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La Riforma Protestante: Lutero, Zwingli e la Nascita delle Chiese Nazionali, Sintesi del corso di Storia Antica

La differenza fondamentale tra la riforma protestante di lutero e zwingli, le loro conseguenze e le caratteristiche comuni dei radicali. Viene inoltre trattato il ruolo di john knox nella nascita della chiesa scozzese e la riforma anglicana in inghilterra. Il testo illustra come la riforma protestante influenzò la chiesa cattolica e la nascita del deismo.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 01/11/2019

Fiore923
Fiore923 🇮🇹

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Scarica La Riforma Protestante: Lutero, Zwingli e la Nascita delle Chiese Nazionali e più Sintesi del corso in PDF di Storia Antica solo su Docsity! ZWINGLI Zwingli, Bucero e le origini del protestantesimo riformato La riforma ebbe un’origine e un decorso particolari nelle città-stato della Svizzera e della Germania meridionale, dove sorse la corrente “riformata” del protestantesimo, parallela ma non identica a quella luterana. Zurigo e Strasburgo furono i centri di diffusione di questa riforma, a cui l’opera di Zwingli, Bucero e Calvino impresse un carattere assai originale. Malgrado importanti differenze teologiche, Bucero e Calvino si trovarono ad operare in centri in cui l’aristocrazia aveva perduto da tempo i suoi privilegi e dove vigeva l’autogoverno comunale, infatti a differenza della riforma luterana, che fu compiuta con l’aiuto dei principi, quella di Strasburgo, Zurigo ( e più tardi repubb. di Ginevra) ebbe un carattere decisamente cittadino, in quanto le innovazioni religiose di Zwingli e Bucero furono introdotte dopo essere state approvate da consigli cittadini. A metà del ‘500 il luteranesimo venne ripristinato a Strasburgo e Bucero cacciato dalla città, mentre l’eredità di Zwingli venne presa da Calvino, con cui il protestantesimo riformato ( Calvinismo) ebbe notevole diffusione. Zwingli e la riforma nella Svizzera tedesca Huldrych Zwingli nacque il 1° gennaio 1484 nel contado di Zurigo in Svizzera, da una famiglia di contadini agiati. Frequentò l’università di Vienna e poi quella di Basilea fino al conseguimento della laurea nel 1506. Appena ventiduenne fu ordinato sacerdote e venne nominato parroco della piccola città di Glarona. Qui acquisì una solida cultura classica, si dedicò alla lettura dei Padri della chiesa, in particolare Agostino, e studiò a fondo le opere di Erasmo. Durante il periodo glanorese, Zwingli fu in Italia almeno due volte come cappellano al seguito delle milizie svizzere e proprio a partire da questi anni risalgono i segni di una crisi religiosa, priva di quel travaglio interiore che colpì Lutero, causata non tanto dalla preoccupazione della propria salvezza personale quanto piuttosto dal timore che la punizione divina si abbattesse sul suo popolo. Tuttavia l’opera riformatrice di Zwingli a Zurigo mosse i suoi primi passi tra il 1522-1525. Il riscontro tra le opere di Lutero e dello Zurighese rivela una comune matrice teologica e al tempo stesso differenze fondamentali. Come Lutero, Zwingli non riteneva che la chiesa cristiana dovesse essere rifondata, ma solo riformata. Del riformatore tedesco inoltre condivise i suoi grandi principi ideologici. La differenza fondamentale che intercorse fra i due consistette nel fatto che mentre Lutero partì dall’esigenza interiore della riscoperta della fede e soltanto involontariamente passò ad occuparsi della riforma della chiesa e della società; Zwingli inizialmente denunciò abusi nella società e superstizioni nella chiesa e solo successivamente si inserì su questo terreno il messaggio della salvezza. Si tratta di due percorsi che seguirono direzioni diverse, ma che si conclusero con lo stesso risultato. Ad esempio fu proprio dalla sua battaglia contro il mercenariato che nacque il principio del solus Christus, secondo il quale sia la comunità religiosa che civile sono sottoposte all’unica signoria di Cristo. Il 29 gennaio 1523 i consigli cittadini di Zurigo convocarono un’assemblea del clero col fine di valutare le proposte teologiche di Zwingli, inaugurando la cosiddetta “prima disputa di Zurigo”. Le 67 tesi che Zwingli aveva preparato vennero prese in esame e incontrarono un ampio consenso. Il Piccolo e il Grande consiglio ne accolsero l’orientamento di fondo: soltanto la Scrittura doveva essere la norma delle dottrine e dei riti nel territori zurighesi. La “prima disputa” era riuscita ad inaugurare un nuovo metodo per la propagazione della riforma. Il cambiamento di religione avveniva attraverso una pubblica disputa, il cui scopo era di indurre l’opinione cittadina ad accettare la nuova fede, dopo la dimostrazione della sua conformità dottrinale al testo della Scrittura. Poiché i consigli convocavano lo svolgimento del lavori ed applicavano le decisioni teologiche definite nel corso della disputa, ciò significò l’appropriazione da parte degli stessi delle istanze di riforma. Le conseguenze della prima disputa non si fecero attendere: i magistrati zurighesi procedettero alla rimozione delle immagini e degli organi dalla chiese, all’abolizione della messa e delle festività dei santi, il culto venne ridotto alla lettura e spiegazione della scrittura in lingua volgare e alla celebrazione dei sacramenti del battesimo e della cena. Quasi contemporaneamente seguì la soppressione dei conventi sia nelle città che nelle campagne. Ma più significativa fu l’attuazione di riforme sociali, a partire dal 1525. Fu istituito un sistema di assistenza pubblica non più svolta da istituzioni religiose, ma regolata da leggi dello stato, che combattevano sia l’accattonaggio sia l’ozio; fu promossa l’istruzione primaria, gratuita e obbligatoria per tutti, fu introdotto il tribunale matrimoniale, allo scopo di esercitare un severo controllo sulla moralità, la prima scuola teologica per la formazione dei pastori riformati. A partire dal 1523-24 un gruppo di giovani intellettuali che erano stati al fianco di Zwingli nella sua battaglia per la riforma a Zurigo, andò maturando l’idea della necessità di una seconda riforma, che si dissociasse non soltanto dalla chiesa di Roma, ma anche dalle posizioni zwingliane. Essi rimproverarono a Zwingli, come anche a Lutero, Bucero e Calvino, di aver mantenuto l’idea medievale della stretta compenetrazione tra comunità religiosa e comunità civile. Cominciarono a praticare il battesimo degli adulti (per questo furono chiamati Anabattisti) e a separarsi dalla vita pubblica. Nel 1526 i consigli cittadini, che consideravano le dottrine anabattiste come sovversive sotto il profilo storico-sociale, stabilirono la pena di morte mediante affogamento contro i “ribattezzatori”, senza che Zwingli intervenisse per salvarli. Di Lutero, Zwingli non condivise soprattutto la concezione sacramentale, in particolare per quanto riguarda l’eucarestia, Zwingli infatti non credeva alla reale presenza di Cristo negli elementi. Ciò non significava che egli sostenne un’interpretazione simbolica di tale presenza, ma piuttosto credeva in una presenza spirituale del Signore che si realizza attraverso il ricordo dei fedeli (presenza anamnetica). Lo scontro con Lutero avvenne nel famoso colloquio di Marburgo nei primi di ottobre del 1529, a cui parteciparono anche Melantone per la delegazione sassone e Ecolampadio e Bucero per quella svizzera. Alla fine dell’incontro fu redatta una confessione di fede comune, i cosiddetti Articoli di Marburgo. Essi registravano accanto all’accordo su i principali capisaldi dottrinali, il dissenso circa il modo di intendere la presenza di Cristo nella cena. Nella breve vita di Zwingli, anche la politica ebbe un ruolo decisivo. Egli sognava che il moto riformatore si estendesse da Zurigo all’intera confederazione, riuscì infatti a creare una potente alleanza antimperiale tra alcuni cantoni cristiani riformati, convertitisi grazie all’opera persuasiva sua e dei suoi collaboratori, ma al suo interno, a seguito del tentativo da parte di Zwingli di estenderla anche alla Francia e a Venezia, si produssero forti tensioni che sfociarono alla fine nella sua dissoluzione. Sancita dalla sconfitta dei cantoni della foresta (cattolici) che sconfissero l’esercito zurighese nell’ottobre del 1531 a Keppel. Zwingli stesso cadde in battaglia. A Zurigo la direzione della chiesa venne affidata a Bullinger, che dovette fronteggiare la reazione cattolica e difendere l’autonomia della chiesa dalle ingerenze civili. Nel 1549 il Consensus Tigurinus, ratificato da Calvino e Bullinger, unificò la corrente zwingliana e calvinista del protestantesimo riformato, sancendo quindi, in via definitiva, il passaggio ereditario tra Zwingli e Calvino. Bucero e la riforma a Strasburgo Per la sua posizione geografica, situata tra il regno di Francia e l’Impero e grazie alla sua condizione di libera città imperiale Strasburgo occupò un posto fondamentale nella storia della riforma del XVI secolo. Le idee riformatrici vi attecchirono già dagli anni venti del ‘500. Colui che diede un impulso notevole alla riforma Strasburghese fu sicuramente Bucero, un ex domenicano ardente ammiratore di Erasmo e fervente seguace di Lutero, approdato a Strasburgo nel 1523. Ma anche se egli divenne l’anima del movimento riformatore, la costituzione della nuova chiesa strasburghese fu fondamentalmente un’opera collettiva, a cui presero parte vari teologi e politici. In virtù dello scontento comune della popolazione per gli immensi privilegi di cui godeva la chiesa , le autorità cittadine iniziarono a manifestare di sottrare alla chiesa ginevrino, esortato a sua volta dai signori di Berma, a redigere una risposta alla chiesa di Roma che invitava Ginevra a ritornare sotto l’autorità del papa, la giovane repubblica lo riaccolse nella sua terra, precisamente nel febbraio 1541. Calvino iniziò la sua attività introducendo una nuova disciplina ecclesiastica, le “Ordonnances ecclésiastiques”, un catechismo e una liturgia per il culto pubblico. Esse, sul modello del governo della chiesa di Strasburgo prevedevano quattro ministeri di eguale dignità: pastori, dottori, anziani, diaconi. Ai pastori spettava il compito di predicare, amministrare i sacramenti . I dottori (catechisti, teologi) dovevano provvedere alla formazione dei fedeli e dei candidati al pastorato. Gli anziani erano tenuti a vigilare sulla condotta morale della popolazione, dal momento che la comunità ecclesiastica coincideva con quella politica. Ai diaconi era affidata l’assistenza pubblica, oltre che all’amministrazione dei fondi ad essa necessari. L’aspetto più originale del sistema calviniano di governo della chiesa fu il concistoro, l’organismo bipartito costituito nel 1542 che congiungeva il governo della chiesa con quello della città. Esso era composto dai membri della compagnia dei pastori (9 poi 19) e da dodici anziani, eletti fra le file del piccolo e del gran consiglio. La presidenza spettava di diritto a uno dei sindaci della città, il quale però era tenuto a deporre le proprie insegne di potere alla porta del concistoro. Era previsto che il concistoro si riunisse ogni giovedì per vegliare sull’ortodossia e la moralità dei cittadini. Tuttavia frequenti furono i contrasti tra il Piccolo consiglio e il concistoro, anche in quelle città che iniziarono ad acquisire il modello di governo ecclesiastico ginevrino. Tipico è l’esempio di Michele Serveto (1511-1553). Questi era un dottore spagnolo appassionato di teologia. Nei suoi scritti aveva sviluppato le proprie idee antitrinitarie, per le quali era stato condannato per eresia. Riuscì però a fuggire dalla Spagna e si recò a Ginevra, dove fu arrestato con lo stesso capo d’accusa. Durante il processo Serveto, gli avversari di Calvino, che in quel momento costituivano la maggioranza nel Piccolo Consiglio, commisero l’imprudenza di schierarsi con Serveto, sebbene ne riprovassero le idee. Calvino si presentò in veste di accusatore e riuscì a dimostrare che lo spagnolo era eretico; anche le altre chiese riformate svizzere e i teologi luterani furono unanimi nell’affermare la colpevolezza dell’imputato. Il 26 ottobre il consiglio non poté che applicare la legge vigente contro gli eretici e quindi pronunciare la sentenza di morte. Il lungo conflitto tra le due istituzioni (Piccolo consiglio-concistoro) giunse ad una svolta nel 1555, in occasione delle elezioni del nuovo consiglio. Numerosi esuli a causa di religione italiani e francesi, che erano giunti a Ginevra negli anni precedenti e contribuivano notevolmente allo sviluppo economico della città, avevano acquisito nel frattempo la borghesia cittadina e con essa il diritto di voto. Quando lo esercitarono per la prima volta, indicarono una netta preferenza per le posizioni del riformatore. Il partito dei “libertini” (avversari di calvino) fu sbaragliato, e da quel momento il riformatore poté lavorare indisturbato. In pochi anni Calvino gettò le basi per la formazione e il consolidamento delle chiese riformate di tutto il continente. Il primo passo verso questa direzione fu l’unione con i riformati svizzeri. Nel 1549 egli giunse ad un accordo con Bullinger sulla dottrina della cena, il cosiddetto (Consensus Tigurinus), dando vita al protestantesimo riformato, di cui il calvinismo ginevrino costituì la parte centrale. Calvino morì il 27 maggio 1564, alla guida spirituale della chiesa di Ginevra gli successe Théodore de Bèze. Sviluppi del protestantesimo riformato In Francia i primi nuclei di protestanti si costituirono a partire dagli anni Venti. Essi professavano la propria religione in forma privata. L’avvento di Giovanni Calvino favorì la trasformazione di questi gruppi in chiese regolarmente costituite, ciascuna dotata di un concistoro e di un pastore. Nel 1559 venne convocato il primo sinodo nazionale delle chiese riformate di Francia, in questa occasione fu redatta una confessione di fede, la quale divenne con alcune modifiche successive la Confessione di Rochelle. Nel 1562 la reggente Caterina de Medici accordò ai riformati francesi, capeggiati dalla famiglia dei Borbone, il diritto di convocare i sinodi e di celebrare il culto pubblicamente. La reazione dei cattolici, guidati dai Guisa fu immediata. Il 1 marzo 1562, a Vassy vi fu un massacro di ugonotti (calvinisti francesi). Alle stragi dei cattolici seguirono i macelli di frati e preti da parte degli ugonotti: iniziarono così le cosiddette “guerre di religione” che durarono fino al 1598. Nella memoria collettiva è rimasta la tragica notte di san Bartolomeo (23-24 agosto 1572). Caterina, preoccupata della crescente influenza del movimento protestante, complottò per eliminare i maggiori esponenti convenuti a Parigi per le nozze del giovane principe ugonotto Enrico di Navarra, futuro Enrico IV di Francia, con la sorella del re Margherita di Valois. Enrico, sfuggito al massacro, fu costretto ad abiurare la fede riformata, che riabbracciò in seguito. Intanto i protestanti organizzarono delle minuscole repubbliche ugonotte, su un vasto territorio della Francia meridionale, da cui condussero la guerra contro la monarchia francese dal 1573 al 1589, anno in cui venne emanato da Enrico IV l’editto di Nantes, che assicurava ai protestanti libertà civili e di culto, editto revocato nel 1685 da Luigi XIV. Nei Paesi Bassi il luteranesimo penetrò relativamente presto, mentre il calvinismo iniziò ad attecchire a partire dal 1540. Carlo V prima e suo figlio Filippo II dopo, non esitarono nella lotta contro i riformati, sia attraverso massacri che provvedimenti antiereticali. A capo della protesta calvinista si pose la nobiltà olandese, guidata dal principe Guglielmo I d’Orange. Egli sottopose nel 1566 alla governatrice, la duchessa Margherita di Parma, una rimostranza per il rifiuto di Filippo II di convocare gli Stati Generali e per le severe misure antiereticali fatte adottare, ma quest’ultima venne respinta. L’arrivo nei Paesi Bassi di Ferdinando Alvarez duca d’Alba nel 1567, spinse tutti i fiamminghi (moderati e radicali) alla guerra. Ebbe inizio così la “guerra degli ottant’anni”, perché il conflitto durò fino al riconoscimento ufficiale dell’indipendenza delle Province Unite da parte della Spagna nel 1648. Ma di fatto l’indipendenza fu conquistata con le armi. Dopo alcuni iniziali successi, Guglielmo d’Orange pervenne a scacciare gli spagnoli da sette province del nord, che si dichiararono indipendenti e si riunirono con l’unione di Utrecht del 1579, in una confederazione sotto il nome di Sette Province Unite dei Paesi Bassi. In esse la religione riformata divenne la religione si stato. La Scozia era fino alla metà del ‘500 una nazione cattolica sotto protettorato francese. Nel 1557 la piccola nobiltà paesana dei Lairds e i borghesi strinsero tra loro un Covenant, cioè un patto per combattere la politica filofrancese e filocattolica della corona, dal 1542 nelle mani della reggente Maria di Lorena, della casata dei Guisa, madre della giovane Maria Stuart. Il Covenant inferse un colpo decisivo al cattolicesimo nel regno di Scozia, ma la rapida crescita del movimento riformato sarebbe stata incompleta senza l’apporto di John Knox, il quale dopo aver approfondito i suoi studi teologici in Svizzera, a contatto con Bullinger e Calvino, fu il principale artefice dell’organizzazione della chiesa Scozzese sul modello ginevrino. Dopo la morte nel 1560 della reggente, il regno di scozia aderì alla riforma. Nell’agosto del 1560 una commissione di sei pastori presieduta da Knox preparò una confessione di fede, la Confessio scotica, d’ispirazione chiaramente calvinista, la quale venne subito approvata dal parlamento. Alla morte di Knox, la guida spirituale della chiesa fu assunta da Melville. Nella terra di Lutero, vero la metà del ‘500 vi furono due tipi di insediamento del protestantesimo riformato. Il primo si verificò attraverso la formazione di comunità valloni e fiamminghe. Il secondo avvenne per l’adesione di principi territoriali, i quali aderirono ad una teologia e ad una organizzazione ecclesiastica di tipo calvinista o ad una originale sintesi di filippismo e calvinismo. Federico III del Palatinato, che dopo un’educazione cattolica si era convertito al luteranesimo, sotto l’influenza della moglie abbraccio il credo riformato, che ebbe così in quel principato la sua roccaforte più consistente dopo la confederazione elvetica. In Ungheria, straziata dalla guerra civile e dalle scorribande dei Turchi, molte famiglie dell’aristocrazia aderirono al luteranesimo ed imposero ai loro sudditi le dottrine di Wittenberg, ma anche qui il paese fu ben presto sommerso dall’avanzata del protestantesimo riformato, al quale aderirono in gran numero rappresentanti della media e piccola nobiltà. I princìpi dottrinali delle chiese riformate ungheresi furono esposti nella Confessio hungarica, adottata dal sinodo di Czenzer del 1557. Anche in Polonia, dopo una promettente diffusione, il luteranesimo fu soppiantato dal calvinismo, che ottenne un vasto successo tra la media e piccola nobiltà. La personalità più autorevole della riforma polacca, Laski, di ritorno in patria nel 1556, dopo una serie di peregrinazioni, non ebbe difficoltà a far abbracciare la fede riformata al principe Radziwill ed essa si diffuse poi tra le più nobili famiglie della nazione. La riforma in Inghilterra La riforma in Inghilterra ebbe caratteristiche tutte particolari che la distinsero dagli altri rivolgimenti religiosi coevi sul continente. Essa si svolte in un arco di tempo lungo, dal 1531 al 1603 e a differenza degli altri paesi fu impostata, guidata e consolidata dalla volontà dei vari sovrani. Infine, da questo processo scaturì, con fasi alterne, una nuova chiesa: l’ecclesia anglicana, una chiesa teologicamente protestante in un quadro ecclesiastico molto vicino al cattolicesimo. LO SCISMA. La rottura con Roma risale alle vicende matrimoniali di Enrico VIII. Sposato a Caterina d’Aragona, zia di Carlo V. Il monarca, preoccupato che l’assenza di un erede maschio legittimo potesse riaprire contese dinastiche e invaghitosi di una dama di corte, Anna Bolena, che decise di sposare, chiese al papa l’annullamento del matrimonio. Il rifiuto di Clemente VII (1529) di sciogliere il vincolo matrimoniale fu dovuto non tanto a scrupoli morali, quanto al timore delle reazioni di Carlo V, artefice del recente sacco di Roma del 1527. A questo punto Enrico VIII decise di agire da solo per l’ottenimento del divorzio, per cui approfittando del sentimento antipapale che dominava negli ambienti politici inglesi riuscì a compiere una radicale frattura con Roma. Già nel 1531, l’assemblea del clero attribuì al re il titolo di “capo supremo della chiesa d’Inghilterra”, ma fu il parlamento, condizionato da Thomas Cromwell (ministro del re) a sancire lo scisma anglicano. Con una serie di leggi promulgate tra il 1532 e il 1534 Enrico VIII riuscì ad impedire il pagamento delle annate dovute al pontefice, ad ottenere il potere di controllo sul clero e a respingere il primato del pontefice. Infine, il 3 novembre 1534, l’Atto di supremazia, dichiarò Enrico VIII “capo supremo sulla terra della chiesa d’Inghilterra” ed estese tale privilegio ai suoi successori. Enrico VIII, a cui papa Leone X aveva conferito nel 1521 il titolo di “difensore della fede”, per un suo trattato contro Lutero, rimase nel suo animo convinto cattolico, sebbene scismatico fino alla morte. Fece promulgare infatti i “sei articoli” del 1539 con cui si approvavano la transustanziazione, la comunione sotto una sola specie, il celibato dei preti, i voti monastici, le messe private e la confessione. D’altra parte però nella chiesa anglicana l’influenza protestante mise le sue prime basi con la traduzione della bibbia in inglese sotto il consiglio dell’arcivescovo di Canterbury Thomas Cranmer. LA RIFORMA. Alla morte di Enrico VIII gli successe il figlio della sua terza moglie, con il titolo di Edoardo VI. Essendo un fanciullo di nove anni, il potere fu esercitato dal consiglio di reggenza, costituito da membri che sposarono la causa protestante. Non sorprende quindi se, con siffatti tutori, sotto il breve regno di Edoardo si attuò la riforma della chiesa d’Inghilterra in senso protestante. A compiere questo trapasso religioso contribuirono anche teologi e vescovi inglesi di tendenza nettamente protestante, influenzati anche dalle idee di Bucero, Bullinger e Calvino, con i quali intrattennero una lunga corrispondenza. In questa maniere la già presenti influenza della teologia di Wittenberg fu soppiantata dalle tendenze zwingliane, buceriane e calviniste. Uno dei primi atti di Edoardo VI fu l’abrogazione dei “sei articoli”. Nel novembre del 1547 si cominciò a rimuovere le immagini sacre dalle chiese, fu introdotta la celebrazione della cena sotto le due specie, l’uso della lingua nazionale nel culto, il matrimonio degli ecclesiastici e furono vietate le messe di suffragio e i pellegrinaggi. Nel 1459 fu redatto il Book of common Prayer, cioè la liturgia ufficiale ecclesiastica, a cui fu dato un’impronta riformata nel 1552. Alla riforma liturgica fece seguito l’anno successivo quella dottrinale, con la formulazione dei “42 articoli”, cioè una confessione di fede orientata in senso protestante, approvata dal re il 12 giugno 1553. Poche settimane dopo Edoardo morì, non ancora sedicenne. LA RESTAURAZIONE. Ad Edoardo VI successe la giovane principessa cattolica Maria, figlia di Enrico VIII e di Caterina d’Aragona. La ricattolicizzazione attuata sotto il suo regno, come per gli sviluppi in senso protestante verificatisi sotto il regno del suo predecessore, è ascrivibile a condizionamenti esterni. La sua scesa al trono creò le premesse per un accostamento sempre più intimo tra Tudor ed Asburgo, sfociato nel matrimonio con Filippo II. La regina revocò subito tutte le leggi ecclesiastiche promulgate da Enrico VIII e Edoardo VI, ad eccezione dell’Atto di supremazia. Fu reintrodotta la messa e venne riconosciuta la giurisdizione pontificia sulla chiesa d’Inghilterra. Maria, inoltre, procedette con implacabile crudeltà contro i protestanti, scatenando una persecuzione che le valse il soprannome di Sanguinaria. Circa ottocento persone furono costrette a fuggire sul continente, dove costituirono varie comunità. Tuttavia il ricordo dei numerosi martiri protestanti suscitò nell’opinione pubblica inglese, oltre al come in quella luterana, si verificò il processo di identificazione tra Scrittura e Parola di Dio, per cui le parole scritte dai testimoni umani assurgevano alla divina dignità di parola pronunciata da Dio stesso. Anche in questo caso, però non mancarono