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IL FILO ROSSO edizione B - Quattrocento e Cinquecento, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto manuale "Il filo rosso. Antologia e storia della letteratura italiana ed europea. Quattrocento e Cinquecento".

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 06/05/2024

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Scarica IL FILO ROSSO edizione B - Quattrocento e Cinquecento e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! 1 IL FILO ROSSO – Antologia e storia della letteratura italiana ed europea QUATTROCENTO E CINQUECENTO L’UMANESIMO » i caratteri fondamentali Periodizzazione e definizioni. Il Quattrocento è incluso tra due date emblematiche, il 1375 e il 1494: il primo (1375) è l’anno della morte di G. Boccaccio e un anno prima (1374) era morto F. Petrarca. Con la scomparsa dei due grandi scrittori toscani di consuma la fine di una fase della storia della letteratura italiana: nel 1375, il Trecento si chiude simbolicamente, mentre si apre quello che B. Croce ha definito come il “secolo senza poesia”. Il 1494 è l’anno in cui il re di Francia, Carlo VIII, scende con il suo esercito in Italia alla conquista del Regno di Napoli: questo evento segnerà l’inizio di una lunga serie di campagne militari sul territorio della penisola e porrà fine all’autonomia e alla libertà dei singoli Stati italiani. Il Quattrocento è il secolo dell’Umanesimo, un fenomeno che nasce in Italia, ma che investirà la cultura di tutta Europa: con il suo richiamo alla lezione morale e civile degli antichi e l’impegno nello studio e nella ricerca di testi classici di cui si era persa traccia, Petrarca va considerato il principale ispiratore dell’Umanesimo. L’Umanesimo è un fenomeno difficile da definire e la parola stessa è di origine recente: sembra che sia stata coniata da un pedagogista tedesco del XIX secolo all’interno di un progetto scolastico che mirava a salvaguardare l’insegnamento delle discipline classiche nelle scuole secondarie. La parola “umanista” nasce, invece, negli anni ’30 del Cinquecento, per indicare gli insegnanti di materie letterarie. All’origine sia di “umanesimo” sia di “umanista” sta l’espressione ciceroniana si “studi relativi all’uomo”. Secondo gli umanisti, la cultura ha come scopo la formazione dell’uomo, nel senso che deve tendere a sviluppare tutte le sue facoltà e virtù morali, intellettuali, civili, per creare un individuo aperto sia alla vita attiva, sia alla riflessione e alla meditazione spirituale: si trattava di rispetto alla teologia e alla morale medievali, l’interesse per le caratteristiche proprie dell’essere umano. Le discipline letterarie e la letteratura classica sono il cardine di questa educazione integrale dell’uomo: gli autori antichi sono sentiti come modelli di virtù civili e morali, oltre che di stile; le loro opere trasmettono un ideale di humanitas nel quale si fondono amore per la conoscenza, senso del valore e della dignità dell’uomo, tensione alla gloria e alla realizzazione mondana, apprezzamento del bello, esercizio della vita attiva. Il culto dell’antico, della cultura classica grecolatina fu riscoperta nei suoi valori etici e civili, ma anche nei suoi testi è il massimo comune denominatore dell’Umanesimo; si accompagna ad una nuova consapevolezza spesso assente nel Medioevo. Questo fece sì che il richiamo all’antichità si configurasse come un dialogo attivo per tradurre la sua lezione in insegnamenti utili per il presente: il principio dell’imitazione fu inteso, durante il Quattrocento, come autonoma rielaborazione di numerosi modelli. I volti dell’Umanesimo. Nello spazio dell’Umanesimo si riscontrano tendenze plurime e diversificate di cui si fanno portavoce centinaia di umanisti, come ad esempio: - lo studio delle lingue classiche = alla base del culto umanistico per l’antico sta l’esaltazione delle lingue della classicità, prima del latino e poi anche del greco. Nel Prologo delle eleganze della lingua latina di L. Valla si legge un’esaltazione della lingua di Roma, che ha dato i contributi più importanti al bene dell’umanità: il latino ha educato i popoli e li ha dotati delle leggi migliori, ha aperto loro la strada a ogni sapienza e li ha liberati dalla barbarie. Il latino si è imposto con dei valori, quali l’amore, l’amicizia, la pace, perché in esso vi sono tutte le scienze e le arti proprie dell’uomo libero. La lezione di Valla fece scuola e ben presto il latino fu considerato la lingua della cultura. Si comprese che il patrimonio della classicità sarebbe rimasto sconosciuto senza la lettura diretta di autori come Omero, Esiodo, Lucian, Teocrito, Apollonio Rodio, Platone e Aristotele e che la conoscenza della lingua e della cultura greca era fondamentale per la risoluzione di moltissime questioni di fonti. Nella seconda metà del Quattrocento emerse 2 anche l’esigenza di capire la Bibbia, per cui gli umanisti si avvicinarono all’ebraico e un conoscitore molto raffinato, oltre ad Angelo Poliziano, fu Giovanni Pico della Mirandola; - la riscoperta delle opere della classicità greco-latina = il culto del greco e del latino si associava al bisogno di conoscere i testi che in quelle lingue erano stati scritti. Poggio Bracciolini riportò alla luce le grandi opere della latinità. Nel corso dei suoi frequenti viaggi in Europa settentrionale, tra il 1415 e il 1417, Poggio scoprì otto nuove orazioni di Cicerone, il testo completo sull’arte oratoria di Quintiliano, il poema sulla natura di Lucrezio e molte altre opere. Con il tempo cominciarono anche a circolare importanti opere greche; - la filologia = ci si interrogò se il testo delle opere, uscite da secoli, fosse quello originale o fosse stato alterato nel tempo da errori, aggiunte, modifiche, omissioni effettuate dai copisti nelle successive trascrizioni o dai traduttori. Nasceva così la filologia, ossia la disciplina che si occupa della ricostruzione del testo originale di un’opera; - l’impegno civile; - la moda. LA LETTERATURA ITALIANA Un quadro d’insieme. Il Quattrocento è un secolo eclettico e versatile. Emerge la tendenza a sperimentare nuovi generi, dall’altro a riscoprirne e a innovarne altri attraverso soluzioni inedite. Accanto a Burchiello, si trova un poeta come Giusto de’ Conti, che ricalca motivi e moduli linguistici petrarcheschi; Leon Battista Alberti inaugura la stagione della trattatistica in volgare che sarà molto praticata nel Cinquecento; Luigi Pulci e Matteo M. Boiardo percorrono la strada della narrativa in ottave, ridefinendo le leggi del poema cavalleresco e dando al genere una concreta sistematizzazione; Iacobo Sannazaro scrive il primo romanzo pastorale; Lorenzo de’ Medici e Luigi Pulci inventano la poesia rusticale. Il Quattrocento è anche il secolo del bilinguismo. L’amore e la predilezione per la cultura classica, così come la frequentazione assidua di testi della latinità appena riemersi dall’oblio di secoli, indussero poeti, scrittori e intellettuali del Quattrocento a scrivere per lo più nella lingua di Roma. Alcuni di loro scrissero solo in latino (umanisti “esclusivi”) e altri in latino e in volgare (umanisti “bilingui”). Il latino domina indiscusso fino agli anni ’40: da quel momento in poi, Firenze diventerà il centro propulsore della rinascita del volgare. Due sono gli eventi fondamentali che segnano questo passaggio: nel 1441 Alberti organizza a Firenze il Certame coronario, una gara di poesia in lingua volgare; nel 1447 Lorenzo de’ Medici fa allestire la Raccolta aragonese. Il latino e il volgare continuarono invece a occupare sfere separate: il latino rimase la lingua della scienza, della filosofia, del diritto e di tutti gli atti della Chiesa; il volgare rimase lingua d’uso. Un’ultima caratteristica fondamentale della letteratura del Quattrocento è la letteratura di corte: nella corte e per la corte nacquero molte opere di eccezionale importanza. Un quadro variegato, specchio di un’epoca fortemente sperimentale che si svilupperà in vari modi nel secolo successivo. La poesia. Nel periodo amministrativo si sviluppano numerosi filoni nell’ambito della poesia lirica, sia in latino sia in volgare: si riscontrano i primi tentativi di imitazione del modello petrarchesco, con molte differenze tematiche e stilistiche. Molto popolare è un genere narrativo, scritto in versi, quello del poema cavalleresco, che alla fine del Quattrocento raggiungerà esiti molto alti con L. Pulci e M. M. Boiardo. (la poesia lirica) Tra i prodotti letterari più alti del “secolo senza poesia” bisogna annoverare una raccolta di rime che costituisce un vero e proprio canzoniere. L’autore è Giusto de’ Conti, che probabilmente nacque a Roma intorno al 1390 e morì a Rimini a novembre 1449. Il suo canzoniere porta il titolo di La bella mano e narra la storia d’amore del poeta per una certa Isabetta, identificata dagli studiosi come Elisabetta Bentivoglio. C’è una forte aderenza al modello petrarchesco da parte di Giusto ed è ben riconoscibile. La storia d’amore di Giusto per Isabetta ha un esito completamente diverso da quella di Petrarca per Laura: la donna non muore, ma semplicemente sceglie un altro. Giusto sigilla La bella mano con un capitolo in terzine dove non si parla di pentimento. Giusto aderisce al modello da un lato, ma se ne distacca dall’altro: in lui non c’è la vena dello 5 il rimpianto e i ricordi lasciano il posto, alla fine, al pentimento religioso. L’amore ha caratteri di grande vitalità e rimanda all’esperienza dell’amore cortese. La prosa. Nel settore della prosa, molto praticato è il genere della novella, che trova i suoi modelli nel Trecento, in Boccaccio ma anche in Franco Sacchetti. Giovanni Sercambi inaugura la novellistica in volgare nel Quattrocento. La raccolta ha, come il Decameron, una cornice: il viaggio attraverso l’Italia di una brigata di amici. Sercambi dà un grande valore all’esempio morale e predilige i temi fantastici e raccapriccianti. Vari sono gli autori quattrocenteschi di singole novelle: una menzione particolare merita la Novella del Grasso legnaiolo, un racconto scritto intorno agli anni Sessanta da Antonio di Tuccio Manetti. A Napoli opera uno dei maggiori narratori del periodo, Tommaso Guardanti, noto come Masuccio Salernitano, autore di una raccolta di cinquanta novelle dal titolo Novellino. Il Novellino fu stampato postumo, a Napoli, nel 1476, ma le singole novelle circolarono a lungo sparse. La raccolta risente della lezione boccacciana per almeno due aspetti: l’architettura dell’opera è rigorosa. Il Novellino è composto da cinque parti, ognuna dedicata a un argomento e formata da dieci novelle: tutte le novelle sono precedute da un esordio e sono chiuse da un commento dell’autore. La differenza più forte rispetto al modello boccacciano è rappresentata dal fatto che non esiste alcuna occasione eccezionale per la narrazione e quindi non c’è una vera cornice. Il legame che unisce le novelle è il giudizio dell’autore espresso di volta in volta nel commento conclusivo. Il mondo delle novelle di Masuccio è popolato da un’umanità varia, ma domina il gusto per il macabro e un’impostazione moralistica, accompagnata da un costante rivendicazione della veridicità dei racconti. Per questo motivo il Novellino fu ben presto censurato: il libro, messo all’Indice, riapparve nel 1765 a Lucca e poi a Napoli nel 1874. A Francesco Colonna si attribuisce una delle opere più singolari della letteratura italiana, il romanzo in prosa, in due libri, Hypnerotomachia Poliphili (“La battaglia d’amore in sogno di Polifilo”. Il romanzo, scritto in una lingua molto artificiosa e complessa, fu composto a Treviso intorno al 1467, ma vide le stampe solo nel 1499. Lungo tutto il Quattrocento rimangono importanti forme di letterature legate alla religione cristiana. In particolare, fra i predicatori si distingue san Bernardino da Siena. Nelle sue Prediche si possono cogliere numerosi riferimenti alla teologia medievale e all’esegesi biblica, ma anche idee innovative persino nel campo dell’economia. Si sente l’immediatezza di un testo pensato per l’oralità, ricco di espressioni popolari e di immagini e paragoni molto concreti. La predicazione continuerà ad avere una notevole importanza, specie in un periodo di crisi come quello di fine secolo, quando emergerà la figura, potente e inquietante, di Girolamo Savonarola. Una parte importante della produzione letteraria in latino è rappresentata dagli epistolari, genere ampiamente praticato nella antichità classica e a cui gli umanisti danno nuova linfa: la lettera diventa uno dei mezzi più diffusi e amati di circolazione, discussione e promozione delle idee, strumento pubblico più che di comunicazione privata e famigliare. Un altro genere praticato dagli umanisti era il discorso: esso poteva avere la forma dell’orazione, quella della prolusione universitaria e anche quella della disputa. Altro genere di grande fortuna in età umanistica è quello del trattato, che spesso ha la struttura del dialogo, in linea con la nuova visione della cultura come scambio e confronto delle opinioni, riguardo alcuni grandi temi dell’Umanesimo: la formazione dell’uomo e la sua attività per conoscere la realtà terrena, il rapporto con Dio e con il destino, le questioni civili e politiche, etc. Importante è anche la prosa storiografica, caratterizzata dall’uso di un latino molto dotto e spesso ricco di tratti stilistici ricavati da più autori, sebbene i modelli fondamentali osservati dagli umanisti fossero quelli di Cicerone e di Tito Livio. Infine va menzionata la novellistica. Il teatro. La generale riscoperta della letteratura classica determinò anche il recupero della letteratura drammatica, soprattutto quella latina. I due grandi centri di rinnovamento furono Ferrara e Firenze. Si cominciò presto a tradurre le commedie di Plauto e di Terenzio e a portarle sulle scene. Nel Quattrocento, a Firenze, è diffusa anche un'altra forma di allestimento, quella della sacra rappresentazione, cioè la messa in scena di episodi della Bibbia o della vita dei santi, del dialogo tra Cristo e la Vergine e tra Cristo e i suoi discepoli. Il testo che segna la nascita del teatro 6 profano è la Favola di Orfeo che Poliziano compose forse tra il 1479 e il 1480 e che andò in scena a Mantova. Una menzione meritano le farse e gli spettacoli mitologici. LEON BATTISTA ALBERTI - La vita Leon Battista Alberti nasce a Genova il 14 febbraio 1404, figlio illegittimo del mercante fiorentino Lorenzo Alberti. La famiglia è in esilio da Firenze dalla fine del Trecento. Muore a Roma il 24 aprile 1472. - I “Libri della famiglia” I Libri della famiglia sono un trattato in forma di dialogo composto da un Prologo e da quattro libri. Nel suo diario autobiografico, Alberti dice di avere scritto i primi tre libri della Famiglia a Roma, nello spazio di novanta giorni, tra il 1433 e il 1434. I quattro libri che compongono l’opera ospitano una serie di dialoghi tra rappresentanti della famiglia Alberti. L’opera si apre con un Prologo, nel quale Alberti dedica il trattato ai giovani della sua famiglia: queste pagine introduttive ospitano una trattazione sul ruolo giocato da quelli che l’autore considera i due motori del mondo, quali la virtù e la fortuna. Alberti assume una posizione categorica: la violenza e l’ostilità della sorte niente possono contro la virtù, intesa come intelligenza, prudenza, onestà, moralità, costanza e operosità. Il primo libro è dedicato al rapporto tra padri e figli: Alberti si sofferma sulle sollecitudini e sulle malinconie dei padri; il secondo libro vede dialogare lo stesso Leon Battista e Lionardo sul matrimonio e l’unità della famiglia. Il terzo libro è preceduto da un Proemio: trova qui enunciazione una difesa dell’uso del volgare come lingua adatta a esprimere contenuti importanti. Argomento del terzo libro è l’economia domestica in senso stretto e la masserizia, cioè l’arte, propria del padre di famiglia, di amministrare i beni. Il quarto libro tratta dei rapporti della famiglia con il mondo esterno, nonché dell’amicizia in generale: su questo argomento i Libri della famiglia si chiudono. Oggetto esclusivo è la famiglia intesa come unità indipendente e autarchica formata dal padre, dalla madre, dai figli e dalla virtù. Obiettivo principale è tutelare la famiglia e procurarne la felicità. L’unico che può ottenere lo scopo è il padre; l’unico modo per raggiungere lo scopo è essere industriosi, cioè attivi, pragmatici e operosi. Alberti inserisce la lode delle ricchezze utili e l’esortazione a fare tesoro del tempo, bene prezioso che l’uomo deve impiegare al meglio, agendo e pianificando. ❖ Leon Battista Alberti – “Una grande famiglia mercantile” Nel Trecento gli Alberti erano stati una famiglia fiorentina di mercanti e banchieri di caratura europea, ed erano ancora potenti e facoltosi ai tempi del dialogo. È a causa dell’esilio che Lorenzo muore a Padova e suo fratello Ricciardo giunge al suo capezzale, provenendo da Bologna. La figura del padre morente proietta la sua ombra sull’intero trattato conferendogli sia una intensa, ma contenuta, pateticità, sia una particolare valenza simbolica. Nell’ideologia albertiana il padre è il pilastro centrale dell’intera struttura famigliare: è dalla sua “virtù”, dalle sue capacità di governo e di intrapresa che dipendono le sorti economiche, e quindi la felicità, dell’intera famiglia. È significativo che il dialogo-trattato inteso a illustrare come si forma e conserva una famiglia “felice” sia ambientato nel momento delicato del passaggio di testimone. Ed è altrettanto significativo che il primo libro sia dedicato al compito principale del padre, l’educazione dei figli e ai rapporti fra le generazioni. La famiglia mercantile sente sé stessa come una dinastia, proprio come potrebbe sentirsi una famiglia di nobiltà feudale: anche la nuova aristocrazia del danaro vive nella e per la tradizione. Un padre avveduto, cioè che vuole imporsi sul caso, la fortuna, deve pianificare: il lavoro per un figlio comincia ancor prima della sua nascita. La lezione su come scegliere per tempo della sua nascita. La lezione su come scegliere per tempo la balia e sulle qualità che essa deve avere si iscrive per intero dentro quella spicciola economia domestica che il buon mercante non può trascurare. Nelle figure del dialogo albertiano il grande capitalista convive con il massaio. L’attenzione e la disponibilità, la commozione con le quali Alberti guarda al mondo infantile appariranno ancora più straordinarie se si ricorda che l’infanzia era stata la grande assente nella 7 letteratura del Medioevo. Tale atteggiamento può essere un effetto di quella visione laica della vita che impronta questo libro e che doveva caratterizzare le classi sociali di cui il libro parla. Non è da trascurare il ruolo che può avere giocato la psicologia dell’uomo Alberti. A parte il fatto che i contrasti con i familiari sembrano essere stati sopravvalutati dagli storici, bisogna tenere conto di un’altra particolarità della sua condizione: Alberti non esercitò mai la mercatura e la finanza, ma abbracciò la carriera ecclesiastica. Lo stato ecclesiastico per Alberti coincise con l’essere un intellettuale: egli poté diventare un intellettuale proprio perché non esercitava la mercatura. In questo libro sembra di cogliere il senso di esclusione dell’intellettuale confinato in ambiti che tendono a staccarsi dalle pratiche economiche e politiche. Una spia ulteriore del disagio personale può forse essere individuata nella circostanza che questo trattato delinea un modello di vita e di impegno che non era quello del suo autore. L’esaltazione dell’esperienza ha un suono strano in bocca ad un letterato che vive nei libri e per i libri. Quel trattato-celebrazione si prestava bene ad accompagnare gli Alberti al momento di un altro e ben più importante passaggio. Era un invito alla famiglia a riunirsi e una pubblica manifestazione delle sue storiche e intatte virtù. Il ritorno in patria venne quasi a coincidere con il tracollo economico degli Alberti, dovuto al dissesto finanziario di alcune delle loro compagnie all’estero. Il trattato