e ritocchi); meglio ricercare il consenso generale e quindi adattarsi al gusto prevalente e dipingere “con diverse maniere”. A lavoro ultimato il giudizio spetta al committente (soddisfarlo è il principale obiettivo dell’artista), che a volte apprezza (Matteo Senarega per la Crocefissione di Barocci) e a volte no (Tiziano mandò una lettera a Filippo II preoccupato di non essere più benvoluto e in cerca di una risposta o di un pagamento). Rapporto tra artista e committente Il più delle volte in questo rapporto erano coinvolti anche altri artisti per quantificare i compensi e valutare l’opera, ma erano spesso mossi da interessi personali, invidia, ecc.: -Michelangelo assicurò di giudicare “senza passione” i progetti di Bramante e di Sangallo per San Pietro -Vasari denunciò Jacone e compagni perché criticavano le opere malignamente senza motivo -Cellini fece un processo contro Baccio Bandinelli alla corte di Cosimo I criticandogli l’Ercole e Caco con una lunga requisitoria Rapporto tra artista e pubblico dotto 1. Poesia d’occasione Nel Cinquecento c’era l’usanza (ricordata da Cellini) di affissare pubblicamente sulle sculture o nelle vicinanze componimenti poetici infamanti e anonimi dai toni accesi e diffamatori, per far parlare le statue (anche su argomenti non artistici) e veicolare l’opinione della piazza. La poesia d’occasione risaliva alla classicità e tornò nel Cinquecento specie a Roma (pasquinate di natura satirica) e a Firenze. Questa forma di reazione del pubblico più o meno dotto trovò terreno fertile nell’ambito della critica delle opere (specie nel momento della loro inaugurazione): -Ercole e Caco (Baccio Bandinelli): contesa tra repubblicani e Medici; Pasquino fiorentino bersaglio di centinaia di sonetti contro lo scultore (animato da sentimenti filo-imperiali) -Palazzo Bartolini (Baccio d’Agnolo): criticato per essere poco fiorentino 2. Componimenti in encomio Da dare alle stampe; registro linguistico più ricercato e retorico: -raccolta dei Coryciana (1524): rifacendosi alla tradizione ellenistica; volume dedicato a Johann Goritz detto Coricio (umanista e protonotario apostolico), di un insieme di poesie latine composte in occasione delle feste coriciane legate al culto di Sant’Anna nella chiesa di Sant’Agostino a Roma; i componimenti venivano affissi all’altare (commissionato da Goritz in onore della santa, decorato con il Profeta Isaia affrescato da Raffaello e il gruppo Sant’Anna Vergine e Bambino scolpito da Andrea Sansovino) -Epigrammata (Fausto Sabeo, 1536/1556): versi celebrativi ispirati a opere di sculture (es: calco del Laocoonte di Primaticcio) -libretto in lode del Ratto della Sabina (Giambologna, 1583): simile alle odierne rassegne stampa alla stregua di un vernissage 3. Poesie in biasimo Francesco Bocchi vi allude illustrando l’evoluzione della critica d’arte in un contesto condizionato dalla ricerca degli errori dell’artista (principale preoccupazione dell’età controriformistica); constata che i giudizi umani si sono perfezionati a tal punto che ognuno si sente in grado di esprimere la propria opinione sull’arte. I falsi intenditori Molti artisti ambivano alla libertà, quindi erano poco inclini ad accettare con umiltà le critiche di un vasto pubblico e a fare correzioni (Michelangelo). L’opinione del pubblico di falsi intenditori, anche a sproposito e non gradita, si affermò così tanto che divenne un topos, derivata parzialmente dall’episodio pliniano di Apelle e il ciabattino, riferimento però non sufficiente a esaurire l’argomento dei commenti non graditi. -Francisco de Holanda → Allarga la discussione sui falsi intenditori rifacendosi alla letteratura classica e all’episodio della visita di Megabizo ad Apelle (Apelle, alle derisorie di Megabizo preferiva il silenzio); si rivolge anche alle classi sociali più abbienti, specie la società delle corti dove il perfetto gentiluomo era tenuto a mostrare gusto per le arti e a saper commentare le opere, ma solo per consuetudine e non per saldo giudizio, con superficialità, recitando (secondo Pirro Ligorio l’artista di fronte a questi nuovi attacchi doveva essere tollerante e non far dispute). Era riluttante nei confronti di una critica d’arte di stampo cortigiano, e promuoveva un altro genere di esperienza del bello (più intellettuale, meditativa, di matrice michelangiolesca), in cui concentrarsi a osservare le opere piuttosto che parlarne, anche se in quanto scrittore d’arte non poteva sostenere