riformati che si distaccarono da tale posizione, come ad esempio il francese Louis Cappel. Tuttavia il nucleo centrale intorno a cui andò costituendosi l’ortodossia riformata del seicento fu costituito dalla dottrina della predestinazione. Essa è indissolubilmente legata al nome di Calvino, sebbene anche Lutero la considerassi un punto fondamentale di dottrina. Secondo Calvino, quindi, la predestinazione è “il decreto eterno di Dio, per mezzo del quale ha stabilito quel che voleva fare di ogni uomo. Infatti non li crea tutti nella medesima condizione, ma ordina gli uni a vita eterna, gli altri a eterna condanna.” Questa teoria però non fu ulteriormente sviluppata da Calvino, bensì dai suoi successori, tra i quali spiccano i nomi di Girolamo Zanchi e Thèodore Bèze, fautori di una concezione supralapsaria della predestinazione, che ribadiva che il decreto eterno fosse precedente alla caduta, la teoria infralapsaria ribadiva invece che il decreto eterno fosse seguente alla caduta. Il teologo riformato olandese Giacomo Arminio sostenne invece che Dio, pur offrendo a tutti gli uomini i benefici del sacrificio espiatorio di Cristo, predestinerebbe alla salvezza solo quanti, in virtù di una libera decisione della loro volontà, avessero creduto e preservato fino alla fine nella fede. Agli inizi del seicento sorse una vivacissima controversia tra i calvinisti supralapsari capeggiati da Gomar, e quindi detti gomaristi, ed i seguaci di Giacomo Arminio, chiamati arminiani. Nelle due posizioni di certo non mancarono anche importanti influenze politiche: Il calvinismo stretto (gomaristi) si identificava con la causa della casa d’Orange che, con il sostegno dei ceti popolari aspirava al dominio monarchico sulle Province Unite ed era favorevole alla guerra contro la Spagna; gli arminiani erano sostenuti dall’aristocrazia e dalla borghesia di sentimenti repubblicani, fautrici dell’autonomia delle singole province. Nel 1610 gli arminiani rivolsero agli stato d’Olanda una rimostranza, a cui i gomaristi replicarono l’anno successivo con una contro-rimostranza. Da allora furono chiamati rispettivamente rimostranti e controrimostranti. Le tensioni divamparono, e gli stati generali decisero la convocazione di un sinodo nazionale, che si aprì il 13 novembre 1618 a Dordrecht, a cui parteciparono oltre a laici e religiosi olandesi, anche delegati stranieri provenienti dalle chiese riformate dell’Inghilterra, della Scozia, del Palatinato, dai Cantoni Svizzeri. Gli ugonotti francesi, invece, trattenuti in patria per volontà del re Luigi XIII, fecero pervenire la loro tesi al sinodo per iscritto. Al sinodo di Dordrecht la dottrina degli arminiani fu condannata drasticamente, essendo la maggioranza dei componenti di obbedienza calvinista. Nel corso delle sue sessioni il sinodo definì inoltre l’assetto organizzativo delle chiese riformate: la confessione di fede, la disciplina ecclesiastica, la predicazione, la formazione teologica dei pastori, la traduzione della Bibbia. Così il calvinismo stretto ottenne il riconoscimento di tutte le chiese riformate. I capi della rimostranza arminiana furono esiliati, ma dopo la morte di Maurizio d’Orange (1625), i pastori rimostranti rientrarono nel paese e riorganizzarono le loro comunità. Ciò fu possibile perché la repubblica delle Province Unite rinunciò all’unità confessionale. Tuttavia analogamente a quanto si era verificato nel luteranesimo con la Formula di concordia, intorno ai canoni del sinodo di Dordrecht cominciò a svilupparsi la scolastica riformata, che elaborò una propria confessione di fede nella “Formula di consenso elvetica”. Ma già a partire dagli anni Venti del Settecento tale formula iniziò ad essere considerata ormai un relitto del passato e fu soppiantata dall’avanzata della “ortodossia razionale”, che si assunse il compito di ripensare la fede cristiana nei termini della filosofia razionale di Cartesio. Nella storia esterna del protestantesimo riformato del XVII secolo gli avvenimenti più drammatici furono le persecuzioni delle chiese dell’Europa orientale, degli ugonotti di Francia e dei valdesi d’Italia. In Boemia, dopo la battaglia della montagna Bianca (1620), una nazione intera venne condannata a scomparire dalla storia per tre secoli. Meno peggio andarono le cose nella Polonia di Sigismondo III, dove i protestanti furono bensì perseguitati, le loro chiese distrutte o adattate al rito cattolico, ma non interamente distrutti. In Ungheria, nonostante diverse persecuzioni, il calvinismo riuscì a sopravvivere, e la Transilvania rimase una roccaforte protestante. In Francia Luigi XIV volle essere signore assoluto delle coscienze stesse dei suoi sudditi. La chiese gallicana fu assoggettata ad uno stretto controllo regio, mentre nei riguardi dei riformati, il sovrano revocò l’editto di Nantes (1685). La revoca provocò una vasta emigrazione di ugonotti, i quali cercarono rifugio nei paesi protestanti. Quanto ai riformati Italiani, i valdesi, il secolo XVII fu quello in cui conobbero le maggiori persecuzioni. La prima ebbe luogo nel 1655 ed è tristemente nota con il nome di “Pasqua piemontese”, perché la violenza persecutoria si scatenò durante la settimana santa, tramutandosi in un vero e proprio genocidio. Ma grazia ad una protesta diplomatica organizzata da Oliver Cromwell, il duca di Savoia Carlo Emanuele II fu costretto a riaccogliere i valdesi sulla sua terra, riconoscendo ad essi il diritto di esistere. Fu in questa occasione che venne composta la “confessione di fede delle chiese riformate del Piemonte”. La seconda persecuzione ebbe luogo quando il re Sole, dopo aver sterminato i suoi sudditi ugonotti pretese ed ottenne dal giovane duca Vittorio Amedeo II che provvedesse a sopprimere la religione riformata del suo stato. Nuovamente, come nel 1665, l’intervento diplomatico dei paesi protestanti indusse il duca a concedere ai sopravvissuti la libertà di rifugiarsi in svizzera. Ma essi, tuttavia, dopo una serie di tentativi riuscirono a ritornare nella loro patria. Qui iniziarono ad essere tollerati dal loro duca, il quale nel frattempo ruppe l’alleanza con la Francia e si schierò con la Lega di Augusta. IL PIETISMO. Dopo circa un secolo di intellettualismo e di lotte religiose il protestantesimo sentì il bisogno di prestare un interesse maggiore alla pietà interiore, alla vita morale, alla tolleranza verso coloro che presentavano diverse dottrine. Tale rinnovamento fu operato dal pietismo, un movimento la cui influenza rimase notevole per tutto il Settecento. Il suo fondatore fu il pastore alsaziano Spener. Egli iniziò un’energica azione moralizzatrice organizzando piccole comunità di devoti cristiani per leggere la Bibbia, pregare e discutere il sermone domenicale. Questi piccoli gruppi di cristiani furono poi detti “pietisti”. Il pietismo fu fortemente avversato dall’ortodossia protestante, in quanto privo sia di dottrine normative che di strumenti organizzativi. La persone che divenne l’erede di Spener, fu Francke. Egli creò una serie di istituzioni educative grazie alle quali il pietismo assunse una caratteristica umanitaria e rigorista. Apri una scuola elementare popolare, una scuola per studenti borghesi e una per la formazione scientifica e letteraria della nobiltà; fondo un orfanotrofio, ospizi per i poveri. Il rigorismo etico pietista di Francke, coincideva in larga misura con le idee politiche e morali dell’aristocrazia prussiana. Lo stesso Federico Guglielmo I di Prussia sostenne sempre l’attività di Francke, comprendendone l’utilità sociale per lo stato prussiano bisognoso di formare servitori efficienti e fedeli. Dopo la morte di Francke il pietismo entrò in una fase di decadenza, allontanandosi dalla matrice luterana e accogliendo motivi mistici e apocalittici. ANGLICANESIMO E PURITANESIMO. La restaurazione dell’anglicanesimo in Inghilterra avvenne durante il lungo regno di Elisabetta I. Il suo tentativo di estendere la chiesa anglicana a tutta la nazione fu tuttavia causa di controversie e lotte di religione. Alla resistenza di una solida minoranza cattolica si aggiunse l’opposizione ben più consistente del movimento puritano. I suoi aderenti ritenevano che la chiesa d’Inghilterra avesse mantenuto troppe caratteristiche della chiesa romana, ed aspiravano a purificarla. In ogni caso con Elisabetta I si estinse la dinastia dei Tudor. Ad essa seguì quella degli Stuart che regnavano con Giacomo VI, figlio di Maria Stuart. Nel 1603 egli divenne anche re d’Inghilterra col nome di Giacomo I, per cui in lui si realizzò l’unione personale dei due regni. Egli elaborò la teoria che l’episcopato e la corona erano due istituzioni che si sostenevano reciprocamente, era comprensibile quindi che il re non nutrisse simpatie né per il curialismo romano né per la religione democratica e austera dei puritani, in cui vedeva un nemico dell’assolutismo regio. Il partito cattolico ripagò ben presto Giacomo I con la “congiura delle polveri”, in cui progettò di far saltare in aria il re e le due camere del parlamento. Quanto ai puritani Giacomo oppose un netto rifiuto alla richiesta con cui essi chiedevano il loro riconoscimento giuridico. Conseguenza di ciò fu l’espatrio di molti di loro verso la Nuova Inghilterra. Per quanto Giacomo I avversasse le idee puritane e fosse un accanito sostenitore dell’episcopato, tuttavia, dal punto di vista dottrinale, egli era un calvinista . Carlo I, non solo condivise le idee di suo padre, ma era affascinato altresì dalla religione della sua cattolicissima moglie e quindi favorì il rafforzamento delle tendenze filocattoliche nell’anglicanesimo. Tuttavia, nonostante le numerose emigrazioni in America dei puritani, il puritanesimo continuava a rafforzarsi, guadagnando sempre nuove simpatie nei nuovi adepti al parlamento. Le tensioni create dall’esperimento anglocattolico crebbero tanto in Inghilterra quanto in Scozia. Ma fu qui che nel 1637 Carlo tentò di imporre ai suoi sudditi scozzesi le forme del culto anglicano e di introdurre l’episcopalismo. Scoppiarono quindi una serie di disordini e nel 1638, nobili, pastori e borghesi strinsero un patto nazionale (Covenant) che respingeva le recenti innovazioni. Carlo I, per disporre dei mezzi finanziari con cui combattere i ribelli, si vide costretto a convocare il parlamento che dal 1629 non aveva più consultato. Quando si riunì dovette subito essere sciolto per la sua opposizione (corto parlamento, aprile-maggio 1640). Gli scozzesi però erano penetrati in Inghilterra, sicché in settembre il sovrano fu costretto a riconvocare il parlamento (lungo parlamento, 1640- 1653) di cui non riuscirà più a liberarsi. Esso era composto in maggioranza da puritani che si mostrarono subito ostili al monarco. La situazione inoltre fu esasperata nel 1641 dall’insurrezione dell’Irlanda cattolica. Il parlamento intanto iniziò a prendere provvedimenti contro i maggiori responsabili fra i collaboratori del sovrano. Strafford venne giustiziato, mentre Laud imprigionato. Successivamente i parlamentari riuscirono a far prevalere un disegno di legge per l’abolizione dell’episcopato e nel novembre del 1641 votarono la grande rimostranza, in cui si richiedevano ulteriori riforme religiose e il controllo parlamentare sulla scelta dei membri del consiglio del re. Ciò rese inevitabile lo scontro armato, e nel 1642 si arrivò alla guerra civile tra i partigiani del re e quelli del parlamento. Nel primo schieramento vi erano i difensori della chiesa anglicana, nel secondo si coalizzarono i puritani e tutti coloro che rifiutavano il cattolicesimo e la religione di stato. A guidare l’esercito parlamentare fu chiamato Oliver Cromwell, esponente della corrente radicale del movimento, i cui aderenti erano chiamati “congregazionalisti” o “indipendenti”. Essi avversavano l’assolutismo monarchico e la chiesa episcopale, ma non aspiravano ad organizzare una chiesa nazionale, volevano la libertà religiosa per tutti i cittadini, i “presbiteriani” invece, appartenevano a quella corrente puritana che avversava la chiesa anglicana, ma volevano instaurare una chiesa di stato presbiteriana. In ogni caso l’andamento della guerra rimase incerto per un paio d’anni, ciò indusse il parlamento nel 1643 ad allearsi con gli Scozzesi. L’esercito guidato da Cromwell il 14 giugno 1645 sbaragliò i realisti a Naseby. Carlo