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Il Fascismo di Pietra, Emilio Gentile (riassunto), Dispense di Storia Contemporanea

Ho descritto sinteticamente e analiticamente tutti i passaggi dell'opera di Gentile, sottolineandone gli aspetti focali, senza tralasciare alcun elemento.

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 23/07/2021

EvaMuci_
EvaMuci_ 🇮🇹

4.6

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Scarica Il Fascismo di Pietra, Emilio Gentile (riassunto) e più Dispense in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! IL FASCISMO DI PIETRA (EMILIO GENTILE, 2007) PROLOGO: Il fascismo di pietra è l’impronta indelebile lasciata dal fascismo su tutto il suolo italiano, e conseguentemente una concezione dell’uomo, ispirata alla figura del legionario romano, che si pretendeva rendere universale. Roma e Impero sono le due parole-pietra o parole-mito che ricorrono frequentemente nella retorica fascista. Questo elemento è degno di nota poiché, secondo alcuni storici, lo Stato totalitario è il regno della parola, una parola costruita artificialmente dal fascismo nel vuoto, un vuoto ideologico compensato dal ricorrere di motti e parole d’ordine altisonanti. Le parole possono essere pietre, e in quanto tali possono demolire o costruire, difendere o lapidare. Roma è lo scenario dove il fascismo di pietra realizza, con maggiore efficacia ed originalità, la rappresentazione dei miti fascisti in ogni realtà visibile della città, e obiettivo di Emilio Gentile è quello di svelare mano a mano il connubio che ha legato Roma e Fascismo, adottando come criterio d’analisi una distinzione nell’atteggiamento del fascismo verso la Roma reale, la Roma antica e la successiva Roma Imperiale, intesa come progetto embrionale di una via verso l’impero che si sarebbe dovuta diffondere in tutta Italia. La narrazione è condita dagli interventi degli stessi protagonisti della storia, del duce, dei suoi collaboratori e architetti, ma anche di testimoni contemporanei, fascisti e antifascisti, scrittori e giornalisti, che presero parte a questa costruzione. (+ ha attinto dalla Biblioteca della Camera dei Deputati). PORCA ROMA: 1 fascisti che il 28 ottobre si accingevano a marciare sulla Roma reale, provavano verso di essa un profondo disprezzo, e nel novembre del 1921, in occasione del terzo congresso dei fasci di combattimento sulla decisione se trasformare il movimento in partito, si trovarono di fronte a un ambiente “freddo e nemico”, soprattutto nella zona di San Lorenzo, dove avevano preso piede gli antifascisti proletari “Arditi del Popolo”. La decisione di far convergere a Roma squadristi da tutta Italia era una sfida lanciata, alla quale Roma rispose con il boicottaggio dell’evento e la proclamazione di uno sciopero (biennio rosso) che tuttavia non arrestò le fila squadriste che si riversarono nelle strade al canto di “me ne frego: me ne frego di morir, me ne frego di Giolitti e del sol dell’avvenir, me ne frego del Questore, del Prefetto e anche del Re”. Roma era città difficilissima, in balia di varie forze (fascista, cattolica, alto borghese romana) che intendevano autoelevarsi a statuto di avanguardia militante della nazione (la stessa cerimonia del 4 novembre 1921 per il milite ignoto mostrò quanto Roma fosse patriottica, senza essere fascista). “Di fascismo in Roma non c’era neppure a parlarne” come scrisse uno dei più illustri fascisti romani, Giuseppe Bottai. Per gli squadristi, Roma e i romani rappresentavano la quintessenza della vecchia Italia indolente, vecchia, corrotta e pavida, che necessitava di essere superata dalla Nuova Roma, sorta dall'impegno e dalla gloria della Prima Guerra Mondiale: si trattava quindi di uno scontro simbolico tra due nazioni, due Italie incompatibili, fra nazione e antinazione, fra gli italiani degni del loro nome e gli italiani indegni; e le parole di un giovane squadrista toscano vengono riprese da Gentile nel titolo: “Porca città veramente, questa Roma, fiacca, inerte, senza midollo, vile”. In ogni caso, nonostante le grandi celebrazioni propagandistiche che accompagnarono il terzo congresso, la popolazione romana si rivelò molto ostile, e Gentile riporta le parole di un deputato cattolico Egilberto Martire:” So’ venuti a Roma con le bandiere col teschio da morto e la scritta me ne frego; e i romani hanno risposto:” Ce ne fregamo tanto noi!”