produce un effetto di tipo claustrofobico. Questo ultimo libro, scritto nel 1430, si colloca proprio dopo il grande disastro, quando ormai era inutile esplorare la rete di relazioni del passato per trarne insegnamenti per un presente che non dava più occasioni agli Alberti di fare balere le loro “virtù” civiche. Resta un quadro tutto “interno”, idealizzato, ma anche fedele nel rappresentare un modo di vivere, una mentalità e un sistema di valori che dovevano essere propri delle grandi consorterie mercantili e finanziarie della Firenze di primo Quattrocento. Alberti conferisce una organicità e una evidenza prima sconosciuti. C’era voluto un intellettuale uscito da quel clero, per portare a coscienza e dignità culturale modi di vivere e di pensare praticati senza riferimenti teorici. Le particolari vicende fiorentine della famiglia Alberti gli impedirono di proiettare quei valori e quei comportamenti su una dimensione di utilità politica e sociale. ➢ L’opera Composizione, struttura e temi del dialogo. I Libri della famiglia sono un trattato in forma di dialogo composto da quattro libri. L’opera nasce a Roma, tra il 1433 e il 1434: in questa fase prendono forma i primi tre libri, che poi Leon Battista rivedrà e rielaborerà a Firenze tra il 1437 e il 1438. Tarda è la composizione del quarto libro, scritto a Firenze intorno al 1440-41. La redazione dell’opera è ultimata nel 1443. Il dialogo è ambientato a Padova nel 1421 e si svolge tra i familiari che si alternano intorno al letto di malattia e di morte di Lorenzo Alberti, padre di Leon Battista. L’opera di apre con un Prologo, nel quale Alberti dedica il trattato ai giovani della sua famiglia e discetta sul ruolo giocato nella storia dalla virtù e dalla fortuna. Il primo libro tratta del rapporto tra padri e figli: è l’unico in cui parla Lorenzo Alberti, il quale affida i propri figli al fratello Ricciardo e ai congiunti Adovardo e Lionardo. Il secondo libro tratta del matrimonio e dell’unità della famiglia, mentre il terzo libro è preceduto da un Proemio e porta la dedica a un altro esponente della famiglia Alberti, Francesco d’Altobianco: questo terzo ha come argomento l’economia domestica in senso stretto e tratta della masserizia propria del padre di famiglia, di amministrare i beni al fine di garantire alla famiglia vita serena. Il quarto libro ha come argomento i rapporti che la famiglia intrattiene con il mondo esterno. Al termine del suo discorso, Lionardo e Adovardo approfondiscono il tema dell’amicizia in generale. La famiglia felice, tra virtù e fortuna. Obiettivo primario di Leon Battista Alberti è fornire le coordinate per la formazione e il mantenimento di una famiglia felice. La famiglia albertiana ha il centro il padre. Alberti sull’argomento è categorico: nessun altro all’infuori del padre è in grado di rendere e di mantenere felice la famiglia. Tutto il dialogo dei Libri della famiglia si inscrive dentro 10 - i fautori della lingua “cortigiana” o “italiana”, una lingua che prende a modello quella parlata nelle corti italiana, unendo gli apporti diversi dei vari volgari; - i sostenitori dell’uso del fiorentino (o toscano) vivo e contemporaneo. Tra i fautori della lingua cortigiana o italiana si trova Baldassarre Castiglione, Giovan Giorgio Trissino e Mario Equicola, i quali proposero l’adozione di quella lingua parlata normalmente nelle corti dagli uomini istruiti e di buon gusto: una lingua in cui la base del lessico è toscana, ma non mancano altri apporti, ricavati da tutte le varietà linguistiche italiane. Furono attaccati dai sostenitori dell’uso del fiorentino parlato moderno, tra i quali spicca Niccolò Machiavelli. La tesi che prevalse fu quella retorica e arcaizzante del Bembo. Il dibattito relativo alla Poetica di Aristotele mirava alla fondazione di un sistema di regole da applicare ai generi letterari, che assunsero una rilevanza a un’autonomia sempre maggiore nel corso del XVI secolo. Una data fondamentale in questa ricerca è il 1536, anno in cui la Poetica di Aristotele venne pubblicata in traduzione latina da Aldo Manuzio. In realtà, Aristotele aveva elaborato delle osservazioni: il sistema aristotelico prevedeva la suddivisione della letteratura in dramma e narrativa epica, e l’attribuzione del titolo di genere letterario più compiuto a quello drammatico, in quanto capace di sublimare le passioni attraverso la loro “catarsi”. Della tragedia, il filosofo aveva individuato alcuni caratteri salienti senza però voler con questo fissare un rigido canone precettistico. A tale canone giunsero i letterati del Cinquecento, al precetto aristotelico relativo all’unità di azione, ne vennero aggiunti due cui Aristotele non aveva mai pensato, quelli dell’unità di tempo e dell’unità di luogo. Ben presto sorse il problema di giustificare i generi non previsti nel trattato aristotelico, cosicché la stessa suddivisione della letteratura in dramma e narrativa venne sostituita con un'altra che individuava tre grandi modalità di scrittura: l’epica, il dramma e la lirica. In seguito, altri generi o sottogeneri letterari vennero affiancati il dramma pastorale, la tragicommedia, il poema cavalleresco, il melodramma e altri ancora. Tale “regolismo” costituì il fondamento della polemica tra i sostenitori di Ariosto e i sostenitori del Tasso, il quale aveva organizzato la propria opera intorno a un’unica vicenda principale. Lo stesso Tasso partecipò al dibattito sulla codificazione dei generi moderni. La poesia. L’imitazione di Petrarca caratterizzò lo svolgimento della lirica tra Quattro e Cinquecento da costituire una vera e propria corrente: il petrarchismo. Nel secolo XVI l’imitazione del linguaggio e dello stile petrarchesco trovò il suo massimo fautore in Pietro Bembo. Il Canzoniere di Petrarca divenne il modello in sé concluso e perfetto, da cui i poeti cinquecenteschi potevano o dovevano ricavare temi e forme espressive già codificate. Il fenomeno del petrarchismo divenne una “moda”, dai riflessi letterari, ma anche comportamentali e sociali. In versi furono scritti anche numerosi testi di carattere satirico-parodico e molte liriche antipetrarchiste. Resta ampia la fortuna dei poemi cavallereschi in ottave, che giungeranno a un vertice assoluto con il Furioso di L. Ariosto, prima di essere accantonati a favore di forme più rispettose delle regole aristoteliche, rappresentato dalla Liberata di Torquato Tasso. (petrarchismo e antipetrarchismo) Pietro Bembo fu poeta di ispirazione petrarchesca. Le sue Rime vennero pubblicate nel 1530 e mostrano la sua cosciente e tutta letteraria assimilazione della lingua, dello stile e delle situazioni sentimentali del Canzoniere. Nelle liriche di Bembo, l’assimilazione perfetta del modello petrarchesco avviene grazie all’attenuazione del tormento ideologico e psicologico che sorreggeva il Canzoniere. Un altro poeta fu il petrarchista Giovanni Della Casa, le cui sue Rime vennero pubblicate postume nel 1558. In esse domina il contrasto tra il quotidiano e l’ideale. Da un punto di vista formale, la poesia di Della Casa è lavorata, attenta alla musicalità sia del verso, sia di ogni singola parola e caratterizzata da un frequente uso di pause sintattiche ed enjambement forti, che creano chiaroscuri e contrasti. Il Rinascimento vide anche una notevole fioritura di poetesse, una novità. Le poetesse rinascimentali fecero parte della corrente poetica petrarchista. Alcune di loro furono dame dell’aristocrazia, ma altre appartennero invece alla categoria della allora delle “cortigiane oneste”. All’alta aristocrazia appartenne Vittoria Colonna; di nobile famiglia fu anche la lombarda Veronica Gambara; la materana Isabella di Morra; di origine borghese era Gaspara Stampa e la famosa “cortigiana” fu la veneziana Veronica Franco. 11 Si distacca dalla corrente petrarchista la lirica di Luigi Tansillo. La caratteristica più evidente della sua poesia appare la volontà di temperare il tono aristocratico della tradizione petrarchesca con quello famigliare delle satire e dei capitoli in terza rima. Le sue Stanze a Bernardino Martirano (1540) nacquero da una inclinazione idillica che si risolve nel sogno di una vita tranquilla, dedita agli affetti e alle cure della famiglia. Le sue Rime raccolte postume manifestano una effusa discorsività e con le loro immagini e movenze di ricercata novità sembrano anticipare gli esiti della successiva poesia barocca dell’Italia meridionale. Nel canzoniere pubblicato postumo (1617) di Galeazzo di Tarsia si trovano liriche d’amore, ma anche di rimpianto per la moglie. Queste ultime sono caratterizzate da accenti di delicata e sincera commozione. La fama e le opere di Michelangelo Buonarroti nel campo delle arti figurative hanno messo in secondo piano la sua attività di poeta e letterato. Le sue Rime (1623) mostrano tratti di originalità, perché, oltre che al modello petrarchesco, si rifanno a quello del Dante delle rime “petrose” e della Commedia. Le sue poesie, improntate da una concezione neoplatonicoreligiosa, si fanno notare per la ricercatezza formale spinta talvolta fino ai limiti del concettismo. Nel corso del Cinquecento, si sviluppò una reazione al classicismo in generale e al petrarchismo. Antipetrarchista e autore di parodie dei temi del petrarchismo imperante fu Francesco Berni: le sue rime, in prevalenza burlesche, sono caratterizzate da un gusto per la parola in sé, quasi avulsa dal suo contenuto e assaporata nel suono e nel ritmo. La poesia di Francesco Berni esprime una concezione gaudente ed epicurea della vita. (i poemi in versi) I classici greci e latini costituiscono i modelli per la poesia idillica e didascalica. Le opere del poeta Teocrito e Ovidio sono per esempio gli antecedenti più importanti per i poemetti di ispirazione mitologica e idillica. Modello del poemetto didascalico è Virgilio, ma anche Esiodo e Varrone. Il poema, su cui si incentra l’attenzione dei teorici cinquecenteschi, è quello epico, visto spesso in contrapposizione al romanzo cavalleresco. La discussione riguardò l’opportunità di rifarsi direttamente ai modelli classici e ai precetti ricavati dalla Poetica di Aristotele, per quanto concerneva l’unità di azione e l’uso dell’endecasillabo sciolto, il metro italiano ritenuto più vicino all’esametro impiegato nei poemi greci e latini. L’Eneide di Virgilio viene tradotta in endecasillabi sciolti da Annibal Caro e questa traduzione rimase celebre come la “bella infedele”, per le sue licenze interpretative e insieme per la sua eleganza. La necessità di mantenere l’unità di azione e di usare il verso endecasillabo vennero sostenuti, per il poema epico, da Giovan Giorgio Trissino. (la poesia maccheronica – Folengo) Un particolare filone cinquecentesco è quello della poesia maccheronica o macaronica. Il termine “maccheronico” indica della parodia del latino, creata in ambito studentesco e sotto come reazione al crescente formalismo classicistico oppure come puro divertissement. La parodia si basa sul rispetto della morfologia e della sintassi latine che vengono adattate a un lessico dialettale e caratterizzato da forte espressività. La produzione maccheronica si inserisce in un robusto filone cinquecentesco che riscopre il gusto della commistione linguistica. L’autore più celebre della letteratura maccheronica del periodo fu Teofilo Folengo. L’insieme della produzione può essere raccolta sotto il titolo di Maccheronee, in cui si riscontra un difficile e raffinato impasto di latino, dialetti e lingua letteraria, creato con un fine giocoso-parodico. La prosa. La produzione in prosa del Cinquecento si caratterizza per una grande varietà di generi: si tratta di generi tradizionali, spesso profondamente rinnovati, come la novella, la storiografia, il trattato, il dialogo, l’epistolografia, la biografia; sia di generi pressoché nuovi come l’autobiografia. (la novella – Bandello) La novella del Cinquecento si caratterizza per essere un genere libero rispetto alle codificazioni di stampo aristotelico e resta, almeno sino agli anni Sessanta, terreno di un discreto sperimentalismo. Il Decameron pone Boccaccio come punto di riferimento per la prosa letteraria, assurge a modello per la produzione novellistica, ma esso viene assunto dagli scrittori con una serie di arricchimenti, trasgressioni e innovazioni. Si identificano due grandi filoni della novella cinquecentesca, uno di stampo “comunale” o “cittadino”, vincolato al modello del Decameron e diffuso soprattutto in Toscana; e uno “cortigiana”, tipico di scrittori dell’area settentrionale, che si 12 caratterizza per la maggiore libertà del linguaggio e per la ricerca di fatti “straordinari” ricavati dalla storia o anche dalla cronaca. Di derivazione boccacciana è la raccolta di novelle Le cene del fiorentino Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca. Nella cornice, l’autore immagina che durante tre sere di carnevale si riuniscano per cenare quattro giovani e sei ragazze e che ognuno di loro racconti una novella. Quest’opera è giunta incompleta: la terza Cena infatti raccoglie solo due testi, per cui il numero totale di novelle si ferma a ventidue, rispetto alle trenta previste. Queste novelle tracciano un quadro vario e ricco del costume fiorentino contemporaneo, grazie anche all’uso di un lessico che si rifà in parte alla lingua parlata e popolare. Arguzia e vivacità del dialogo caratterizzano lo stile della narrazione. Angolo Firenzuola è un altro filosofo fiorentino autore di una raccolta di novelle. Egli si ispirò alla versione spagnola di una raccolta di novelle indiane per comporre la sua Prime veste dei discorsi degli animali (1540): lessico e sintassi quotidiani aderiscono alla materia semplice e ingenua del racconto popolaresco. Nel 1523-24 il Firenzuola aveva già tentato la via della raccolta di novelle iniziano i Ragionamenti: in essi si alternano novelle d’argomento licenzioso e comico a disquisizioni dotte sull’amore, in quanto alle prime è riservato un linguaggio realistico e faceto, mentre alle seconde uno stile elaborato. Matteo M. Bandello è il novelliere cinquecentesco più significativo e oggi meglio conosciuto. Le sue 214 novelle costituiscono una delle più cospicue raccolte italiane dopo il Decameron. Bandello rinuncia alla cornice unitaria di tipo boccacciano e adotta la soluzione di premettere a ogni singola novella una lettera dedicatoria indirizzata a un illustre personaggio, nella quale viene quasi sempre illustrata l’occasione in cui la novella sarebbe stata raccontata prima della sua trascrizione. Bandello sostituisce una struttura “aperta” alla struttura “chiusa” del Boccaccio, con la quale crea tra l’altro un effetto di maggior verosimiglianza storica, che contribuisce a far forza e rilievo al tono cronachistico del suo racconto. Il linguaggio è vario anche per l’inserzione di elementi dialettali padani; vario è anche il genere di argomenti trattati da Bandello: si va da quelli amoroso-sessuali, alle vicende mondane, alle beffe, alle avventure a lieto fine. Questo autore esamina il tema della gelosia e tutte le sue possibili congruenze, comiche ma spesso anche tragiche. Un notevole rilievo è dato a vicende tratte dalla storia: vengono messi in scena personaggi di epoche più o meno antiche; alcune storie sono ambientate nell’antichità, mentre altre rimandano alla realtà contemporanea. Le novelle di Bandello celebrano un mondo nobile, razionale e fedele alle gerarchie, ma il cui ordine è minacciato dall’insorgenza di contrasti o di pulsioni irrazionali. Non mancano le componenti etiche: i modelli di virtù sono costituiti anche da personaggi umili, che possono rappresentare un equivalente moderno dei virtuosi antichi. L’intento moralistico è molto spesso evidente, sebbene non senza contraddizioni. Il Cinquecento vede alcuni novellieri dedicarsi alla raccolta delle fiabe popolari. Il più famoso tra i novellieri italiani che riscoprono la fiaba è Giovan Francesco Straparola. La sua raccolta Le piacevoli notti comprende 75 novelle, che si immaginano raccontate nell’isola di Murano per tredici notti, durante il carnevale. La cornice di tipo boccacciano è impreziosita da racconti immaginosi. L’autore tenta di contrapporsi alla norma toscaneggiante con l’assunzione sporadica di registi dialettali. Il successo del suo primo libro di novelle all’epoca della pubblicazione fu tale che egli dovette approntarne un secondo, utilizzando alcune novelle in latino del napoletano Gerolamo Morlini. Di Luigi da Porto rimane una novella su Romeo e Giulietta, importante perché, attraverso la mediazione di un poema di Arthur Brooke, fornì a Shakespeare lo spunto per la tragedia intitolata appunto Romeo e Giulietta. (la storiografia) Nell’ambito della storiografia cinquecentesca spiccano le opere di Francesco Guicciardini e di Niccolò Machiavelli. Fra questi, si distingue il fiorentino Iacopo Nardi. Quel che sorregge la narrazione di Nardi è il pathos moralistico, di impronta savonaroliana. Sul piano storico, Nardi è ancorato alla tradizione comunale, che lo porta a ricondurre la storia presente di Firenze al passato, piuttosto che ad analizzare la situazione politica attuale; il suo sentimento antimediceo va così di pari passo col suo vagheggiamento di una Firenze ancora repubblicana e comunale. 