I si rifugiò in Scozia illudendosi di trovare aiuto, ma gli scozzesi lo catturarono e consegnarono al parlamento Inglese. Ma nel momento stesso della vittoria, si aprì un conflitto tra il parlamento e l’esercito di nuovo modello. La maggioranza presbiteriana di quello che restava del lungo parlamento insisteva nell’imporre il presbiterianesimo come religione di stato contrariamente a quanto desiderava invece Cromwell e gli “indipendenti”. Intanto approfittando di questa situazione, il re fuggì in scozia, da dove riprese la guerra, ma Cromwell intervenne prontamente per sciogliere l’intricata situazione: sconfisse il re e ordinò all’esercito di impadronirsi del parlamento e di epurarlo dai membri presbiteriani, riducendolo ad un troncone composto tutto di indipendenti. A questo punto il re venne arrestato e condannato a morte come traditore della patria il 30 gennaio 1649. Con la decapitazione di Carlo I l’Inghilterra divenne un Commonwealth (una repubblica). Cromwell sciolse il parlamento lungo e ne insediò uno nuovo (1653), ma costante dedizione di quest’ultimo alla sfera religiosa, portò Cromwell a sciogliere anche questo parlamento e si fece proclamare Lord protettore, instaurando una vera e propria dittatura militare, che concedeva però amplia libertà religiosa, ad eccezione dei cattolici. Cromwell morì il nel 1658. Dopo il fugace governo del figlio Richard, la via era aperta al ritorno della monarchia. BATTISTI E QUACCHERI. L’epoca di Cromwell è importante nella storia del protestantesimo per la nascita di due comunità religiose, i battisti e i quaccheri, che sopravvissero ai decenni tormentati della guerra civile inglese. I battisti, sorti nell’ambito del puritanesimo indipendentista, possono considerarsi una trasformazione moderata del movimento anabattista del secolo XVI, perché credevano che la chiesa fosse un’associazione puramente volontaria di credenti separato dallo stato, e ritenevano di dover praticare il battesimo delle persone adulte. L’iniziatore del movimento fu John Smith, che a cause delle persecuzioni sotto il regno di Giacomo I, dovette trasferirsi con altri suoi compagni ad Amsterdam. Alla sua morte, un nucleo di seguaci fece ritorno in Inghilterra. Essi quella della ragione per parlare della fede cristiane; sosteneva che tutto ciò che in essa è soprannaturale e contrario alla ragione era stato introdotto dai teologi e dagli ecclesiastici per trarne vantaggio, mentre il cristianesimo delle origini, cioè quello epurato dai residui pagani sovrappostigli, non possedeva dogmi misteriosi ed inintelligibili; un tale cristianesimo non era altro che una derivazione della religione naturale. Questa corrente venne accolta ampiamente sia dalla chiesa d’Inghilterra sia da quella di Scozia. L’Inghilterra agli inizi del ‘700 assistette anche alla nascita di un’associazione del tutto originale: la massoneria. Sorta a Londra nel 1722, la sua ampia diffusione si spiega con il contenuto etico che si celava nei suoi riti d’iniziazione, in armonia con le dominanti ideologia del tempo: l’aspirazione ad una fratellanza universale in nome dell’umana bontà e un tollerante deismo avverso sia ad ogni fanatismo religioso sia all’ateismo. RIVELAZIONE E RAGIONE. Del tutto diverso è il panorama del protestantesimo tedesco del settecento con il suo complesso intreccio di ortodossia, pietismo e teologia illuministica. Un ruolo rilevante nello spianare la strada verso l’illuminismo tedesco si deve a Leibniz. Egli compì un grandioso tentativo di mediare la tradizione religiosa luterana con la comprensione razionale della realtà. A Christian Wolff spetta il merito di avere elaborato una sistemazione dottrinale della filosofia leibniziana. Soprattutto importante per la storia del protestantesimo fu la sua affermazione della teologia naturale. Egli esaltò a tal punto la religione naturale da svuotare d’ogni significato quella rivelata e così, senza scalzare i dogmi cristiani, creò la prima filosofia religiosa indipendente dalla verità rivelata. Il suo pensiero penetrò a tal punto nella teologia protestante da modificarne profondamente la sostanza. In quella parte della teologia protestante tedesca che accolse la sfida del razionalismo si sogliono distinguere tre fasi. La prima fu la teologia della transizione e si collocò nell’ambito dell’influenza di Wolff. Essa cercò di presentare il dogma tradizionale in una formulazione adatta al razionalismo del tempo. Verso la seconda metà del tempo si passo alla seconda fase, alla cosiddetta “neologia”. Essa coincise con il trionfo dell’illuminismo in Germania durante il regno di Federico II di Prussia. La neologia è stata considerata negativamente, come un supino adattamento del retaggio della Riforma all’illuminismo, che ripudiava i fondamenti stessi del messaggio riformatore. Tuttavia nella neologia confluirono diversi orientamenti: la filosofia wolffiana, il deismo inglese, la letteratura antideista. Si dirà quindi che la neologia fu un serio tentativo di reinterpretazione della rivelazione cristiana, attraverso una lettura riduttiva dei documenti della rivelazione biblica e un graduale processo di eliminazione dei dogmi fondamentali del cristianesimo, volto a superare l’opposizione deistica tra religione naturale e rivelazione biblica. Nell’ultimo quarto di secolo si sviluppò l’ultima fase della teologia illuministica tedesca, detta razionalistica. Gli artefici di questa fase abbandonarono l’idea di una rivelazione soprannaturale e intesero la religione alla luce del panteismo ( è una visione per cui ogni cosa è permeata da un Dio immanente o per cui l’universo o la natura sono equivalenti a Dio) di stampo spinoziano, cioè si orientarono verso una visione immanentistica dell’universo. REAZIONI AL RAZIONALISMO TEOLOGICO. Sul finire del settecento si manifestò una corrente di pensiero volta a criticare il razionalismo teologico. Uno dei primi rappresentanti di questa tendenza, Hamann riteneva inesistente l’armonia tra ragione e rivelazione e sosteneva che la rivelazione cristiane è follia e scandalo per la ragione. L’uomo è condizionato da una realtà trascendente che solo la fede può cogliere nella rivelazione biblica e subordinatamente nella natura e nella storia. Una concezione simile di religione possedeva anche il filosofo Herder. Un altro importante filosofo del tempo Rousseau sosteneva che la religione non deve essere concepita in termini di razionalità ma di sentimento. Non è certo la ragione che può dare fondamento alla religione; piuttosto è vero che il sentimento percepisce Dio nella contemplazione della magnificenza della creazione, anche Hume riteneva che la religione sfugge ad ogni dimostrazione e controllo della ragione e trae le sue origini da quel coacervo di passioni che caratterizzano l’animo umano. Il maggiore esponente dell’illuminismo tedesco Immanuel Kant asserì, sempre in linea con questa tendenza, che Dio , la libertà, l’immoralità sebbene inaccessibili alla ragion pura, sono tuttavia necessari a quella pratica. Da qui la concezione kantiana della “religione nei limiti della sola ragione”. Al tentativo di dedurre della teologia di dedurre da Dio la legge morale, Kant contrappose un cammino inverso. Egli non si stanco di sottolineare il diritto/dovere dell’uomo di elaborare liberamente, fuori da ogni tutela dottrinale, i princìpi del proprio essere e del proprio agire. L’uomo raggiunge la sua identità universale quando impone a se stesso delle leggi morali ugualmente valide per ogni essere razionale. Sono dunque le leggi morali della ragione a meritare di essere considerate divine e non viceversa:” non dobbiamo considerare certe azioni come doverose perché sono precetti di Dio, ma dobbiamo considerarle come precetti di Dio, perché sono interiormente doverose”. Rousseau, Hume e Kant erano di origine protestante, ma vennero tutti e tre in urto con la teologia ufficiale, e le loro opere subirono censure sia da autorità religiose che politiche. RINNOVAMENTO E RISVEGLIO. GLI SVILUPPI DEL PIETISMO. Il protestantesimo tardo-settecentesco sentì il bisogno di spostare il centro di gravità dalla religione delle formule di scuola ad un cristianesimo vivente, capace di incidere sulla condotta morale di coloro che lo professavano. Tale spostamento fu operato dal pietismo. Sorto nelle Province Unite, raggiunse la Germania attraverso la mediazione del calvinismo tedesco, qui poté svilupparsi grazie all’adesione al movimento da parte del futuro re di Prussia Federico Guglielmo I. La morte di Federico Guglielmo I e l’ascesa al trono del figlio Federico II, personalmente influenzato dall’illuminismo francese e in particolare da Voltaire, significò la fine della protezione della casa reale prussiana per il movimento. Il centro del pietismo si spostò dalla Prussia al Wurttemberg. Ma mentre in Prussia era diventato la religione degli Hohenzollern ed aveva reclutato in suoi seguaci in prevalenza fra l’aristocrazia, nel Wurttemberg si integrò alla chiesa territoriale, si radicò così profondamente tra la borghesia e i ceti popolari da sopravvivere ancora oggi in alcune cerchie. Una posizione a parte nel pietismo occupa la personalità di Ludwig, conte di Zinzendorf, alla cui attività si deve un nuovo sviluppo del movimento. Il suo pietismo venne fortemente ostacolato dalla chiesa luterana. Nel 1722, infatti, egli accolse nella sua proprietà un gruppo di esuli appartenenti all’antica chiesa protestante che risaliva a Jan Hus. Con loro, Ludwig diede vita ad una straordinaria avventura comunitaria ispirata a princìpi pacifisti, egualitari ed umanitari, regolata da salda forme organizzative. La capacità della comunità di attrarre a sé sempre più nuovi aderenti suscitò gelosie tali nel clero luterano che nel 1736 il conte fu bandito per ordine del governo della Sassonia. Andato in esilio, Ludwig intraprese numerosi viaggi di evangelizzazione e fondò nuove comunità, ma nel 1755 fece ritorno in Sassonia e si spense nel 1760. Anche Ludwig dovette misurarsi con la teologia illuminista, rivendicando l’autonomia dell’esperienza religiosa e quindi l’impossibilità di pervenire alla fede mediante l’uso della ragione. Tuttavia anche dopo la sua morte il movimento continuò a sopravvivere, sia in Europa che in America. IL METODISMO. Sotto il lungo governo dell’oligarchia Whig, guidato dalla personalità dominatrice di Robert Walpole, l’Inghilterra iniziò a porre le basi per quel prodigioso sviluppo economico che portò alla rivoluzione industriale, progredendo in vari settori, nell’industria, nel commercio, nell’agricoltura. All’interno del paese, quindi, il tenore delle classi alte e medie si elevava, mentre si aggravava la tragica degradazione delle masse popolari. La chiesa anglicana dall’altra parte appariva incapace di occuparsi delle crescenti necessità materiali e morali che attanagliavano gli strati più poveri della popolazione nella nascente società industriale. Queste carenze della chiesa ufficiale vennero colmate dal metodismo, un nuovo movimento religioso. Suo iniziatore fu John Wesley. Durante i suoi studi ad Oxford fu alla guida spirituale di un gruppo di studenti costituito nel 1729 da suo fratello minore Charles, per studiare la scrittura, pregare, assistere i poveri, gli infermi e i carcerati. Gli aderenti al cenacolo religioso furono soprannominati “metodisti”, a motivo della metodica organizzazione del lavoro giornaliero. Qualche anno più tardi, nel 1738, sia Charles che John si convertirono al luteranesimo. Da allora in poi i due fratelli dedicarono interamente le loro energie alla predicazione itinerante per evangelizzare le masse diseredate dell’Inghilterra, ad essi si unì anche il pastore anglicano George Whitefield. Nacque così il movimento metodista, di cui Whitefield fu il formidabile predicatore, Charles Wesley il prolifico poeta (compositore di inni) e John Wesley il genio organizzativo. Egli si preoccupò di organizzare i credenti convertiti in “società” e “classi” composte di persone che svolgevano lo stesso lavoro e i cui leaders erano non degli ecclesiastici ma dei laici, uomini e donne che esercitavano una vigilanza attiva sulla vita spirituale di ognuno. Più gruppi locali vicini formavano un “circuito” con un proprio “sopraintendente”, che era incaricato di visitarlo periodicamente. Ben presto alle “classi” si