. Fu oggetto di molte discussioni l’ipotesi di convertire il movimento in partito, e già questo termine evocava nelle menti dei fascisti, la corruzione e il Parlamento, nonostante questo l’istituzionalizzazione fu portata avanti e nel 1921 nacque il PNF, il primo partito milizia, concepito e organizzato come una forza di combattimento e che adottava la lotta armata come strumento politico. Si discusse anche sul centro del partito, che sarebbe divenuto Roma, a discapito della capitale lombarda dove comunque Mussolini continuò ad operare. La Roma pre-fascista era una città mista, alta nobiltà, clericali, contadini, bottegai, braccianti e una ampia quantità di stranieri circolavano in Roma, (che ha sempre avuto la caratteristica di “un albergo di passaggio dal quale osservare il mondo”), e urbanisticamente era una città dove si era costruito, come nel caso del Monumento a Vittorio Emanuele II, ma era una città dominata da un lato dai ruderi (residui morti di una gloria antica) e caos architettonico: case fatiscenti, infiltrazioni d’acqua, assenza di servizi igienici, muffe, topi e altri animali.. questa era la realtà dei quartieri popolari della città, tra cui il Trastevere, che non era borghese, ma era anche la Roma della febbre edilizia, dei quartieri piemontesi e della nuova classe impiegatizia. MUSSOLINI ANTIROMANO: Secondo Mussolini, Roma era una città vecchia e stanca, e dominata dall’edonismo, che le impediva di essere permeata dal culto mussoliniano dell’intervento e della guerra, e che con i suoi caffè e i suoi spettacolini era sempre alla ricerca del divertimento e dello svago. Queste sono le parole del giovane Mussolini nel 1910, allora uno sconosciuto rivoluzionario socialista vicino al giornale fiorentino “La Voce”: “Roma è una città parassitaria di affittacamere, lustrascarpe, di prostitute, di preti e burocrati, Roma è una città senza proletariato degno di questo nome, non è il centro della politica nazionale, ma sebbene è il centro e il focolare di un’infezione della vita politica nazionale. I grandi giornali nazionali non si pubblicano nella capitale politica, ma nella capitale morale, che è Milano. Basta dunque con lo stupido pregiudizio unitario per cui tutto, tutto deve essere concentrato a Roma — in questa enorme città vampiro che succhia il miglior sangue della Nazione.” In realtà, l’avversione di Mussolini verso Roma preesiste rispetto al fascismo, e questo atteggiamento sprezzante affonda le sue radici in una tradizione antiromana che si era formata già nel Risorgimento. Già al momento dell’unificazione si dibatteva tra patrioti cercando quale fosse la città più idonea a divenire Capitale, e dopo Torino e Firenze si decise per Roma ma con molte critiche, come quelle che favorivano a Roma, la città della modernità e dell’avanzamento, ovvero Milano; ma anche Massimo d’Azeglio, che disconosceva come proprie sia la Roma dei Cesari che quella dei Papi. Questo odio antiromano era caratteristico delle giovani avanguardie, e le aggettivazioni di disprezzo provengono ad esempio da Filippo Tomaso Marinetti che si scagliava contro il passatismo di Roma, contro invece quelle città come Milano e Genova che focosamente si avviavano verso il loro futuro di gloria; perciò l’immagine era quella di una Roma che rappresenta il pensiero e il simbolo eterno di quel passatismo ed archeologismo storico, letterario e politico, che ha sempre annacquato e acciaccato la vita più originale d’Italia. Anche illustri voci della letteratura come Giosuè Carducci o Gabriele d’ Annunzio si commuovevano e si inorgoglivano pensando al passato glorioso di Roma, invocando i nuovi italiani a passare sopra la linea già tracciata dai loro predecessori; ma anche ne Il Fu Mattia Pascal di Pirandello, l’albergatore chiede allo pseudonimo Meis perchè abiti a Roma, che è una città triste, o meglio, è una città morta. Morta perché una città che ha avuto il passato storico di Roma non può mai divenire moderna, cioè una città come un’altra, ma ha il cuore spezzato rivolto alle spalle del Campidoglio. NUOVA ROMANITA': Mussolini all’inizio della Grande Guerra, abbandonò il socialismo per