15 della ninfa Dorinda per Silvio: sono vicende che conducono al lieto fine delle nozze delle due coppie. Guarini tenta l’emulazione dell’Aminta di Tasso: punta a un intreccio più complesso, a una maggiore sensualità e a momenti drammatici di effetto più spettacolare. Molto forte l’elemento lirico, mentre la ricercatezza formale e i complicati artifici narrativi sono stati interpretati come un annuncio del Barocco. All’opera veniva rimproverata anche l’indecenza e la scarsa moralità di alcune scene. Il melodramma. L’ultimo quarto del XVI secolo vede la nascita di un nuovo genere teatrale, il melodramma, che, nell’intento di operare un recupero più completo della tragedia classica greca, univa la musica al testo drammatico. Questa unione doveva approdare a un testo interamente intonato. La riflessione sul melodramma e i suoi primi esperimenti furono compiuti dalla Camerata de’ Bardi, un gruppo di musicisti fiorentini raccolti intorno al mecenate Giovanni Bardi del Vernio, tra i quali si trova Vincenzo Galilei, padre dello scienziato Galileo. FRANCESCO GUICCIARDINI - La vita Francesco Guicciardini nacque a Firenze il 6 marco 1483. Si formò seguendo una rigida educazione cattolica. Dopo il matrimonio, Guicciardini si diede all’attività diplomatica e politica: per conto del papa, fu governatore di Moderna e di Reggio Emilia (1516-17), e nel 1521 conobbe Macchiavelli. Tra il 1525 e il 1527, Guicciardini divenne un influente consigliere del nuovo papa Clemente VII: nel 1527 non seppe prevedere la reazione dell’imperatore Carlo V all’alleanza del Papato con la Francia, che portò al terribile Sacco di Roma. Nel frattempo, a Firenze cadeva il governo dei Medici: Guicciardini venne allontanato da tutti gli incarichi e si ritirò nella sua villa di Finocchiaro, nel Mugello. Nel 1531 ritornò sulla scena politica, ma nel 1534 il nuovo papa, Paolo II, lo esautorò e lo costrinse a un ozio forzato. Guicciardini si ritirò definitivamente dalla vita pubblica nel 1537 per dedicarsi ai suoi studi e alla scrittura delle sue opere fino alla morte, avvenuta il 22 maggio 1540. - Gli scritti politici Gli scritti di Guicciardini possono essere divisi all’incirca in politici, storici e testi a carattere personale e autobiografico. L’opera di Guicciardini si apre con gli scritti politici: nell’agosto del 1512, a Logrogno, in Spagna, egli compose un Discorso sul modo di ordinare il governo di Firenze, detto anche il Discorso di Logrogno. Guicciardini si propone di discutere dell’istituzione di buoni ordinamenti per Firenze in termini di astratta politica ma di corretta amministrazione dello Stato. Egli è fautore di un governo aristocratico, ma al tempo stesso si rende conto della necessità di coinvolgere il popolo nel governo: auspica l’elezione a vita di un “gonfaloniere”, la cui attività sia però controllata da un “consiglio grande”, espressione del popolo, e da un “consiglio ristretto”, espressione degli aristocratici. Al tempo di una missione diplomatica in Spagna (1511-1513) risale anche la Relazione di Spagna, opera nella quale Guicciardini descrive la Spagna a lui contemporanea secondo la propria esperienza, inserendosi in un filone letterario importante per il suo tempo, quello dei “ragguagli” o delle “relazioni”. Tra il 1515 e il 1516 Guicciardini compose due discorsi sulla condizione di Firenze dopo il ritorno dei Medici. Sempre al problema di assicurare un buon governo a Firenze, è dedicato il Dialogo del reggimento di Firenze, scritto e rielaborato tra il 1521 e il 1526. Interlocutori sono Piero Guicciardini, Bernardo del Nero, Pier Capponi e Paolantonio Soderini. Il dialogo è ambientato in quel 1494 che vide la discesa in Italia di Carlo VIII e la prima espulsione dei Medici da Firenze. L’opera è divisa in due libri: nel primo vengono discussi alcuni presupposti teorici dell’indagine storica, nel secondo viene articolata meglio la proposta di un ordinamento repubblicano misto. - Le opere storiche. La “storia d’Italia” Guicciardini si dedica, tra il 1508 e il 1509, alla composizione delle Storie fiorentine. Egli allora considerava la storia come una guida nella scelta di opportune strategie politiche per lo Stato, una concezione che verrà ripresa ma anche modificata nelle opere della maturità. Quest’opera si basa sui documenti dell’archivio di famiglia ed è destinata alla riflessione personale. Le Storie sono divise in tre parti: dal tumulto dei Ciompi del 1378 alla pace di Lodi del 1454; dal 1454 fino alla discesa in 16 Italia di Carlo VIII (1494); dal 1494 al 1509. Le Storie fiorentine contengono innovative valutazioni di ordine politico sulle vicende storiche. Guicciardini fa emergere la sua visione negativa delle insurrezioni e della massa popolare, al cui interno dominano l’ignoranza, la cecità e gli interessi dei demagoghi. Nella successiva restaurazione del governo oligarchico e nel ritorno della pace e della stabilità dello Stato egli vede la dimostrazione della correttezza della propria preferenza per il governo degli “uomini da bene e savi”. Di Lorenzo il Magnifico viene tracciato un ritratto con luci e ombre, sul modello di quelli proposti dallo storico latino Tacito. La morte di Lorenzo viene vista come la premessa dell’evento che appariva cruciale nella storia contemporanea, cioè la discesa in Italia dell’esercito di Carlo VIII di Francia (1494). Le Cose fiorentine (1528-1531) è un manoscritto scoperto solo nel 1928. L’opera copre un periodo che va dal 1375 fino all’inizio del Cinquecento, anche se dal 1402 la narrazione procede in maniera piuttosto schematica. La riflessione guicciardiana si è fatta qui più matura: l’autore cerca di evitare in questa nuova opera lo squilibrio tra una narrazione sintetica dei fatti più salienti del passato e una troppo analitica delle vicende contemporanee. La Storia d’Italia appartiene al periodo finale della sua vita, a partire dal 1536. L’opera risulta redatta in venti libri: il suo arco di tempo cronologico si estende dal 1494 al 1534. Sono queste due date cruciali della storia italiana contemporanea: nel 1494 infatti cala in Italia Carlo VIII di Francia e si manifesta la crisi politico-militare degli Stati italiani; nel 1534 muore il papa mediceo Clemente VII. La storia compresa tra queste due date è quella di un’Italia divenuta principale terreno di scontro per la supremazia continentale tra la casa d’Asburgo e quella di Valois, ed è anche la storia di come le vicende di Firenze finiscano col proiettarsi in chiave europea. Il ritratto in stile tacitiano di Lorenzo il Magnifico nelle Storie fiorentine si trasforma in quello di un Lorenzo “ago della bilancia” della politica italiana. La sua morte viene così presentata come momento chiave per la manifestazione della crisi italiana. Guicciardini si rivela un cronista distaccato, capace di elevare il proprio punto di vita al di sopra della narrazione, anche quando è il diretto protagonista dei fatti che narra; egli guarda alla sua materia in modo oggettivo e ciò produce nel racconto una sostanziale uniformità di toni cui corrisponde un’elaborazione stilistica solenne. Guicciardini parla di sé in terza persona e il ruolo dell’autore è fondamentale nell’opera, in quanto i suoi giudizi guidano il lettore nella comprensione dei fatti. Guicciardini fa uso di discorsi diretti dei protagonisti e di digressioni, e compone notevoli, asciutti ed equilibrati ritratti di grandi personaggi nel solco di una consacrata tradizione storiografica; l’uso della retorica da parte di Guicciardini è finalizzato a rendere più penetrante l’analisi storica, al bisogno di mostrare la mutevolezza dei fatti e delle cause. Fondamentale è il duplice giudizio che Guicciardini dà sull’utilità della storia: da una parte è considerata “maestra di vita”, dall’altra i pur utili e “salutiferi” documenti storici trovano dubbie possibilità di impiego. La storia è paragonabile ad un “mare concitato [”agitato”] dai venti”, dove la parte più importante viene recitata dalla fortuna. - Scritti a carattere personale e autobiografico. I “Ricordi”. Tra gli scritti di carattere autobiografico, Guicciardini compose due opere, le Memorie di famiglia (1508) e le Ricordanze (1508-16). Le Memorie sono una raccolta di ritratti dei propri avi con brevi note di commento, che avrebbero dovuto costituire un patrimonio di esempi ed esperienze famigliari a cui attingere. Le Ricordanze sono una enumerazione di vicende personali preziose per lo storico di oggi che voglia ricostruire le vicende giovanili dell’autore. Alla tradizione dei “libri di famiglia” è riconducibile l’opera che è considerata una delle più importanti di Guicciardini, i Ricordi. Il titolo va inteso nel senso di “ammonimenti e riflessioni da ricordare”. I Ricordi vennero editi parzialmente nel 1576, furono riscoperti nel 1587 ma non se ne ebbe un’edizione critica addirittura fino al 1951. Essi rappresentano un genere raro nella letteratura italiana, quello della raccolta di aforismi. La composizione dell’opera si estese lungo un arco di diciotto anni, dal 1512 al 1530, quando l’autore giunse a un’ultima redazione. Il gran lavorio cui Guicciardini sottopose quest’opera manifesta l’importanza che le attribuì, anche se mai pensò di renderla pubblica. Guicciardini ribadisce la sua fiducia verso ogni formulazione teorica, verso ogni regola che pretenda di sottomettere l’immensa varietà del reale. Discrezione è uno dei concetti chiave di Guicciardini, che in questa parola racchiude un’ampia gamma di significati: la “discrezione” 17 è la capacità di discernere, di saper operare una scelta efficacie tra varie possibilità senza il condizionamento di schemi prestabiliti. Il valore dell’esperienza si rivela grand e non tanto perché essa possa fornire modelli preconfezionati in base ai quali uniformare il nostro agire, ma perché essa aiuta ad affinare la qualità naturale dell’intuizione. Lo studio della storia giova all’uomo in quanto esso serve ad affinare l’intuito. Nella riflessione di Guicciardini ha un grande posto il tema della fortuna ed egli ritiene che l’uomo possa costruire argini contro l’avversa fortuna e che però essi talvolta non bastino, ma non pensa affatto che possano essere ricavate regole generali per la politica, sulla base degli andamenti storici. Ritorna alla riflessione di Guicciardini anche il tema della fortunata congruenza che deve sussistere tra le doti dell’individuo e il momento storico in cui vive e opera. Nel complesso, molti critici hanno individuato un forte pessimismo nella concezione guicciardiana dell’esistenza: è secondo lui spesso sottomessa al caso, che più di frequente è portatore di danno che di vantaggio. Guicciardini è anche autore di testi, nei quali inaugura un dialogo col suo contemporaneo, Machiavelli. Nel 1529 circa Guicciardini ebbe modo di leggere i machiavelliani Discorsi sulla prima deca di Tito Livio e su di essi scrisse delle Considerazioni, nelle quali viene contestata radicalmente la tesi relativa all’esemplarità della civiltà romana. Il primo motivo della contestazione è quell’ostilità verso ogni regola generalizzante in materia politica, che è uno dei nodi centrali del pensiero di Guicciardini. È infatti inutile tentare di uniformare il proprio agire politico agli esempi storici: occorre cercare soluzioni adeguate a problemi specifici. Secondo Guicciardini il continuo paragone instaurato da Machiavelli tra i Romani antichi e moderni italiani non regge. Guicciardini respinge come utopico il disegno machiavelliano di un’unità italiana, aggiungendovi la considerazione che l’unità politica non è una condizione migliore della divisione in tanti Stati, soprattutto in un paese come l’Italia dove era sempre stato molto vivo il senso dell’autonomia cittadina e regionale. ➢ Storia della lingua – volgare e latino nel Quattrocento Una crisi del volgare? Il Quattrocento è stato definito come un’epoca di “crisi del volgare”: questo significa solo che i letterati più importanti del tempo – gli umanisti – scrissero prevalentemente o esclusivamente in latino. Il volgare continuò invece a essere la lingua generale della conversazione. Le stesse persone di cultura parlavano in latino solo tra di loro e solo in situazioni particolari. Tra la morte di Boccaccio (1375) e gli ultimi anni del Quattrocento non compaiono opere letterarie in volgare che abbiano l’importanza della Commedia dantesca o del Decameron boccacciano nel Trecento, e nemmeno del Principe di Macchiavelli o dell’Orlando furioso di Ariosto nel Cinquecento. Il ruolo del volgare viene esplicitamente svalutato. Alcuni degli umanisti più importanti non scrissero mai in volgare, ma solo in latino. Alcuni criticarono Dante e chiunque avesse scritto in volgare. I nemici e i detrattori del volgare furono numerosi nel Quattrocento e anche nel secolo successivo. Il volgare e la grammatica. Gli umanisti presero in considerazione il volgare solo come curiosità storica. Con l’eccezione di Alberti e dell’”Umanesimo volgare” fiorentino, gli umanisti non ammisero la possibilità che il volgare venisse usato come lingua di cultura e di conseguenza la possibilità che venisse regolamentato. È famosa la discussione sull’origine del volgare avvenuta nel 1435, durante il Concilio di Firenze. La discussione coinvolse alcuni degli umanisti più importanti dell’epoca e avvenne in uno dei luoghi e momenti di massimo prestigio del latino, cioè:  nella Curia papale, un gruppo di persone al servizio del papa composto da funzionari di alto livello che si occupavano della corrispondenza pontificia;  durante il Concilio di Firenze, un incontro tra i massimi rappresentanti della Chiesa cattolica e di quella ortodossa. La discussione vide contrapposte la tesi del fiorentino Leonardo Bruni e quelle del forlivese Biondo Flavio. Le loro opinioni sull’origine del volgare si possono riassumere in questo modo:  Leonardo Bruni: già in epoca latina la lingua del popolo era diversa da quella della letteratura. La lingua del popolo ha dato poi origine al volgare oggi parlato; 20 le spese soprattutto il Certame coronario, una gara di poesia volgare sul tema dell’amicizia che si svolse nel Duomo di Firenze il 22 ottobre 1441. Nella seconda metà del secolo a Firenze il volgare venne valorizzato e divenne oggetto di una vera e propria politica culturale. Gli umanisti fiorentini esaltarono la cultura cittadina e ne celebrarono anche la lingua. Lorenzo de’ Medici negli anni Settanta incoraggiò la promozione della cultura fiorentina. L’idea che la lingua è “compagna dell’impero” faceva sembrare che, rafforzando la lingua, si sarebbe rafforzato anche il potere. L’opera fiorentina più significativa, promossa da Lorenzo, è la Raccolta Aragonese: un’antologia di poesia toscana che fu inviata in dono a Federico d’Aragona nel 1447. La Prefazione dell’antologia traccia una breve storia della poesia volgare e celebra il ruolo di Firenze e della sua cultura. La Raccolta Aragonese ebbe un’influenza sui futuri studiosi di letteratura volgare anche grazie al prezioso manoscritto originale, conservato e studiato con riverenza. Non riuscì ad affermarsi fuori di Firenze l’ideologia di fondo della Raccolta: il concetto che il fiorentino fosse una lingua più adatta delle altre alla letteratura e che quindi tra Dante e Lorenzo de’ Medici ci fosse in fondo una pacifica continuità. Cristoforo Landino iniziò nel 1470 un corso di letture del Canzoniere di Petrarca tracciando un breve profilo dell’evoluzione della lingua e della letteratura di Firenze. Pochi anni più tardi Landino tradusse la Naturalis Historia di Plinio proprio per dimostrare che il fiorentino poteva trasmettere gli stessi contenuti del latino. Questa traduzione fu occasione anche di nuove polemiche fuori da Firenze. Uno degli umanisti della corte, Giovanni Brancati, polemizzò con le scelte di Landino. Il ragionamento di Brancati si fonda su due argomenti caratteristici dell’ambiente umanistico: ▪ il latino è superiore al volgare e, quindi, nessuna traduzione può sostituire il testo originale; ▪ un volgare è equivalente a qualunque altro e il fiorentino non ha privilegi particolari. La lingua delle cancellerie e la corte di Ferrara. Qualche traccia di avvicinamento ad un ideale unitario si manifesta però nei singoli Stati italiani, nella lingua delle rispettive cancellerie. Nel Quattrocento prende forma una caratteristica lingua volgare di “koinè”, usata per le relazioni esterne e interne. Gli storici della lingua usano oggi lo stesso termine per riferirsi alla lingua che nel Quattrocento, nell’area padana, viene usata per la stesura di lettere e atti in volgare da parte delle cancellerie. Questo tipo di scrittura si afferma a partire dagli ultimi anni del Trecento. Questa lingua era formata da una mescolanza di elementi presenti in proporzioni variabili. Per tutto il Quattrocento la lingua di “koinè” si basò sul volgare locale, sul latino e sul modello toscano letterario. Altri impieghi del volgare. Gli impieghi prevalenti nel Due e Trecento non fanno che intensificarsi nel nuovo secolo. Ai ceti mercantili è affidata la trasmissione di una parte consistente della letteratura del Trecento. La lingua della predicazione fornisce una testimonianza interessante del parlato. Appunti manoscritti dei predicatori o di loro spettatori testimoniano l’esistenza in questo periodo di sermoni mescidati: prediche tenute in un miscuglio di latino e volgare. Questa predicazione fu praticata da francescani a cavallo tra Quattro e Cinquecento. L’espressività della lingua viene spesso accoppiata a una grande disinvoltura nei contenuti. Di uno dei più importanti predicatori del secolo, Bernardino da Siena rimane la trascrizione fedele di un ciclo di prediche tenuto nel 1427 a Siena. Le sue prediche servirono come modello anche per molti autori di “sermoni mescidati”. Da punto di vista del rapporto tra lingua e contenuti, il volgare era una lingua utilizzabile per esprimere contenuti inferiore. Risale alla fine del secolo, l’episodio più significativo nella storia della predicazione: Girolamo Savonarola, la cui predicazione ebbe un enorme successo di pubblico e fu apprezzata anche da alcuni degli intellettuali più in vita del periodo. CONTESTI E CONRONTI – L’UMANESIMO A FIRENZE E A ROMA 21 Firenze: patria dell’Umanesimo “civile”. Leon Battista Alberti lavora ai Libri della famiglia negli anni del soggiorno fiorentino (1434-43). Alberti è arrivato a Firenze: il 4 ottobre 1434 vi aveva fatto ritorno Cosimo de’ Medici, dopo il lungo esilio inflittogli dai suoi avversari politici. Si trattava di una svolta politica epocale, poiché dal quel momento la famiglia Medici accentrerà nelle sue mani il potere politico, economico e culturale di Firenze. La Firenze degli anni Trenta è una città straordinariamente fervida: la presenza di artisti sarebbe di per sé sufficiente a renderla tale. Nel 1438 Firenze è anche sede del concilio delle Chiese romana e bizantina. In quegli stessi anni Firenze diventa il centro propulsore di quello che è stato definito Umanesimo “civile”, nel senso che mette la riscoperta della classicità e dei suoi valori al servizio della vita quotidiana e attiva. Rappresentante e portavoce di quei valori è Leonardo Bruni: proprio negli anni Trenta Bruni lavorò alle sue monumentali Historiarum Florentini populi libri XII (“Storie fiorentine”), che ripercorrono in dodici volumi la storia di Firenze dalle origini al 1404, esaltandone la tradizione repubblicana e le sue libertà. Nel 1436 Bruni scrisse la Vita di Dante, facendosi promotore del culto dell’Alighieri e della rivalutazione della tradizione volgare fiorentina. Altro personaggio di spicco dell’ambiente dell’Umanesimo fiorentino è Poggio Bracciolini che, prima di farsi anche lui laico, era stato uno dei più attivi scopritori di manoscritti di opere classiche. L’Umanesimo a Roma: storia e filologia. Un altro importante centro di attrazione e di elaborazione della cultura umanistica è Roma e, innanzitutto, il Papato. Il grande contributo dato da Roma al movimento umanistico quattrocentesco si esplica su tre grandi livelli. La Curia papale assunse e attirò nella sua cancelleria grandi umanisti: Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini. Quando papa Martino V riportò la sede del Papato a Roma, l’Umanesimo arrivò al soglio di Pietro. Roma attirò letterati e studiosi grazie al suo ricchissimo patrimonio archeologico che, dal Quattrocento, cominciò ad essere studiato con metodi moderni. L’ambiente culturale romano fu propizio anche agli studi di storia antica e di filologia: fu dato impulso alla filologia latina, cioè allo studio e alla ricostruzione di quel latino classico che proprio gli umanisti quattrocenteschi andavano riscoprendo. I due più grandi studiosi che operarono a Roma nel Quattrocento sono Biondo Flavio e Lorenzo Valla. 1. Leonardo Bruni. Nasce ad Arezzo tra il 1370 e il 1374. Determinanti per la sua formazione sono il rapporto con Coluccio Salutati e con Manuele Crisolora. Il suo monumento funebre è collocato nella chiesa di S. Croce. Vasta e significativa è la sua attività di traduttore dal greco in latino: tradusse Plutarco, Demostene, ma le sue versioni più celebri sono quelle da Platone e da Aristotele. Della sua vasta produzione vanno ricordati la Laudatio florentinae urbis, scritta in greco, gli Historiarum Florentini populi libri XII, la Vita di Dante e i Dialoghi ad Petrum Histrum, operetta in due libri che propone una conversazione dei 1401 tra gli umanisti Coluccio Salutati e Niccolò Niccoli. Nel primo dialogo Niccoli elenca tutti i difetti danteschi e definisce Alighieri poeta da ciabattini e da fornai; nel secondo, ritratta le sue dichiarazioni, dimostrando che il suo era stato soltanto un modo per provocare la reazione di Salutati, che era un appassionato lettore di Dante.  Leonardo Bruni – “La difesa di Dante” Dante e l’elogio della vita civile. La ritrattazione di Niccoli è una vera e propria apologia dell’autore della Commedia. Bruni per tutta la vita sostenne che la formazione umanistica ha lo scopo primario di fornire una completa educazione al vivere sociale e civile. La vita civile è per lui perfezione dell’individuo, il quale raggiunge la propria compiutezza solo nel rapporto sociale. Secondo Bruni, Dante rappresentava la perfezione di questo modello, l’uomo che più di ogni altro ha incarnato l’ideale di vita civile: come cittadino, Dante aveva vissuto e operato a Firenze impegnandosi politicamente; come poeta, aveva scelto una lingua, quella fiorentina, con la quale aveva dato voce ai valori civili. Nessuno più di Dante poteva essere dunque eletto a modello: anche perché nessuno meglio di lui aveva cantato il pensiero filosofico e teologico. 