Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Il Gattopardo; sbobine prese a lezione, Sbobinature di Letteratura Italiana

Il documento è composto dagli appunti presi durante le lezioni del professore Pupo. Documento ben fatto in quanto è stato corretto e riletto innumerevoli volte.

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

In vendita dal 04/05/2022

letteremoderne.unical
letteremoderne.unical 🇮🇹

4.5

(20)

20 documenti

1 / 26

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Il Gattopardo; sbobine prese a lezione e più Sbobinature in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! 03/12 IL GATTOPARDO E’ l’unico romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che scrive negli anni della vecchiaia, a partire dalla metà degli anni 50 e viene pubblicato postumo, nel 1958, da Feltrinelli. In precedenza l’autore aveva presentato la sua opera anche a Mondadori ed Einaudi, che però si rifiutarono di pubblicarla. In particolare Elio Vittorini rifiuta l’opera dicendo che secondo lui il romanzo era ancora improntato sui modelli dlel’800 ed era diverso dai romanzi sperimentali raccolti nella collana diretta da lui, I Gettoni. Grazie a Bassani approda a Feltrinelli che aveva ricevuto una copia dattiloscritta; Bassani mette a confronto la copia dattiloscritta incompleta con il manoscritto integrale. Nonostante i rifiuti ottenuti dalle due case editrici, l’edizione Feltrinelli de Il Gattopardo raggiunse, dopo soltanto due anni dalla sua stesura, il numero di 100 mila copie vendute, che lo fecero diventare a tutti gli effetti un bestseller. Tale successo fu senz’altro amplificato dall’omonimo film del 1963 diretto da Luchino Visconti. Ci sono diverse stesure che si differenziano tra loro sia dal punto di vista cronologico che dal punto di vista del supporto materiale. - Prima stesura manoscritta composta tra il 54 e il 56 che contiene le prime 4 parti del romanzo. - Seconda stesura dattiloscritta più lunga dal punto di vista del contenuto, perché si aggiungono altre 2 parti. Questa stesura è stata materialmente realizzata da Francesco Orlando, un allievo di Tomasi. Sono state fatte copie dattiloscritte tra il 56 e il 57 e alcune sono state inviate agli editori in vista della pubblicazione, oltre che ad amici. - Terza stesura manoscritta che comprende il romanzo nella sua interezza con le 8 parti. Questo manoscritto completo è stato terminato alle soglie della vita dell’autore, nella primavera del 57 ed era stato donato al figlio adottivo, Gioacchino Tomasi. Di cosa parla Il Gattopardo? La materia che è al centro dell’attenzione della scritto è storica, cioè la rovina della classe nobiliare, in particolare di una famiglia aristocratica siciliana, i Salina, in una fase particolare della storia d’Italia, una fase di transizione che vede il passaggio, nel sud d’Italia, dai Borbone ai Savoia, dal Regno delle due Sicilie al Regno d’Italia. In questa fase si assiste alla crisi della classe aristocratica di cui i Salina rappresentano un esempio. E’ un romanzo storico? Non tutti sono d’accordo ad incasellare questo romanzo nella categoria di romanzo storico. Secondo Tomasi non lo era, infatti, in una lettera a un amico, diceva proprio che non era d’accordo a definirlo come romanzo storico, perché non ci vengono presentati in primo piano gli eventi ma ci sono le vicende private e le riflessioni del principe Salina. In effetti non è un romanzo storico nel senso stretto del termine. Alcuni smentiscono l’autore stesso dicendo che invece si tratta di un romanzo storico. Secondo alcuni è una contaminazione di romanzo storico e autobiografico. Per altri è un romanzo antistorico, ovvero un romanzo che ha le caratteristiche del romanzo storico in senso stretto ma anche in parte, in cui si registra una determinata visione della storia alternativa alla visione ufficiale, una visione retorica. - La visione a cui si oppone il romanzo antistorico è una visione ingenuamente progressista, una visione per cui si considera la storia come un processo che procede verso il meglio; per esempio il rinascimento viene considerato come una tappa che rappresenta un progresso rispetto al passato. - La visione del romanzo antistorico invece si fa portavoce di una visione demistificante che tende a vedere le cose come sono andate realmente. Per esempio il risorgimento non è la grande conquista che è sembrata per tutti: tema del risorgimento mancato nel sud Italia. Gli autori dei romanzi antistorici mettono sotto accusa il mondo in cui il risorgimento si è realizzato nel sud Italia a scapito degli interessi delle popolazioni che hanno visto il cambio della classe dirigente ma che non hanno goduto di un miglioramento delle loro condizioni di vita. Da una parte quindi c’è la visione retorica e dall’altra la visione pessimistica. Quali sono i testi che rientrano nella categoria del romanzo antistorico? Un critico ha indicato una triade di testi che rientrano nei romanzi antistorici: Il Gattopardo, I vecchi e i giovani, I viceré. Sono quindi tre romanzi assimilabili alla visione pessimistica. In questa ottica viene denunciato il mancato risorgimento del sud Italia. In questa visione lucida si mette in evidenza il comportamento della classe dirigente, ovvero il trasformismo: il comportamento dell’aristocrazia che tende a conservare i propri privilegi di classe adattandosi ai tempi nuovi, portando quindi avanti il cambiamento ma vagheggiando l’idea di conservare i propri privilegi. La pratica del trasformismo non porta miglioramenti ma porta ad una falsa trasformazione e ad un immobilismo.  