affiancarono scuole per adulti e ragazzi, consultori medici gratuiti per i poveri. La stessa predicazione, inizialmente affidata solo ai ministri della chiesa anglicana, fu resa possibile anche per i laici (uomini e donne), attraverso la tipica figura del “predicatore locale”, che lavorava come chiunque altro durante la settimana e che alla domenica riuniva le classi di una stessa località per il culto. Purtroppo il sodalizio spirituale tra Wesley e Whitefield fu presto incrinato da disaccordi teologici. Whitefield aveva delle ferme convinzioni calviniste riguardo la predestinazione, mentre i fratelli Wesley avevano gradualmente abbandonato il calvinismo avvicinandosi all’arminianesimo ed erano quindi per l’universalità della grazia. Nel 1740 i Wesley e Whitefield si separarono, dando così origine a due rami del movimento. In ogni caso la minoranza che seguì Whitefield e operò in Inghilterra e in America non progredì a causa delle limitate capacità organizzative dell’ex predicatore anglicano. John Wesley, invece, rafforzò l’organizzazione del movimento che continuò a crescere sia in Inghilterra che in America del nord, grazia anche alla libertà di culto sancita dall’edito di tolleranza del 1689. IL RISVEGLIO. Il termine risveglio designa quei movimenti di rinnovamento che percorsero il protestantesimo nei secoli XVIII e XIX con il proposito di farne rivivere il fervore spirituale, a causa di un abbassamento del livello morale a cui le varie correnti del protestantesimo erano approdate. Le prime manifestazioni del risveglio protestante comparvero nelle colonie inglesi dell’America del nord. Qui un’altissima percentuale della popolazione era protestante, vi erano anglicani, presbiteriani provenienti dalla scozia, dall’Irlanda, dalla Francia e dai Paesi Bassi, i quaccheri, i battisti, i congregazionalisti inglesi, i luterani tedeschi, i fratelli moravi. Tra i vari uomini che hanno dato vita a questi movimenti di risveglio, possiamo ricordare il pastore presbiteriano del New Brunswick, Tennent. Egli attaccava duramente il rigido formalismo dottrinale privo di calda spiritualità della componente scozzese- irlandese della chiesa, per cui esercitò un’opera vastissima di rinnovamento dell’intero distretto ecclesiastico. Il movimento di rinnovamento dei congregazionalisti nel New England, invece, vide emergere la figura del teologo Edwards. Egli esercitò un’opera vastissima di rinnovamento morale e sociale delle masse popolari. Gioca d’azzardo, ballo, bevande alcoliche furono bandite. Le differenze sessuali, razziali e sociali vennero relativizzate: nei meeting di risveglio le donne partecipavano tanto quanto gli uomini, i neri si univano ai bianchi e i poveri potevano proclamarsi figli di Dio come i ricchi. Edwards, inoltre, nei suoi scritti elaborò una originale rielaborazione del calvinismo. LE MINORANZE PROTESTANTI. Per quanto riguarda i domini asburgici, dopo l’espulsione dei protestanti da Salisburgo analoghe operazioni di “pulizia religiosa” ebbero luogo in altre località dell’Impero. Molti di essi furono inviati forzatamente in Transilvania, altri finirono in Toscana meridionale. La politica discriminatoria nei confronti degli acattolici proseguì durante il regno di Maria Teresa, viceversa Giuseppe II favorì e mise in atto una politica di tolleranza religiosa in netto contrasto con quella dei suoi avi. Ma Carlo VI impose ai protestanti molte restrizioni, la religione cattolica divenne la religione di stato e ai protestanti fu concesso di celebrare il culto solo in privato. In Boemia e in Ungheria, la chiesa protestante autoctona risalente a Jan Hus, sopravvisse clandestinamente per molto tempo, fino a quando la sua eredità fu raccolta nel XX secolo dalla Chiesa Evangelica dei Fratelli Boemi. In Francia, la resistenza religiosa fu fatta da una chiesa priva di pastori, molti dei quali furono condannati a morte. Essa riuscì a tenera in sacco le truppe reali. La ricostruzione delle chiese riformate, che richiese circa 30 anni, si svolse gradualmente, dopo la morte di Luigi XIV, regione per regione, cominciando dai luoghi rimasti più protestanti, e si concluse con l’editto di tolleranza del 1787, grazie al quale i protestanti ebbero assicurata la protezione della legge. Per quanto riguarda i valdesi nel territorio piemontese, il settecento fu un epoca relativamente tranquilla. Durante il regno di Carlo Emanuele III e di Vittorio Amedeo III, gli eredi di Valdo cercarono di riorganizzare la loro vita economica, culturale e religiosa, riuscendoci nonostante continue leggi restrittive nei loro confronti, grazia anche all’aiuto economico dei loro fratello d’oltralpe. . Il cattolicesimo dalla “riforma cattolica” il vincolo della clausura, egli preferì insistere sull’assistenza ai malati, impegnando le donne solo con voti privati annuali. Si tendeva dunque a realizzare l’intento escludendo formalmente che, sotto il profilo giuridico, i nuovi gruppi femminili avessero carattere “religioso” e configurandoli piuttosto come semplice comunità di fedeli, alla pari di una confraternita. Tra le nuove congregazioni sorte nel XVI secolo un posto di rilievo spetta alla Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola (1491-1556). Egli, originario dei Paesi Baschi, aveva prestato servizio come ufficiale ed era stato ferito nell’assedio di Pamplona del 1521. Letture e riflessioni durante il lungo periodo di inattività lo indussero ad avvicinarsi alla fede. Dopo aver perfezionato gli studi teologici a Parigi, Ignazio radunò attorno a sé un gruppo di amici, con il quale pose le basi per il suo nuovo ordine monastico, approvato nel 1540 da Paolo III. Oltre ai tradizionali voti di povertà, castità e obbedienza, i membri della compagnia con un quarto voto si impegnarono in modo specifico ed espresso all’obbedienza al pontefice, il che comportava la piena disponibilità a svolgere i compiti che eventualmente la somma autorità ecclesiastica avesse indicato. Prevale in Ignazio e nella compagnia una spiritualità che si esercita nel mondo, inteso come luogo della presenza di Cristo tra gli uomini. Ignazio sottolineava l’importanza delle opere dell’uomo, affermando che dall’esasperata negazione del loro valore rischiava di derivare una pericolosa sottovalutazione della libertà umana. Tuttavia i gesuiti esercitarono la loro influenza in campi molteplici, in primis nell’opera evangelizzatrice. Il forte impegno missionario li condusse a svolgere missioni popolari nell’Europa cattolica, ma anche a propagare il cattolicesimo nei paesi extraeuropei. Nella loro attività pastorale, accanto alla consueta opera di amministrazione dei sacramenti, svolsero in particolare la funzione di confessori dei principi, e quindi anche di loro consiglieri. Un altro elemento di novità rispetto ad altri ordini religiosi era costituito dalla peculiare formazione dei membri della Compagnia, il cui tirocinio culturale era indispensabile per la professione religiosa, anche perché un ruolo importante i gesuiti lo svolsero nel campo dell’insegnamento. In particolare si dedicarono alla formazione intellettuale delle élites. La chiesa moderna fece degli ordini religiosi uno degli strumenti privilegiati della sua politica di rigenerazione interna del cattolicesimo e di riconquista delle popolazioni. IL CONCILIO DI TRENTO. L’ipotesi di convocazione di un concilio fu a lungo considerata dai pontefici con prudenza, in quanto preoccupati del fatto che la loro autorità venisse sopraffatta da quella del concilio, come avvenne più di un secolo prima a Costanza. In ogni caso nel 1534, salito al soglio pontificio Paolo III Farnese, nel proprio programma di governo inserì riforma della chiesa e convocazione del concilio, e a quest’ultima si impegnò espressamente con Carlo V. Il concilio si aprì a Trento il 13 dicembre 1545. In realtà la prima bolla di convocazione a Trento recava la data 1542, ma alterne vicende politiche e belliche ne ritardarono l’effettivo inizio. La scelta del luogo non era casuale: Trento, città dell’impero, appariva geograficamente ed ecclesiasticamente idonea come sede per un’assise che, tra gli altri scopi, si prefiggeva anche quello di un riaccostamento del mondo protestante. Al concilio erano assegnati diversi compiti, quello di precisare e definire alcuni aspetti dottrinali condannando gli errori dei protestanti, quello di riformare la disciplina interna, quello infine di ripristinare l’unità frantumata. Quanto a quest’ultimo punto però, lo svolgersi dei lavori mostrò che la lacerazione era ormai troppo profonda per poter essere sanata. Tuttavia il “partito imperiale” era scarsamente interessato alle questioni dottrinali, e mirò senza successo ad una riforma disciplinare della chiesa sotto il controllo dell’imperatore. Lo svolgimento dei lavori subì numerose interruzioni. Durante la prima fase del concilio (1545-1547) vi fu anche un temporaneo trasferimento a Bologna determinato dal timore di una pestilenza, ma anche dal desiderio di accelerare i lavori conciliari, sottraendoli all’ingerenza imperiale. Durante la seconda fase (1551-1552) vi fu la presenza di inviati in rappresentanza di principi e città protestanti, che mostrò con chiarezza l’impossibilità a trovare un accordo. La terza fase del concilio, riconvocato da papa Pio IV nel 1561 vide una partecipazione di vescovi, italiani e imperiali, spagnoli e francesi, molto più numerosa e intensa. Il concilio si chiuse definitivamente nel 1563. Nei decreti dottrinali si affermarono diversi punti. Innanzi tutto venne rigettato il principio luterano della sola scriptura, stabilendo che due erano per i cattolici le fonti della tradizione, cioè Scrittura e Tradizione. Venne inoltre respinta la teoria della giustificazione per fede, e quindi l’idea che la natura umana è radicalmente corrotta dal peccato d’origine; ribadita l’importanza della grazia alla quale però andavano affiancate le opere buone. Si riconfermò la dottrina sacramentale della chiesa. Dei sacramenti (7) si ribadiva l’essere segni efficaci di grazia istituiti da Cristo. Il decreto sull’eucarestia definiva la dottrina della presenza reale di Cristo e la transustanziazione. Il decreto sull’ordine affermava nella chiesa l’esistenza di un sacerdozio ministeriale e di una struttura gerarchica. Era sottolineata la sacramentalità del matrimonio di istituzione divina, indissolubile. Per quanto riguarda i decreti relativi alla disciplina, vennero fissate per quanto riguarda il matrimonio le modalità di celebrazione del sacramento, il quale doveva essere amministrato in presenza del parroco e di due testimoni. I parroci dovevano registrare l’avvenuto matrimonio, come erano tenuti a fare anche per il battesimo. Si creava così una sorta di anagrafe nelle parrocchie, che costituivano il centro della vita religiosa dei fedeli. Ai vescovi e ai parroci fu imposto l’obbligo di risiedere nelle proprie sedi. Si collega a tale proposito il divieto di cumulo dei benefici ecclesiastici. Inoltre, venne stabilito che i sacerdoti, deputati alla cura delle anime, avrebbero dovuto essere preparati sotto il profilo religioso, culturale, morale, per istruire i fedeli attraverso la predicazione e l’insegnamento della dottrina cristiana, oltre ad avere l’obbligo di vivere in castità e di indossare l’abito sacerdotale, per cui si decretò l’obbligo di erigere in ogni diocesi un seminario. Anche al vescovo incombevano diversi obblighi, tra cui quello di convocare con regolari cadenze i sinodi diocesani, che riunivano i sacerdoti della diocesi attorno al loro vescovo. Anche i sinodi provinciali, nei quali il metropolita radunava i vescovi della provincia ecclesiastica, dovevano essere tenuti con sistematicità. Con il concilio di Trento, inoltre, la visita pastorale periodica del vescovo nelle parrocchie della sua diocesi divenne un elemento centrale. Essa era destinata a consentire un’approfondita conoscenza delle situazioni locali in tutte le loro sfaccettature, dallo stato degli edifici agli aspetti amministrativi, dalle condizioni culturali e morali del clero alla religiosità dei fedeli, elemento di assoluta originalità quest’ultimo rispetto al passato (medioevo) in cui il vescovo più che come un pastore d’anime si presentava come un principe temporale, impegnato nella politica, nelle armi e nel mecenatismo. Tra i più importanti