2. Poggio Bracciolini. Nato nel 1380, trascorse una parte significativa della sua vita al servizio della Curia papale (fino al 1427), per ritirarsi sulle soglie della vecchiaia e fino alla morte, a Firenze, in veste di cancelliere e di storico (1453-59). La sua esistenza fu scandita da viaggi in tutta Europa e 22 a lui si deve la riscoperta di alcuni dei più importanti testi della latinità. Tra le sue opere, l’epistolario è molto importante e vede tra i corrispondenti tutte le figure maggiori dell’Umanesimo; il trattato De varietate fortunae, opera in latino dedicata alla fortuna e il Liber facetiarum (o Facezie), raccolta di aneddoti in latino messa insieme negli ultimi anni di vita e dalla quale emerge il carattere impetuoso, implacabile e irascibile che contraddistinse l’uomo Poggio.  Poggio Bracciolini – “La liberazione dei classici” È una delle lettere più note di Poggio: quella indirizzata da Costanza all’umanista ed educatore Guarino Veronese il 15 dicembre 1416, nella quale rende nota la scoperta di opere tra le più significative della classicità. Il destinatario. Guarino Veronese fu uno dei più grandi umanisti del Quattrocento e le sue lezioni erano così famose che ad assistervi accorrevano studenti da tutta Europa. La prigionia dell’oblio. Senza dubbio, l’immagine che connota questa lettera e che l’ha resa celebre è quella metaforica, dei capolavori della classicità reclusi in un tristissimo e oscuro carcere e condannati all’ergastolo. Poggio svolge il ruolo di liberatore e altrettanto forte, incisa è la descrizione dell’opera di Quintilliano. Poggio parla del testo dello scrittore latino come di un uomo prossimo alla morte di questo libro di Quintilliano si leggevano solo frammenti. L’Umanesimo fu anche questo: la volontà strenua di porre fino all’oblio che per secoli aveva cancellato i capolavori degli antichi, il desiderio di porre fine a una prigionia ormai sul punto di diventare, davvero, ergastolo. 3. Lorenzo Valla. È il più grande rappresentante della seconda generazione di quegli umanisti che, nati già nel Quattrocento, portarono la cultura umanistica alla sua affermazione definitiva. La vita e la carriera di Valla sono di un umanista del Quattrocento, poiché sono caratterizzate sia dagli spostamenti per tutta l’Italia presso diversi signori, sia da una varietà di professioni sempre legate alle competenze letterarie. Valle nacque a Roma da una famiglia lombarda e lì compì i suoi studi umanistici. Le opere di Valla coprono una straordinaria varietà di ambiti, dalla filosofia alla filologia greca e latina alla storiografia celebrativa. I suoi capolavori sono La Donazione di Costantino creduta e asserita con falsità (1440) e le Eleganze della lingua latina (1449). Lo scritto sulla donazione di Costantino costituisce la prima grande applicazione dela filologia: esso dimostra con ricchezza di argomenti storici e linguistici come il documento con il quale l’imperatore Costantino avrebbe donato, nel IV secolo, Roma e l’Impero d’Occidente alla Chiesa, legittimando così, nella cultura medievale, il potere temporale della Chiesa, sia un falso prodotto in età medievale. Le Eleganze sono il primo grande trattato sul latino classico, uno studio, fondato su una competenza straordinaria per l’epoca, che ricostruisce la grammatica e lo stile del latino scritto classico alla ricerca dell’elegantia, cioè dalla sintesi di correttezza e chiarezza linguistiche. Valla intende restituire un latino autentico, da opporre agli sviluppi successivi e “impuri” del latino medievale fino al latino di Petrarca e dei primi umanisti, sentito ormai già e proporre una lingua di cultura funzionale all’espressione del pensiero.  Lorenzo Valla – “La lingua latina, fondamento della civiltà” È l’inizio del proemio al libro delle Eleganze della lingua latina, nel quale Valla enuncia alcune idee centrali dell’opera intera che saranno, poi, in quelle dell’Umanesimo europeo: la diffusione del latino come supremo merito storico dell’impero romano in quanto causa di unificazione culturale e civile tra i popoli e come eredità perpetua della Roma antica all’Europa moderna. Il manifesto dell’Umanesimo europeo. I proemi alle Eleganze hanno un valore storico-culturale: essi sono ritenuti dagli studiosi una sorta di dichiarazione dei principi dell’Umanesimo e della tradizione degli studi classici nati nell’Europa moderna con il Quattrocento, principi e tradizioni che hanno costituito un elemento fondamentale della cultura europea almeno fino al primo Novecento. Le Eleganze rappresentano un testo fondamentale della tradizione classicista, cioè di quella tradizione che si richiama ai modelli antichi, perseguendo un ideale di equilibrio e armonia formali. I motivi principali del valore delle Eleganze si possono riassumere in tre punti: - la definizione del latino come nucleo della civiltà antica e sua eredità nella cultura europea moderna; 25 caso specifico parlato nel Mugello. L’effetto è quello di una parodia che rimane come sospesa e ambigua, fra il riso prodotto dal “cozzo” fra aulico e prosaico e la simpatia umana per il contadino innamorato, che soffre come tutti gli altri. La parodia letteraria della poesia d’amore. L’operazione letteraria condotta da Lorenzo è ricca e raffinata. Il discorso di Vallera è sia comicamente rozzo, sia allusivo ad una duplice tradizione letteraria di stile serio: la tradizione classica di poesia pastorale, dove sono tipici il lamento d’amore di un pastore innamorato e l’ambientazione pastorale e agreste, oltre alla tradizione romanza della lirica d’amore. La Nencia da Barberino capostipite della “poesia rusticale”. La Nencia da Barberino è un raffinato divertimento letterario, allo stesso tempo un esercizio di poesia comica e di poesia dotta e allusiva, una versione buffa del lamento d’amore di ascendenze letterarie classiche e medievali. Il successo di questo poemetto giovanile di Lorenzo fu tale da suscitare imitazioni da subito e nella stessa cerchia letteraria laurenziana fino a costituire un sottogenere, la poesia rusticale. ➢ Canti carnascialeschi Lorenzo fu autore di diverse “canzoni da ballo” per il carnevale, cioè di ballate da recitarsi durante le sfilate di Carnevale. Sono componimenti destinati a un pubblico molto ampio e generico e intimamente collegati all’atmosfera e agli scopi del rito festivo per il quale sono stati composti. Questi elementi spiegano alcuni caratteri delle “canzoni a ballo” di Lorenzo, come la lingua e lo stile eleganti ma nel contempo semplici e popolareggianti, i temi e il tono comici che fanno uso anche di doppi sensi relativi al corpo e alla sessualità. Lorenzo de’ Medici sarebbe stato l’inventore dei “canti carnascialeschi”, cioè di un sottogenere specifico di “canzoni da ballo” costituito da un testo che descriveva le maschere di un carro durante le sfilate di Carnevale e che era recitato dalla comitiva mascherata presente sul carro. ❖ Lorenzo de’ Medici – La Canzona di Bacco Il testo più famoso di Lorenzo (scritto nel 1490) è un canto carnascialesco, o canzona, che però, nelle mani del suo autore, diventa più di una poesia d’occasione, nata per una circostanza pubblica. Un tipico “messaggio” carnevalesco quale l’invito a godere e a divertirsi diventa anche l’espressione di una concezione seria della vita, fondata sul senso della fragilità dell’esistenza e sulla vanità della speranza nel futuro. La metrica. Ballata di soli ottonari con ripresa (xyyx) e sette stanze con schema (ababbyyx), nelle quali sono ripetuti, strofa per strofa, i vv. 3-4. Una poesia d’occasione originale. La Canzona di Bacco è un altro esempio dell’originalità letteraria del suo autore, che consiste nel fatto che un canto carnascialesco, un testo composto per un’occasione pubblica, si trasforma in una poesia personale e “filosofica”, espressione della concezione del mondo del suo autore. L’elemento carnevalesco e il messaggio morale: gioia e serietà. Il testo descrive le figure presenti sul carro carnevalesco, cioè le maschere, che qui si ispirano a un soggetto figurativo tipico della mitologia e dell’arte classica: Bacco, dio del vino, e sua moglie Arianna e il corteggio di Bacco. Ma tale messaggio è qui fondato si una concezione ben più seria: una visione disincantata, se non pessimistica, che sottolinea la brevità e la caducità della vita, consumata senza tregua dal tempo nemico e il carattere effimero di ogni piacere, l’inaffidabilità della speranza nel futuro e l’ineluttabilità del destino umano. Lorenzo attinge questa concezione a un patrimonio letterario e filosofico antichissimo, ma anche lla filosofia del suo maestro Marsilio Ficino. Il canto carnevalesco diventa anche una poesia a tema morale e l’invito tradizionale alla gioia converge con l’invito a godere le gioie del presente senza sperare nel futuro. Una sintesi di elementi popolari e di elementi umanistici. L’originalità di questo componimento consiste nella sintesi di elementi popolari e di elementi colti, una sintesi che si realizza non soltanto a livello del messaggio e del suo contenuto, ma anche sul piano formale. Lorenzo adotta un metro “popolare” come la ballata di ottonari, cioè un metro tipico della poesia per musica destinata a circostanze pubbliche e lo abbina ad una sintassi elementare, semplice e scandita per periodi brevi che di solito coincidono con le suddivisioni dello schema metrico. Questa metrica e questa sintassi 26 “facili” esprimono anche contenuti provenienti dalla filosofia o dalla lirica e di solito evitano l’uso di un lessico e di immagini “bassi” oppure osceni. ANGELO POLIZIANO - La vita Angelo Ambrogini nasce a Montepulciano (SI) nel 1454. Il cognome Poliziano, con il quale decide di farsi chiamare, deriva dalla forma latina del luogo di nascita. Poliziano muore a Firenze, a quarant’anni, il 28 settembre 1494, in circostanze misteriose. Un umanista alla corte dei Medici. Nel 1469 arriva a Firenze, dal contado senese, Angelo Ambrogini, che si fa chiamare Poliziano, nato nel 1454 a Montepulciano. Il giovane compie la sua formazione umanistica presso alcuni dei più importanti maestri dell’epoca. Si fa notare subito, perché è appassionato di greco e perché traduce in latino l’Iliade di Omero: questo lavoro attira l’attenzione di Lorenzo de’ Medici, che nel 1473 lo ammette nella propria casa e, nel 1475, vuole l’homericus adulescens al suo fianco, come segretario personale e precettore dei suoi figli. Comincia così un rapporto di fiducia e di collaborazione che si farà sempre più stretto. Nel 1477 Lorenzo manda in dono a Federico d’Aragona un manoscritto lussuoso: si tratta di un’antologia della poesia toscana comprendente rime antiche e moderne. La raccolta si apre con una lettera che porta la firma del Magnifico, ma che si sa essere stata scritta da Angelo Poliziano. È la prima riflessione critica sulla storia della poesia italiana dopo il De vulgari eloquentia di Dante. Quella silloge è anche un delicato intervento diplomatico, finalizzato ad appianare i rapporti non facili e non limpidi tra Firenze e Napoli. Nello stesso anno Lorenzo nomina Poliziano come priore di S. Paolo: è il raggiungimento della tranquillità economica. Nell’estate comincia a scrivere i Detti piacevoli, una raccolta di aneddoti in volgare che terminerà nel 1482. L’anno dopo, nel 1478, Poliziano salva Lorenzo dalla morte, facendolo rifugiare in S. Maria del Fiore. La famiglia dei Pazzi aveva tentato un vero e proprio colpo di Stato che doveva avere inizio con la morte dei due fratelli Lorenzo e Giuliano e la successiva insurrezione della città. Lorenzo ha il tempo di difendersi e di fuggire nella sacrestia, reprime la rivolta e punisce i responsabili: ma il papa Sisto IV lo scomunica e il re di Napoli gli dichiara guerra. Poliziano accompagna fuori Firenze la moglie e i tre figli di Lorenzo. Il giovane poeta reagisce all’evento drammatico da funzionario fedele e scrive nel 1478 il Pactianae coniurationis commentarium, nella quale ricostruisce i fatti non da storico, ma da cortigiano, dando una versione tutta personale dell’evento drammatico, dopo il quale gli è impossibile continuare le Stanze. La rottura con la corte. Nel 1479 il poeta litiga con la moglie di Lorenzo, litiga con lo stesso Lorenzo e quindi parte per un esilio nell’Italia settentrionale. A Venezia conosce il filologo e letterato Ermolao Barbaro che gli fa leggere la Poetica di Aristotele, a Mantova è al servizio del cardinale Francesco Gonzaga; in questa città fra il 1479 e il 1480 scrive la Favola di Orfeo, il primo testo teatrale in volgare, ispirato alla vicenda del mitico cantore e alla difesa del valore della poesia. torna a Firenze nell’estate del 1480. Lorenzo gli ha fatto attendere più di un mese il suo successo al ritorno, ma non lo riammette nella sua casa: gli regala una casetta a Fiesole, dove subito Poliziano si trasferisce e poi gli assegna una cattedra nello Studio. Poliziano diventa professore di greco e di latino, professione che eserciterà fino alla morte. L’attività di filologo. Gli ultimi quattordici anni della vita sono dedicati allo studio della filologia, la disciplina che si occupa della ricostruzione del testo originale di un’opera. Si dedica dopo aver letto la Poetica di Aristotele e aver riflettuto su come ricostruire la storia dei testi antichi, su come leggerli e interpretarli. Egli si fa gramaticus, accettando la lezione di Aristotele, secondo la quale la parola è equivalente della res, della cosa. Dal 1482 al 1486 Poliziano compone le Sylvae, nelle quali affronta problemi di poetica e di filologia. Da questi studi nasce il capolavoro dei Miscellanea, che constano di due libri o centurie, dedicate a problemi testuali, interpretativi e di erudizione varia. I Miscellanea segnano l’atto di nascita della filologia moderna. Nel 1491 il poeta rientra in casa Medici come custode della biblioteca di Palazzo; su commissione di Lorenzo, parte con il dotto studioso Pico della Mirandola alla ricerca di codici e di libri. Si ferma a Venezia, Padova, Bologna, dove conosce 27 Alessandro Sarti. Nel 1492 muore Lorenzo. Poliziano torna a sentire la precarietà della sua situazione: tenta di diventare bibliotecario della Vaticana; chiede continuamente benefici. Gli ultimi anni sono costellati anche da continue polemiche con altri umanisti. Poliziano muore in circostanze misteriose il 28 settembre 1494. - Le “Stanze” Le Stanze sono un poemetto in ottave formato da due libri, rimasto incompiuto. Il testo si chiude con una preghiera di Iulio ad Amore, alla dea Minerva e alla Gloria. La morte decise il latino redazionale delle Stanze. Poliziano si trovò di fronte a una realtà che toglieva senso alla continuazione dell’opera. Le Stanze sono poesia d’occasione, perché nascono sotto l’impulso di un fatto realmente accaduto all’interno del contesto politico-culturale della Firenze di Lorenzo il Magnifico. L’opera è uno dei prodotti più alti della letteratura del Quattrocento, sia sotto il profilo linguistico, sia sotto il profilo stilistico. La descrizione della nobile bellezza di Simonetta, così come l’ampia parentesi narrativa dedicata agli incanti e alle bellezze incontaminate del regno di Venere, sono i luoghi più celebri dell’opera e danno la misura della complessità della scrittura polizianea, che è un mosaico di citazioni e richiami alla letteratura del passato: fonti volgari si intrecciano con fonti classiche. La poesia delle Stanze dà l’impressione di facilità e di immediatezza ma è invece il risultato di uno studio minuzioso e approfondito della potenza e dell’espressività della parola. Poliziano è un “umanista della parola”, per il culto che verso di essa si manifestò sempre, da poeta e da filologo insieme. L’opera reca traccia dell’influsso della filosofia neoplatonica ficiniana: secondo quale interprete, la vicenda di Iulio rappresenta quello che anche Ficino chiamava l’itinerarium mentis in Deum, cioè il percorso della mente umana dalla fase della voluttà a quella della contemplazione di Dio. In sintesi, si potrebbe affermare che le Stanze sono la rappresentazione “dell’uomo in bilico tra forza-amore e fortuna-morte”. ➢ L’opera Struttura e composizione delle “Stanze”. Le Stanze sono un poemetto in ottave, che nasce come opera d’occasione, ideata per celebrare un particolare avvenimento della cronaca fiorentina. Il 29 gennaio 1475 si tenne a Firenze una giostra per sancire la pace stipulata fra Firenze, Milano e Venezia. Con le Stanze, Angelo Poliziano esalta la vittoria di Giuliano, cui dà il nome latinizzato di Iulio e il suo amore per Simonetta Cattaneo. Ma questo poemetto sarebbe rimasto incompiuto. Poliziano, che non aveva ancora ultimato le Stanze, decise che non c’era più motivo di continuarne la stesura, dopo la morte di Simonetta, avvenuta il 26 aprile 1476. L’opera rimase inedita sino a quando un ammiratore di Poliziano, prese l’iniziativa di darla alle stampe, verosimilmente con il consenso dell’autore e proprio un mese prima della sua morte, avvenuta nel 1494. Il contenuto delle “Stanze”. La prima sezione di questo primo libro delle Stanze si chiude con l’immagine del giovane che rientra nella propria casa turbato dalle pene d’amore. Il secondo libro si apre con il resoconto di Amore: la notizia allieta Venere, la quale esprime il desiderio che Iulio combatta per la sua gloria e il suo nome. Le Stanze si chiudono con la preghiera che Iulio, memore del sogno, rivolge a Pallade, dea della sapienza, ad Amore e alla Gloria. Citazioni letterarie e allegoria neoplatonica. Le Stanze sono un’opera colta, dalla quale emerge la profonda conoscenza che Poliziano aveva della cultura classica: l’opera è un intarsio di citazioni. La raffinatezza e lo spessore delle Stanze emergono anche dal fatto che essa si presta a un duplice livello di lettura. A livello letterale nella trama si può infatti sovrapporre un livello allegorico: nella vicenda dell’innamoramento di Iulio per Simonetta il poemetto rappresenta quello che la filosofia neoplatonica e ficiniana definisce come l’itinerarium mentis in Deum. Questo percorso è scandito nelle tre fasi della voluttà, cioè dell’amore per beni terreni; dell’impegno civile, cioè del desiderio di nobilitare la mente a contatto con nobiltà e intelligenza; e infine del bisogno di contemplazione diretta della divinità. Queste tre fasi trovano corrispondenza nell’intreccio narrativo delle Stanze in 30 L’Arcadia è un prosimetro, cioè un testo in cui sezioni in prosa si alternano a componimenti in versi. Esso consta di un Prologo, di dodici prose alle quali corrispondono e si intercalano dodici egloghe e di un Congedo alla sampogna. Iacopo Sannazzaro si dedicò alla stesura dell’Arcadia per oltre vent’anni: intorno al 1481 furono scritte le prime egloghe, che ebbero probabilmente circolazione autonoma. Agli inizi del 1504 uscì a Venezia un’edizione dell’Arcadia non autorizzata: essa riproduceva il testo della prima redazione. In risposta a questo atto di pirateria e forse anche ad un commento dei fatti che segnarono la fine del Regno aragonese, Sannazaro si decise a pubblicare la sua Arcadia, che vide le stampe a Napoli nell’autunno del 1504. La trama dell’Arcadia è piuttosto esile: dopo un Prologo, nel quale Sannazzaro dichiara che riferirà “le rozze ecloghe” che un tempo ha ascoltato intonare dai “pastori di Arcadia”, inizia il racconto della storia di Sincero (protagonista dell’opera e alter ego del poeta), il quale, lasciata Napoli a causa di una delusione d’amore, si rifugia ad Arcadia, dove si inserisce in un gruppo di pastori. L’opera si chiude con una dichiarazione programmatica del poeta, il quale annuncia che abbandonerà per sempre la sampogna, cioè la poesia pastorale. L’Arcadia è il primo “romanzo pastorale” della letteratura italiana, ambientato appunto nella regione della Grecia che la tradizione letteraria vuole fertile e lussureggiante, popolata da pastori dediti alle greggi e al cento. Sannazzaro sfrutta il mito e vi innesta il proprio racconto: racconta storie d’amore. Dentro questa cornice Sannazzaro trova modo di inserire la storia: le parole dei pastori contengono allusioni alla contemporaneità e corposi affiorano i riferimenti ai fatti che segnarono il Regno di Napoli negli anni 1481-86. Una volta decifrato il codice usato dal poeta, si capisce cosa rappresenta l’Arcadia: una patria alternativa, un luogo dove rifugiarsi quando il mondo reale non consente più la sopravvivenza; un luogo dove è possibile parlare di verità che