convertirsi all’interventismo e quindi al mito di Roma e a quella che viene definità una “nuova romanità.” Dopo che Mussolini ebbe lasciato 1’ Avanti e aperto “Il Popolo d’Italia”, e quindi fascismo lo “impugna eroicamente” rendendolo simbolo di autorità, disciplina e gerarchia. Questa nuova romanità fascista divenne il modello per costruire la nuova italianità fascista, e Roma e Italia divengono simbolicamente emblemi della celebrazione del passato, della polemica contro il presente, della visione del futuro. Dall’ascesa del potere di Mussolini, cessarono di esistere tracce del disprezzo antiromano, che anzi, fu bandito dal regime e furono portati avanti discorsi propagandistici a difesa della città di Roma nella rivista del governatorato romano “Capitolium”, dove lo stesso Mussolini scrive:” Roma è oggi altissima nella nuova coscienza della patria vittoriosa, è ora di farla finita con i municipalismi, e la Roma fascista lavora, non è la capitale di un piccolo popolo di antiquari, ma si vantano una somma sempre più importante di traffici, un compito sempre maggiore di energie”. Quindi dopo essersi giovato del mito di Roma per la legittimazione storica e ideologica del fascismo, egli se ne serve per contrastare l’antiromanità diffusa nelle frange dei ras provinciali, che pretendevano di essere rappresentanti del vero fascismo rivoluzionario, peggiorato dallo stretto legame tra Duce e Roma. Quando gli fu conferita la cittadinanza romana, Mussolini esplicitò tacitamente i suoi progetti di Roma, distinti tra i problemi della necessità (che derivano dallo sviluppo della città, nel binomio fondamentale case e comunicazioni) e i problemi della grandezza per i quali la soluzione sarebbe stata la demolizione delle deturpazioni mediocri del medioevo e del rinascimento, per far rinascere la vera Roma monumentale. E il 31 dicembre 1925 il duce diede al governatore di Roma le direttive ufficiali:” Le mie idee sono chiare, i miei ordini precisi, tra cinque anni Roma dovrà apparire meravigliosa agli occhi delle genti del mondo, e la riporteremo allo splendore del regno di Augusto. I monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine. Roma si dilaterà sopra alti colli lungo le rive del fiume sacro, sino alle spiagge del Tevere.” E anche nelle parole di Ugo Ojetti, critico d’arte vicino al regime, si legge come tutto vibrasse di una nuova energia grazie all’opera di questo “romaniolo” che ama la sua città d'adozione. Mussolini provava grande avversione verso i quartieri pittoreschi che con il loro “colore locale” attiravano turisti da tutto il mondo, e che rendevano Roma una città dell’industria del forestiero che faceva apparire gli italiani come un popolo di albergatori e cantastorie che in maniera umiliante si prostravano al prestigio portato dagli stranieri, e scrive:” Tutto il pittoresco sudicio è affidato a Sua Maestà il piccone e tutto questo pittoresco è destinato a crollare e deve crollare in nome della decenza, dell’igiene e, se volete, anche della bellezza della capitale”. Il piccone diviene simbolo della furia devastatrice di cui il Duce intendeva essere pieno protagonista. Già dalla marcia su Roma iniziano le distruzioni, come quelle del 1924 sull’accumulo di case attorno al Foro di Traiano, e ancora il primo colpo di piccone del Duce per la restaurazione del Teatro di Marcello e la nuova zona archeologica che collega Piazza Venezia al Colosseo fu inaugurata il 21 aprile 1929, mentre la Via del Mare fu inaugurata nell’ ottobre dell’anno successivo, nell’obiettivo di ricongiungere Roma al mare, nell’ottica di un nuovo spirito imperiale e di espansione dei cittadini. Il 28 ottobre 1931 iniziano i lavori di costruzione della strada che avrebbe collegato Piazza Venezia al Colosseo, inizialmente chiamata Via dei monti, poi ribattezzata Via dell’Impero, e i lavori furono frenetici per raggiungere l’inaugurazione prima del decennale della rivoluzione fascista. In questa demolizione case, chiese e palazzi furono sacrificati per l’opera mussoliniana, e fra le vittime del sacrificio edilizio anche tanti palazzi medievali e rinascimentali, tra cui la casa di Michelangelo. Pur valorizzandone lo scopo, furono molte le voci di dissenso anche da parte di stessi fascisti, che vedevano