Il Gattopardo quindi rientra nella categoria di romanzo storico a patto che si consideri che la materia veramente storica costituisce uno sfondo; rientra anche nella categoria del romanzo antistorico perché, come gli altri 2 romanzi citati, mette a fuoco i processi torici in maniera realistica e spietata, senza nascondere il fatto che le classi dirigenti hanno tentato di adattarsi. La visione del romanzo antistorico è stata definita anche come contro scrittura o contro narrazione: se il modo retorico è un’anti narrazione del risorgimento, allora il romanzo antistorico propone una contro narrazione, cioè ci fa vedere le cose da un’altra angolatura e demistifica ciò che appare frutto di mistificazione nell’altra visione. Quando ci si riferisce alla visione ottimistica della storia a cui il romanzo antistorico si oppone, si può pensare ad alcuni versi della Ginestra di Leopardi, in cui si parla del secolo superbo e sciocco che vede nelle magnifiche sorti progressive del genere umano: in maniera simile ai romanzi antistorici, anche la Ginestra presenta uno storicismo anti progressista, che mette in risalto gli elementi negativi che in un certo senso rallentano il passaggio dall’ancien regime alla modernità. Chi è il protagonista del romanzo? È Fabrizio Corbera, principe di Salina, esponente della classe aristocratica. Tutti gli eventi infatti sono filtrati attraverso l’ottica di questo personaggio. Questo fa la differenza perché da una parte c’è una visione lucida delle cose e di come sono andate veramente però dall’altra c’è il punto di vista di Don Fabrizio e questo influisce sulla lucidità di visione? Alla lucidità si accompagna anche qualcosa di nostalgico. Il principe assiste alla crisi della sua classe, ne ha una lucida consapevolezza però non può fare a meno di rimpiangere il periodo in cui la classe aristocratica viveva in modo migliore. Il principe è anche una proiezione autobiografica, perché anche Tomasi di Lampedusa apparteneva a un’illustre famiglia aristocratica e corrisponde ad un personaggio storico realmente esistente, ovvero al bisnonno di Tomasi. Allora, alla nostalgia del principe si deve aggiungere la nostalgia dell’autore perché anch’egli guarda con nostalgia al mondo nobiliare che entra in crisi. Autobiografismo del Gattopardo Nel romanzo c’è la dinastia aristocratica dei Salina mentre sul piano autobiografico c’è la dinastia dei Tomasi di Lampedusa, fondata nel 1500 da Mario Tomasi. Due momenti del ramo genealogico: - Quello del 600, che vede come capofamiglia Giulio I, possessore di diversi titoli nobiliari; costui aveva un gemello, Carlo, assieme al quale fondò Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento. Tale dinastia si occupò principalmente della religione: su otto figli, infatti, ben sette entrarono in convento e tra questi Isabella fu addirittura beatificata; lo stesso Giulio era denominato “il duca santo”. Sia lui che la figlia verranno evocati all’interno del romanzo. - Quello dell’800 che vede come protagonista il bisnonno di Tomasi, Giulio Fabrizio Tomasi e a questo personaggio si ispira l’autore per la figura del principe. immaginario nella mente di Fabrizio con il cognato, classico conservatore, incapace di una visione lungimirante. Pag 36  il principe si pone degli interrogativi e si chiede perché quel soldato doveva morire. In questo interrogativo si mostra incapace di azione ma capace di un’osservazione lucida. Nell’ immaginazione, il cognato Malvica, risponde che il soldato è morto per il re che difende la proprietà privata. Mentre il cognato ottusamente venera tutto ciò che appartiene al mondo della nobiltà, compreso il re, il principe lucidamente vede anche quando l’idea monarchica non è incarnata bene. Il principe si mostra scettico di fronte a questa cieca fede del cognato. La crisi della nobiltà è oggetto di sguardo critico dall’interno. 09/12 L’episodio della morte del soldate ci porta a dire come il romanzo sia costellato da segnali di morte e questo vale in riferimento al principe la cui morte occupa un interrogativo. È quindi un tema centrale filtrato dal punto di vista di Fabrizio, come in questo caso. Nel corso del romanzo assistiamo ad una sorta di aspirazione del principe alla morte che accompagna la decadenza della classe a cui appartiene: le due cose vanno insieme. Il giardino è lo sfondo di questo ricordo luttuoso e poi ne segue un altro; si può parlare di un’associazione mentale. Un’altra finestra si apre nella memoria di Don Fabrizio perché mette a fuoco un altro ricordo ovvero le udienze che gli ha concesso il re Borbone. L’associazione riguarda il fatto che prima aveva avuto come interlocutore il cognato Malvica e avevano discusso del re e dell’idea per cui il soldato era morto per uno scopo, costituito dall’idea monarchica. In particolare un’udienza in cui ha mostrato la maschera dell’amico e poi anche quella del sovrano severo. Pag 38  “P’a capa” è un dialettismo napoletano. La scienza si mette ad attaccare la religione con Galileo; l’autorità ecclesiastica viene invocata perché è un pilastro dell'Ancien Regime. Fin qui la maschera dell’amico; poi subentra la maschera del sovrano. Pag 39  La maschera del sovrano severo mette Don Fabrizio al corrente del fatto che il nipote Tancredi Falconeri (figlio di una sua sorella) frequentava cattive compagnie: ai tempi erano i liberali. A questo punto Don Fabrizio risponde rassicurando il re Borbone dicendo che lui non si occupa di politica ma pensa solo a divertirsi. Dopo questo scambio di battute, Don Fabrizio si trova in imbarazzo perché deve difendere il nipote. Egli riflette perché questo atteggiamento