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Dilemma digitale: conservazione e valorizzazione del patrimonio cinematografico, Tesine universitarie di Storia E Critica Del Cinema

Il dilemma che la rivoluzione digitale ha portato alla conservazione e al restauro del cinema. Esplorato il problema della mancanza di linee guida ufficiali e la pratica di sacrificare la qualità per contenere i costi, il testo discute anche l'evoluzione del restauro digitale e le implicazioni sulla manipolazione infinita e l'immaterialità del cinema. Il documento include anche una storia del restauro e una discussione sul ruolo della comunità scientifica e della FIAF.

Tipologia: Tesine universitarie

2019/2020

Caricato il 20/12/2022

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4.3

(3)

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Scarica Dilemma digitale: conservazione e valorizzazione del patrimonio cinematografico e più Tesine universitarie in PDF di Storia E Critica Del Cinema solo su Docsity! Tesina per il corso di Preservazione e valorizzazione del patrimonio cinematografico, 2020-2021 “Il dilemma digitale” Come la rivoluzione tecnologica mette in discussione (e in crisi) restauro e conservazione del film Il restauro del film da sempre soffre di una mancanza di linee guida specifiche e ufficiali che spesso ha portato a confusione e mal pratiche. L’alta dose di soggettività richiesta dal processo e il bisogno di adattarsi alla continua evoluzione della tecnologia non hanno aiutato. Una definizione di restauro cinematografico che userei per iniziare è quella di Paul Read e Mark- Paul Meyer, i quali affermano che esso consista nelle procedure tecniche, editoriali e intellettuali tese a compensare la perdita o il degrado degli artefatti filmici, portandoli ad una condizione il più possibile vicina a quella originaria, mantenendone il più possibile il formato originale. Il restauro digitale è invece definito aggiungendo a questa affermazione il trasferimento dell’immagine ad un formato digitale per manipolarla e modificarla prima di registrarla nuovamente su un medium di visualizzazione. La caratteristica della riproducibilità, che fa da base alla pratica di restauro, ha sempre fatto parte del cinema. Sin dall’inizio era comune usare il negativo camera (ovvero il negativo che scorreva in macchina durante le riprese) per stampare più positivi in modo da sopperire alle alte richieste o all’usura delle copie già in circolo. Il negativo camera, però, era molto sensibile e tendeva facilmente a danneggiarsi, con frequenti perdite di inquadrature che andavano sistemate rimontando scene, tagliando sequenze intere, aggiungendo didascalie esplicative o addirittura attingendo ad immagini prese da altri film. I limiti della tecnologia, insomma, innescavano già dei meccanismi che possiamo quasi definire di proto-restauro. Negli anni Venti per la prima volta diventa possibile ricavare da una copia positiva un nuovo negativo e così via senza perdere troppa qualità dell’immagine. Boleslaw Matuszewski, fotografo e operatore polacco, già nel 1898 auspicava la creazione di un archivio del film che lo conservasse visto il suo alto potenziale di documentazione storica. Mentre nel 1914 in Italia Lucio D’Ambra auspicava la creazione di un “un museo dell’attimo fuggente”, un museo del cinema. I primi tentativi di creare una cineteca erano già partiti il 16 agosto 1893 con la deposizione da parte di W.K.L. Dickinson di alcuni Edison Kinetoscopic Records all’ufficio del copyright della Library of Congress per la protezione dei diritti intellettuali. Una spinta all’evoluzione della conservazione e del restauro arrivò con l’avvento del sonoro, quando tutte le pellicole prodotte precedentemente in muto vennero immediatamente considerate inutili dal punto di vista commerciale, quindi sacrificabili e mandate direttamente al macero. Si tratta di una delle cosiddette “ere della distruzione” individuate da Raymond Borde. La prima individuata fu già alla fine della Prima Guerra Mondiale quando “si modificano le strutture linguistiche della narrazione cinematografica e al tempo stesso mutano i rapporti di forza nel mercato internazionale, i Paesi produttori e il consolidamento delle pratiche fruitive, tra cui la durata media di un film.” Paolo Cherchi Usai afferma provocatoriamente che il cinema è “l’arte di distruzione dell’immagine in movimento”: “Senza le immagini di drammi, avventure, commedie ed eventi umani e naturali impresse su pellicola non ci sarebbe cinema; non vi sarebbe materia per una storia del cinema; la filmologia non avrebbe oggetto. Esisterebbero tutt’al più immagini fisse (fotografia) o incomplete (video). L’immagine elettronica