cancellare le tracce di una Roma per la quale avevano nutrito sincero affetto “Le case atterrate sembrano comunicare, con le loro sembianze di disastro, la coscienza d’intimi drammi non rivelati”. Le persone sfrattate vennero trasferite in alberghi nuovi nel quartiere di Garbatella o andarono a popolare le neonate borgate fasciste. L’opera di mussolini intendeva concretizzare la volontà di potenza per Roma, e poco si curava del valore storico, affettivo e culturale delle zone che andavano distrutte, e non venivano risparmiate neanche zone monumentali risalenti all’antica Roma, se esse si fossero interposte nei programmi di demolizione- costruzione di Mussolini (come nel caso dell’unica casa popolare medievale nei pressi del Teatro di Marcello, poi andata distrutta). La concezione mussoliniana della storia era di volerla rendere arsenale di miti per l’azione, sulla scia del pensiero di Nietzsche, per una storia che dovrebbe essere quanto più monumentale e “impossessarsi del passato senza curarsi del danno che gli procura e fasi del processo storico rimangono un ininterrotto flusso di niente”. Alla vigilia del decennale della Rivoluzione Fascista la Roma che i turisti e i romani avevano conosciuto, era irrimediabilmente cambiata. ROMA MUSSOLINEA: La Via dell’Impero fu inaugurata il 28 ottobre 1932, durante le celebrazioni del primo decennale dalla rivoluzione fascista, accompagnata da una serie di parate e sfilate con il Duce in testa; “la Via dell’Impero è una strada viva, agitata e piena di traffico, che collega i due nuclei fondamentali tra Colosseo e Palazzo Venezia e dove vita e storia si innestano allegramente nelle forme più disparate. Questo è il regno delle idee chiari, semplici, eterne.” Via dell'Impero è l’opera urbanistica più spettacolare del regime nel suo primo decennale e fu anche il luogo principale di parate e sfilate delle organizzazioni del Pnf. La trasformazione di Roma avviene contemporaneamente all’avvento del totalitarismo, all’eliminazione dei partiti, il Gran Consiglio che diventa principale organo costituzionale nel 1929 e l’adozione del littorio in ogni edificio pubblico come stemma di Stato; ma anche la fascistizzazione del calendario, adottata per la prima volta nel 1927 e che contava gli anni a partire dal 1922 e adottava una serie di giornate festive (23 marzo, 30 ottobre, 21 aprile e anche 5 maggio con la conquista d’Etiopia.) e il centro della liturgia di massa sarà proprio Roma, con il suo “centro sacro” che non sarà più il Quirinale dove risiedeva il Re, bensì Palazzo Venezia, sfondo dei più iconici discorsi del Duce. Comunque, era dai tempi dei pontefici che avevano modificato radicalmente la città (Leone X e Sisto V) che non si radunavano a Roma tanti artisti e architetti dediti a trasformazioni altrettanto grandiose, ben consci del valore politico del loro operato artistico. Il “fascismo di pietra” è quindi il risultato eclettico di un sincretismo artistico espresso dalle varie voci stilistiche che differentemente intendevano la romanità fascista (come il classicismo di Piacentini e il desiderio modernista degli altri). Una delle manifestazioni di questa collaborazione è la costruzione della Città Universitaria, dallo stile unitario, è classico esempio del fascismo di pietra; oltre al fondamentale Foro Mussolini, situato a nord tra il Tevere e Monte Mario (attualmente Foro Italico), costruito su iniziativa dell’ONP (opera nazionale balilla) con chiari intenti sportivi ed educativi, grazie all’operato di Enrico del Debbio che ha progettato le case dei balilla; i colori rosso mattone pompeiano e le rifiniture bianco marmoreo sono in pieno stile fascista, e anche la composizione dello Stadio dei Marmi, con sessanta statue marmoree antiche, vicino allo Stadio dei Cipressi, attualmente Stadio Olimpico. Nell’ampio piazzale antistante, si erge il monolite di marmo di Carrara con iscritto “Mussolini Dux” che sarebbe dovuto essere un monito e modello per le future generazioni verso l’italica gloria. Tra il 1933 e 1935 viene costruita la Fontana della Sfera con fasci littori e scritte “onb” e “duce” e ancora nel 1936 abbiamo l’inaugurazione della Casa delle Armi, centro monumentale della Roma Mussolinea; in più abbiamo anche la costruzione, nei pressi