modelli di vescovo che incarnarono quanto dettato dalla disciplina tridentina, troviamo l’arcivescovo di bologna Gabriele Paleotti e l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo. Quest’ultimo nella sua attività episcopale diede prova di grandissimo rigore. Notevole fu l’intransigenza nella repressione degli abusi, sistematico il controllo. Tra le questioni che erano rimaste aperte alla fine del concilio, figurano vari aspetti successivamente risolti da Roma: la redazione dell’Indice dei libri proibiti (1564), un testo di dottrina cristiana, la riforma del breviario, del messale e successivamente degli altri libri liturgici, in aggiunta a ciò, per determinare la data della Pasqua, si rese necessaria nell’età di Gregorio XIII una revisione del calendario giuliano. Il concilio di Trento costituisce un evento fondamentale per la comprensione delle vicende della chiesa moderna. In esso elementi di antitesi alla riforma protestante si affiancarono a istanze di riforma interna. Il concilio intese esporre la dottrina cattolica autentica, fondandosi sulla Scrittura e sui padri, senza alcuna rottura con la tradizione precedente della chiesa; ma al tempo stesso effettuò un’azione profondamente innovativa e consolidò il processo di modernizzazione della chiesa. L’ECCLESIOLOGIA. Il concilio di Trento non esprime in maniera esplicita una definizione di chiesa e del ruolo assunto dal suo capo, il pontefice, anche per il timore del riaffiorare del conciliarismo. Tuttavia il ruolo di Roma fu sancito dalla decisione finale, quando si deliberò di sottoporre al pontefice i decreti approvati, al fine di ottenerne l’approvazione. Iniziava dopo il concilio di Trento una fase di forte centralizzazione del papato, in campo spirituale e civile, il termine Ecclesia tende sempre più ad indicare il governo della chiesa, il magistero romano; si realizzava nell’età post-tridentina un processo di affermazione del papato sull’episcopato, in un contesto di forte strutturazione e accentuato giuridismo; e ciò nel momento in cui lo stato tendeva in certo modo a farsi esso stesso chiesa, attraverso il processo di confessionalizzazione. Va detto inoltre che con l’affermarsi degli stati nazionali e la fine dell’unità religiosa, la chiesa cattolica realizzò un’unità specifica, con un suo diritto e sue strutture. Si comprende dunque l’attenzione posta all’organizzazione della curia a partire da Paolo III, soprattutto con Sisto V e sino a Gregorio XV. La centralizzazione romana e la costruzione di un rigido ordine gerarchico interno si accompagnava alla tendenza analoga degli altri stati moderni verso l’assolutismo. In modo non dissimile da un altro stato, anche la chiesa appariva come una società ben organizzata, in cui al vertice della piramide gerarchica sta il pontefice assistito dalle congregazioni romane (del Sant’Ufficio, dell’Indice dei libri proibiti, dei Vescovi e regolari, dei Riti..). In tale contesto merita ricordare la creazione di un’apposita Congregazione del Concilio, istituita da Pio IV nel 1564, destinata a verificare l’applicazione del Tridentino e a fornire, ove necessario, gli elementi per la sua interpretazione autentica, in questo modo il pontefice si appropriava sì l’opera del concilio, ma in qualche modo se ne riservava l’attuazione e, soprattutto, l’interpretazione. Ciò risulta evidente dal divieto, imposto dal pontefice, di pubblicare commenti o glosse dei decreti tridentini. La congregazione del concilio non era tuttavia l’unico strumento attraverso il quale Roma esercitava il suo controllo e la sua influenza sulle chiese locali. L’istituto della visita apostolica consentiva alla Sede romana di operare un controllo e un intervento sulle diocesi. Un delegato del pontefice poteva ottenere facoltà particolarmente ampie per ispezionare ed intervenire su molteplici aspetti delle istituzioni ecclesiastiche e della vita religiosa nelle varie diocesi, emanando appositi decreti. Si trattava comunque di uno strumento a carattere eccezionale, al quale sia l’autorità politica ed ecclesiastica locali guardavano con sospetto. Secondo le disposizioni di Sisto V del 1585, ogni vescovo era tenuto a presentare a Roma una relazione circa lo stato della propria diocesi. La visita doveva avere periodicità triennale per i vescovi italiani, quadriennale per quelli europei, decennale per i vescovi d’oltreoceano. Tali visite miravano a consentire una conoscenza delle situazioni locali da parte della Congregazione del concilio, cui erano indirizzate e alla quale si conferivano funzioni di intervento e di controllo. Al rafforzamento delle strutture romane corrispondeva una perdita di autonomia in sede locale; iniziative e normativa erano sempre più dipendenti dalle direttive provenienti dalle congregazioni romane. Nel ‘500 si era andata evolvendo anche la figura del Segretario di Stato, un cardinale in stretto contatto col pontefice. Il segretario di Stato divenne il responsabile di tutti gli affari di politica interna ed estera della Sede romana. All’istituzione di nunziature stabili fu attribuita grande importanza, particolarmente ad opera del pontefice Gregorio XIII. Lo sviluppo delle nunziature ebbe una funzione politica, destinata, nel rapporto con le potenze sovrane a difendere la giurisdizione ecclesiastica; ma acquisì una fortissima valenza religioso- ecclesiastica, perché al nunzio spettava la funzione di tutelare l’ortodossia. Per quanto riguarda il collegio cardinalizio, è da notare che, nella sua composizione come nelle strutture della curia romana, la presenza degli italiani divenne assolutamente preponderante, inoltre il concistoro perse il potere deliberativo e i cardinali si ridussero ad essere una sorta di burocrati di carriera al servizio del pontefice. Verso la fine del ‘500 i pontefici, inoltre, coerentemente alla linea politica che stavano seguendo, posero un freno, attraverso la congregazione dell’Indice, alla divulgazione della versione in volgare della Bibbia di san Girolamo, non esplicitamente contestante dal concilio, poiché videro in essa il rischio di una deformazione dell’autenticità dei testi sacri. LO SLANCIO MISSIONARIO. La chiesa, rinnovata nell’età tridentina, prendeva coscienza della necessità di istruire e condurre all’autentica fede coloro che ne erano lontani: tanto coloro che avevano aderito ad altre confessioni cristiane, quanto coloro che non avevano mai udito parlare di Cristo e della chiesa, nelle terre extraeuropee, infatti, si realizzò, accanto all’espansione determinata da ragioni di potenza, anche un’espansione missionaria ad opera di ordini religiosi che da sempre avevano sottolineato il valore della missione (basti pensare ai francescani) , ma anche congregazioni di recente fondazione, come i gesuiti. Il ruolo dell’autorità politica nell’organizzazione delle missioni fu determinato inizialmente dall’atteggiamento dei pontefici. Alessandro VI con una bolla del 1493 definiva lo spazio d’azione rispettiva di Spagna e Portogallo, tuttavia successivamente i pontefici preferirono demandare ai sovrani l’organizzazione e il controllo dell’espansione missionaria. Si creava così il fenomeno del “patronato” dei sovrani di Spagna e Portogallo sulle terre di missione. Dotati di piena autorità, i sovrani svolgere una funzione educativa, l’autorità ecclesiastica doveva premurarsi di elaborare i modi più adatti per condurre gli ignoranti alla conoscenza dei misteri della fede. Secondo Gabriele Paleotti, infatti, l’insegnamento della dottrina, attraverso il catechismo, aveva nelle immagini non un sostituto, ma un ulteriore supporto. La funzione delle immagini consisteva nell’istruire, ma anche nel fomentare la devozione, quindi il discorso iconografico acquisì particolare rilevanza. La sede romana venne ad assumere una posizione centrale nel controllo sull’arte religiosa, documentato dai ripetuti interventi di Urbano VIII in materia tra il 1625 e 1642. Vi fu anche un vivace dibattito sulla liceità della rappresentazione di Dio in forma antropomorfa, che alcuni giansenisti contrastavano. La discussione attorno alla rappresentazione di Dio e della Trinità ebbe un momento forte nel XVIII secolo. Benedetto XIV nel 1745 attraverso un’enciclica vietava le rappresentazioni antropomorfe dello Spirito, richiamando l’importanza della fedeltà al dato scritturistico. Accanto ai decreti del concilio, altri strumenti consentivano la penetrazione delle idee e della prassi della chiesa post-tridentina. Prodotti da Roma, l’Indice dei libri proibiti, il catechismo (testo destinato all’uso da parte del clero), il nuovo messale, furono capisaldi del cattolicesimo del tempo. Il concilio non aveva elaborato una vera e propria professione di fede, limitandosi a proporre che i titolari dei benefici fossero tenuti a giurare una sintetica dichiarazione di fede. Dopo l’assise tridentina, fu promulgata un’ampia professio fide, i vescovi e i titolari di benefici in cure d’anime dovevano fare professione di fede, secondo l’idea maturata durante i lavori conciliari. Attraverso ciò si instaurava un efficace sistema di controllo che si estese ad altre categorie come maestri, medici, ostetriche. In realtà gli insegnamenti religiosi impartiti dal concilio si tradussero anche in regole morali generali, la cui applicazione andava a beneficio del vivere civile stesso. L’insegnamento della virtù religiosamente intesa era necessariamente collegato alla contestuale educazione ai buoni costumi. Tra Cinque e Seicento si formò dunque una “identità” cattolica, che si fondava non solo e non tanto sugli aspetti gerarchici e sulla dignità sacerdotale, quanto su una presenza capillare dei cattolici nella società, il cui riflesso era visibile dalla pratica dei buoni costumi dei fedeli. Nell’ambito civile non vi fu ostilità a tale impostazione, dalla quale lo stato e la società potevano tratte vantaggio; l’educazione alla virtù era intesa quale strumento di perfezionamento dell’individuo e, quindi, della società civile. Si assistette dunque al moltiplicarsi, in ambito religioso e civile, di trattati e manuali di comportamento, ma la formazione completa dell’individuo avveniva soprattutto nelle scuole degli ordini religiosi, il cui scopo non era individuabile semplicemente nella comunicazione di un sapere, ma nella creazione di una “cultura” impregnata di spirito cristiano. FRANCESCO DI SALES E LA “VITA DEVOTA”. Per comprendere gli aspetti del cattolicesimo sei-settecentesco, occorre ritornare alla cultura religiosa della prima età moderna, in cui si era affermata una corrente che è stata definita “umanesimo teologico”. Si trattava di una teologia che aveva i suoi referenti essenziali nella Scrittura e nei Padri della chiesa, i cui testi erano affrontati con attento spirito filologico-critico. L’esponente più noto di tale orientamento è Erasmo da Rotterdam. Egli propugnava lo studio della Scrittura e delle opere dei Padri, finalizzato allo scopo ultimo della imitatio Christi; forte è quindi il richiamo a tornare alle fonti essenziali del cristianesimo. Egli inoltre invitava ad apprendere il Vangelo indipendentemente dalla propria cultura, con espresso riferimento ai contadini, agli artigiani, ai viandanti, alle donne. La teologia umanistica sfociò nell’umanesimo devoto del tardo Cinquecento, con la sua positiva considerazione dell’uomo che Dio stesso a creato a sua immagine e somiglianza. Una concezione positiva ed ottimistica dell’uomo è riscontrabile in Filippo Neri, noto come fondatore della Congregazione dell’Oratorio. All’inizio si trattò semplicemente di incontri di laici, per pratiche religiose comuni e ascolto della parola divina in modo non precostituito; la comunità sacerdotale riunita attorno a Filippo Neri fu eretta in congregazione da Gregorio XIII nel 1575. Tra gli esponenti più rilevanti delle correnti di umanesimo devoto è da collocare Francesco di Sales (1567-1622). Nobile, dotato di un’ottima formazione umanista, nel 1602 fu nominato vescovo di Ginevra. Nei suoi atti di governo assunse come modello Carlo Borromeo. Contro l’eccessivo misticismo della tradizione medievale, Francesco prendeva coscienza delle aspirazioni di una parte del mondo laico, da cui era venuta una forte spinta al rinnovamento interno della chiesa e che esprimeva l’esigenza, accentuata dalla prossimità con il mondo