lo conferma: una civiltà in preda all’incubo della memoria visiva non ha più bisogno del cinema. Il cinema è l’arte della distruzione delle immagini in movimento.” Tornando all’era della distruzione creata dal passaggio al sonoro possiamo dire che si trattò di un vero e proprio disastro per la conservazione del cinema, dalle quali macerie però nacquero fenomeni positivi come le prime vere cineteche, risultato di una forte reazione a ciò che stava succedendo. Nel 1933 in Francia viene istituita la Cinematheque Nationale, che però dopo l’inaugurazione viene lasciata a se stessa. Nel 1933 in Svezia con lo Svenska Filfundet invece abbiamo la vera prima cineteca nel senso corrente del termine, la quale diventerà presto molto efficiente. Questa reazione poi portò nel 1938 alla fondazione della FIAF (Fédération Internationale des Archives du Film), di lì a poco diventata il punto di riferimento internazionale nel campo del patrimonio cinematografico, riunendo le principali istituzioni mondiali, che oggi sono ben 150 dislocate in 77 paesi. Gli obbiettivi che si porrà sono stabilire un codice etico per la conservazione di film e standard tecnico-pratici, promuovere la creazione di archivi audiovisivi e migliorare il contesto giuridico entro il quale lavorano, promuovere la cultura cinematografica e facilitare la ricerca storica sia a livello nazionale che internazionale “per garantire la disponibilità internazionale di film e documenti”. Qui con l’intervento del digital intermediate le strade per il restauro fotochimico, quindi analogico, e quello digitale, si dividono: - per il restauro fotochimico: stampa, sviluppo, eventuale lavoro editoriale nel montaggio del negativo, stampa della copia 0, verifica, stampa delle copie da proiezione; - nel restauro digitale: scansione degli elementi di partenza, eventuale restauro digitale dell’immagine e del suono, color correction, eventuale lavoro editoriale sul file, produzione di una copia digitale di proiezione, film recording (ritorno su pellicola); Entrambi poi si concludono con la stesura e la diffusione della relazione di restauro. Ciò che fa il restauro digitale è trasformare la copia analogica in una serie di file scansionando ogni singolo fotogramma, ognuno dei quali corrisponde ad un file, in modo da poter poi intervenire sull’immagine con software specifici. I software più usati nel campo del restauro sono Correct DRS (Digital Restoration System) prodotto dalla MTI, Revival prodotto da Da Vinci e Diamant di Hs- Art. La qualità può variare da quella standard del 2K,a quella più alta del 4K. La prima nonostante l’alta definizione è ritenuta comunque di una qualità inferiore a quella della pellicola 35 mm, mentre la seconda vi si avvicina. La velocità del processo di scannerizzazione varia ed è uno degli elementi che determinano tempi e soprattutto costi del processo di restauro. Ad esempio film più danneggiati hanno bisogno di più tempo per evitare di essere sottoposti a sforzi eccessivi, mentre scanner diversi determinano tempi e costi diversi. Un'altra questione rilevante in questa fase riguarda l’adeguamento del rapporto d’aspetto (aspect ratio), richiedendo spesso o il taglio di una parte del fotogramma eccedente o l’inserimento di un mascherino che riempia con due bande nere le parti necessarie per adattare al formato televisivo. Dopo lo scan, come detto, si passa alla fase di digital restoration, ovvero di manipolazione dell’immagine tramite specifici software che permettono di intervenire in modo molto efficace. Qui il digitale risulta molto utile nella correzione di difetti e errori, molti dei quali non sarebbero risolvibili nel processo analogico. I più comuni sono la rimozione di sporco e graffi sull’emulsione, la correzione degli sbalzi di luce (deflickering), simulazione della messa a fuoco, ma più fondamentalmente la ricostruzione dell’immagine. È possibile intervenire anche sull’instabilità dell’immagine, che può rendersi fastidiosa nella fase di visione, ma tenendo conto però della sua dimensione legata alla storicità del film. Una delle semplificazioni maggiori che offre il digitale è la possibilità di lavorare su più di un fotogramma in contemporanea invece di dover per forza lavorare su un fotogramma alla volta come nell’analogico. Molto più facile è operare nel caso di perdita di una parte dell’immagine per graffi nell’emulsione sostituendo la parte mancante, se manca un pixel è possibile di riempire il “buco” prendendo le informazioni del colore da un pixel adiacente, o vicino se non si vuole rischiare la troppa piattezza della superficie. Anche una tecnica che di solito associamo ai grandi blockbuster come il compositing (o composizione grafica), la