del Campidoglio, di un monumento funebre marmoreo e rettangolare, commemorativo dei defunti fascisti durante la rivoluzione. Il Foro Mussolini è stata la prima e coerente concretizzazione dei disegni del Duce per Roma e della fusione tra lo stile antico e classicheggiante e quello monolitico modernista. La triade Palazzo Venezia-Via dell’Impero-Foro Mussolini costituisce il centro della celebrazione collettiva del culto del littorio, e quindi il centro della monumentalità religiosa fascista. In questa fase si scrive su vari giornali:” Roma è un cantiere, ed è giovane: nasce ogni giorno e ha sempre voglia di fare.” Nel 1936 Roma era diventata la città più popolosa d’Italia, con quasi 2 milioni di abitanti, una crescita demografica fisiologica secondo il Duce, che andava di pari passo alla modernizzazione della città, ma che allo stesso tempo creava dei “problemi della necessità” e richiesero degli interventi in campo edilizio, sociale, assistenziale con la costruzione di case, ospedali, scuole e organizzazioni del Pnf (come l’organizzazione del dopolavoro o quella delle giovanili del partito). Ma anche alti tassi di immigrazione nella città, circa 800mila persone si trasferiscono nella Capitale negli anni del regime, sia operai, artigiani e addetti alle costruzioni entusiasmati dalla febbre edilizia, ma anche burocrati, militari ed intellettuali; ma anche le migrazioni interne di romani che dovettero spostarsi dal centro verso la periferia, sia per le distruzioni del centro, sia per il rincaro dei prezzi delle abitazioni. Ma sicuramente furono i “problemi della grandezza” ad essere di fondamentale importanza per Mussolini, e Roma doveva crescere sempre di più ed espandersi, tale da consacrarsi Città Eterna e metropoli del Regno. La monumentalità del “fascismo di pietra” dominava ormai nettamente, e definitivamente, nella fisionomia della Capitale. SUI COLLI FATALI: La sera del 9 maggio 1936 Mussolini si affaccia da Palazzo Venezia e, acclamato da una folla festante che si estendeva fino a Via del Corso, e fino a Largo Argentina e annuncia:” L’italia ha finalmente il suo impero. L’Etiopia è italiana. In questa certezza, voi cittadini legionari, levate in alto il ferro e i cuori a salutare dopo quindici secoli, la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma!”, tutto questo diceva a gran voce costantemente interrotto da applausi mentre si affaccia dal balcone circondato da un alone di fortissima luce bianca, che lo rende quasi una mistica apparizione. All’annuncio della vittoria, il Re pianse di gioia e divenne Imperatore d’Etiopia, mentre il Duce ebbe il titolo di “fondatore dell’Impero” e decise così che l'annessione dovesse essere integrale, anche Rachele, moglie del Duce, assistette al discorso del marito nel mezzo della folla entusiasta, con i figli Romano e Anna, mentre gli altri due erano a combattere in Etiopia. Mai nella loro storia, forse neanche in occasione della 1GM, il popolo italiano si era sentito così coralmente unito al suo condottiero, mai così uniti erano stati fascismo e patria, e ora la retorica fascista sembrava essere l’espressione di un genuino sentimento collettivo (anche voci fasciste ma non filo- mussoliniane come Gioacchino Volpe non trattennero l'emozione, e anche numerosi antifascisti dovettero ammettere la vittoria “mediatica” del regime. Il 9 maggio fu il rito più spontaneo e riuscito del culto del littorio e la romanità fascista poteva orgogliosamente dirsi realtà: con la presa dell’Etiopia, il fascismo si era reso ancora più degno erede del mito espansionistico di Roma. La guerra in Etiopia fu fortemente voluta da Mussolini, che inviò personalmente il proclama al generale Badoglio e alle alte cariche militari per sollevare la questione etiope e nel 1935 tentò di guadagnare il consenso di Francia e Gran Bretagna per l'operazione militare, occupazione che iniziò il 3 ottobre 1935 (e ci fu il famoso matrimonio mistico tra regime e popolo, con la donazione delle fedi nuziali per la causa di guerra, ebbe grande affluenza) e durò sette mesi, fu combattuta con ampio dispiego di forze e mezzi contro un esercito molto meno preparato, contro il quale furono utilizzate armi chimiche, ma gli etiopi furono un avversario duro a milioni di persone, non