calvinista, di una religione personale vissuta nel quotidiano. Nella sua opera maggiore “Introduzione alla vita devota”, Francesco enuncia la concezione della religione cattolica come di una proposta rivolta ad ogni uomo, in qualsiasi condizione di vita. La perfezione consiste, nell’amore di Dio e del prossimo; può essere raggiunta mediante il quotidiano esercizio della virtù caratteristiche del proprio stato. In questo senso, in una società religiosa diretta dal ceto sacerdotale, in realtà la differenza tra chierici e laici è minore di quanto appaia a prima vista: è una diversità strutturale di funzioni, non una diversità nella ricerca della perfezione, nell’impegno quotidiano per la salvezza della propria anima. LA RELIGIONE DI TUTTI. L’azione della chiesa moderna aveva portato in una direzione tutto sommato opposta a quella che molti auspicavano agli inizi del ‘500: non una divaricazione tra una religione di “perfetti” e una religione di massa disprezzabile perché “superstiziosa”, ma un modello unico di religione. Era il superamento della distanza, che aveva segnato il medioevo, tra la religione delle élites e la religione popolare; un superamento che avvenne gradualmente, attraverso strumenti molteplici, dal catechismo alla missioni popolari. Non si deve tuttavia dimenticare l’elemento del conformismo, tipico di una società a “religione amministrata”. Nei paesi cattolici, ad esempio, il precetto pasquale (obbligo di accostarsi all’eucarestia almeno una volta l’anno) era rigorosamente imposto e documentato dal parroco. L’eventuale inadempienza poteva essere oggetto non solo di sanzioni ecclesiastiche, ma anche di provvedimenti civili. In ogni caso, in un contesto segnato dall’obbligo di partecipare ad alcune vincolanti attività religiose, pena l’esclusione sociale, la partecipazione alle confraternite è un interessante elemento che consente di intravedere la qualità della vita religiosa dei fedeli nell’età moderna, sia dal punto di vista individuale che collettivo. L’esperienza confraternale, che affonda le sue radici nel medioevo, conobbe in età moderna un notevolissimo sviluppo. Gli aspetti penitenziali caratteristici di molte confraternite medievali tendevano a sfumare, sia per il fatto che veniva a mancare la corrispondenza tra questi aspetti e le esigenze devozionali, sia per il rigido controllo operato in materia dalla gerarchia ecclesiastica. Salivano alla ribalta forme di presenza operativa nella società. Non mancarono tuttavia i conflitti, mentre i confratelli reclamavano spazi di autonoma iniziativa, il clero rivendicava il controllo sulle confraternite, tenendo ad inquadrarle sempre più strettamente nell’ambito parrocchiale, nel contesto di quel sistema di subordinazione gerarchica che caratterizza la chiesa moderna. Per questa ragione la chiesa post-tridentina incoraggiò confraternite del Santissimo Sacramento o della Dottrina cristiana e favorì alcune confraternite devozionali mariane. Le confraternite del SS.mo sacramento non solo sviluppavano la devozione eucaristica come accadeva nelle analoghe confraternite medievali, ma svolgevano funzioni di supporto alla parrocchia e alle sue attività. La diffusione sul territorio francese delle confraternite mariane dei gesuiti ( fortemente “romane”), rivela anche in terra gallicana una diffusione abbastanza precoce dello spirito che animava in quel tempo la chiesa di Roma. Si trattava di un spirito cattolico teso alla devozione, all’impegno all’operosità nel sociale. Altre confraternite erano quelle della Dottrina cristiana, il modello istituito nella diocesi di Milano da Carlo Borromeo. All’interno di tali confraternite, laici devoti operavano in un settore come quello dell’istruzione, estremamente importante ed apparentemente riservato al clero. Un altro caso interessante è la Compagnia del SS.mo Sacramento nella Francia del seicento. Lo scopo dei confratelli era quello di agire nella società piuttosto che nella politica, cristianizzare il corpo sociale piuttosto che lo stato. La novità della Compagnia consiste nella decisione di unire all’azione religiosa, volta alla santificazione personale dei membri, anche quella morale e sociale. Un altro importante aspetto da evidenziare nell’età moderna in ambito cattolico è l’ampia diffusione della ricerca del sacro, attraverso il moltiplicarsi dei santuari, la ricerca delle reliquie. Si moltiplicarono i ricorsi al divino come fonte di risposta a problemi apparentemente insolubili del XVII secolo, si accentuò anche il ricorso ai mediatori celesti, soprattutto alla Madonna, con un potenziamento del culto mariano che la chiesa ufficiale non scoraggiava. Tuttavia la chiesa tentò di arginare sia le forme “indiscrete” di culto ai santi, sia il proliferare di nuovi culti a livello locale. Il ruolo centralizzatore di Roma fu anche in questo caso messo in evidenzia, in conformità a una tendenza al controllo romano sulle canonizzazioni affermatesi già dal medioevo. Urbano VIII (1623-1644) precisò il ruolo della Congregazione dei Riti e, soprattutto, stabilì chiaramente le tappe del processo di canonizzazione. Tra le devozioni cristologiche si svilupparono in particolare quelle che ponevano l’accento sugli aspetti della sofferenza redentrice di Cristo. La devozione al Sacro Cuore, ad esempio, non nuova, si sviluppò fortemente dal XVII secolo. Il cuore di Gesù era presentato come il simbolo dell’amore di Dio verso gli uomini, tuttavia tale devozione, come quella nei confronti dell’Immacolata concezione, fu approvata solo dopo un lungo iter. I fedeli del sei-settecento, si presentavano sostanzialmente diversi dai loro antenati nel modo in cui praticavano la loro religione, seppur non possiamo dire che essi ebbero una fede maggiore. In questa trasformazione accanto all’insegnamento della dottrina e alla proposta di forme devozionali, ebbe un ruolo importante la predicazione, svolta sia dagli ordini religiosi, sia all’interno delle parrocchie. LE MISSIONI POPOLARI. Nell’età moderna si verificò nell’Europa cattolica un fatto nuovo: molti ordini religiosi svolsero in modo sistematico un’azione missionaria nelle terre d’eresia o nelle campagne. Nel primo caso, i missionari intendevano fare opera di conversione nei confronti di chi aderiva ad altra confessione cristiana, nel secondo caso, l’azione si fondava sulla constatazione dell’ignoranza religiosa di popolazioni e di terre considerate alla stregue di un vero e proprio paese di missione. Il modello proposto dai missionari era nuovo rispetto alle forme consolidate; infatti si insisteva sulla cancellazione di antiche pratiche, sull’apprendimento del catechismo e sulla frequenza sacramentale. Esso era percepito come innovativo anche dal clero locale, che in più di un caso oppose qualche resistenza. In sostanza i missionari, per espletare il proprio compito, avevano di fronte due possibilità diverse: agire attraverso il cuore o la mente degli astanti, cercando vie di coinvolgimento emotivo o quelle dell’insegnamento. In questo caso le missioni erano caratterizzate da grande teatralità, con rappresentazioni, processioni e flagellazioni. Le predicazioni orientate, invece, essenzialmente verso la predicazione pacata e aliena dalla spettacolarità, la catechesi, la sacramentalità tendono a predominare nel XVIII secolo. Portavoce di questa tendenza si fa la Congregazione della Missione, fondata da Vincenzo de Paoli, la quale coniugava l’oratoria con l’attenzione caritativa per le condizioni di vita delle popolazioni. In ogni caso molti dei missionari, per paura che quanto si stava radicando nei territori locali, grazie al loro operato, fosse effimero, stabilirono strette relazioni con il clero della zona, che avrebbe dovuto garantire una certa continuità all’azione intrapresa. L’ECCEZIONE: LA MISTICA. L’espansione mistica tra Cinquecento e Seicento assunse aspetti di grande rilevanza. Si tratta di un fenomeno eccezionale, che peraltro si sviluppò anche presso gente comune, più frequentemente di sesso femminile, e che segnò molti gruppi spirituali. Basti ricordare l’esperienza di Pierre de Bérulle, noto come fondatore dell’Oratorio di Gesù Cristo e Maria Immacolata; l’istituto che era destinato allo sviluppo di una forte spiritualità sacerdotale. L’orientamento spirituale di Bérulle si fonda essenzialmente sull’adesione a Cristo; persegue una contemplazione cristocentrica, che consenta di attingere il mistero trinitario attraverso l’annientamento di sé, presupposto indispensabile per l’irruzione nel divino. All’interno di questo contesto, come per altre esperienze religiose analoghe, frequente era il moltiplicarsi di esperienze mistiche. Anche il quietismo, importante corrente all’interno della chiesa del tempo, è stato considerato quale una delle forme dell’esplosione mistica che caratterizza il XVII secolo. Suo teorizzatore fu lo spagnolo Miguel de Molinos, che a Roma aveva raccolto attorno a sé un considerevole numero di seguaci. Per i quietisti, la perfezione consiste nella passività completa dell’anima, in un atto continuo di contemplazione e di amore. Tale stato di perfezione dispenserebbe l’individuo da qualsiasi altro atto, compresa la resistenza alle tentazioni, poiché nello stato di perfetto riposo davanti a Dio l’uomo sarebbe impeccabile. L’opera di Molinos trovò molti oppositore, infatti erano in tanti a guardare con diffidenza una corrente religiosa che sfuggiva al controllo ecclesiastico e che proclamava la necessità di un abbandono passivo, ponendo in secondo piano le opere e le devozioni. Ma nonostante le numerose opposizioni e le condanne provenienti da Roma, nella cui corrente rilevava il pericolo di un’insistenza eccessiva sull’interiorizzazione religiosa, cui frequenza al sacramento, considerato non tanto finte di vita cristiane più intensa, quanto premio a chi per grazia divina riuscisse a condurre una vita irreprensibile. Ai primi del settecento il giansenismo assunse connotazioni originali. Animatore del nuovo corso giansenista fu soprattutto l’oratore Pasquier Quesnel (1634-1719). In lui vi si avvertiva la rivendicazione di una certa autonomia da Roma della chiesa di Francia, in funzione di un’ecclesiologia antiromana, non mostrava invece sensibilità nei confronti delle tematiche teologiche di Giansenio, che gli rimanevano sostanzialmente estranee. Con la bolla Unigenitus (1713) papa Clemente XI condannò 101 proposizioni estratte dalle Riflessioni morali sul Nuovo testamento di Quesnel. Alcune di esse avevano carattere teologico, parecchie invece toccavano temi disciplinari. Con tale provvedimento il papato mirava a colpire sia le tendenze antiromane e antigerarchiche, sia un certo individualismo religioso e politico, poiché il sovrano di Francia che aveva sollecitato la condanna, vedeva nel giansenismo un pericolo per la stessa compagine statale, poiché attorno ad esso si era andato coagulando il malcontento di quanti erano ostili all’assolutismo monarchico. Quanto al giansenismo italiano, si assistette nel XVIII secolo al fenomeno contrario, mediante l’alleanza stretta con i rappresentanti del potere assoluto. L’ecclesiologia giansenista, intendendo ricondurre la chiesa ad un modello primitivo, era ostile a molte delle forme che la chiesa col tempo era andata assumendo. Veniva negata l’origine divina del potere pontificio e attribuita l’autorità maggiore ai concili; nell’organizzazione ecclesiastica era considerato essenziale il ruolo del clero “di second’ordine”, cioè dei parroci e l’autonomia dei vescovi rispetto al papato. Si trattava di un sistema del tutto contrario all’ecclesiologia gerarchica post-tridentina. Notevole fu la reazione romana contro i giansenisti, pertanto si giunse alla condanna e alla scomunica contro i propugnatori di questo sistema. In particolare, i giansenisti italiani ponevano al centro della propria riflessione la riforma della chiesa, che vagheggiavano sul modello dell’esperienza delle origini cristiane, e la cui possibile realizzazione attribuivano all’opera del sovrano, inteso quale vescovo esterno della chiesa. Soprattutto dalla metà del Settecento il movimento giansenista in Italia si consolidò e assunse una fisionomia compatta, in cui s’affermava la volontà di trasformare l’assetto istituzionale della chiesa mediante l’alleanza con lo stato; ne derivava l’appoggio di molti