quale combina scene di girato con immagini parzialmente o interamente generate con software di grafica 3D, viene messa al servizio dell’integrazione delle lacune con risultati strepitosi. Poi abbiamo la color correction attraverso la quale si opera sul bilanciamento dei colori, contrasto e saturazione. Sta al restauratore ed al colorist in queste due delicatissime fasi usare questi utili strumenti per trattare i difetti evitando di creare un’immagine finale piatta, snaturata, non verosimile, evitando di abusare dei meccanismi automatici offerti dai software e cercando invece di mantenere la dimensione manuale dell’intervento. È benaugurato che il lavoro non sia affrontato solo con lo scopo di ottenere il migliore risultato possibile, ma tenendo sempre in mente l’obbiettivo di riprodurre l’estetica e i colori del passato, se possibile facendo riferimento a copie positive d’epoca, in mancanza delle quali la via maestra dovrebbe essere sempre quella di intervenire il meno possibile oltre alla correzione dei difetti. Come nell’analogico, la colonna sonora viene trattata a parte. Solo che in questo caso essa viene digitalizzata permettendo di isolare e lavorare solo su parti di essa laddove nell’analogico è possibile solo individuare l’intera colonna sonora. Essa sulla pellicola, nei casi più comuni, è stampata su piste a lato dell’immagine, oppure su nastri magnetici poi applicati sulla pellicola. Anche questa parte può presentare danni, graffi o rotture che portano stacchi o fruscii, ma i suoi problemi sono anche spesso legati alla cattiva registrazione causata dalla tecnologia limitata. Il procedimento rispecchia quello dedicato all’immagine, il segnale elettrico prodotto dal sistema di lettura del suono analogico viene convertito in un file per essere modificato tramite software in grado di individuare le anomalie come scricchiolii e fruscii per intervenirvi, ridurre rumori di fondo o ricostruire brevi passaggi di audio danneggiati tramite processi automatici. L’iter di restauro digitale si conclude con il ritorno in pellicola, o film recording. Il passaggio consiste nel trasferire le immagini lavorate digitalmente su una pellicola 35 mm. La pellicola, infatti, rimane il supporto prediletto per la conservazione, vero obbiettivo del restauro delle immagini in movimento. I motivi, come evidenziati da Stella Dagna che cita a sua volta il sito della Kodak, sono principalmente tre: 1. Ha una vita archivistica comprovata di più di 100 anni; 2. È compatibile con sistemi di lettura del passato; 3. È il supporto d’archivio più economico; Sembra strano ma è vero, i supporti digitali sono considerati meno resistenti dal punto di vista archivistico rispetto alla pellicola. Il rapido sviluppo delle tecnologie spesso porta velocemente verso l’obsolescenza determinate pratiche, esse vengono infatti continuamente sostituite e fatte sparire, non è ritenuto facilmente prevedibile se in futuro per ogni tecnologia attuale esisteranno supporti in grado di leggerla e decodificarla correttamente. Basti pensare a come supporti come VHS e floppy disk siano stati facilmente rimpiazzati relativamente dopo poco tempo per capire che non è assicurato che il turn over dei formati professionali digitali sia così facile da gestire. La compatibilità della pellicola con i sistemi del passato invece è ben comprovata. La soluzione proposta a questo problema è la cosiddetta “migrazione perenne”, il procedimento che prevedrebbe lo spostamento periodico su nuovi supporti digitali di tutta la collezione, ad esempio, di un archivio. Questo con una frequenza che potrebbe andare dai tre ai cinque anni. È immediatamente ovvio che tutto ciò comporterebbe una grande quantità di lavoro che richiede un alto livello di formazione del personale, e più fondamentalmente una insostenibilità dei costi per gli archivi che già operano con budget molto limitati, soprattutto se messa in comparazione con i costi richiesti per lo stoccaggio delle pellicole. Non meno importante è tenero conto dal punto di vista identitario che la struttura fisica della pellicola permette di mantenere viva quella che era la forma del film originale. Questo se si segue un’idea di restauro che abbia fra i suoi principi la tutela della forma materiale e del metodo di visione originale conservando la “patina del tempo”. considerata e rispettata l’espressione culturale rappresentata dall’oggetto fisico al centro dell’intervento. In questo la Carta probabilmente si rifà alla concezione espressa da Cesare Brandi: “Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della trasmissione al futuro”. La trasmissione al futuro va conseguita tenendo sempre in considerazione la doppia natura dell’espressione