potevano sussistere più le venerazioni per il passato, e perciò la fascistizzazione monumentale messa in campo da Mussolini è tutta volta verso il dinamismo del futuro della nuova Roma e Italia imperiale. Questa fusione ebbe come massimo esempio quella della candidatura di Roma come ospite della Esposizione Universale del 1942, un’E42 composta da edifici permanenti e mostre temporanee (apparentemente un progetto strano e ipocrita, che promuoveva la collaborazione e la pace internazionale, ma che poi portava avanti progetti imperialisti ai danni di altre nazioni); è anche grazie a questa “arte fascista” che il regime riuscì a far valere la sua idea di totalitarismo e sincretismo tra tutte le arti e i mestieri, concretizzando propagandisticamente i propri obiettivi in monumenti permanenti (opere architettoniche ed urbanistiche) e monumenti contingenti (come le mostre). Il Circo Massimo negli anni Trenta era divenuto uno dei centri delle mostre dell’PNF, e diveniva collante tra la romanità fascista e l’antica Roma; la mostra più esemplare di questo periodo è indubbiamente la Mostra della Rivoluzione Fascista nel primo decennale dalla marcia su Roma (1932) che ebbe un enorme successo tra i visitatori e infatti se ne riproposero altre 3 edizioni fino al 1942, lo scopo della mostra era quello di ricostruire il presente per proiettarci nel futuro, con la figura dominante del Duce e priva di edulcorazioni passatiste. Onnipresente nelle mostre era il culto attorno al Littorio, riproposto in varie forme e dimensioni dall’esterno all’interno, e la facciata esterna voleva essere un’aggressiva invettiva verso la Roma Ottocentesca tanto disprezzata, e infatti la mostra fu allestita a Palazzo delle Esposizioni, in Via Nazionale, una delle strade caratteristiche del periodo post-unitario romano; la particolarità della mostra era quella di non avere l’aspetto arido ed estraneo delle altre, ma era bensì in grado di eccitare l’immaginazione, di coinvolgere la fantasia e di far sentire il visitatore emotivamente partecipe di ciò a cui stava assistendo. La mostra fu un successo e anche intellettuali stranieri accorsero, come Paul Valery o George Bataille, chi con deferenza ed orgoglio, e chi con antico disgusto; di fatto era divenuta un vero tempio dove si compivano i rituali di celebrazione degli eroi rivoluzionari, quindi un vero e proprio pellegrinaggio verso il littorio, al quale vennero dedicate poesie e poemi dell’epoca. Dall’idea di rendere permanente questa mostra, nacque il progetto di costruzione del Palazzo del Littorio, come nuova sede del Pnf; il Palazzo del Littorio doveva avere carattere duraturo e universale, e doveva essere il massimo simbolo della Roma fascista. Il progetto fu affidato all’architetto Del Debbio, e si decise di collocare il palazzo alla Farnesina, nei pressi del Foro Mussolini, con un enorme piazzale antistante che avrebbe potuto accogliere 600.000 persone. I lavori iniziarono nell’ottobre 1938 ma all’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940) vennero bloccati per i costi esuberanti e venne affidato l’edificio al Ministero degli Affari Esteri e intanto si arenava anche la preparazione per l’E42. Questa E42 era destinata a rimanere dei secoli e ad avere la stessa magnificenze di San Pietro e del Colosseo, con questa enorme realizzazione urbanistica, questa Nuova Roma diveniva faro della civiltà fascista. Lo scenario fisso era quella di un Roma “universale” protesa verso il mare, in costante espansione e “chi, venendo da Roma si avvicinasse al quartiere EUR, vedrebbe un sopraggiungere di acqua e verde, di totale ordine e perfezione”; tra le costruzioni troviamo la statua di fronte agli uffici dell’eur, quella di un giovinetto col braccio teso, a simbolo del “genio fascista” e ancora l’odierno Colosseo Quadrato (evocava la sacralità delle anime italiche. Roma è in questa fase fascista, imperiale e totalitaria, ma ben poco monarchica, infatti la figura del Re sparisce dalle raffigurazioni. I lavori per 1’E42 iniziarono nel 1937 con la costruzione dei villaggi operai, ma nel corso del 1940 ci si rese conto del fatto che la guerra non sarebbe durata poco, e anche l’Esposizione Universale prese il nome di Esposizione della Pace, ma invano. Nonostante alcuni