appieno questa posizione. Giulio Clovio gli risponde che nella contesa tra il guardare e il parlare nessuna è più nobile dell’altra, entrambe vogliono essere la prima). -Michelangelo 1. David: ritoccò il David, il gonfaloniere fiorentino disse la sua, così finse di dargliela vinta; Vasari lo esalta e va contro i giudizi avventati di un pubblico non competente 2. Giudizio Universale: per vendicarsi delle critiche, raffigurò il cerimoniere papale nei panni di Minosse; Vasari riassume con verosimiglianza la ricezione problematica dell’affresco; Michelangelo come ultimo giudice ribatte al verdetto superficiale con una condanna senz’appello di natura morale e politica (schema del Libro del Cortegiano, quando Raffaello risponde a due cardinali) 2. La nascita della critica d’arte Per Francisco de Holanda gli intenditori sono pochi, ma riconosce che il pubblico italiano negli anni Quaranta sapeva fornire osservazioni pertinenti più di altrove: Marcantonio Michiel (competenze celebrate nelle lettere dell’Aretino), Pietro Aretino (conoscitore di pittura e poesia, agente di sovrani, mentore di artisti, primo moderno critico d’arte; famose le indicazioni di studio inviate a Tiziano a Roma). L’attenzione crescente per le arti nelle fonti è attestata dalla presenza di elenchi di opere e artisti, più o meno lunghi, non per forza redatti con intenti classificatori, indicatori per misurare la fortuna critica degli artisti (anche se spesso avare di commenti): -lista di Michel de Montaigne nel suo diario di viaggio delle sculture romane che lo avevano colpito -liste di Francisco de Holanda (poste in calce al suo trattato; significative per un confronto con la sistematica vasariana; qualche annotazione) Vite di Vasari Contribuirono a insegnare un lessico artistico adeguato per poter esporre critiche; secondo Francisco de Holanda i “non intendenti” non hanno l’abilità, la severità e il lessico adeguato per criticare l’invenzione del disegno; vocabolario critico aggiornato (es: definizione di Maniera moderna nel Proemio alla terza parte delle Vite). Vasari introdusse giudizi di valore tarati, anche adottando una prospetiva secundum quid, nell’ottica di scegliere ed evidenziare “il meglio dal buono e l’ottimo dal migliore”. Fornì una serie di strumenti per forgiare il giudizio critico del suo lettore, proponendo di “far conoscere le cause e le radici delle maniere e del miglioramento/peggioramento delle arti”; stava perfezionando la nozione di “maniera” (“stile” dalla fine del Settecento), decisiva per lo sviluppo della Connoisseurship (da connoisseur, intenditore). Commenti di critici su reazioni ad opere d’arte o su opinioni di artisti -Durer → Affascinato di fronte alle opere giunte dal Nuovo continente, che misero alla prova le sue categorie critiche -Marcantonio Michiel → Il giudizio critico di un’opera è vincolato alla sua osservazione diretta, infatti solo dopo aver osservato di persona la Cappella Sistina rimise in dubbio il primato di Mantegna (lettera a Guido Celere); nei suoi appunti ci sono riflessioni attribuzionistiche tipiche di una Connoisseurship in fase embrionale -Bernardo Minerbetti (vescovo) a Vasari → In merito alla competizione tra Bandinelli e Cellini, Bernardo Minerbetti, che non aveva una buona opinione sul lavoro di Bandinelli (per il Cristo morto e altre sculture per il coro del duomo di Firenze), in una lettera coinvolse Vasari a distanza per chiedergli tramite uno schizzo conferma sui difetti riscontrati (specie a livello della postura, e per il decoro); parla di costume, vivacità, bellezza (elementi teorici presenti nel discorso teorico ed encomiastico di Francesco Bocchi per la statua di San Giorgio di Donatello) -Bartolomeo Maranta (scienziato) → Primo testo ampio dedicato interamente al commento di una singola opera d’arte, in difesa dell’Annunciazione di Tiziano contro le accuse di Scipione Ammirato (disputa dimenticata). Parla di decoro, conformità ai testi di riferimento o destinazione, proporzioni, colore, gestualità, ed esprime paragoni (es: tra la musica e gli esperimenti luministici di Tiziano, come nel caso del volto dell’angelo in penombra) Maggiori esponenti della critica cinquecentesca: Giorgio Vasari e Pietro Aretino → il flagellum principum; strumentalizzò il genere epistolare, di cui era inventore, per imporsi come critico influente e imprimere giudizi che gli causarono una damnatio memoriae.
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