altrove sono impronunciabili. La narrazione è tramata da canti funebri, molti dei quali intonati ai piedi dei sepolcri. ➢ L’opera Struttura e storia dell’ “Arcadia”. L’Arcadia si compone di un Prologo, di dodici prose alternate ad egloghe e di un Congedo alla sampogna, nel quale il poeta si licenzia dal genere bucolico. L’alternanza di prose e di egloghe fa dell’opera sannazariana un prosimetro. L’Arcadia conobbe per oltre due secoli, fino alle soglie dell’Ottocento, una fortuna immensa: l’Arcadia fu un libro “europeo”, che entusiasmò i lettori inglesi, francesi, fiamminghi. Poi fu dimenticata: sulla sua fortuna hanno pesato certamente anche critiche impietose. Il contenuto dell’ “Arcadia”. La trama dell’Arcadia è lineare: nel Prologo Sannazzaro dichiara che riferirà le rozze egloghe che un tempo lui stesso ha ascolto intonare dai pastori d’Arcadia, la regione della Grecia che il mito voleva abitata da pastori dediti al canto e alla tranquilla vita dei campi; qui viene a rifugiarsi il protagonista Sincero, il quale, lasciata Napoli, si inserisce all’interno di un gruppo di pastori dei quali inizia a condividere vita e attività. Una notte, un sogno terribile segnato da immagini funeree induce Sincero ad abbandonare l’Arcadia e a tornare a Napoli: sotto la guida di una ninfa, compie un viaggio nelle viscere della terra, nelle grotte sotterranee da cui nascono i fiumi. Al momento di congedarsi, la ninfa gli annuncia la morte della donna amata: la prima cosa che Sincero ascolterà, arrivato a Napoli, è il canto di due pastori in morte di una donna. L’opera si chiude con una dichiarazione programmatica del poeta il quale annuncia che abbandonerà per sempre la “sampogna”, cioè la poesia pastorale. Demistificazione del mito, travestimento del reale. Si è letta l’Arcadia come la rappresentazione superficiale di un mondo idilliaco, lontanissimo dal reale, in cui pastori e pastorelle intrecciano avventure d’amore e nel quale la vita scorre senza turbamenti e dolori. Le vicende dei pastori sono ambientate in una terra avvolta nella leggenda, che il mito vorrebbe relegata fuori dal tempo, ma questa terra rappresenta una immagine veritiera del tempo del poeta: i personaggi osservano, commentano e a volte subiscono gli eventi della storia. Sannazzaro conferisce alla sua Arcadia un’identità forte e rinnovata, nel quale mito e realtà convivono: le bellezze naturali e mitizzate del luogo fanno da sfondo alla narrazione, che lascia spazio alla sofferenza d’amore, alla guerra e alla 31 morte. Sannazzaro reinterpreta e trasforma il mito arcadico, arrivando quasi a demistificarlo. Nel suo prosimetro l’Arcadia, da originario luogo del mito, diventa luogo d’esilio. Il “coverto parlare”. L’Arcadia è il luogo/non luogo nel quale la storia arriva filtrata dal racconto di coloro che la abitano. In Arcadia si parla di ciò che accade all’esterno, nel regno del reale e si parla di cose di cui nel regno del reale è impossibile parlare: l’unico modo per parlarne è adottare il linguaggio del mondo arcadico, cioè trasferire ogni riferimento alla realtà esterna nella dimensione pastorale. Succede che in Arcadia si narri ciò che avviene fuori: la poesia è tramata di velati riferimenti, di travestimenti bucolici, di ammiccamenti. Sannazzaro stesso lo definisce il linguaggio del “coverto parlare”. Il lettore scopre che la storia è parte integrante, quasi tessuto connettivo dell’opera e verifica pure che la morte si pone, accanto alla storia, come altra protagonista del romanzo. Presagi di morte e congedo dal canto. A partire dalla quinta prosa fino alla fine sarà una costante luttuosa a segnare i contenuti dell’Arcadia: la quinta egloga è il canto funebre per Androgeo. L’Arcadia è posta sotto un segno di morte, che incrina la visione idilliaca tradizionale del mondo pastorale e lascia intravedere, al di sotto del travestimento letterario e linguistico, le oscure fattezze della realtà, nella quale ogni poesia è impossibile. ❖ Iacobo Sannazaro – L’Arcadia e la storia Sincero si allontana dal gruppo di pastori e incontra Montano, al quale chiede di cantare. Montano accetta: quelli che seguono sono alcuni dei versi da lui intonati. La metrica. I vv. 19-38 sono endecasillabi piani con rima al mezzo; i vv. 39-56 sono terzine dantesche di endecasillabi sdruccioli. L’egloga e il codice bucolico. La seconda egloga dell’Arcadia è una delle più antiche: si ritiene che Sannazaro l’abbia composta quando ancora non pensava al prosimetro ed è probabile che essa abbia avuto una circolazione autonoma, anteriore al suo inserimento all’interno del romanzo. Il passo descrive una realtà difficile e problematica. Il codice bucolico è un modo allusivo di fare poesia, nel senso che dietro ai fatti e personaggi di fantasia si celano, se non sempre, sicuramente molto spesso, fatti e personaggi reali. Talvolta, la decifrazione non è immediata, bensì bisogna ricostruire l’ambiente e le circostanze storiche del momento in cui l’autore scrisse le sue egloghe e quindi interpretare il testo. Il significato nascosto. I dati a disposizione consentono di affermare che i vv. 19-56 alludono in modo circostanziato alla situazione politica napoletana dei primi anni Ottanta del Quattrocento. Sannazzaro non era solo nel lanciare simili invettive: accanto a lui si era posto Pietro Iacobo de Jennaro, che denuncia la stessa realtà negli stessi identici termini dell’Arcadia. La terra Arcadia diventa il luogo dove la storia può trovare voce, anche se mediata da un codice cifrato, ma pur sempre una voce. - Altre opere Sannazaro è autore anche di una raccolta di Rime in volgare, pubblicata postuma nel 1530 e di un poema sacro in latino, il De partu Virginis, edito nel 1526, dedicato alla nascita di Cristo. ➢ Storia della lingua – il volgare nell’età della stampa Latino, lingua e dialetti. Il Cinquecento è un punto di svolta fondamentale, in quanto il volgare letterario diventa:  la lingua preferita dai letterati anche per la scrittura di opere originali, superando il latino: la vittoria del volgare avvenne entro limiti precisi. Il latino continuò ad essere usato nei tribunali, nelle università e nelle chiese; continuò ad essere usato per l’abitudine, in altri fu scelto. A metà del Cinquecento, con il concilio di Trento, la Chiesa cattolica vietò le traduzioni volgari della Bibbia e impose l’uso del latino nella messa;  stabile e comune in tutta l’Italia: all’inizio del secolo non esisteva una lingua letteraria comune, accettata da tutti, in prosa e in poesia. alla fine del secolo, questa lingua esisteva e poteva ormai essere chiamata lingua italiana. La lingua degli scrittori è la base dell’italiano di oggi, scritto e parlato. Agli inizi però era una lingua solo scritta. Le parlate locali andarono 32 però incontro a un importante cambiamento di ruolo. I volgari di tutta l’Italia si erano evoluti dal latino volgare, ognuno per conto proprio. L’unificazione della lingua letteraria creò un modello a cui le persone più istruite cercavano di accostarsi in diverse occasioni. Quelli che nei secoli precedenti erano stati i diversi e autonomi volgari vennero percepiti sempre di più come varianti locali di una lingua nazionale, cioè come dialetti dell’italiano. Un modello di lingua letteraria preciso riuscì ad affermarsi, sostituendo gli altri nella scrittura e gettando le basi per la propria adozione nel parlato. L’affermazione di questo modello è legata a motivazioni esterne alla lingua. L’italiano letterario non si diffuse perché era uno strumento di comunicazione intrinsecamente migliore degli altri. La “rivoluzione inavvertita”. Entro il 1455, Gutenberg produsse il primo libro stampato con caratteri mobili. Nei decenni successivi la tecnica tipografica si diffuse rapidamente, prima in Germania e poi nel resto d’Europa. L’introduzione della stampa ebbe conseguenze di diverso genere. È chiaro che tutto è cambiato. A seconda gli interpreti sono stati considerati effetti indiretti della stampa i fenomeni più disparati: la nascita della scienza moderna e quella della filologia, la formazione del pensiero giuridico moderno, la riforma religiosa e via dicendo. Di sicuro, la standardizzazione dei libri a stampa scorre in parallelo a una tendenza a creare o cercare regola per innumerevoli settori della vita umana. Le diverse città italiane si specializzarono spesso in tipi diversi di editoria, ma in breve tempo fu Venezia a conquistare il predominio. Per un secolo, Venezia diventò il principale centro editoriale non solo d’Italia, ma d’Europa. Fino alla fine del Cinquecento, i libri che uscivano a Venezia nell’arco di un anno erano più numerosi di quelli stampati nello stesso tempo in tutte le altre città italiane messe assieme. Molti dei testi latini stampati tra Quattro e Cinquecento avevano funzione di servizio: erano testi liturgici, raccolte di leggi per lo studio nelle università e così via. Le opere in volgare erano destinate a un pubblico poco esigente: spesso consistevano in fascicoli di poche pagine che riportavano testi di prediche o poemi cavallereschi di scarse pretese. A cavallo tra Quattro e Cinquecento l’editoria era un’industria importante, ma la sua importanza riguardava un mondo in cui solo un numero relativamente ridotto di persone era in gradi leggere e scrivere. Dal punto di vista linguistico, occorre notare che i primi libri pubblicati in Italia con la nuova tecnica erano scritti in latino. La percentuale di libri in volgare, tra i libri stampati in Italia, risulta del 20% tra tutti i libri stampati nel Quattrocento e del 60% tra i libri stampati nell’ultimo decennio del Cinquecento. Il processo di avanzamento del volgare si era messo in moto in modo indipendente rispetto alla diffusione della stampa e procedeva per forza propria. Le esigenze quotidiane richiedevano uno scambio sempre più fitto di carte e lettere che fossero semplici da leggere e da scrivere. Alla fine del Quattrocento, la crisi della cultura umanistica aveva creato i presupposti per svalutare l’uso del latino. Il latino umanistico era diventato uno strumento più difficile da usare e meno importante nelle nuove condizioni della società italiana. Aldo Manuzio e la lingua volgare. Aldo Manuzio esemplifica quali potessero essere le preferenze linguistiche in un intellettuale di alto livello. I suoi prodotti furono rivolti ad un mercato d’élite, ma influenzarono profondamente le abitudini intellettuali ed editoriali del suo tempo. I primi libri a stampa erano molto simili ai manoscritti e mancavano di molti elementi a cui oggi si è abituati. Le innovazioni sono in parte frutto di graduali innovazioni, in parte scelte precise di figure eminenti. Aldo Manuzio è stato celebrato come l’ “inventore dell’indice”, che è una delle persone che hanno contribuito a dare forma al libro moderno. Per un certo tempo, Manuzio pubblicò solo opere in latino o in greco, ma nel 1499 stampò anche un testo volgare: l’Hypnerotomachia Poliphili. Il libro viene spesso considerato il capolavoro dell’editoria del Quattrocento. Il testo rappresenta in sé forse il massimo esempio di latinizzazione a partire dalle tendenze della lingua di “koinè”. È infatti formato da una base volgare toscana e veneta resa quasi irriconoscibile da un diluvio di latinismi e grecismi. Il promotore di questo cambiamento fu Pietro Bembo che, insieme ad Aldo Manuzio, si erano conosciuti già alla fine del Quattrocento. La grammatica era stata pubblicata poco dopo da Aldo Manuzio. Aldo aveva infatti cominciato a pubblicare nel 1501 una nuova collana di classici della poesia latina in una veste editoriale rivoluzionaria. Questi testi erano pensati per un nuovo tipo di 35 Machiavelli dedica il VII capitolo della sua opera all’azione di un principe a cui non mancarono le virtù politiche e in qualche modo dispose anche della forza, ma a cui fece difetto la fortuna, nel finale. Tale principe è Cesare Borgia, detto il duca Valentino. Analizzando l’azione di Cesare Borgia, Machiavelli non trova errori da imputargli, ma solo un concorso di cause sfortunate. Quindi il Valentino, nonostante tutte le sue doti, non può essere considerato il principe ideale, poiché in un momento decisivo non seppe valutare la situazione con sofficiente lucidità politica. L’esame delle imprese del Valentino metteva Machiavelli di fronte al problema del rapporto tra politica e delitto. Il Valentino aveva acquistato potere anche attraverso il tradimento e l’assassinio dei suoi rivali. Un principe che giunge al potere in tal modo non può essere considerato un principe ideale poiché il mezzo che ha usato (il delitto) può far conquistare il potere ma non la gloria. Tuttavia in certi momenti, per assicurarsi il potere o per mantenerlo può essere necessario usare la violenza: in tal caso bisogna infliggere la violenza tutta in una volta e non trascinarla in lungo, poiché questo rende insicuri i sudditi neutrali e persino gli amici, inducendoli a complottare per rovesciare il principe. A questa osservazione ne va accompagnata un'altra fra le più disincantate delle tante che Machiavelli propone sulla natura umana: gli uomini dimenticano più facilmente la morte del padre che la confisca del patrimonio e di questo devono tenere conto i principi quando intendono colpire i loro oppositori o rendere giustizia. Accanto al tema del rapporto tra politica e delitto, si può collocare l’esame del rapporto tra politica ed etica svolto nei capitoli XV-XVII. Secondo Machiavelli, politica ed etica sono due entità assolutamente separate e il principe che intendesse mantenere sempre un comportamento morale in politica finirebbe col rovinare sé stesso e lo Stato, perché l’etica giudica ciò che è bene o male, mentre la politica deve considerare solo ciò che è utile o dannoso per il mantenimento dello Stato. Inoltre, Machiavelli esprime uno dei suoi pareri più famosi riguardo alla questione se sia meglio per un principe essere amato per la sua pietà o temuto per la sua crudeltà: è meglio essere tenuti che amati, perché gli uomini sono più portati ad aggredire all’occasione uno che ispira amore, piuttosto che uno che ispira timore. Correlato ai temi precedenti è quello che Machiavelli svolge nel capitolo XVIII: se sia opportuno per i principi mantenere i patti giurati. Lo scrittore propone un ragionamento di vasta portata e su più piani. Osserva innanzitutto che esistono due modi di combattere, uno con la legge, l’altro con la forza. Il primo (legge) è proprio solo dell’uomo, il secondo dell’uomo o degli animali. Bisogna pertanto rappresentare la figura ideale del principe con quella del centauro, che è per metà uomo e per metà bestia. La ferocia non può comunque esaurirsi nel solo uso della forza bruta, ma deve talvolta ricorrere anche all’astuzia. La parte animalesca del principe deve essere composta per metà dal leone e per metà dalla volpe, perché il leone da solo non saprebbe difendersi dalle trappole e la volpe da sola non saprebbe difendersi dai lupi. Machiavelli ribadisce, per motivi di ordine pubblico, l’importanza della morale e la necessità di distinguere tra bene e male. Il suo insegnamento si rivolge proprio a quel principe che per natura è buono e riconosce la differenza tra bene e male. Machiavelli conclude il suo trattato dedicandosi all’analisi della situazione italiana a lui contemporanea. Erano da poco avvenuti sconvolgimenti straordinari, i quali sono stati tali, da individuare numerosi errori nel comportamento politico dei principi. La riflessione politica ha lo scopo di aiutare i governanti a erigere argini contro le piene della fortuna, la quale, essendo donna, va sottomessa con l’impeto e l’astuzia. Il periodo in cui Machiavelli scrive è favorevole ad un’azione politica per ricacciare dall’Italia gli stranieri e per dare finalmente un governo autorevole alla penisola. Nel capitolo finale del Principe, la proposta di porsi come guida di quest’azione viene fatta a Lorenzo de’ Medici il Giovane e vengono sottolineati i grandi vantaggi che sarebbero derivati a lui e alla sua famiglia, ma anche quelli che avrebbe avuto l’Italia intera, grazie alla realizzazione di un sogno già di Petrarca. ➢ L’opera 36 La composizione del “Principe”. La prima notizia sulla composizione del Principe risale al 10 dicembre del 1513. In una lettera inviata all’amico Francesco Vettori, Machiavelli annuncia di aver scritto un opuscolo intitolato De principatibus. L’anno precedente, Machiavelli era stato privato di ogni incarico pubblico e, accusato di aver partecipato alla congiura antimedicea organizzata da Pier Paolo Boscoli, era stato imprigionato e torturato. Nel 1513 era stato liverato e si era rifugiato all’Albergaccio, il podere di famiglia die pressi di Firenze. Il Principe è un’opera scritta in esilio, lontano da Firenze, da un uomo ormai estromesso dai suoi incarichi politici. Sulla durata della stesura e sulla definitiva elaborazione i pareri dei critici sono discorsi. Crisi personale e italiana. La dedica suggerisce che il Principe doveva servire a Machiavelli anche per ottenere dai Medici un incarico che interrompesse il suo isolamento e gli consentisse di ritornare alla politica attiva. La politica come campo di esperienza: la “verità effettuale”. Il Principe richiama sia alla trattatistica politica medievale degli specula principum, legata a una visione religiosa dell’azione di un governo, sia a quella umanistico-rinascimentale, di matrice più laica. Machiavelli ribalta questa tradizione: il suo scopo è quello di ricavare dalla realtà le regole a cui il principe deve ispirare la sua azione di governo. L’azione politica si presenta come un campo di esperienza da indagare con metodo adeguare per individuare le leggi costanti che ne regolano il funzionamento. Tale metodo, indicato da Machiavelli come ricerca della “verità effettuale”, consiste nello studio dei dati ricavati dall’esperienza politica e dalla lettura degli autori antichi. Machiavelli pone così le basi per la nascita di una scienza della politica. Struttura e contenuti. Il trattato è composto da ventisei capitoli, con titoli in latino, raggruppabili in quattro “sezioni tematiche”: • Capitoli I – XI: la prima “sezione” è dedicata alla trattazione dei vari tipi di principato, misti e del tutto nuovi. Nell’indicare i modi per conquistare e conservare un principato nuovo, Machiavelli parla del diverso ruolo che la virtù e la fortuna esercitano al momento della conquista del potere. Nel capitolo VI, Machiavelli addita i modelli da seguire e teorizza il principio di imitazione degli antichi come norma a cui si deve ispirare il principe nuovo. Nel VII presenta esempi tratti dall’età contemporanea: Francesco Sforza, il Valentino, il pontefice Alessandro VI e del re di Francia Luigi XII. Nei capitoli VIII e IX Machiavelli esamina i casi opposti in cui il potere è stato raggiunto o con la violenza o con il consenso dei concittadini; nel capitolo X si occupa dei problemi militari. La sezione si chiude con un breve capitolo, l’XI, dedicato al principato ecclesiastico, governato dal papa e da uomini della Chiesa; • Capitoli XII – XIV: la seconda “sezione” tratta esclusivamente del problema militare, nella quale vengono analizzati vari tipi di milizie e la loro diversa efficienza. Alla polemica contro le milizie mercenarie segue il confronto fra i tre tipi di milizie, confronto che si conclude a favore dell’esercito proprio. Nel capitolo XIV sono esposti i cambiamenti a cui si deve attenere il principe nuovo; • Capitoli XV – XXIII: con il capitolo XV ha inizio la terza “sezione”, dedicata alla figura del principe. Machiavelli prende in esame le virtù e i vizi per cui i principi sono lodati o biasimati. Ipotizzando una sostanziale autonomia della politica dalla morale e dalla religione, Machiavelli ribalta la tradizionale ripartizione tra virtù e vizi, dimostrando come in politica ciò che appare un vizio possa rivelarsi una virtù. Al principe, sorte di moderno centauro capace di unire la razionalità umana all’istintività animale, conviene essere parsimonioso piuttosto che generoso, crudele piuttosto che pietoso, astuto come una volpe e forte come un leone. Il principe deve