progetti furono accantonati dal Duce per esigenze maggiori, l’obiettivo massimo era quello di fondare i “romani della modernità”, la più grande opera del “fascismo di pietra”. I ROMANI DELLA MODERNITA': “Noi dobbiamo scrostare i ricordi della decadenza che va dal 1600 all’ascesa di Napoleone, è una fatica grandiosa e il Risorgimento non è stato che l’inizio, poi superato dalla Grande Guerra e dobbiamo portare avanti giorno per giorno il rifacimento del carattere degli italiani”, queste le parole pronunciate dal Duce nel 1930 da Palazzo Venezia, in cui si consolida lo spirito universale del fascismo, che tenta di risolvere i problemi dello Stato moderno, sorto dopo il 1789, rivedendo i rapporti tra Stato e individuo, tra Stato e gruppi, e fa popolo e gruppi organizzati. Soprattutto in quest’ottica è recuperata la storia romana, intesa per i fascisti però non come raccolta di fatti lontani, bensì come insieme di esempi funzionali al presente e soprattutto al futuro e in tal modo Roma diviene per i fascisti più che una gloria del passato, una certezza per l'avvenire. Infatti il Duce riteneva che il Novecento fosse il secolo del fascismo, dove l’Italia si ergerà a mito per tutti gli altri popoli, nell’ottica di una missione salvifica della Terza Roma, in chiave fortemente mazziniana. Il fascismo voleva appunto costituire la terza via tra il capitalismo liberale e il collettivismo sovietico, e soprattutto contro quest’ultimo si scaglia nei suoi discorsi il Duce, nel motto “o Roma o Mosca”, ma ancora più di Mussolini, fu Giuseppe Bottai, governatore di Roma tra il 1935 e il 1936 a mettere in pratica il mito modernista di Roma, intesa come la Città del Fascismo, un mito di Roma che non era scaturito dall’erudizione o dai libri, bensì dall'azione. Anche gli storici romanisti non si sottrassero a questa teorizzazione, affermando che lo spirito dei legionari romani che ora risplendeva nei giovani squadristi, sarebbe dovuto essere non solo conservato nel tempo, ma anche accresciuto, nel segno del genio italico; e sarà proprio questo orgoglio patriottico a sfociare poi nel razzismo e nell’antisemitismo del regime, perciò la spinta del Duce verso una rigenerazione morale e spirituale degli italiani fu il cardine di questa svolta, e non l’alleanza né la venerazione italiana verso la Germania hitleriana. Dall’esempio della Russia sovietica invece il regime coglieva il “senso collettivo della vita”, che organizza la vita individuale in senso collettivo, l’uomo già a sei anni viene tolto in un certo senso alla famiglia, e viene restituito allo Stato a sessanta anni, e l’uomo non vi perde nulla, anzi, ne viene moltiplicato.” = l’uomo collettivo organizzato, un individuo assorbito dalle società moderne di massa ma che non dimentica le sue radici rurali. Il fascismo non ha creato solo un’Italia nuova, ma anche un italiano nuovo. Non erano però solo i sostenitori del Duce a sostenere che stesse avvenendo una mutazione antropologica, ma Gentile riporta anche le parole dell’ambasciatore inglese, che scrive:” l’intera vita della nazione è oggi organizzata, e tutti gli italiani sono sottoposti ad una pedagogia intensiva che sta riuscendo a modificare l’intero carattere nazionale. Oggi gli italiani sono orgogliosi di essere chiamati tali, e questo prima non avveniva. Dopo la conquista dell’impero il Duce voleva rendere gli italiani duri, implacabili e odiosi: padroni. In realtà il popolo non soddisfaceva completamente Mussolini in questo momento, e appariva restio a pensare e vedere “in grande”. E il solo sospetto che gli italiani volessero mettere in campo, regresso, fece accelerare il ritmo del mutamento antropologico, continuando l’impresa imperiale dopo la conquista di Etiopia e attraverso la guerra civile spagnola voluta dalla rivolta di Francisco Franco. Quando il Duce si rese conto che gli italiani volevano più la pace della guerra, allora decise di non lasciarli più in pace, “io non lascerò più in pace gli italiani, accadrà solo quando avrò due metri di terra sopra di me”. L'esperimento di rigenerazione morale degli italiani sulla scia del mito della romanità, subì una grande accelerazione dal 1937, aprendo la via al razzismo e all’antisemitismo. L'obiettivo del fascismo non era primariamente