duplice, ambiguo non lo soddisfa completamente. Il senso di questa riflessione è che il principe intuisce come la casa regnante dei Borbone stia attraversando una fase di crisi che incalza una nuova dinastia che potrebbe rientrare, appunto i Savoia (rappresentati del piemontese), in particolare Vittorio Emanuele. Se ipotizza ci dovesse essere questo cambio di dinastia in fondo non cambierebbe molto, da qui si fa strada l’idea dell’immobilismo; cioè non cambierebbe molto nella sostanza e ci sarebbe solo un cambiamento apparente, al posto del dialetto napoletano del Re Borbone ci sarà il dialetto piemontese di Re Borbone. Questo è un modo di parlare tra se e se, teso a rassicurarlo, infatti questo piccolo cambiamento lo consola. Finisce il tempo dei ricordi. Prima vera scena del romanzo La prima vera scena è la cena, fatta di lusso e di fasto. Pag 40  si parla di fasto sbrecciato: è come se questo fasto non fosse perfetto ma avesse dei limiti, come se fosse stato compromesso da qualcosa, cioè dalla rovina economica del ceto aristocratico. Don Fabrizio assisteva impotente alla rovina del proprio patrimonio. Nella descrizione della cena vengono descritte le posate che provenivano da servizi disparati, cioè non c’era la cura lussuosa di un tempo ma bisognava arrangiarsi; c’è quindi una smagliatura della trama di ricchezze che i Salina possono vantare. Ritorna l’immagine del Gattopardo: viene descritta una zuppiera con coperchio che presenta questa immagine. Interessanti sono i pensieri di Don Fabrizio durante questa cena: innanzitutto si irrita per il fatto che Francesco Paolo è in ritardo ma lo incupisce il fatto che da casa manchi, almeno da due anni, il figlio Giovanni; si incupisce perché in si rispecchiava; vive questo come un tradimento contro lui e il suo ceto. La principessa Maria Stella lo vede triste e gli accarezza la mano, definita potente zampaccia; ritorna inaspettatamente l’immagine del gattopardo. In questo caso il principe si animalizza e il Gattopardo è il principe stesso. C’è un nesso tra l’immagine animale dello stemma araldico e il rappresentante più illustre della storia del casato. Il principe è orgoglioso e il gesto tenero della principessa lo irrita e lo porta a prendere una decisione che procura un danno oggettivo alla donna: decide di recarsi da una prostituta che conosce da tempo, Mariannina. Nel viaggio porta anche Pirrone, ecclesiastico di casa Salina, che non può far altro che ubbidire. Questa fase erotica inizia con i sensi di colpa del principe perché pecca verso Dio e verso sua moglie. Pag 46  come si autoassolve? C’è il tipico atteggiamento maschilista che si autoassolve stigmatizzando la pudicizia bigotta di Maria Stella, la presenta a letto come una suora; tende quindi a giustificarsi. Mariannina ha un carattere non tanto diverso da Maria Stella. Pag 47  Mariannina viene vista come una donna sottomessa, umile. Questo ci fa pensare che lui passa ad una prostituta ma il tipo di donna non cambia molto perché è lo steso cliché di donna sottomessa. Tancredi Falconeri Pag 43  La carrozza su cui viaggiano il padre e Fabrizio, passa davanti alla villa dei Falconeri; qui si apre una parentesi sulla vita di Tancredi. Si tratta di un ramo della famiglia messo ancora peggio rispetto al ramo dei Salina perché il padre di Tancredi aveva dissipato tutto il patrimonio lasciando in miseria la famiglia. Alla morte della madre il re aveva pensato di affidare il nipote alla tutela dello zio Fabrizio quando il ragazzo aveva solo 14 anni. Tancredi ha sempre esercitato un grande ascendente su Don Fabrizio: c’è una simpatia evidente dovuta al fatto che in fondo Tancredi ha le caratteristiche caratteriali che al principe mancano. Fabrizio assiste alla rovina del ceto e del patrimonio in modo rassegnato e inattivo, in contrapposizione a Tancredi che invece ha un senso pratico della vita e quindi reagisce alla crisi. Proprio per questo senso paratico il principe ammira Tancredi e lo preferisce al primogenito Paolo. La scena principale del capitolo: la conversazione che avviene tra i due la mattina seguente. Pag 48-49 all’interno dell’episodio Don Fabrizio ascolta dal nipote la frase “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”: questa frase apparentemente potrebbe sembrare indecifrabile ed enigmatica (aggettivo che usa lo stesso narratore). Pag 55  se sono parole enigmatiche possono essere anche ambigue e bisogna afferrare il senso. Si sta facendo la barba davanti lo specchio e gli compare l’immagine del nipote; si discute su ciò che entrambi hanno fatto la sera prima e Tancredi lo prende in giro. Le sue battute appaiono inizialmente offensive alle orecchie del principe. Pag 49  Tancredi si concede una battuta nei confronti dello zio dicendo che non aveva l’età per andarsi a divertire e, nel principe Fabrizio subentra una reazione di risentimento, questo sta a significare che il sentimento di ammirazione verso Tancredi si mescola con un senso di inferiorità e con un’invidia sensuale; questo perché Tancredi è più giovane può fare ciò che a lui è precluso. Fabrizio si chiede il motivo per cui eri lì a fare visita allo zio. Tancredi dice chiaramente che sta partendo perché vuole unirsi ai ribelli, cioè i liberali che vogliono sovvertire all'Ancien Regime. Il principe si dispiace sia perché Tancredi con questa scelta tradisce la nobiltà e sia perché teme per la vita del nipote. Rivendica con forza la necessità per un Falconeri di schierarsi dalla parte del re (intendeva il re Borbone); il ragazzo gioca sul fatto che non nomina espressamente il re chiedendo a quale re si riferisse. C’è