evitare di essere odiato e disprezzato, perché si incrinerebbe la fiducia che i sudditi ripongono in lui e quindi la base stessa del suo potere. Per questo deve agire in modo da essere stimato, deve circondarsi di ministri e consiglieri che meritano fiducia e sfuggire i falsi adulatori. Nel capitolo XX il tema delle milizie e riconferma la necessità per il principe di dotarsi di un esercito di cittadini; 37 • Capitoli XXIV – XXVI: in questi capitoli l’attenzione è rivolta alla situazione italiana e alle necessità del momento presente. Machiavelli fa seguire un capitolo sulla fortuna, rappresentata come un fiume in piena che dilaga per la campagna, ma la cui azione distruttrice può essere contrastata dall’intervento preventivo dell’uomo. Il capitolo finale, animato dalla speranza di un riscatto, termina con la citazione di alcuni versi della canzone All’Italia di Petrarca. Una visione laica e moderna della politica. L’opera di Machiavelli segna una svolta, in quanto oppone al modello dell’ottimo principe una visione laica della politica, una visione che riconduce alla “verità effettuale”, cioè agli esiti dell’azione di governo sulla realtà, il giudizio di merito sui comportamenti dei governanti. L’attualità della sua visione politica è evidente dove Machiavelli avverte il conflitto tra gli eventi storici che sfuggono a ogni spiegazione razionale e la volontà di trovare per ognuno di essi una interpretazione capace di giustificarli e un metodo per controllarli. Questo conflitto, che assume nel Principe la forma di uno scontro tra fortuna e virtù, può essere sanato soltanto se l’indole dell’uomo di Stato si conforma ai tempi nei quali opera. ➢ Temi e percorsi di lettura – il principato nuovo Tema centrale di questo percorso sono le modalità con le quali può essere conquistato e conservato un principato. Il principato nuovo, cioè quello nel quale si afferma un principe non ereditario o una nuova forma di governo, è quello che più attira l’interesse di Machiavelli. Egli illustra gli opposti esiti a cui pervengono un principe virtuoso o uno sfortunato; egli espone uno dei principi fondamentali della sua teoria politica, quello di imitazione: dallo studio della storia, il principe può trarre utili insegnamenti per il suo operare politico. ❖ Niccolò Machiavelli – “Tipologie del principato” Nel primo capitolo, Machiavelli presenta in modo schematico le varie forme di principato e le modalità della loro conquista. Lo stile dilemmatico e la materia del “Principe”. Machiavelli inizia la sua trattazione esponendo l’argomento sui vari tipi di principato e il principato nuovo. L’autore si sofferma su due forme di principati, quelli ereditari e quelli nuovi, per poi restringere la sua analisi a due diverse forme di principato nuovo, quello misto e quello completamente nuovo. Il procedimento del discorso ha un andamento binario: mentre il primo elemento della coppia non ha ulteriori sviluppi, il secondo dà luogo a un’ulteriore disgiunzione, in una successione tesa a delimitare e precisare il campo di indagine. Questo stile, definito “dilemmatico”, rispecchia il rigore di un ragionamento, rifiutando le mediazioni e procede in maniera spedita verso il suo centro di interesse. I riferimenti al Ducato di Milano e al Regno di Napoli testimoniando l’importanza che Machiavelli attribuisce all’esperienza concreta offerta dalla storia contemporanea. - Altre opere politiche, storiografiche e letterarie. I “Discorsi” e la “Mandragola” I Discorsi sulla prima deca di Tito Livio furono composti da Machiavelli tra il 1513-15 e il 1517 o 1519 su materiale che egli aveva iniziato ad accumulare già negli anni precedenti. L’opera è dedicata a Cosimo Rucellai e Zanobi Buondelmonti, appartenenti a quel circolo di intellettuali che si riuniva a discutere negli allora celebri giardini della famiglia Rucellai. La forma di questo trattato è quella del commento ai primi dieci libri della Storia di Roma dello scrittore latino Tito Livio. La trattazione è centrata sulla forma di governo repubblicana, tuttavia le due opere hanno in comune la preoccupazione per la gestione e la sopravvivenza dello Stato: Machiavelli tratta il problema della durata e della felicità dello Stato repubblicano. All’atto della costituzione di uno Stato repubblicano dovrebbe intervenire una virtù collettiva in grado di permeare gli “ordini” dello Stato stesso. La rovina degli Stati anche meglio costruiti non può essere evitata, perché la storia appare regolata da un movimento ciclico di nascita, decadenza e rovina. Si potrebbe parlare di un pessimismo “strutturale”, dal momento che la vita dello Stato repubblicano, come quella di un organismo biologico, è destinata al deperimento nonostante tutti i tentativi di rifondazione e quelli di recuperare la virtù delle origini. Nei Discorsi, Machiavelli accorda al popolo un ruolo importante. Da un punto di vista stilistico, i Discorsi si caratterizzano per la simmetria del periodo e per il lessico e la fraseologia latinizzanti. 40 - Il teatro Il teatro costituì una passione di Ariosto fin dai tempi della sua giovinezza, quando fece parte della compagnia teatrale creata dagli Estensi per gli spettacoli di corte. In seguito, egli si rivelò un abile organizzatore di spettacoli, ma soprattutto si distinse come autore di commedie in versi e in prosa. Ariosto fonda la commedia “regolare”, basata sui modelli classici latini e composta da cinque atti, in genere preceduti da un prologo, in particolare con i due testi in prosa scritti per i carnevali del 1508 e del 1509, la Cassaria e i Suppositi. Mentre la prima è ambientata a Metellino, lo sfondo della seconda di queste commedie è la Ferrara contemporanea, con fitti riferimenti alla vita quotidiana della città e della corte, rappresentando un’importante novità. I motivi derivano ancora dalla commedia classica latina di Plauto e Terenzio. Ariosto ritornò al teatro dopo la prima edizione dell’Orlando furioso (1516), componendo commedie in endecasillabi sdruccioli, reputando i versi più adatti a un teatro di tono elevato e più vicini al modello della commedia latina. Nel 1520 egli inviò a papa Leone X la propria commedia intitolata Il Negromante, incentrata sugli inganni e la punizione finale di un ciarlatano. Del 1528-29 è Lena, che prende il nome dalla protagonista, una ruffiana di mezz’età che per denaro aiuta i due giovani amanti Flavio e Licinia, mentre a sua volta mantiene un legame sia col marito Pacifico sia con l’amante Fazio. Questa commedia, con il suo realismo aspro e con il suo implicito moralismo e la sua satira arguta, viene oggi considerata la più riuscita di Ariosto. Lasciata incompiuta è la commedia I Studenti, completata diversamente dal figlio Virginio e dal fratello Gabriele. Ariosto compose anche un monologo carnevalesco, l’Erbolato, edito postumo nel 1545. - Le “Satire” e le lettere Alla piena maturità del poeta appartengono i versi delle Satire, composte tra il 1517 e il 1525, pubblicate nel 1534. Come modello, esse rimandano alle satire latine di Orazio. Da un punto di vista formale, le sette Satire di Ariosto sono componimenti poetici in terza rima, caratterizzati dalla forma epistolare. Dal punto di vista del contenuto, le Satire si presentano come una matura biografia morale e intellettuale, essendo legate a situazioni precise e a esperienze di vita reale. Nella Satira I emerge il tema della riluttanza del poeta a seguire il cardinale Ippolito d’Este in terra d’Ungheria; nella Satira II, Ariosto motiva la sua scelta di non aver preso gli ordini ecclesiastici maggiori, per coerenza nel difendere la propria libertà; al tempo stesso si lancia in una critica della Chiesa e in particolare della Curia papale. Nella Satira III Ariosto dà un ritratto della propria condizione al servizio del duca Alfonso I d’Este: in essi, il poeta esalta la propria intimità casalinga, contrassegnata da quella tranquillità e sobrietà che costituiscono, secondo l’insegnamento epicureo e oraziano, la condizione ideale di vita. Nella Satira IV Ariosto traccia un resoconto degli anni trascorsi come governatore in Garfagnana, sottolineando le sue nostalgie per donna amata e gli studi. Nella Satira V, il poeta fornisce consigli al cugino Annibale Malaguzzi sulla scelta della moglie. Nella Satira VI è lui stesso a chiedere all’amico Pietro Bembo un consiglio per trovare un insegnante di greco al proprio figlio Virginio. Con la Satira VII, infine, il poeta motiva il proprio rifiuto di un eventuale incarico di ambasciatore presso papa Clemente VII. Nelle Satire emerge un’esplicita polemica contro il mondo delle corti e la vita del cortigiano, alla quale Ariosto fu per gran parte della sua esistenza costretto. Nel gusto ironico e a volte sarcastico delle Satire, si nota una tensione etica che trova la sua espressione migliore negli apologhi – brevi racconti a sfondo morale –, incastonati all’interno di quasi tutti questi testi. Una testimonianza più diretta delle vicende biografiche è costituita dalle epistole, quasi mai caratterizzate da artifici retorici. Le lettere non ebbero alcun risvolto di intrattenimento letterario, ma da varie di esse traspare un’immagine viva del poeta. - L’ “Orlando furioso” A partire dal 1504, Ariosto si dedicò per oltre dieci anni alla composizione della sua opera maggiore, il poema cavalleresco Orlando furioso. La prima edizione a stampa uscì a Ferrara nel 1516, divisa in quaranta canti in ottave. Nel 1521 uscì una seconda edizione rivista, ancora in quaranta canti ma con l’aggiunta di poche ottave e con un non altissimo numero di correzioni linguistico-stilistiche. 41 L’Orlando furioso è un romanzo policentrico, in cui si sviluppano numerosissime vicende continuamente intrecciate fra loro, sullo sfondo della lotta tra i Saraceni e i paladini cristiani di Carlo magno, dei quali il più valoroso, Orlando, impazzisce per amore di Angelica, principessa orientale che non ricambia i suoi sentimenti. Con il suo poema Ariosto si inserì in un filone che aveva ormai alle spalle una lunga tradizione: quella delle chanson de geste e dei cantari tre-quattrocenteschi, che mettevano in scena Carlo Magno, i suoi paladini e altri cavalieri alle prese con avventure spesso mirabolanti e fantastiche per andare incontro ai gusti del pubblico popolare. Il modello di riferimento era il romanzo cavalleresco rimasto incompiuto di Matteo Maria Boiardo, l’Orlando innamorato: un’opera che aveva rinnovato il genere perché univa ai motivi guerreschi ed eroici della tradizione della chanson de geste il gusto per le avventure e gli amori propri del romanzo arturiano o bretone e le sfumature della natura umana, ricorrendo anche all’inserzione di novelle, parentesi liriche, episodi mitologici o allegorici. Ariosto si propose con l’Orlando furioso di dare una continuazione all’Innamorato, opera molto cara agli Estensi, che in essa venivano celebrati: uno dei suoi filoni, ripreso dal Furioso, è infatti l’innamoramento di Ruggiero per la guerriera cristiana Bradamante; dal loro matrimonio, narrato nell’ultimo canto del Furioso, avrà origine la casata d’Este. Le varie e intricate vicende, che compongono il poema, sono tenute insieme dal narratore, un alter ego del poeta, cui spetta il compito di condurre e commentare l’intera storia, intrecciando le imprese dei personaggi e intervenendo nel corso del racconto. Esse vengono a costituire una trama ricca di colpi di scena, con una continua ricerca dell’imprevisto che può spingersi fino all’inverosimile: importante è la componente del fantastico, che poggia anche sulla presenza di personaggi e oggetti legati al mondo della magia come il mago Atlante, la maga Alcina e l’ippogrifo, un cavallo volante. Già Boiardo, abbandonando la dimensione epica della Chanson de Roland, aveva trasformato Orlando, da paladino assoluto della fede e della monarchia, in cavaliere romanzesco perdutamente innamorato della bella Angelica. Ariosto porta alle estreme conseguenze le premesse di Boiardo, facendo conoscere a Orlando l’ultima degradazione, quella della pazzia: il paladino, nella crisi di insania dovuta alla perdita di Angelica, smarrisce la sua umanità, fino a diventare irriconoscibile. È questo un nodo centrale per tutto il poema: la pazzia, nella cultura cinquecentesca, rappresenta una minaccia e così la “pazzia d’amore” diventa, nel Furioso, una dolorosa realtà, su cui Ariosto riflette e fa riflettere i suoi lettori. Per far questo recupera molti spunti della tradizione letteraria a lui precedente, in particolare da Petrarca, grande interprete della dolorosità del rapporto d’amore. ma il Furioso non diventa un poema rigidamente moralistico: su tutte le vicende domina l’ironia ariostesca, che serve a smorzare i toni più drammatici. Ariosto guarda con distacco ironico ai limiti e alle debolezze della condizione umana. I momenti tragici vengono interrotti da osservazioni comiche, le citazioni colte diventano spesso parodie. Emblematica di questa seria e nello stesso tempo giocosa interpretazione dei grandi temi trattati è l’impresa del recupero del senno di Orlando, che riacquista così nel finale il proprio equilibrio mentale e la propria identità. Non è solo Orlando a lasciarsi dominare dagli istinti: un po’ tutte le donne e i cavalieri dei quali il poeta dice di voler cantare gli amori e le avventure sono vittime di traviamenti della ragione. A spingere l’azione di tutti i personaggi principali del Furioso è il desiderio, che genera la ricerca della persona amata o dell’oggetto bramato. I vari personaggi, in presa ai loro desideri, si perdono negli intricati sentieri di una selva, oppure nei magici meandri del palazzo del mago Atlante, metafora di un mondo in cui ciascuno insegue il proprio desiderio o la propria illusione. La grandezza di Ariosto riguarda sia il mostrare come uomini e donne nel mondo diano in genere dominati da istinti e illusioni, sia comprendere e far comprendere che tali istinti e illusioni sono spesso ciò che dà senso all’esistenza. Dietro il turbinio delle vicende si nasconde una moralità ironica e nello stesso tempo pensosa, proposta soprattutto dal narratore. L’attenzione che Ariosto accorda al tema della follia e a quello del desiderio lo avvicina idealmente a Erasmo da Rotterdam, che con il suo Elogio della follia aveva mostrato come spesso sia proprio ciò che si potrebbe chiamare follia a muovere le sorti del mondo. Per questo, l’Orlando furioso può mostrare come persino nel culmine del Rinascimento si colga una crisi dell’uomo, o piuttosto della 42 razionalità dei comportamenti umani. L’Orlando furioso insomma viene oggi interpretato come il frutto di un eccezionale equilibrio tra più aspetti: • tra forma armonica, grazie alla progressiva “classicizzazione” del testo, e materia disarmonica, ovvero la pazzia che riporta l’uomo al livello delle bestie; • tra eccezionale capacità di riscrittura e originalità degli intrecci: • tra gioco, nella forma elegante e vivace tipica della cultura del primo Cinquecento, e serietà che introduce gli elementi dell’insegnamento di tipo etico. ➢ L’opera Prima del “Furioso”. L’Orlando furioso è un poema epico-cavalleresco di quarantasei canti in ottave. Il titolo allude alla follia amorosa del paladino Orlando, difensore della cristianità e cavaliere prediletto dell’imperatore Carlo Magno, che impazzisce per amore di una principessa orientale, la bella e volubile Angelica. Unendo il tradizionale tema delle armi a quello nuovo degli amori, il poema di Arioso si inserisce nel solco di una tradizione italiana di opere in versi e in prosa che avevano ripreso i temi epici del “ciclo carolingio”, incentrato sulla lotta fra cristiani e saraceni di Spagna, contaminandoli con quelli del “ciclo bretone”, che narrava le avventure e gli amori dei cavalieri di re Artù. La generazione di scrittori che precedette Ludovico Ariosto aveva dato a queste narrazioni una forma letteraria alta: a Firenze, Luigi Pulci aveva scritto il Morgante (1478), mentre a Ferrara Matteo M. Boiardo aveva dato alle stampe intorno al 1483 i primi due libri dell’Orlando innamorato, in cui mescolava per la prima volta sistematicamente, le vicende guerresche, amorose e avventurose di materia bretone. L’Orlando innamorato, rimasto incompiuto al canto IX del III libro per la morte dell’autore nel 1494, costituisce l’antecedente diretto del poema ariostesco, che ne riprende il titolo e le vicende interrotte. Le linee narrative del “Furioso”. La trama del Furioso procede lungo tre linee narrative: 1. guerra tra i cristiani e i Saraceni: guidati dal re musulmano Agramante, sono sbarcati in Spagna e minacciano da vicino l’Impero cristiano di Carlo Magno; 2. amore di Orlando per la bella Angelica: un amore che spinge il paladino ad abbandonare il campo cristiano per intraprendere una ricerca che lo renderà pazzo; 3. complessiva vicenda amorosa di Bradamante, sorella di Rinaldo (cugino di Orlando) e ardita guerriera cristiana, e Ruggiero, guerriero pagano destinato alla conversione e a una morte prematura: dal matrimonio dei due eroi avrà origine la dinastia estense. Nessuna delle tre linee della storia ha uno svolgimento continuo, poiché a queste se ne intrecciano numerose altre, che permettono l’ingresso di sempre nuovi personaggi. L’effetto voluto è della simultaneità delle azioni e della sapiente mescolanza di episodi di tono e stile varianti, che tengono vivo l’interesse del lettore: il procedimento costruttivo caratteristico dell’Orlando furioso, che consiste nell’intrecciare vari filoni narrativi facenti capo a diversi personaggi, interrompendoli di continuo, è detto entrelacement, secondo il termine francese proprio dei romanzi bretoni, o intreccio. Le edizioni del “Furioso”. Ludovico Ariosto si dedica alla stesura del Furioso per trent’anni, fino al momento della morte; egli vi lavora infatti all’incirca dal 1504 e continua a limare e a correggere la sua opera almeno fino alla stampa del 1532. La prima edizione esce a Ferrara nel 1516; da lì al 1521, il poeta si impegna in una versione principalmente formale, che per qualche aspetto avvicina la lingua al modello di normalizzazione toscana raggiunto nell’edizione del 1532. L’edizione del 1521 incrementava di poco il numero delle ottave, quella del 1532, in quarantasei canti, inserisce nuovi episodi, i più famosi dei quali sono la storia di Olimpia e la contesa fra Ruggiero e Leone. Il “Furioso” tra rappresentazione della vita e costruzione letteraria. I nuovi episodi del 1532 arricchiscono la gamma dei toni e dei generi letterari inglobati nel poema che si presenta come una summa organica della letteratura sino ad allora prodotta. L’insieme si propone come un nuovo 45 miracoloso, ed è dotato di un occhio sufficientemente curioso e disincantato, simile a quello del narratore. La Terra e la Luna. La Luna è presentata gli occhi di Astolfo, come un mondo altro, diverso, ma del tutto paragonabile a quello del terreno. Più che di una descrizione si tratta in realtà dell’evocazione di una diversità, che l’enumerazione e l’anafora dilatano. La Luna si rivela speculare e complementare alla Terra: ciò che si perde sulla Terra si raduna nel vallone lunare, che diventa l’immagine in negativo della vita umana, il luogo dove si deposita ciò che l’uomo smarrisce, consuma, spreca per opera della fortuna, del tempo e della propria follia. Tutto ciò su cui si esercita il desiderio si riduce a quei mucchi di rifiuti accatastati nel vallone, un monumento all’inutilità, allo spreco, alla dispersione. Ogni aspetto della vita umana, i sentimenti, i valori, gli interessi che hanno mosso e continuano a muovere la storia sono rappresentati dai rifiuti del vallone lunare. L’elenco si conclude ponendo in primo piano proprio la vita di corte, la miseria delle finzioni, delle ambizioni, la frustrazione e la delusione del letterato di corte. Il vallone della Luna è allora uno dei luoghi- simbolo del poema: la ricerca degli oggetti è diventata qui ricerca di senso, investigazione sul significato della ricerca stessa e si è fatta rivelazione del vuoto. La visita di Astolfo al vallone lunare permette al lettore di ripensare alla vicenda