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Il Gattopardo, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto, analisi e commento del libro di Tomasi di Lampedusa e considerazioni sul film tratto dal romanzo e diretto da L. Visconti.

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

Caricato il 18/07/2014

francesca.daniele.144
francesca.daniele.144 🇮🇹

4.3

(4)

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Scarica Il Gattopardo e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958, un anno dopo la morte dell' autore. L'autore trasse ispirazione da vicende storiche della sua famiglia e in particolare dalla biografia del bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi, vissuto durante il Risorgimento. Scritto tra la fine del 1954 e il 1957, fu presentato all'inizio agli editori Arnoldo Mondadori Editore e Einaudi, che ne rifiutarono la pubblicazione, avvenuta poi dopo la morte dell'autore da Feltrinelli con la prefazione di Giorgio Bassani, che aveva ricevuto il manoscritto da Elena Croce. «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.» Il racconto inizia con la recita del rosario in una delle sontuose sale del palazzo Salina, dove il principe Fabrizio, il gattopardo, abita con la moglie Stella e i loro sette figli: è un signore distinto e affascinante, raffinato cultore di studi astronomici ma anche di pensieri più terreni e a carattere sensuale, nonché attento osservatore della progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto; infatti, con lo sbarco in Sicilia di Garibaldi e del suo esercito, va prendendo rapidamente piede un nuovo ceto, quello borghese, che il principe, dall'alto del proprio rango, guarda con malcelato disprezzo, in quanto prodotto deteriore dei nuovi tempi. L'intraprendente e amatissimo nipote Tancredi Falconeri non esita a cavalcare la nuova epoca in cerca del potere economico, combattendo tra le file dei garibaldini (e poi in quelle dell'esercito regolare del Re di Sardegna), cercando insieme di rassicurare il titubante zio sul fatto che il corso degli eventi si volgerà alla fine a vantaggio della loro classe; è poi legato da un sentimento, in realtà più intravisto che espresso compiutamente, per la bella e raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui. Il principe trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è Don Calogero Sedara, un parvenu, ma molto intelligente e ambizioso, che cerca subito di entrare nelle simpatie degli aristocratici Salina, mercé il fascino della figlia Angelica, cui il passionale Tancredi non tarderà a soccombere; quella Angelica, che pur non potendo uguagliare la grazia altera di Concetta, ha dalla sua parte la non comune bellezza, per non parlare dell'ingente fortuna economica (sia pur in gran parte derivante dai possedimenti perduti dai Salina e dai Falconeri), sì che Tancredi finirà per sposare lei. Arriva il momento di votare l'annessione della Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, dubbiosi sul da farsi, gli chiedono un parere sul voto, il principe, suo malgrado, risponde in maniera affermativa; e, alla fine, il plebiscito per il sì, pur non esente da trucchi, sarà unanime. In seguito, giunge a palazzo Salina un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime, ad esso legato da vincoli di decenza. Il principe condurrà da ora in poi vita appartata fino al giorno in cui verrà serenamente a mancare, circondato dalle cure dei familiari, in una stanza d'albergo a Palermo durante il viaggio di ritorno da Napoli, dove si era recato per cure mediche. L'ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel 1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti di don Fabrizio, che conducono un'esistenza dedita a una devozione religiosa consuetudinaria ed estrinseca, coltivando l'illusione che il nome dei Salina sia ancora quello altisonante di un desiderato passato. L'autore compie all'interno dell'opera un processo narrativo che è sia storico che attuale. Parlando di eventi passati, Tomasi di Lampedusa parla di eventi del tempo presente, ossia di uno spirito siciliano citato più volte come gattopardesco. Nel dialogo con Chevalley di Monterzuolo, inviato dal governo sabaudo, il principe di Salina spiega ampiamente il suo spirito della sicilianità; egli lo spiega con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti avvenuti nell'isola più volte nel corso della storia, hanno adattato il popolo siciliano ad altri "invasori", senza tuttavia modificare dentro l'essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d'Italia, appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l'orgoglio del siciliano stesso. Egli infatti vuole esprimere l'incoerente adattamento al nuovo, ma nel contempo l'incapacità vera di modificare se stessi, e quindi l'orgoglio innato dei siciliani. In questa chiave egli legge tutte le spinte contrarie all'innovazione, le forme di resistenza mafiosa, la violenza dell'uomo, ma anche quella della natura. I Siciliani non cambieranno mai poiché le dominazioni straniere, succedutesi nei secoli, hanno bloccato la loro voglia di fare, generando solo oblio, inerzia, annientamento (il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di "fare". [....] il sonno è ciò che i Siciliani vogliono). Garibaldi è stato uno strumento dei Savoia, nuovi dominatori (da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento [...] ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio). Questi avvenimenti si sono innestati su una natura ed un clima violenti, che hanno portato ad una mancanza di vitalità e di iniziativa negli abitanti (....questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza dannata; [....] questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; [....] questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo....). Di recente Vittorio Spinazzola, in un importante lavoro degli anni novanta, Il romanzo antistorico, attribuisce alla triade formata da I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello, e il romanzo di Tomasi di Lampedusa, la fondazione di un nuovo atteggiamento del romanzo rispetto alla storia; non più l'ottimismo di una concezione storicista e teleologica dell'avvenire dell'uomo (ancora presente in Italia nelle grandi cattedrali di Manzoni e Nievo), ma la dolorosa consapevolezza che la storia degli uomini non procede verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive, e che la "macchina del mondo" non è votata a provvedere alla felicità dell'uomo. Il romanzo antistorico è il deposito di questa concezione non trionfalistica della storia , nei tre testi citati il corso della storia genera nuovi torti e nuovi dolori, invece di lenire i vecchi. La negazione della storia, la sterilità dell'agire umano, è uno dei motivi più ricorrenti e significativi del libro; in questa prospettiva di remota lontananza dalla fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive", il Risorgimento può ben diventare una rumorosa e romantica commedia e Karl Marx un "ebreuccio tedesco", di cui al protagonista sfugge il nome, e la Sicilia, più che una realtà che storicamente si è fatta attraverso secoli di storia, resta una categoria astratta, una immutabile ed eterna metafisica "sicilianità". Correlato a questo è il tema del fluire del tempo, della decadenza e della morte esemplificato nella morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi che sarà sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei Sedara, ma che permea di sé tutta l'opera: la descrizione del ballo, il capitolo della morte di don Fabrizio, la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sulle loro cose. L'ultimo valzer borbonico...Ci sono diversi modi per il cinema di avvicinarsi a un romanzo:Visconti pur modificando la parte finale decide di avvicinarsi al romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa col rispetto del filologo arrivando a riprodurre fedelmente molte pagine dell'unico romanzo. Quello che fa avvicinare al film,prima di comprendere la sfaccettata personalità del suo protagonista,è la grande capacità di Visconti di illustrare in maniera mirabile,di orchestrare minuziosamente le scene di massa che vediamo soprattutto all'inizio quando i garibaldini combattono per le strade,di dettare le danze dandoci un ritratto a tutto tondo della Sicilia di quel tempo .E in questo la calda,sensazionale fotografia di Rotunno aiuta molto.Poi entra in scena il protagonista con il suo travaglio interiore,col suo malcelato disprezzo per quasi tutti quello che lo circondano(tranne il diletto nipote Tancredi).Il suo essere aristocraticamente di vecchio stampo lo protegge da qualsiasi sussulto eppure capisce che sta andando via un epoca.Da qui viene il suo malcontento,il suo arrovellarsi,pur se bisogna cambiare tutto affinchè nulla cambi il nobile Don Fabrizio,principe di Salina è disgustato.E il disgusto si estende anche a quella classe nobiliare borbonica di cui è sempre stato esponente di spicco.In nome del progresso e della convenienza accetta che il nipote Tancredi si fidanzi con Angelica figlia di un borghese arricchito,ma non accetta di far parte del Senato della nuova repubblica sabauda che sta nascendo.E che ai suoi occhi sembra solo una propaggine sotto mentite spoglie di tutto quello che aveva vissuto fino ad allora .Emblematica l'ultima parte,quella del ballo.In un palazzo pieno di gente,dove si mescolano quasi con noncuranza ufficiali piemontesi e nobili siciliani,il principe di Salina è solo,si aggira pensieroso per le stanze,distaccato da tutto e da tutti.Beve un bicchiere d'acqua,si sofferma davanti a un quadro, La morte del giusto di Greuze,quasi che Visconti ellitticamente voglia suggerire l'idea della morte del principe che è presente nel romanzo non nel film.Angelica lo viene a chiamare per un ultimo valzer di fronte agli altri convitati che li osservano meravigliati.Finita la festa il principe se ne va e in un vicolo si confonderà ombra tra le ombre.Una magistrale uscita di scena che racchiude l'amarezza e la malinconia dell'uomo che capisce di non essere più adeguato al proprio tempo.Del resto la lunga sezione del ballo da una parte denota il toccarsi tra due estremi nel nome dell'alba di una nuova epoca,dall'altra denota un distacco totale dai fermenti rivoluzionari e dalla vita reale.Le stanze del palazzo diventano un mondo a parte che non ha nulla da condividere con quello che è fuori.Un po'come ne La maschera della morte rossa di Poe dentro il palazzo si ride si canta e si balla,fuori si muore per cementare la nuova unità d'Italia e archiviare definitivamente la monarchia borbonica.Il film ,di durata fluviale è di un immensità figurativa poche altre volte
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