la convenienza di schierarsi non dalla parte del re Borbone ma dalla parte del re Vittorio Emanuele (ciò torna utile alla causa nobiliare). E’ interesse della nobiltà a questi moti rivoluzionari schierandosi dalla parte del re perché se la nobiltà decidesse di opporsi allora i liberali instaureranno la repubblica e di conseguenza la nobiltà perderebbe tutti i privilegi. Tancredi indica la via per addomesticare la rivoluzione in modo che non abbia conseguenze gravi capaci di intaccare i privilegi della classe aristocratica: questo è un atteggiamento di trasformismo, immobilismo; indica una capacità di adattamento ai tempi nuovi. Questo è un progetto che si rivelerà illusorio e fallace; tutto il romanzo si incaricherà di dimostrare che Tancredi ha torto perché poi gli avvenimenti successivi dimostreranno come la rivoluzione non possa essere addomesticata dalla nobiltà. Questo trasformismo-immobilismo è una filosofia smentita dalla storia, ecco perché quando si parla di gattopardismo (filosofia della conservazione) bisogna stare attenti, perché esso è solo nella mente di Tancredi. La frase di Tancredi diventa fonte di fraintendimento quando la si attribuisce all’autore Tomasi come se lui avesse un’idea immobilistica dell’idea; invece Tomasi sa bene che la storia muta e che quindi stravolge la classe nobiliare a cui Don Fabrizio appartiene. Tomasi Lampedusa non credeva che la storia fosse un processo ciclico tant’è vero che fa morire il principe e gli farà dire che infondo Garibaldi aveva vinto. Con questa ammissione fa tabula rasa del presunto immobilismo che era appartenuta a Tancredi. Nell’illusione di una Sicilia immobile appartiene prima a Tancredi ma poi contagia pure il principe per un certo tratto, salvo poi il principe ricredersi e capire che Tancredi aveva torto. Pag 51  il principe comincia a sposare il punto di vista di Tancredi. La rivoluzione viene assimilata ad una romantica commedia in cui ognuno fa la sua parte ma poi rimane tutto com’è ma nessuno si farà realmente male. Conferma del fatto che Don Fabrizio si lascia ammaliare da Tancredi. Pag 59  Padre Pirrone si lamenta dell’arrivo di uomini avidi e rimprovera Don Fabrizio del fatto che loro sono complici dei liberali, Don Fabrizio (con la strategia di Tancredi) si rivolge al padre rispondendo che loro vivono una realtà mobile alla quale cercano di adattarsi attraverso un compromesso con le nuove forze che dovrebbe garantire la sopravvivenza della classe aristocratica e la capacità di godere dei privilegi. Siamo nell’osservatorio astronomico del palazzo dei Salina. Pag 60  Don Fabrizio e padre Pirrone si immergono nella contemplazione delle stelle perché entrambi condividevano la stessa passione astronomica. C’è un riferimento alle fanfaronate di Bendicò rinviano all’irrazionalità del processo storico. A fronte dell’irrazionalità della storia che produce dei mutamenti in alternativa ci sta il cielo della scienza, che è razionale, in cui si muovono gli astri che rispondono docili ai calcoli della storia. L’irrazionalità e i mutamenti continui della storia trovano un contraltare nell’immobilità sempre eguale dei cieli. Questa passione astronomica di Don Fabrizio va interpretata come un modo per esorcizzare l’angoscia che gli deriva dal constatare come la storia possa da un momento all’altro far saltare in aria l’egemonia della propria classe; rispecchiarsi nei cieli invece equivale a una medicina che lo consola e rassicura. 10/12 La prima parte termina con la recita del rosario, che chiude le ventiquattr’ore narrate e la rende “circolare”: la giornata termina infatti così com’era iniziata. Pag 63-64  Paolo è invidioso di Tancredi, poiché Don Fabrizio mostra a più riprese di preferirlo a lui. In questo micro episodio, il primogenito si sfoga definendo il cugino-rivale un “traditore” della causa borbonica. Il principe preferisce però il tradimento giustificato del nipote piuttosto che la mediocrità del figlio, che viene invitato a “parlare di politica con Guiscardo”, il suo cavallo, sinonimo di stupidità. Inoltre, Don Fabrizio è convinto che la lungimiranza di Tancredi permetterà alla loro casata di non perdere i propri privilegi; pertanto, rimprovera Paolo, affermando che sarà solo grazie al cugino se lui riuscirà a mantenere il suo titolo nobiliare. mutamento dei tempi. Tale visione lo sconvolge più della notizia dello sbarco a Marsala, anche perché lo sbarco era molto lontano da lui; non si può dire lo stesso del sindaco. L’unica consolazione del principe è la mediocre riuscita sartoriale dell’abito, che gli ricorda le rozze origini di Don Calogero. Racconto sul convento di Tancredi L’ultima parte del capitolo riguarda l’importanza dei conventi, soprattutto per le donne. Viene spiegato il modo in cui questi erano stati presi di mira dalla rivoluzione. Di ciò ne parla Tancredi a pranzo, che attinge dalla sua esperienza personale, facendo capire l’importanza dell’eros nel romanzo. Tancredi racconta di voler entrare con la forza nel Monastero dell’Origlione e racconta questo episodio ad Angelica. Dopo aver sfondato il portone del convento osserva uno spettacolo grottesco delle suore che mostrano paura per ciò che gli sarebbe potuto accadere ma hanno anche il desiderio inconscio, la speranza di poter diventare oggetto di piacere per i soldati. Le suore però vengono lasciate a bocca asciutta affermando che sarebbero ritornati quando avrebbero trovato le novizie. Eccitata da tale racconto, Angelica chiede cosa avrebbero fatto se fosse stata con loro; a tale domanda maliziosa, Tancredi risponde dicendo che in quel caso lui e i suoi compagni