di Orlando come emblematica di tutta la vita umana, sottoposta com’è alla pulsione del desiderio e destinata allo smacco. La follia. La follia è la principale responsabile del farraginoso meccanismo di dispersione rappresentato dalla vita umana. La Luna è piena del senno perduto dagli uomini senza nemmeno che essi se ne rendessero conto o raggiungessero gli estremi ferini di Orlando. L’elenco si sofferma sulla mancanza di senno dei poeti, e non solo di quelli innamorati come Ludovico Ariosto: folli tutti perché raccontano storie inverosimili e indugiano nelle fantasie del meraviglioso. Anche Astolfo scopre di essere privo di parte de suo senno, conservato in una piccola ampolla proprio lì sulla Luna: il narratore glielo fa recuperare. Una fonte su tutte. L’episodio ha una fonte molto vicina nella intercenale Somnium di Leon Battista Alberti. L’autore quattrocentesco rappresentava nel suo dialogo la visione di un paese immaginario, speculare rispetto a quello terrestre, con caratteristiche riprese in modo quasi identico da Ariosto. Lo studioso Cesare Segre fa notare che, deriva da Alberti il concetto di follia come assenza di senno, cioè mancato controllo razionale, assenza di misura. La follia per Ariosto è connotata in senso negativo sul piano morale e sociale, in accordo col pensiero umanistico, ed è ben lontana dalle sfumature eversive che hanno, già nel Cinquecento, la diversa e più profonda visione di una realtà capovolta. ❖ Ludovico Ariosto – “Ruggiero incontra Astolfo nell’isola di Alcina” Rapito dall’ippogrifo, Ruggiero è portato lontano dalla guerra e dai pericoli, secondo le intenzioni del suo protettore Atlante, ma incorre in altri pericoli che minacciano la futura unione con Bradamante e l’etica stessa del cavaliere. Egli è infatti condotto nell’isola di Alcina, maga e incantatrice emula dell’omerica Circe. Alcina, maestra di ogni lussuria, fa innamorare di sé i cavalieri che attira sull’isola, per poi abbandonarli, tramutati in piante e seguire nuovi amori. Il “locus amoenus”. L’isola su cui Ruggiero approda dopo il lungo volo mostra la natura di luogo di delizie: la sua descrizione si struttura in coppie simmetriche di sostantivi e aggettivi ed eleganti enumerazioni. Il lessico con il quale l’isola è descritta, attinto dalla tradizione petrarchesca, e il ritmo armonioso della descrizione conferiscono al luogo una evidente letterarietà, a cui fa contrappeso il dettaglio realistico dell’ottava. Le delizie evidenti del luogo di legano al motivo dell’amore e della seduzione amorosa e a quello dell’inganno. Forse tanta bellezza è solo apparente, perché quel luogo è in realtà un cimitero di amanti abbandonati sulla quale Astolfo era stato rapito da Alcina. La rielaborazione della fonte dantesca. La voce di Astolfo si fa strada faticosamente attraverso la corteccia di un mirto, pianta sacra a Venere, dea dell’amore: l’episodio riporta alla memoria del lettore la voce di Pier delle Vigne che esce, insieme a lacrime e sangue, dall’arbusto nodoso nella selva dei suicidi nel canto XIII dell’Inferno dantesco. Ariosto esibisce la fonte dantesca, riprendendo la complessa similitudine. La situazione non ha una drammaticità paragonabile a quella dantesca: 46 Astolfo ha subito una metamorfosi, un incantesimo destinato a sciogliersi; per questo è più simile ai compagni di Ulisse che, nell’Odissea, sono trasformati in animali dalla maga Circe. La seduttrice e il sedotto. Per quanto Ariosto insista molto sulla malvagità di Alcina, la prima immagine che il lettore ha di questo personaggio è legata alla bellezza e al fascino irresistibili. CONTESTI E CONFRONTI – Romanzi cavallereschi antichi e moderni. Pulci e Boiardo. Nella seconda metà del Quattrocento, a Firenze e a Ferrara, due letterati si cimentano in un genere largamente popolare come il poema in ottave, legato in prevalenza alla recitazione in pubblico nelle piazze cittadine. Luigi Pulci e Matteo M. Boiardo compiono entrambi un’operazione culturale di grande rilievo: il primo concepisce il suo Morgante ancora all’interno degli schemi narrativi, delle forme sintattico-ritmiche e dei contenuti dei cantari popolari, ma li assume non più con ingenuità, bensì con la piena consapevolezza dell’operazione intellettuale che sta compiendo. Ne scaturisce una forte carica di ironia che si realizza nell’estrosa inventività linguistica, evidente sul piano lessicale: i gesti, le azioni, la fisicità corporea dei guerrieri sono un linguaggio esplosivo e incalzante, ricco di traslati che spesso provengono dalla cultura popolare. Anche Boiardo nell’Orlando innamorato mantiene vivo il legame con la tradizione popolare, ma manifesta la sua autonoma creatività in un’altra direzione rispetto a Pulci, ossia nella contaminazione fra tradizioni diverse del racconto cavalleresco e nella tenica narrativa. Egli infatti mescola alla materia carolingia i temi amorosi e avventurosi dei romanzi bretoni, dai quali riprende anche la tecnica dell’entrelacement (intreccio), moltiplicando le storie e giocando sapientemente sulla loro alternanza. Forza motrice del suo poema è l’amore, nel quale l’improvvisa apparizione dell’affascinante Angelica scompagina l’assetto della tranquilla corte di Carlo Magno. Infine, Boiardo introduce nel poema cavalleresco la tradizione classica, riprendendo episodi e temi dell’epica latina, che conosceva grazie alla sua ottima cultura umanistica. 1. Luigi Pulci. Una biografia avventurosa. Luigi Pulci nasce a Firenze nel 1432 da un'antica e nobile famiglia, ormai decaduta. La necessità di provvedere ai problemi economici familiari ha un ruolo rilevante nella sua biografia. Inizialmente lavora come scrivano presso un mercante; poi, dal 1461, entra in rapporto con la corte medicea. Sembra che sia stata la madre di Lorenzo de’ Medici a commissionargli la stesura del poema cavalleresco, che esce a stampa nel 1478 nella versione di ventitré cantari e nel 1481 e 1482, in una nuova edizione, nel 1483, di ventotto cantari, con il titolo di Morgante. La cultura fiorentina verso la fine del secolo è sempre più influenzata dalla filosofia neoplatonica e lontana da quella lingua volgare e popolareggiante di Pulci. Probabilmente il poeta si sente emarginato, tanto che lascia Firenze nel 1473, entrando al servizio del capo militare Roberto Sanseverino. Quando sta per raggiungere l’agognata agiatezza economica muore nel 1484 a Padova, dove è sepolto in terra sconsacrata per la sua fama di eretico. Oltre alla sua opera maggiore, il Morgante, lascia rime burlesche, un poemetto rusticano, la Beca da Dicomano, e varie operette linguistiche. La trama del “Morgante”. Il poema pulciano, che probabilmente si basa su un cantare anonimo intitolato modernamente Orlando, narra le vicende di Orlando immediatamente precedenti la sua morte. L’eroe si è allontanato dalla corte di Carlo Magno a causa degli intrighi di Gano di Maganza. Combatte contro tre giganti, uno dei quali, Morgante, convertitosi al cristianesimo, lo segue per un tratto, armato di un batacchio di campagna. Morgante incontra poi Margutte, un mezzo gigante scaltro e maligno, al quale si accompagna. Moriranno entrambi in modo comico e grottesco. Il filo tradizionale del racconto segue le avventure di Orlando e Rinaldo che combattono contro i Saraceni, finché tornano da Carlo per difendere la Francia dalle minacce del nemico saraceno. Orlando muore a Roncisvalle, mentre Rinaldo si salva.Parodia e invenzione linguistica. Le due caratteristiche originali del Morgante sono il tono ironico e parodistico della narrazione e la grande inventività linguistica. Pulci riprende la tradizione popolare dei cantari esagerandone a bella posta gli aspetti iperbolici e meravigliosi. Dalla tradizione letteraria in volgare Pulci attinge la base del suo linguaggio sapido e di registro mediamente basso: ma anche in questo caso forza la tradizione con una violenza espressiva che è propria della lingua e della cultura popolari. 47  Luigi Pulci – “L’esordio del poema: il Proemio” Il proemio prende avvio con la consueta formula canterina dell’invocazione a Dio e alla Madonna; questa è seguita da due ottave che ostentano invece i richiami a una tradizione letteraria colta. Due tradizioni a confronto. Le ottave iniziali del poema di Pulci presentano il tradizionale esordio canterino, con l’invocazione e la richiesta di aiuto alla divinità, in questo caso Dio uno e trino nella prima ottava e la Vergine Maria nella seconda. Le due ottave successive riprendono una tradizione classicheggiante: il poema introduce nella quarta ottava la metafora della scrittura come viaggio per mare, memore della navicella di Dante, e ricorre a una complessa figura retorica per indicare la stagione primaverile. I richiami alla mitologia sono due: al mito di Filomena e Progne e quello di Fetonte. Il linguaggio è sostenuto e tradizionalmente letterario fino alla caduta, un po’ grottesca, della disperazione di Titone. La sintassi non è complessa, in quanto allinea in forma di paratassi brevi frasi che coincidono con i versi, i quali si chiudono quasi tutti con una virgola. Il poeta si rivolge al pubblico e presenta l’oggetto del racconto, mostrando quanto gli stia a cuore ristabilire la verità sul conto dell’imperatore Carlo.  Luigi Pulci – “L’incontro di Morgante e Margutte” Mentre cerca di rintracciare Orlando, Morgante si imbatte in uno strano personaggio che egli si presenta con un vortice di parole, ostentando la propria irriverenza verso tutti i valori che non siano quelli della sua pancia. Cavalleresco o pittoresco? L’incontro fra Morgante e Margutte avviene ad un incrocio di strade fra un bosco e una valle: il luogo e i personaggi, sembrano anticipare una situazione picaresca, una storia di ribaldi che si incontrano sulla strada, viandanti, in cerca di fortuna, che si sfidano, curiosi di mettere alla prova il loro grado di furfanteria. Margutte e il suo credo. Il protagonista dell’episodio è Margutte, il quale entra in scena seguito dallo sguardo di Morgante, che - prima - lo esamina nell’aspetto esteriore, rimanendo sorpreso di quanto siano “strane, orride e brutte”. All’incompiutezza bruttezza di Margutte corrisponde una lingua spiccia che dissacra tutti i valori nei quali gli uomini, pagani o cristiani, credono. L’unica fede del mezzo-gigante è di natura gastronomica. Margutte non si limita a una dichiarazione di fede nella religione della ghiottoneria, ma spinge oltre il suo discorso, con carica blasfema, fino all’affermazione di una strampalata e irriverente genealogia, che si sostituisce alla Trinità, suggerita dalla derivazione lessicale “torta-tortello” e “fegato-fegatello”. Anche le divinità maomettane sono oggetto di dileggio, per cui alla fine Margutte dichiara l’impossibilità di qualsiasi conversione. Egli è senza Dio, un incrocio mal riuscito di religioni diverse, dalle quali ha ereditato, sommandoli, solo i vizi: un vero contabile di peccati. Il registro comico-realistico. La parodia della professione di fede attinge a una tradizionale goliardica e comicorealistica, con una ostentazione del vizio simile, per esempio, a quella del boccacciano ser Ciappelletto; essa si distingue per l’uso di un linguaggio molto più ricco e variato rispetto a quello della tradizione canterina. In questo passo spiccano su un tessuto medio-basso alcune punte di linguaggio tecnico, termini esotici e figure retoriche che echeggiano modi di dire popolari. 2. Matteo M. Boiardo. L’educazione umanistica e il magistero petrarchesco. Matteo M. Boiardo nasce a Scandiano nel 1441 da una famiglia feudataria dei signori di Ferrara. Riceve in famiglia un’educazione umanistica e si esercita nella giovinezza nella produzione di poesia in latino. Dal 1460 si occupa delle terre di famiglia, pur frequentando già la corte degli Este, presso la quale si trasferisce nel 1476. Fra il 1469 e il 1477 lavora alle rime d’amore in volgare per Antonia Caprara, gli Amorum libri tres, nei quali elabora una originale forma di petrarchismo. Pare che egli attendesse al poema cavalleresco Orlando innamorato fin dagli anni Sessanta, ma è indubbio che la sua composizione è influenzata dal soggiorno a Ferrara, dalla frequentazione della biblioteca e della corte. L’Orlando innamorato è pubblicato nel 1483 in due libri; fino alla sua morte, avvenuta nel 1494, Boiardo attende alla stesura del terzo libro, che si ferma bruscamente al nono canto. Questo terzo libro e successivamente tutto il poema saranno pubblicati postumi nel 1495. Boiardo è autore anche di 50 Il “romance” come forma ideale. Nell’uso tradizionale della critica anglo-americana, romance indicava il romanzo di avventure a tonalità fantastica in opposizione al novel, il romanzo realistico di origine settecentesca. Frye descrive ampiamente la forma ideale del romance, caratterizzata dall’esplorazione di un mondo perfetto prossimo al sogno, in cui un eroe luminoso afferma la sua identità attraverso le fasi dell’àgon, del pathos e dell’anagnorisis. Un paio di anni prima era stata completata quella del monumentale Signore degli Anelli di John R. R. Tolkien, l’opera moderna che meglio di ogni altra corrisponde alla nozione definita da Frye, e che prepara l’esplosione del genere fantasy dalla letteratura al cinema, ai videogiochi. Tolkien ricava gli elementi fondatori dalla sua personale mitologia dal modello del romanzo cavalleresco medievale e rinascimentale. La versione di Tolkien si ispira più direttamente a modelli rinascimentali per il confronto implicito con la forma epica. Il romanzesco e l’epico tra Quattro e Cinquecento. Questa dialettica tra il romanzesco e l’epico appare evidente nei trattati cinquecenteschi che per primi riconoscono l’esistenza di un “genere” romanzesco e inaugurano la riflessione sulle sue caratteristiche. Il romanzo cavalleresco era stato messo in relazione con un genere già noto e attestato dall’antichità, il “poema eroico”, cioè l’epica antica. Questa lettura del romanzo come forma che si genera per dissociazione parziale dall’epica non è frutto soltanto di una certa miopia di quei critici: essa riflette anche la realtà di una tradizione italiana, in particolare ferrarese, nella quale l’utilizzo di formule, temi e personaggi tipici del romanzo cavalleresco si accompagna sempre al recupero dell’epica antica. Nel Morgante di Luigi Pulci lo spazio del romance è limitato. Pulci si muove tra l’intenzione “epica” di cantare degnamente le gesta dell’imperatore Carlo, che orienta il racconto verso la chanson de geste e la scelta di seguire il canovaccio dell’Orlando, cantare anonimo rappresentativo dell’adattamento popolare italiano del ciclo carolingio. Le occasioni di romance sono così limitate a quei motivi ed episodi che nella tarda chanson de geste, e poi nella tradizione canterina italiana, costituiscono il segno dell’influenza del dilagante romanzo. Il limite più specifico del romance nel Morgante viene dalla curvatura popolaresca e parodica della narrazione che frena e contraddice gli slanci dell’immaginario, essenziali per il romance. Anticipando la geniale parodia realistica di Cervantes nel Don Chisciotte, Pulci mette in conflitto i temi romanzeschi con una lingua e con un punto di vista realistico-borghese, ottenendo effetti parodici e a volte dissacratori. Tutt’altro è il caso dell’Innamoramento de Orlando del conte Matteo Maria Boiardo, quest’ultimo spalanca le porte del mondo carolingio al romance di derivazione bretone, ma anche alla mitologia classica. Il motivo-guida della sua opera indica l’orientamento soggettivo-individualistico della trama e dei temi. Il conflitto epico tra cristiani e Saraceni si sgretola in una serie di conflitti individuali, in cui ogni singolo eroe afferma la propria identità e la propria ricerca di uno statuto eroico. La scena narrativa è invasa da una serie di creature fantastiche e lo spazio dell’erranza cavalleresca acquista non di rado connotati magici, fino a configurare un modello di oltremondo, qual è per esempio il regno di Morgana. La tecnica narrativa di Boiardo rinvia alla tradizione del romanzo bretone e fa emergere una figura di narratore-regista che organizza la materia narrativa in funzione della sua soggettività, dando al racconto la forma più distante dall’oggettività storica. Nella tradizione rinascimentale italiana l’Innamorato è l’opera più nettamente sbilanciata dalla parte del romance. Anche Boiardo, aderendo per molti aspetti a una forma di idealismo fantastico che rinvia al romanzesco puro del Medioevo, lascia contemporanemente affiorare, in modo più che episodico, segni di distanziamento e di dissociazione comica del suo punto di vista di narratore. Dal II libro Boiardo innesta sul tronco romanzesco un ramo epico. Si registra un doppio conflitto tra valori epici e valori romanzeschi: sul piano dei personaggi, che devono obbedire all’interesse del loro campo ma sono sempre tentati di perseguire i propri scopi personali; e sul piano della narrazione, dove racconto delle avventure individuali e racconto della guerra collettiva sono alternative in conflitto latente. Ariosto, Tasso e il romanzesco. Con l’Orlando furioso di Ariosto l’ambizione epica si afferma in modo più netto, assoggettando il romance ad una vera e propria disciplina. Il romanzesco appare potenziato nel Furioso: il narratore emerge come demiurgo, unico organizzatore della materia 51 fantastica; la lingua, sciolti in gran parte i legami con la tradizione canterina, si innalza verso una medietà sublime; il matrimonio finale di Ruggiero si presta a coronare il percorso di affermazione dell’identità dell’eroe romanzesco, e si potrebbero enumerare molti altri sintomi di questa promozione del romance. Fin dall’inizio la costruzione dell’edificio narrativo è orientata verso il graduale assoggettamento del romanzo all’épos, del piacere individuale al dovere collettivo, dell’errore alla verità. Questo processo comporta il progressivo impoverimento della trama, con sacrificio di tutti gli elementi associati alla proliferazione romanzesca dell’immaginario. La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso segna la fine del romance nell’età della Controriforma. L’argomento del poema di tasso è la conquista cristiana di Gerusalemme nel corso della prima crociata. Il romance è ancora presente nel dispositivo narrativo tassiano, come tentazione diabolica che ispira il comportamento “centrifugo” di alcuni eroi, che si allontanano dal centro ideologico del poema, la realizzazione del loro dovere di cavalieri cristiani per suggestione di Satana. Diabolizzato, il romance è marginalizzato e sconfitto, ma la sua presenza ostinata la dice lunga sulla drammaticità della scelta di Tasso di sacrificarlo all’istanza epico-religiosa. Se la trama del poema di Tasso appare più semplice di quelle romanzesche, in quanto costruita per riduzione del molteplice all’uno, il suo racconto vibra e a tratti si accende per effetto della suggestione profonda dei valori fantastici e romanzeschi negati. Altre forme del “romance” rinascimentale. Il romanzo cavalleresco è l’incarnazione più evidente e più diffusa del romance rinascimentale, ma non l’unica. Spetta all’Arcadia (1504) di Iacobo Sannazaro il merito di aver inaugurato il genere del romanzo pastorale: esso propone la stessa evasione in uno spazio-tempo ideale del romanzo cavalleresco, sostituendo i pastori ai cavalieri erranti e la campagna idillica alla selva degli errori. TORQUATO TASSO - La vita Torquato Tasso nacque a Sorrento l’11 marzo 1544 da Bernardo e da Porzia de’ Rossi. Il padre era all’epoca al servizio del principe di Salerno, Ferrante, ma non rimase mai molto a lungo nella stessa città, cosicché anche Torquato lo seguì a Napoli, a Roma, a Bergamo e a Urbino. Nel 1559 raggiunse il padre a Venezia e là cominciò a scrivere un poema sulla prima crociata, il Gierusalemme, embrione della sua opera maggiore. Nel 1560 soggiornò a Padova per intraprendere gli studi di diritto alla locale Università, che lasciò per quelli di filosofia ed eloquenza. Nel 1562 pubblicò il poema cavalleresco Rinaldo e si recò all’Università di Bologna, da dove benne allontanato due anni dopo aver scritto una satira su professori e studenti. Si stabilì di nuovo a Padova, nel 1564. Nel 1565 Tasso si recò a Ferrara, dove si pose al servizio del cardinale Luigi d’Este. Là riprese il progetto di un poema sulla prima crociata, con il titolo prima di Gottifredo, poi di Goffredo. Nel 1570 accompagnò il cardinale d’Este in un viaggio in Francia, dove ebbe occasione di conoscere il poeta Pierre de Ronsard. Nel 1572 passò al servizio del duca di Ferrara, Alfonso II. Per la corte estense scrisse nel 1573 il dramma pastorale Aminta; nel 1575 terminò la prima stesura del suo poema sulla crociata, poi noto col titolo di Gerusalemme liberata. Intorno al 1577 Tasso comincia a manifestare comportamenti interpretabili come segni di un disordine mentale: è in preda a frequenti crisi depressive, per cui varie volte fugge da Ferrara per trovare rifugio presso altre corti o presso i familiari, ma alla fine rientra sempre alla corte estense. Ad ogni ritorno, Torquato è convinto di essere perseguitato e non apprezzato secondo i suoi meriti, accende violente discussioni. Dopo un’ultima esplosione d’ira, Alfonso II lo obbliga prima all’ospitalità coatta nel convento di S. Francesco, oi alla reclusione come pazzo nell’ospedale di Sant’Anna. Qui Tasso rimane dal 1579 al 1586. Nel frattempo, il suo poema viene pubblicato (parzialmente nel 1579-80, poi integralmente nel 1581), sotto il titolo di Gerusalemme liberata. Data la situazione, Tasso autorizzò una nuova edizione. Il nuovo testo, intitolato dal Tasso Gerusalemme conquistata (1583), ottenne scarso successo, mentre la Gerusalemme liberata continuava a circolare e veniva da molti ritenuta un capolavoro. 