giansenisti all’attività riformatrice dei sovrani. Nel XVIII secolo il punto più alto del giansenismo italiano è il sinodo di Pistoia e Prato: un sinodo diocesano convocato dal vescovo di Pistoia e Prato Scipione dè Ricci e svoltosi dal 18 al 28 settembre 1786, con la collaborazione di illustri esponenti del giansenismo. Sin dall’inizio risultò chiaro l’orientamento del sinodo che intendeva ispirarsi al modello apostolico, nel quale i decreti erano soggetti all’approvazione del sinodo diocesano, i cui membri erano considerati alla stessa stregua delle più alte gerarchie ecclesiastiche. Si poneva il problema dell’esercizio del potere all’interno della chiesa, con una richiesta di maggiore collegialità e una revisione dello schema gerarchico della chiesa moderna. Per raggiungere un tale scopo, nel sinodo, in contrasto con i decreti tridentini, si volle attribuire al principe competenze che la chiesa aveva rivendicato a sé. Tuttavia le realizzazioni concrete di quanto stabilito furono tuttavia assai limitate negli esiti. Il riformismo ecclesiastico di Scipione dè Ricci e del granduca Pietro Leopoldo venne a cadere, dopo che l’assemblea del 1787 che vide radunati i vescovi della Toscana mostrò un’avversione totale nel voler proseguire su quella linea. Se mentre in Francia continuarono a prevalere le correnti spiritualiste del giansenismo, in Italia il fenomeno venne quasi del tutto sradicato. La bolla Auctorem fidei, pubblicata il 28 agosto 1794 condannò diverse proposizioni contenute nel sinodo toscano, si andava a condannare così una chiesa nazionale, slegata da Roma e subordinata all’autorità politica. IL PAPATO ROMANO. Tra il Sei e Settecento si verificò una certa evoluzione del papato romano. Papa Innocenzo XI, Benedetto Odescalchi, era convinto della necessità di imprimere alla chiesa di Roma un impulso al mutamento sia sotto il profilo morale che sotto quello disciplinare. Prima di accettare l’elezione a pontefice, aveva sottoposto ai cardinali un documento che prospettava un articolato programma di riforma. Esso si fondava sulla fedeltà allo spirito tridentino, con una particolare sensibilità al modello borromaico, nella tensione ad una rigenerazione morale e disciplinare del mondo ecclesiastico. Il pontefice intendeva restituire alla Sede romana la sua funzione, intesa soprattutto in senso spirituale. Avendo preso atto dell’ormai diminuito prestigio politico-diplomatico del papato, evidente a partire dalla pace di Westfalia, la chiesa di Roma non si prefiggeva più di affermare il proprio ruolo nel contesto internazionale, ma mirava in primo luogo a una considerazione dei problemi interni alla chiesa: si apriva una nuova stagione di riformismo disciplinare. Innocenzo XI si mostrò attento anche nel combattere le usurpazioni del potere secolare. Nel conflitto della regalia con Luigi XIV, relativamente al diritto del re di Francia a disporre delle rendite delle diocesi e dei benefici vacanti, Innocenzo XI, prese drastiche posizioni contro il sovrano (anche se su un livello teorico), ed anche se non riuscì a frenare la ripresa del gallicanesimo, rese nulli in punto di morte gli articoli con i quali Luigi XIV aveva fatto sue alcune prerogative sulla chiesa francese. Con Alessandro VIII si assistette ad un temporaneo ritorno al passato, con la restaurazione della pratica nepotistica. Innocenzo XII mostrò invece il faticoso prevalere della linea di rinnovamento della chiesa, all’interno del suo operato va ricordato l’atto formale di liquidazione del nepotismo e l’abolizione della venalità delle cariche. Questo provvedimento comportava una maggiore austerità e, al tempo stesso, un sensibile aumento del potere del pontefice. Nel quadro della svolta pastorale della chiesa tra Sei e Settecento, particolare rilevanza assume il sinodo romano del 1725, voluto da Benedetto XIII Orsini. I temi trattati andavano dalle missioni all’insegnamento della dottrina cristiana, dalla predicazione al funzionamento dei seminari. Con questo sinodo il pontefice intendeva indicare alla chiesa priorità pastorali, attribuendo alle strutture e agli aspetti giuridico-legislativi un ruolo strumentale in rapporto alla cura animarum. Al sinodo partecipò anche il futuro papa Benedetto XIV. Nella sua maggiore opera è evidente il raccordo sia con il Tridentino sia con il sinodo del 1725. Il suo pontificato può essere considerato il più importante di tutto il Settecento. Uno degli aspetti più vivacemente discussi nella tarda età moderna, su cui il pontificato di Benedetto XIV sembrava far intravedere qualche maggiore disponibilità, era quello della tolleranza. Dalla pace di Augusta del 1555 nell’Europa cristiana s’era affermata il principio del cuius regio eius religio, che comportava una sostanziale identità tra appartenenza politica e appartenenza confessionale e la convinzione che all’autorità politica spettasse determinare l’opzione religiosa collettiva. Vi fu il caso in Germania di terre che, col mutare dei principi e delle loro scelte religiose, videro il succedersi alternato di luteranesimo, calvinismo e cattolicesimo nell’arco di pochi decenni. La strada verso l’affermazione della libertà di coscienza, ha il luogo della sua nascita non nella teologia, bensì nel pensiero giuridico-politico. In Austria e in Italia una forte sollecitazione a riflettere sull’argomento venne dalla pubblicazione della Patente di Giuseppe II, del 1781, che riconosceva ai luterani, calvinisti e ortodossi l’uguaglianza di fronte alla legge e la libertà del culto privato. CHIESA E POLITICA NEL SETTECENTO. Nel Settecento, il consolidamento dello stato assoluto prevedeva il contenimento della chiesa all’interno delle varie realtà nazionali. Il tentativo di subordinazione dello spirituale al temporale, pur con diverse fasi, è fenomeno caratteristico dell’età moderna. I sovrani, ostili all’universalità della chiesa, miravano alla creazione di chiese nazionali, assoggettate alla volontà politica e svincolate almeno in parte dai tradizionali legami con la Sede di Roma. Non si trattava di opposizione alla chiesa. Questi sovrani erano e si dichiaravano cattolici, ritenevano di avere ricevuto il proprio potere direttamente da Dio; ma tra gli attribuiti della sovranità collocavano il fatto di costituirsi difensori della chiesa e di poter autonomamente discernere quali fossero le decisioni da prendere anche per quanto riguardava la vita interna della chiesa. (da qui la legittimità dei sovrani nel respingere frequentemente bolle e decreti papali) Roma stessa era in un certo modo condizionata dalle potenze cattoliche, le cui pressioni erano continue, l’influenza dei sovrani cattolici ad esempio si esercitava nell’elezione stessa del pontefice, poiché nel conclave essi godevano del diritto di veto contro il candidato che risultasse loro sgradito. Andava così a rovesciarsi l’antico modello giurisdizionale che prevedeva la preminenza della chiesa sullo stato. Nel quadro dell’assolutismo illuminato, riforma ecclesiastica non significava piena realizzazione dei decreti del concilio di Trento, ma lotta contro il potere della chiesa e la sua struttura, nonché opposizione ai privilegi del clero. Nella difesa della immunità ecclesiastiche un ruolo di primo piano giocava la Congregazione dell’immunità ecclesiastica, fondata da Urbano VIII nel 1626. Le immunità della chiesa sono state raggruppate in tre essenziali categorie: immunità reali, personali e locali. Le prima riguardavano i beni ecclesiastici, che erano esenti da tasse. La progressiva estensione di tali beni, che venivano a comprendere non solo il patrimonio di chiese e case religiose, ma anche di singoli ecclesiastici, rendeva assai difficile l’esenzione. Le immunità relative ai luoghi sacri (immunità locali) consistevano essenzialmente nel diritto d’asilo, che dalla fine del XVI secolo era stato posto sotto l’assoluta competenza del vescovo; il quale non più compreso nella sua funzione di salvaguardia della giustizia, si rivelava ormai incompatibile con i diritti sovrani. Quanto alle immunità personali, esse concernevano l’esenzione degli ecclesiastici dal tribunale civile e la loro soggezione invece al foro ecclesiastico. La chiesa tuttavia non intendeva recedere, in quanto riteneva i privilegi ecclesiastici essenziali per l’esercizio della propria missione; d’altra parte lo stato mirava ad estendere le proprie competenze. Non mancarono quindi i conflitti tra una chiesa intenzionata a difendere i propri privilegi e i sovrani decisi a integrare la chiesa nello stato. La politica concordataria, sviluppata specie nell’età di Benedetto XIV, mostra che la chiesa cercava vie di composizione e di accordo, per cui si andava affermando nel Settecento la volontà di attuare la riforma della chiesa, in un radicale rinnovamento del cattolicesimo romano, per mezzo delle iniziative statuali. Per quanto riguarda il clero tanto secolare quanto regolare, nel XVIII secolo si consolidarono linee di tendenza già manifestatesi dopo il concilio di Trento. Ad essi veniva affidata la cura delle anime, e per questo non era ammissibile alcun tipo di fioca conoscenza tra il clero. Fiorirono congregazioni sacerdotali che si prefiggevano come scopo quello di migliorare la formazione spirituale dei sacerdoti, spesso ancora invischiati in locali intrecci di parentele e di rapporti. Un altro aspetto da non sottovalutare fu l’aumento del numero dei regolari a partire dal XVII secolo, il loro incremento fu anche supportato da una disponibilità economica determinata dal favore dei fedeli, che si esplicava anche in donazioni e lasciti testamentari. La loro potenza provocò, però, qualche allarmata reazione all’interno della chiesa stessa. Alla metà del Seicento fu costituita un’apposita congregazione di curia sullo stato dei regolari e fu avviata un’inchiesta complessiva sugli ordini religiosi maschili, cui conseguì l’emanazione di una bolla da parte di Innocenzo X (1652), che prevedeva la soppressione dei piccoli conventi e monasteri non dotati dei necessari requisiti canonici. Essa rispondeva alle aspettative di molti vescovi, tanto che anche da Germania e Polonia giunsero voci di consenso al provvedimento. Le soppressioni furono numerose; peraltro gli effetti concreti furono assai scarsi e, soprattutto, limitati nel tempo. L’idea di ribaltare la politica della chiesa nelle campagne, sostituendo la tradizionale presenza dei religiosi con un potenziamento delle strutture parrocchiali, era per il momento destinata al fallimento, tanto che tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento vi fu ancora un incremento numerico dei regolari. Nel Seicento in alcuni ordini v’era stata un’opera di rinnovamento legislativo interno, ma vi fu anche la comparsa di nuove fondazioni, all’interno di un quadro sociale in cui tendeva sempre più ad aumentare il discredito verso la categoria dei regolari, accusati di ricchezza, ozio e inutilità, poiché appariva inutile chi consumava il proprio tempo dedicandosi alla contemplazione e chi, a causa del celibato, non contribuiva allo sviluppo demografico della società. Inoltre alcuni ordini erano osteggiati perché inclini a forme devozionali ricche ed emotive, fautori di una religiosità miracolistica in un clima in cui ( agli inizi del settecento) la loro influenza, ad esempio quella dei cappuccini era altamente confermata a livello popolare. Da tale impostazione conseguiva l’ostilità degli stati, alcuni sovrani, come Giuseppe II, imposero drastiche limitazioni e operarono numerose soppressioni. Un caso del tutto singolare è quello della Compagnia di Gesù, che da tempo s’era attirata forti ostilità da parte di un fronte molto variegato, dai sovrani ai giansenisti, dagli illuministi a molti uomini di chiesa. Ai timori dei crescenti assolutismi statali nei confronti di una potenza che poteva apparire egemonica ( ad esempio con il quasi monopolio sull’istruzione) e al discredito gettato sui gesuiti da un’opinione pubblica elitaria ma influente,(nel primo settecento i gesuiti erano diventati l’organizzazione più ricca e influente del mondo. Essi infatti accumularono col tempo una grande quantità di ricchezza) si accompagnava il consolidamento dell’antigesuitismo all’interno della chiesa e l’emergere delle correnti gianseniste. Uno dei
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