non avrebbero dovuto attendere. Questo doppio senso lascivo indegna Concetta, a sua volta presente al pranzo. Concetta troverà il modo di vendicarsi qualche tempo dopo: durante una visita al Monastero di Santo Spirito, in cui il principe si reca per pregare sulla tomba della beata Corbèra, sua antenata e fondatrice del convento, viene impedito l’ingresso a tutti gli uomini eccetto il re e Don Fabrizio. Tancredi si indegna di ciò e Concetta, dal canto suo, gli lancia una “frecciatina”: indica dunque una trave presente nelle vicinanze e gli consiglia di sfondare il portone in maniera simile a come aveva fatto precedentemente col suo plotone. Le pesche forestiere con cui si chiude la seconda parte vengono offerte da Tancredi ad Angelica per averla in sposa; anche questa parte è dunque circolare, poiché si conclude allo stesso modo di com’era iniziata. 16/12 Don Fabrizio asseconda la sua passione per l’astronomia e punta il telescopio verso le stelle. Pag 96  In questo passo viene spiegato uno dei motivi principali circa la passione di Don Fabrizio per l’astronomia: l’osservazione delle stelle, infatti, permette al principe, in una certa misura, di dimenticare le preoccupazioni della vita quotidiana. Le stelle «non barattano», non scendono a compromessi, come invece è solito fare l’uomo. Ciò che infatti turba il principe è l’aver fatto scendere a compromessi la sua classe, la nobiltà, con la borghesia rappresentata da Don Calogero, e tale compromesso avviene sotto forma del matrimonio combinato tra Tancredi e Angelica. Com’è già stato spiegato, tale accordo risulta vantaggioso per ambo le parti: i Salina avrebbero rimpinguato il loro patrimonio, mentre Don Calogero e la famiglia avrebbero potuto godere dell’ascesa di classe. La terza parte del romanzo si ambienta nell’ottobre del 1860 ed è l’ultimo a trattare del soggiorno del principe a Donnafugata. Contrariamente alle due parti precedenti, che si svolgono nell’arco di ventiquattr’ore, in questa unità temporale è rispettata solo parzialmente: la parte si apre infatti alle prime luci dell’alba e termina alle 16:30 pomeridiane. Pag 106  la descrizione delle costellazioni funge qui da cornice della vicenda principale, ovvero della battuta di caccia di Don Fabrizio e Don Ciccio Tumeo. I due cacciatori, durante questo piacere feudale, si addentrano nella Sicilia pastorale, che sembra un’irrealtà rispetto a Donnafugata; la campagna infatti è descritta come progressivamente assolata e caratterizzata da un “silenzio assordante”. Donnafugata viene qui individuata nel ricordo del principe e messa in rapporto con i nuovi ricchi. Queste due realtà messe a confronto si rivelano incommensurabili: la campagna viene infatti definita “immutabile” e, assieme alla contemplazione delle stelle, permette al principe di dimenticare in parte i suoi problemi. In questo senso, l’immersione nella campagna permette l’esercizio del “pathos della distanza” (“godere dei vantaggi della distanza”, formula critica attribuita a Calvino ne Il barone rampante, in cui c’è Cosimo che guarda con distacco dall’alto degli alberi la realtà sottostante.), che permette di guardare la realtà (dunque Donnafugata) tramite un “cannocchiale rovesciato” (espressione che rimanda a Pirandello, presentata nella novella La tragedia d’un personaggio). Il cacciatore immerso nella Sicilia immutata e immutabile guarda Donnafugata come se appartenesse al passato o come se fosse stata della “stoffa di un sognato avvenire”. Quest’ultima espressione fa riferimento all’opera shakespeariana La tempesta: Donnafugata, infatti, viene descritta come una realtà onirica. Pag 114  il sempre uguale della campagna della Sicilia pastorale si contrappone al mutamento della storia di cui Don Fabrizio è testimone. La Sicilia pastorale in cui ora si trovano i due cacciatori è la stessa di quella che poteva essere sperimentata dai popoli italici 25 secoli prima: ciò si riferisce nuovamente al concetto di immobilismo della natura. Come in altre parti del romanzo, anche qui c’è la sospensione dell’azione e il passaggio dell’attenzione sulla sequenza memoriale del principe: egli nota infatti come questa volta la campagna non riesca a sortire il suo solito effetto benefico, molto probabilmente perché le preoccupazioni di Don Fabrizio sono maggiori; esse vengono inoltre animalizzate, paragonate a formiche che assaltano una lucertola morta. Le formiche appariranno in seguito nel romanzo. Materializzano una sorta di formicolio interiore che Don Fabrizio sente. Pag 107  i fastidi di Don Fabrizio riguardano sia l’ambito politico (l’ascesa della borghesia e la sua progressiva ricchezza), sia quello familiare (l’accelerazione del rapporto tra Tancredi e Angelica, la messa in ombra di Concetta). Il principe viene paragonato al Gattopardo stesso, che in precedenza era solito liberarsi dei propri problemi ricorrendo alla forza; ora, invece, questa dev’essere sostituita dall’astuzia, che si manifesta sia nell’accettazione del compromesso, sia sul piano del linguaggio, come si vede nella lettura della lettera di Tancredi che è partito e si trova a Caserta. L’astuzia si traduce in precauzione verbale: il principe legge adoperando dei tagli, eliminando dalla lettera “le spine e i boccioli prematuri”. Le spine fanno riferimento agli apprezzamenti fisici di Tancredi, i boccioli sono invece le frasi che potrebbero anticipare la relazione fra lui e Angelica. C’è anche un riferimento all’arte, che si ripresenterà più volte all’interno del romanzo: la bellezza di Angelica viene paragonata a quella di una Madonna in un ritratto che Tancredi aveva