imperialistico, ma rispondeva alla “naturale” esigenza degli stati avanzati di espandersi, non solo territorialmente ma anche culturalmente e spiritualmente. Secondo alcune fonti, era nei piani del Duce la scrittura dell’opera “Europa 2000” dove si teorizzava che un domani ci saranno 4 paesi dominatori: tedeschi, italiani, russi e giapponesi. Riproponendo un forte anti-americanismo, che, nonostante fosse alla base stima e anche un po’ di invidia verso una società dove il civismo era spontaneo e naturale e non si serviva di uno metodo totalitario, era ancora molto forte. Si conclude il capitolo con la foto del Duce affacciato da Palazzo Venezia, nei primi mesi della 2GM, senza le folle oceaniche, il duce sentiva insinuarsi nel suo animo, dolorosamente, il dubbio angoscioso del fallimento. GLI ITALIANI NON SONO ROMANI: Gentile ci descrive la sera/notte di Mussolini, il 24 gennaio 1942, nel chiuso della sua buia stanza a Palazzo Venezia, in un momento sfavorevole per l’Asse della 2GM, dove l’avanzata russa non sembra volersi arrestare. Legge il rapporto di tutti i segretari federali che gli inviavano con cadenza annuale o mensile, notizie locali dell’opinione pubblica e del suo feedback rispetto alle scelte del regime; parte da quelli del Lazio. Passa in rassegna vari rapporti, a partire dal 1932, e in un primo momento, si evince che sarebbe la classe privilegiata (la borghesia) a mostrare maggiore malcontento verso il regime, e afferma che questa gente dovrebbe rimanere fuori dal partito e anche dalla società (ipotesi eliminazione fisica), nonostante i 4 colpi già inferti da Mussolini verso la borghesia: l’abolizione del Lei, il “passo romano”, la legislazione razziale e l’uniforme per gli impiegati civili. Da allora sono passati due anni, e la borghesia inietta i germi del suo cinismo e del suo ozio nella società fascista. Dopodichè Mussolini passa in rassegna anche gli altri rapporti, che hanno come oggetto lo “spirito pubblico” e quindi l’opinione delle persone comuni rispetto al governo. Oltre ad alcuni momenti sporadici di grande entusiasmo popolare, il popolo romano (e italiano), è un popolo che è arrivato alla frutta, che manifesta molto malcontento verso l’aumento dei prezzi, ma anche della disoccupazione, l’assenza di braccia di giovani lavoratori partiti per la guerra, ma in realtà secondo l’autore del rapporto, il malcontento e l’odio verso il potere che si respirava nei quartieri popolari, non era da considerare antifascismo, bensì un malcontento verso il governo in generale, e verso il fascismo perché in quel momento storico era esso ad essere al governo. A] leggere queste parole, lo sguardo del Duce ritorna in alto, e riflette sulla nuova Roma imperiale che aveva costruito e avrebbe dovuto proseguire, e nota come in questa Roma ci sia assenza di quella “porca Roma” vecchia e stagnante, e che ormai i segni del passaggio del fascismo erano inequivocabili (la colata di ideologia fascista che attraversa Roma), e questa nuova Roma lo emoziona sempre, nonostante l’interruzione dei lavori per le cause di guerra. Si legge dalle parole dette privatamente ad una delle sue amanti:” Sì. Sono posseduto da questa smania. Arde, mi rode e consuma dentro, quale un male fisico: incidere, con la mia volontà, un segno nel tempo, come il leone con il suo artiglio” e così pensando guarda Via dell’Impero, l’impronta indelebile del suo passaggio nel cuore della Città Eterna. Ora il duce ripensa agli otto mesi splendidi tra il 1935 e il 1936, e ancora alla notte gloriosa del 9 maggio e al suo impero; ma da otto mesi l’Italia ha perso il suo impero e il suo vigore, e pensa anche alla morte di suo figlio Bruno, andato a combattere in Etiopia e morto durante un volo in aereo, con la speranza che una volta vinta la guerra, il nome di Bruno avrebbe potuto risuonare ancora nelle strade di Roma. E qui gli sorge un atroce dubbio:” la Roma fascista è grande come la Roma antica, ma gli italiani del fascismo, sono anch'essi grandi come i romani dell’antica Roma?” e qui continua a leggere rapporti per poter ottenere risposta al suo quesito, e la panoramica è deprimente: ansia e malcontento affliggono il popolo in balìa della miseria e della frustrazione
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