culturale del film: quella di opera d’arte e quella di documento storico. Sarà quindi una sfida per il futuro del restauro cercare di rimettere l’accento sulla consistenza fisica del film, ovvero il suo essere documento storico. La proiezione è il metodo di visione prediletto per i film restaurati. In primis ci sono i festival che spesso offrono anche spazi di approfondimento relativi al lavoro di restauro, presentando il film in anteprima. Cannes dal 2004 prevede la sezione Cannes Classic, mentre anche alla Mostra Cinematografica del Cinema di Venezia ormai è prassi presentare restauri in anteprima. Invece dedicati completamente al cinema restaurato in Italia abbiamo ad esempio le Giornate del Cinema di Pordenone (dal 1982) e Il Cinema Ritrovato di Bologna (dal 1986). Il ciclo di vita sullo schermo dei film restaurati poi continua con la proiezione nella sale delle cineteche, ma proiezioni possono essere fatte anche da qualunque associazione richieda il film per determinate rassegne od iniziative culturali. A questo punto abbiamo quelle forme di visione che potremmo considerare meno fedeli a quella che era la concezione originale per il film: programmazione televisiva, home video e streaming. Essi rappresentano una sfida per la comunità di archivisti e restauratori, rappresentando una opportunità in più per la diffusione dei lavori di restauro, ma dal punto di vista culturale e storico è spesso ritenuto che concedere troppo la fruizione attraverso questi mezzi significhi non tutelare il cinema nella sua forma suprema, quasi andando a tradirlo. La forma che ci interessa di più per analizzare il futuro del restauro è lo streaming. Sono molte negli ultimi anni le cineteche ad aver aperto piattaforme di condivisione video online per il loro archivio, da quelle europee Europeana e European Film Gateway, a quelle italiane come l’Istituto Luce, il Museo Nazionale del Cinema di Torino o la Cineteca del Friuli. La resistenza ad usare queste piattaforme è, comunque, comprensibile. Gli addetti ai lavori possono dire che esse non rappresentino la migliore fruizione possibile e che non risaltino il lavoro di restauro, offrendo una qualità ampiamente inferiore a quella del film proiettato in sala e rendendo il lavoro di restauro invano. Altro problema è il rischio di abituare il pubblico a questo tipo di fruizione, rischiando di fargli perdere del tutto il legame con le sale cinematografiche e con l’aspetto storico e fisico del cinema, cosa che sta già accadendo e che è stata solo evidenziata dalla pandemia da Covid-19. Già i pessimisti prevedono che presto le sale cinematografiche spariranno, la comunità del restauro su questo fronte deve impegnarsi in modo particolare visto il legame simbiotico che hanno i suoi prodotti con la materialità, rispetto ai film in prima visione. Va detto che spesso lo streaming viene in soccorso di tutta una parte del cinema restaurato non propriamente mainstream, di nicchia, che probabilmente nelle sale attirerebbe ben pochi rendendo impossibili le proiezioni, grazie allo streaming tutto questo mondo riesce a raggiungere il suo pubblico in modo facile. Archivi e cineteche però non adempierebbero in totale ai loro obbiettivi se si limitassero a diffondere sul web i loro lavori. Gli addetti devono lavorare alla sensibilizzazione del pubblico, evidenziando il fatto che questo tipo di visione dei riversamenti sul web non sia conforme a quella originariamente pensata per il film, imporre degli standard assicurandosi che la visione sul web sia la migliore possibile a livello di qualità e rendendo anche questa esperienza il più possibile informativa sulla storia del film e della sua storia materiale. Il tutto promovendo fin a quando è possibile la superiorità dall’esperienza visiva in sala fatta con la pellicola. La comunità del restauro di oggi si trova a dover bilanciare un sacco di fattori. Non è facile stare al passo coi tempi senza perdere il legame con il passato, innovare il restauro e soddisfare il pubblico moderno allo stesso tempo fruendo un’esperienza di visione il più possibile vicina a quella del film originale. La comunità nei prossimi anni deve parlarsi, decidere in modo unito, progettare a lungo termine sul da farsi e sviluppare una visione del futuro del restauro che sia condivisa, cose che raramente è riuscita a fare. In qualunque caso: non buttiamo la pellicola. Bibliografia - S.Dagna, Perché restaurare i film?, ETS, Pisa, 2014 - R. Catanese, Lacune Binarie: il restauro del film e le tecnologie digitali, Bulzioni Editore, Roma, 2013 - P. Cerchi Usai, La Cineteca di Babele, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, 2001
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