visto. Pag 110  nella lettera più importante Tancredi incarica lo zio di chiedere la mano di Angelica ed elabora una riflessione sull’importanza dei matrimoni combinati. Secondo il giovane, infatti, le unioni combinate permettono il riscatto delle classi nobiliari decadute e l’avanzata delle classi più umili. Questa può essere vista come una lezione politica impartita da Tancredi allo zio. Il modo in cui tali riflessioni si presentano fa inoltre comprendere la prudenza di Tancredi: esse sono infatti scritte su un foglio separato dalla lettera, in modo tale da poter essere facilmente fatto scomparire in caso di necessità. Pag 111  «Egli notò di nuovo la stupefacente accelerazione della storia; per esprimersi in termini moderni diremo che egli venne a trovarsi nello stato d’animo di una persona che credendo, oggi, di esser salito a bordo di uno degli aerei paciocconi che fanno il cabotaggio fra Palermo e Napoli si accorge invece di trovarsi rinchiuso n un apparecchio supersonico e comprenda che sarà alla meta prima di aver avuto il tempo di farsi il segno della croce.»; qui è presente un anacronismo: la storia viene paragonata a un aereo supersonico, in contrasto a quelli di più modeste dimensioni; il principe comprende dunque come la storia cambi più velocemente di quanto creda. Tancredi è l’incarnazione di questo ritmo accelerato. Tale paragone è anacronistico poiché nel 1860 gli aerei non erano ancora stati inventati, e vi erano ancora le mongolfiere. Dalla lettera, viene ribadito come quella di Tancredi sia una “ragionata passione”, perché secondo lui il matrimonio doveva farsi. Pag 112  venuta a sapere della lettera, Maria Stella definisce Tancredi un traditore perché avrebbe dovuto sposare Concetta e Angelica viene definita come una sgualdrina. Don Fabrizio prende le parti di Tancredi e lo giustifica affermando che egli segue i tempi, sia nella vita politica che in quella privata. Pag 117  finisce il tempo dei ricordi e riprende il tempo dell’azione; ci immergiamo nella Sicilia pastorale e ci viene raccontato di un coniglio selvatico che diventa bottino di caccia di Don Fabrizio e Don Ciccio; verso questo animale il narratore prova un senso di pietà, definito come sentimento di pietà cosmica, perché allargata a tutti gli essere viventi (sentimento leopardiano, di commiserazione verso le creature che soffrono). Questa sensazione si ripresenterà nella scena del ballo. Viene nominato l’evento politico più importante del mese: il plebiscito (referendum) sull’annessione della Sicilia al Regno d’Italia. A questo proposito, il principe chiede a Don Ciccio cosa abbia votato, e ottiene come risposta che tutti hanno votato “sì”. A Don Fabrizio non tornano i conti, poiché nei giorni precedenti si erano presentati a palazzo delle persone che simpatizzavano per l’ancien regime, per essere consigliati. Sebbene il principe consigliò loro di votare per il “sì”, a dimostrazione di aver compreso la lezione politica di Tancredi, al loro congedo non li vide convinti. Il dubbio del principe viene eliminato da Don Ciccio, che spiega come i “no” erano stati convertiti in “sì” dai liberali, per dimostrare che avesse vinto l’unanimità. Poiché i liberali erano comandati dal sindaco, Don Calogero, si tratta di un vero e proprio imbroglio elettorale. Pag 118-119  viene spiegato come nella taverna di zzu Menico vi fossero due o tre “facce forestiere”, ovvero di Girgenti (nome utilizzato fino al 1927 per designare l’odierna Agrigento), di cui Donnafugata è provincia. Loro promuovono in maniera massiccia il “sì” del plebiscito; tale propaganda è basata sull’ideale ironico delle «magnifiche sorti e progressive» (verso preso da Leopardi, da La ginestra). L’ironia sta nel fatto che il narratore sappia già che l’annessione della Sicilia non porterà al periodo di prosperità tanto promosso. Gli stessi contadini tacciono cupi e scettici, adottando il medesimo scetticismo del narratore. I forestieri, di fronte alla reazione dei contadini, di fronte alla mancanza di consenso, decidono dunque di «anteporre la matematica alla retorica», ovvero di falsificare i voti rinunciando a persuadere gli oppositori. Particolarmente significativo è il particolare del vento definito “lercio”, che rappresenta il clima di corruzione in cui si svolgono le elezioni, e che porta alla morte del buon senso e dell’onestà delle persone. Pag 122-123  Don Ciccio, da uomo dell’ancien regime, aveva inizialmente apprezzato la possibilità di poter esprimere liberamente il proprio parere, e mostra un sincero risentimento dopo l’omicidio di tale libertà da parte dei liberali. Infatti, tramite la corruzione, Sedara annulla la libertà di Don Ciccio e degli altri votanti. Questo è il motivo principale per cui Don Ciccio odia Don Calogero, al punto da mettere in ballo la sua famiglia e definire, sebbene velatamente, Angelica come una “sgualdrina”, similmente a come aveva fatto Maria Stella. Pag 120  a Don Fabrizio arriva una lettera dalle autorità di Girgenti che si fa garante di un finanziamento del municipi a favore di una fognatura a Donnafugata, che sarebbe stata completata nel 1961 (anacronismo); Sedara viene colto da un lapsus: questo, secondo la psicanalisi che nascerà almeno cinquant’anni più tardi rispetto al tempo dell’avventura, è indice dei suoi veri pensieri. Infatti, Sedara è inconsciamente convinto di non poter mantenere la sua promessa circa la realizzazione dell’opera pubblica, ingannando così i destinatari. Similmente all’imbroglio elettorale, anche qui viene uccisa la buona fede e sostituita dalla mala fede. Pag 125  Don Ciccio Tumeo viene definito “snob”, sebbene questo termine non viene usato nell’accezione contemporanea; nell’800, infatti, “snob” indicava una persona particolarmente devota, affezionata. In questo caso, Don Ciccio è affezionato alla casata dei Salina; per questo tenta di confortare il principe e gli propone di riprendere la caccia. neppure ad avere figli, destinando la casata dei Salina a morire assieme a loro. Notiamo dunque come l’episodio ariostesco circa il vano inseguimento dell’oggetto del desiderio sia qui rielaborato. Pag 164  un altro appartamento è quello del masochismo autopunitivo perché serviva come luogo di penitenza del Duca Santo (il Giulio del 600 che si era dedicato alle opere pie e alla beneficienze) in cui lo si immagina fustigarsi per redimere, riscattare i suoi possedimenti feudali. Tancredi pensa che il matrimonio con Angelica possa redimere le terre, che prima erano appartenute ai Salina e che ora erano di don Calogero, così come il sangue del duca santo aveva riscattato degli antenati. In questo viaggio non c’è solo il desiderio erotico ma c’è anche il desiderio di indossare le vesti di uomo di potere. Tancredi, inconsciamente, fa vedere questo appartamento per esibire, alla figlia di Don Calogero, la ricchezza passata della sua classe; un modo per sentirsi di nuovo all’altezza dei suoi antenati, all’altezza del loro smisurato potere. Il viaggio nel palazzo non è solo un viaggio verso Citera, l’isola dell’amore, ma è anche una regressione all’antico regime, cioè al tempo in cui i Salina godevano del loro pieno potere. E’ come se Tancredi si prendesse una rivincita sul matrimonio che lo umilia perché sposa una donna che appartiene ad un ceto inferiore. Si prende la rivincita perché fa correre il rischio ad Angelica di consumare un rapporto prima del matrimonio e perciò rindossa i panni del signorotto feudale che sottomette la contadina. E’ una regressione all’ancien regime con tutti i suoi privilegi. 18/12 Se nella prima metà della quarta parte il protagonista è Tancredi, nella seconda metà il ruolo torna a Don Fabrizio in occasione del suo dialogo (sul carattere dei siciliani) con il rappresentante al governo piemontese, il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo. Il cavaliere si presenta a Donnafugata con l’intento di proporre a Don Fabrizio l’incarico di senatore del nuovo Regno d’Italia; il principe rifiuta la proposta. Il discorso illustra infatti le ragioni di tale rifiuto. Chevalley è un cavaliere “continentale”, ovvero di origine non-siciliana, similmente ai due ufficiali garibaldini presentati nella seconda parte. In realtà, anche Don Fabrizio può definirsi “continentale”, poiché la madre era di origine tedesca; egli dunque non è puramente siciliano. Pag 172-173  Tancredi, nel far visitare Donnafugata a Chevalley, gli parla del brigantaggio molto diffuso in quei tempi nel Sud Italia. Gli racconta infatti del sequestro del figlio del barone Mutolo ad opera dei briganti, e di come lo fecero a pezzi. Questa vicenda macabra ricorda una novella di Pirandello, intitolata “L’altro figlio”, in cui il personaggio principale subisce lo stesso trattamento. Chevalley, traumatizzato dal racconto, mostra ottimismo (a differenza del principe che ha supposizioni di rassegnato pessimismo) verso il futuro regno dei Savoia, in quanto è convinto che ciò possa migliorare la pietosa situazione del Meridione. La risposta di Tancredi a tale dichiarazione, se si considera il suo carattere e il suo titolo, è senz’altro ironica (“senza dubbio, senza dubbio”); anch’egli, come lo zio, è illuminato da uno scetticismo immobilista (pag 49), che mostra più volte durante il corso del romanzo. Pag 175  Chevalley propone a Don Fabrizio il ruolo di senatore, convinto che le sue ricchezze e il suo titolo nobiliare siano garanzie più che sufficienti della sua efficienza; viene oltretutto elogiato circa il prestigio personale (soprattutto scientifico) e per il contegno mantenuto a più riprese nei confronti dei garibaldini (in particolare circa la visita degli ufficiali liberali). Reazione di Don Fabrizio: il principe si mostra disinteressato sin dall’inizio; viene descritto con le palpebre pesanti, in riferimento sia al sonno che alla morte; queste in particolare saranno due immagini presentate dallo stesso Don Fabrizio all’interno del suo discorso, quando si riferirà alla natura statica dei siciliani e di come considerino un peccato il “fare”. Nel formulare la proposta, Chevalley ha un lapsus: sebbene in un primo momento egli faccia riferimento alla “felice annessione”, subito si corregge definendola una “fausta unione”; il motivo del lapsus, della correzione, è da ricercarsi nella consapevolezza dello stesso cavaliere riguardo quella che sarà un’unione passiva della Sicilia, privata della libertà di accettare o rifiutare. Ciò si ricollega senz’altro agli effetti del Risorgimento al Sud, avvenuto per ordine di altri. Pag 176-177  sebbene sia già convinto del rifiuto, Don Fabrizio vuole comunque saperne di più sulla carica da senatore. Vi è un riferimento alla litografia di Vulcano, in cui il principe notò una vaga somiglianza con Garibaldi (pag 65). Pag 177  Chevalley spiega che la carica di senatore non ha una funzione onorifica, bensì presuppone una partecipazione attiva nella vita politica. Di ciò, Don Fabrizio è scettico, data la sua poca propensione per la partecipazione; egli aderisce al cambiamento dei tempi in segno di adattamento, ma rifiuta categoricamente di diventarne parte attiva. Pag 177-178  Don Fabrizio accusa la monarchia sabauda di essersi mossa senza consultare la vecchia classe politica a cui