52 Le città dove passò i suoi ultimi anni di vita furono Napoli e Roma, dove fu chiamato nel 1592 dal cardinale Aldobrandini e dove morì il 25 aprile 1595. - Le “Rime” Tasso fu autore prolifico di rime, ma fu però solo a partire dalla fine degli anni Ottanta che Tasso decise di raccogliere questi suoi testi in una raccolta organica, in cui essi erano distribuiti in tre sezioni tematiche: rime amorose, encomiastiche e spirituali. I componimenti sono legati all’esperienza biografiche dell’autore o a occasioni della vita cortigiana. Le rime più apprezzate sono in genere quelle di argomento amoroso: in esse il poeta riesce a superare i vincoli del petrarchismo grazie al suo gusto manieristico e alla sensibilità musicale, che dissolve l’architettura logica del discorso in un gioco di echi e riprese foniche. Le rime a carattere encomiastico mantengono un valore soprattutto storico-culturale: tuttavia, alcune di esse mostrano l’irrompere della soggettività del poeta, che si abbandona al ricordo e alla riflessione sulle proprie sventure, come nel caso di due canzoni appartenenti al periodo della crisi ferrarese: O del grand’Appennino e O figlie di Renata. - L’ “Aminta” L’Aminta venne composta nel 1573 rappresentata nell’estate dello stesso anno davanti al duca Alfonso II d’Este e alla sua corte. essa si inserisce nella tradizione della favola pastorale, affermatasi a Ferrara a partire dal Cinquecento, e poi evolutasi in dramma, cioè in un’opera più ampia. Nel caso dell’Aminta si tratta di un dramma in versi endecasillabi e settenari composto da un Prologo e cinque atti. In esso si mette in scema l’amore del giovane pastore Aminta per la bella ninfa Silvia, che però non lo contraccambia preferendo all’amore la caccia. La favola esalta l’età dell’oro, in cui si godeva di una sensualità libera e serena non ostacolata dal culto dell’onore. L’amore in essa è libero, secondo legge di natura. La felicità di tale era beata è minacciata però dalla violenza e dalla morte: la libertà dell’amore può infatti trasformarsi in lussuria bestiale, la morte è in agguato durante le spedizioni di caccia e la disperazione può spingere al suicidio. Tasso propone una sorta di mescolanza di tragedia e commedia che sarà tipica del dramma pastorale ferrarese e questa doppia componente è resa con un’ampia varietà di torni e registri che vanno dal flebile al patetico, dal sensuale al violento o al macabro. L’opera è uno specchio della corte ferrarese e il mondo dei pastori può essere intesto come un travestimento della corte, ma al testo stesso la semplicità ideale di questo mondo rappresenta anche l’opposto dei valori cortigiani: si colgono cioè contraddizioni e contrasti di idee, caratteristici di tutta la produzione tassiana. - La “Gerusalemme Liberata” Tra il 1559 e il 1561 egli scrisse 116 ottave di un poema, denominato Gierusalemme, che dedicò al duca di Urbino Guidobaldo II della Rovere. Ma il progetto fu da lui abbandonato per dedicarsi a quello della composizione di un romanzo di cavalleria: nel 1562 Tasso pubblicò infatti il Rinaldo, poema in ottave diviso in dodici canti e dedicato alle gesta del paladino Rinaldo di Montalbano. Una volta pubblicato il Rinaldo, Tasso ritenne opportuno tornare al suo progetto di poema sulla crociata. In questa seconda occasione affrontò il problema anche da un punto di vista teorico. Mentre lavorava – tra il 1565 e il 1566 – a un poema che progettava di chiamare Gottifredo, nucleo della futura Gerusalemme liberata, iniziò anche ad elaborare i Discorsi sull’arte poetica, che verranno letti per la prima volta all’Accademia Ferrarese nel 1570. Tasso interviene nel dibattito incentrato sul problema dell’unità d’azione e su come superare le supposte incongruenze compositive dell’Orlando furioso cercando di definire i canoni compositivi per quello che egli chiama poema eroico. Per esso accetta da una parte il canone di Aristotele, ma dall’altra mostra come una sua troppo rigida applicazione possa condurre a un racconto piatto e non conforme ai gusti del pubblico, che ormai si aspetta vicende diverse: l’abilità del poeta narrativo moderno dovrebbe essere quella di introdurre nella sua opera la varietà senza distruggerne l’unità. Tasso usa due similitudini per definire un’opera che realizza una simile istanza: essa è come un edificio ben costruito nel quale, se si toglie una delle pietre, l’intera struttura crolla; è come un “piccolo mondo”, un microcosmo, nel quale, secondo una concezione filosofica neoplatonica, la molteplice varietà degli elementi è organizzata e subordinata secondo un principio dell’ordine. 55 spedizioni in Terrasanta per la liberazione del sepolcro di Cristo, era all’epoca di Tasso stretta attualità. La Liberata dava una risposta alle critiche che i letterati di osservanza aristotelica rivolgevano al poema cavalleresco, lontano dai criteri di unità prescritti da Aristotele nella Poetica, e alle esigenze morali del clima controriformistico. I fulcri tematici e la trama. La riflessione teorica di Tasso mirava a delineare un concreto modello di epica moderna, incentrata su alcuni fulcri tematici ed etici, ma non priva dell’elemento lirico e di quello avventuroso che rappresentavano motivo di sicuro successo presso il pubblico dei lettori. Tasso si propone di educare i lettori al “vero” allettandoli con “molli versi”. Usa implicitamente i tratti avventurosi tipici del poema cavalleresco e la sua fortunata commistione di armi e di amori, per narrare le gesta dei crociati e per esaltare i valori cristiani. La trama della Gerusalemme liberata ruota attorno allo scontro finale per la conquista della città santa fra cavalieri cristiani e musulmani all’epoca della prima crociata (10961099). Alle vicende di guerra si intrecciano il tema dinastico e soprattutto il tema dell’amore, declinato nei vari suoi aspetti. ➢ Temi e percorsi di lettura I quattro percorsi attraverso i quali è organizzata la lettura della Liberata mirano a presentare la varietà con cui i due motivi che strutturano il poema, il motivo religioso-educativo e quello avventuroso-romanzesco, si alternano. La trama stessa della Liberata, così come la costruzione e l’evoluzione dei personaggi, sono il prodotto e l’evoluzione dei personaggi, sono il prodotto di spinte narrative diverse e si sviluppano come il risultato di un contrasto tra apporti di tradizioni letterarie differenti. Allo zelo religioso si oppone il grande tema dello sviamento dei sensi, della passione d’amore che costituisce un costante elemento di disturbo, di allontanamento dalla meta: l’amore è una forza che porta il disordine nell’animo dei personaggi come nella trama dell’opera. La magia percorre tutta l’opera contiene in sé un’istanza disgregatrice e di disordine e insieme una spinta aggregatrice e di ordine, rappresentata dagli aiuti che Dio e le schiere angeliche offrono ai cristiani in difficoltà. Nello scontro tra queste due tendenze narrative risulta moltiplicato il significato ideologico della lotta eterna tra Bene e Male su cui riposa la Liberata. Infine, alla religiosità sublime e spesso mistica dei cristiani, si oppone la profonda umanità dei pagani, nella quale si riconoscono i segni della grande tradizione morale del mondo antico, per il quale Tasso non nasconde la sua ammirazione. Lo zelo religioso e guerriero. Nella Liberata i due campi sono nettamente separati: da una parte i crociati parteggiano per il Bene e sono nel giusto, dall’altra i musulmani sono schierati dalla parte del Male e sono nell’errore. I due schieramenti riproducono la lotta eterna tra Dio e Satana. Le stesse forze ultraterrene intervengono più volte nel corso del poema per aiutare i propri eserciti e contrastare quelli avversari. Questa definzione manichea dei rapporti tra Bene e Male non impedisce a Tasso di far militare tra le fila dei cristiani guerrieri che cadono nell’errore, né di attribuire ai pagani alcune grandi virtù. Solo i cristiani sono animati da una profonda devozione per la propria religione e vengono descritti in preghiera o nell’atto di celebrare riti sacri. Da questa intensa religiosità scaturisce la grande forza morale di molti guerrieri cristiani, pronti anche al martirio. La religiosità dei pagani è lasciata in secondo piano nel poema ed è vista come la negazione del cristianesimo. ❖ Torquato Tasso – “La vittoria della croce sull’errore” L’ottava iniziale sintetizza perfettamente lo spirito del poema e testimonia la scelta tassiana di allontanarsi dai canoni del poema cavalleresco, in particolare dal Furioso: invece che frammentare la trama dell’opera seguendo molteplici azioni, Tasso intende dedicare la Liberata ad un unico evento (la liberazione del Santo Sepolcro) e preferisce affidare un ruolo centrale e ineguagliato alla figura di Goffredo di Buglione. Il confronto con l’esordio del Furioso. La Liberata si apre con un predicato verbale alla prima persona singolare, attraverso il quale l’autore afferma il suo ruolo realistico e di pieno controllo sulla materia dell’opera, là dove Ariosto si era invece riservato un posto secondario rispetto alla varietà debordante della materia. 56 La centralità di Goffredo. Corrispondente alla centralità dell’autore è la centralità del protagonista del poema, Goffredo, unico tra tutti i personaggi dell’opera ad essere menzionato nella protasi, seppur non con il suo nome. Tutti gli altri suoi compagni sono evocati solo come gruppo indistinto. Fin da questo esordio agisce quella contrapposizione cardinale e ricorrente nel poema tra l’unitarietà, l’uniformità, la rettitudine e il policentrismo, la multiformità, la devianza, non solo dei pagani miscredenti, ma anche dei cavalieri crociati ribelli, erranti che Goffredo deve “ridurre” sulla retta via. L’erranza assume in Tasso una duplice valenza di significato: per un verso essa si richiamava alla tradizione dei poemi cavallereschi, che narravano le avventure di cavalieri “erranti”; per altro verso, assume una connotazione più morale, connessa con l’idea di “errore” e di peccato cristiano. Il confronto con l’esordio dell’Eneide. Fortissimo è anche il richiamo all’esordio dell’Eneide, di cui il primo verso della Liberata è quasi una traduzione. Questa evidente volontà di plasmare l’esordio del proprio poema sull’incipit virgiliano è un segnale programmatico: in questo modo Tasso dichiara di volersi svincolare dai modelli cavallereschi e di guardare invece all’epica classica. ➢ Lingua e stile – l’italiano eroico e patetico di Tasso Il passaggio da Boiardo ad Ariosto significa il passaggio da una lingua ancora municipale ad una lingua aderente al tipo fiorentino trecentesco, cioè al modello bembiano che l’editoria andava imponendo come lingua letteraria italiana. Il grande passaggio successivo all’interno del genere cavalleresco, quello dall’Ariosto al Tasso, segna un altro snodo nella storia linguistica italiana. L’unificazione linguistico-letteraria italiana si è ormai compiuta; il modello bembiano si è consolidato in una prassi editoriale dominante e la sua codificazione è ribadita in misura sovrabbondante da un fiume di grammatiche a stampa. Dalla pubblicazione dell’Orlando innamorato a quella della Gerusalemme liberata è passato un secolo: 1481-1580. In questo secolo tutto è cambiato. Quando Tasso si mette a scrivere, l’italiano esiste, nel senso che l’ortografia e la morfologia sono codificate stabilmente. La standardizzazione ha un potere limitato: quello più grande è che si tratta di quella circoscritta all’uso scritto letterario e del tutto priva di penetrazione sociale. Guardando al genere cavalleresco, Tasso non ha più davanti a sé un compito linguistico di base da eseguire, come era ancora per l’Ariosto: esistendo ormai l’italiano letterario, Tasso può dedicarsi a scavare dentro di esso il proprio stile. Tasso ricerca il proprio stile all’interno dell’italiano letterario e lo cerca in direzione dell’eroico, del sublime, del sofferto e del patetico. Il risultato di questa ricerca è una lingua molto colta. Anche quella di Ariosto era coltissima, ma in un senso diverso: quella di Ariosto era una cultura linguistica dissimulata nella scrittura elegantemente piana. Quella di Tasso è una lingua molto colta nel senso che è piena di cultismi, cioè di tratti linguistici presi dai registri più alti della lingua e destinati a tenere sostenuto il tono del testo. Questo significa, nel lessico, l’uso di parole liriche, soprattutto petrarchesche, molti latinismi e molti sintagmi aulici. ❖ Torquato Tasso – “Un fatale mascheramento” Clorinda non è a conoscenza dell’amore di Tancredi, ma, in generale, non è nemmeno sfiorata dall’idea dell’amore. È un personaggio totalmente dedito alla guerra e in ciò è molto più simile alla vergine Camilla dell’Eneide che alle guerriere del Furioso. Tuttavia Clorinda non è priva di sentimenti, anzi Tasso le attribuisce una personalità piuttosto complessa. Il tormento di Clorinda deriva dal suo passato: figlia del re cristiano d’Etiopia, è nata bianca da genitori neri perché durante la gravidanza la madre era rimasta impressionata dall’immagine di San Giorgio in atto di liberare una fanciulla dal drago. Costruendo questo complesso passato, Tasso presenta Clorinda con tutti i segni del monstrum, cioè dell’essere straordinario, segnato da Dio, ma anche da un destino fatale. Uno scontro altamente simbolico. Tasso riserva al duello fra Tancredi e Clorinda un’attenzione del tutto particolare, non solo perché gli dedica uno spazio notevole, ma soprattutto perché lo scontro è preparatorio e accompagnato da una fitta serie di premonizioni e di segnali simbolici che ne fanno ben più di un duello tra due campioni nemici. La storia di Clorinda e Tancredi è concepita come una vicenda fondata su inestricabili ambiguità e opposizioni, tanto tragiche quanto felici. Una serie di 57 indizi rivela al lettore l’imminenza della morte dell’eroina: la decisione di indossare invece della solita armatura bianca una corazza “ruginosa e mera”; poi il sogno di Arsete, al quale San Giorgio apparve per rimproverargli di non aver battezzato Clorinda; e la stessa notte, scurissima, che fa da sfondo alla scena. Il compimento del destino e i “bivi”. Le premonizioni date da questi segnali si avverano nella scena del duello, in cui Tasso concentra tutta la sua maestria, retorica e registica, per portare alla luce gli aspetti più patetici della vicenda. La tragicità deriva dal susseguirsi di eventi sfortunati, che comportano conseguenze irrimediabili. Ognuno di questi “incidenti” costituisce un bivio possibile della vicenda: la via porterebbe a una soluzione elice e condurrebbe inevitabilmente al compimento dei segni premonitori. Clorinda esclusa dalle mura. Il primo evento accidentale è la chiusura di Clorinda fuori dalle mura della città. L’importanza del momento è sottolineata dalla ripetizione con anadiplosi. Tasso gioca crudelmente sul fatto che Tancredi, unico tra tutti i crociati, riconosce Clorinda come un cavaliere nemico, ma non la riconosce come la donna da lui tanto amata. Da questo mancato riconoscimento deriva l’inconsapevolezza fatale che durerà fino al termine del duello. La scena del duello. Il duello si svolge nel buio della notte: questa ambientazione rara in un poema cavalleresco, è assai cara a Tasso. È la stessa della battaglia di Sveno, il cavaliere danese che troverà il martirio in Terrasanta; sarà la stessa dell’ultimo scontro tra Tancredi e Argante. In tutti e tre i casi, Tasso insiste sul fatto che il buio nasconde le imprese eroiche e impedisce agli eventuali spettatori di assistere al duello. Solo la poesia ha il potere di strappare all’oblio gli atti eroici compiuti in queste circostanze. Ferocia del duello. Al buio in cui si svolge la lotta corrisponde simbolicamente l’oscuramento della ragione dei due eroi, che si battono orribilmente. Sulla loro umanità prevale l’irrazionalità delle passioni: l’orgoglio e l’ira, lo sdegno, il desiderio di vendetta, l’onta (56, 1-2). Polivalenza dei gesti. Tasso indica i duellanti con due termini bivalenti: cavalier e donna, che, se pur riferiti alla situazione guerresca, richiamano il contesto dell’amor cortese. L’abbraccio di Tancredi è insieme amoroso e mortale. Compimento del destino e redenzione di Clorinda. La morte dell’eroina è anche l’unica via perché si sveli la verità che era rimasta nascosta per tutto il duello. Levando l’elmo dal nemico, Tancredi riconosce l’amata. Tasso non esita a parlare di trasfigurazione sia nel volto (69, 1-4), sia nelle parole della guerriera. Il linguaggio religioso. Il registro linguistico muta prospettiva e si intona alla nuova visione salvifica e provvidenziale, aperta dalla volontà della donna di battezzarsi: risuonano allora espressioni tipiche del linguaggio religioso: pace ripetuto due volte; ma soprattutto l’aggettivo pio riferito all’ufficio, al compito di Tancredi, che può richiamare la pietas di Goffredo e dei cristiani. ❖ Torquato tasso – “Rinaldo prigioniero degli incanti di Armida” Un altro fattore destabilizzante per le truppe cristiane di Goffredo è il traviamento de sensi impersonificato dall’incantatrice Armida. Costei tiene prigioniero delle sue lusinghe Rinaldo. Per recuperare l’eroe, decisivo per le sorti dell’esercito cristiano, i cavalieri Carlo e Ubaldo, istruiti dal mago di Ascalona, partono alla volta delle Isole Fortunate, regno di Armida. Sbarcati sull’isola, Carlo e Ubaldo attraversano il labirintico palazzo della maga. Da lì accedono ad un giardino in cui troveranno Rinaldo e Armida abbracciati. La descrizione del giardino e la scena degli amori di Rinaldo e Armida. Il passo può essere suddiviso in due grandi sezioni: una prima dedicata alla descrizione del giardino di Armida (9-16) e una seconda (17-22) riservata gli amori di Rinaldo e di Armida, che appaiono a Carlo e Ubaldo in atteggiamenti di inequivocabile intimità. Le due parti sono legate al punto di vista ideologico e sviluppano lo stesso, importante tema della Liberata; quello dell’errore, della devianza rispetto alla retta via e della potenza della tentazione amorosa. La prima parte dedicata alla descrizione del regno vegetale e animale, prepara e spiega la scena della quale sono protagonisti gli esseri umani. Arte e natura nel giardino di Armida. Il giardino di Armida possiede tutte le caratteristiche del locus amoenus, il “luogo piacevole” della tradizione letteraria, dove la natura appare nel suo splendore e
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