lui apparteneva e senza tenere conto delle esigenze peculiari del Meridione; perciò è ormai troppo tardi per chiedere alla classe precedente di fornire il proprio sostegno, in quanto era stata volontariamente estromessa. Il principe poi, per giustificare il proprio rifiuto, tiene un discorso di stampo immobilista sull’impossibilità di una possibile mutazione della situazione siciliana; per far ciò, prende come esempio lo stesso carattere dei siciliani, portati al “non fare” e connotati da un immobilismo di fondo. Pag 178  l’immobilismo proprio dei siciliani è causato dai numerosi governi estranei alla Sicilia, sia per cultura che per civiltà, che nel tempo si sono succeduti all’interno della regione; la monarchia sabauda altro non è che l’ultimo di questi governi esterni. A causa quindi di questa dominazione straniera, i siciliani hanno progressivamente rinunciato all’azione. Per quanto riguarda la diversità culturale, il principe si sofferma anche sulle opere d’arte straniere importate in Sicilia, che non dicono nulla ai suoi abitanti proprio perché appartenenti a un’altra realtà. La conseguenza di tutto ciò è un inesorabile fatalismo, dimostrato dal principe sin dall’inizio del romanzo, e che si traduce in una propensione al “non fare”, al sonno e al corteggiamento della morte. Pag 179-180  oltre ai governi stranieri, un’altra causa del “non fare” dei siciliani è il clima arido della regione. Pag 178-179  il sonno, l’immobilità voluttuosa e il nichilismo sono tutte conseguenze del fatalismo. Il carattere statico dei siciliani, inoltre, li porta a considerare come pregi quelli che in realtà sarebbero dei difetti, rifiutando di conseguenza qualunque tipo di cambiamento. Questo carattere del siciliano si accompagna ad una sorta di presunzione: il siciliano si convince che questi aspetti caratteriali, che sono oggettivamente dei difetti, siano invece dei pregi; si considera un essere perfetto. Pag 180  viene descritta la presunzione dei siciliani. La frase “a vent’anni è già tardi” presuppone un discorso generazionale: Don Fabrizio è consapevole di far parte di una generazione ormai vecchia, e consiglia dunque di proporre la carica di senatore o a un giovane (Tancredi) o a un ambizioso (Don Calogero, il borghese in ascesa). Quello del discorso generazionale lo ritroviamo anche ne “I vecchi e i giovani” di Pirandello. Pag 183  vi è in questo passo una delle tante sequenze memoriali: Don Fabrizio ricorda della domanda che gli è stata posta da alcuni ufficiali inglesi, poiché volevano sapere cosa fossero venuti a fare i garibaldini in Italia; il principe rispose dicendo che essi avevano come scopo quello di insegnare ai siciliani l’educazione, ma non ci sarebbero riusciti data la loro presunzione. Pag 181  coloro di cui i liberali hanno bisogno devono essere, oltre che giovani, anche ambiziosi. Questi ultimi hanno il potere di mascherare il “particulare” (riferimento alla filosofia di Guicciardini, che in questo caso si riferisce agli interessi personali) con le vaghe ideologie politiche. In questo passo è presente un lapsus da parte del principe, che doppia quello di Chevalley (mascherare viene corretto con contemperare). Pag 184-185  in questo passo, il principe passa in rassegna gli elementi che caratterizzano il miserabile paesaggio umano di Donnafugata, tra cui la disoccupazione, la malattia e i rifiuti. Tutti questi concorrono a delineare l’estrema gravità della situazione siciliana. Pag 185  “irredimibile” è una delle parole chiave del romanzo, ed è un chiaro riferimento al pessimismo di fondo. Infatti, all’ottimismo di Chevalley si contrappone in maniera evidente il pessimismo del principe, secondo cui la storia prosegue inesorabilmente verso il peggio; ma, nonostante questo, i Gattopardi (i nobili), gli sciacalletti (i borghesi in ascesa) e le pecore (i plebei) continueranno a vivere nella presunzione di essere gli esseri perfetti. La parte quinta è, rispetto alle altre, di secondaria importanza nell’economia del romanzo, al punto che lo stesso Tomasi era indeciso se includerla o meno. Il protagonista non è Don Fabrizio, ma Padre Pirrone. Anche l’ambiente cambia: non abbiamo più Donnafugata, ma S. Cono, paesino rustico in cui vive la famiglia del religioso. I personaggi che appaiono non sono quindi più nobili, ma plebei. Si tratta allora di un capitolo contadino all’interno di un romanzo nobiliare. Si apre con il viaggio di Padre Pirrone verso S. Cono, nei pressi di Palermo; lo scopo del religioso è quello di risolvere un problema familiare. Prima di questo, però, egli fa un discorso apologetico sulla nobiltà a Don Pietrino l’erbuario. Padre Pirrone tesse le lodi della nobiltà poiché è sempre stato dalla parte dei Salina, e quindi mette a tacere i suoi dissensi per convenienza; in questo caso è possibile considerarlo come un alter ego del principe. È possibile definirlo tale poiché egli, non essendo un nobile, parla della nobiltà; allo stesso modo Don Fabrizio, nel discorso a Chevalley, parla della Sicilia sebbene non sia completamente siciliano. Pag 194  Don Pietrino, nella domanda che pone a Padre Pirrone, chiede quale sia il punto di vista di Don Fabrizio circa la rivoluzione; egli, contrariamente al principe, crede che questa abbia apportato dei cambiamenti, poiché l’ha costretto a pagare tasse sulle erbe che raccoglie. Pag 194  in questo passo viene presentato il concetto di memoria collettiva della classe nobiliare, che verrà poi ripreso dal principe nel suo monologo tenuto in punto di morte. Secondo Padre Pirrone, i nobili sono particolari poiché si pongono problemi diversi rispetto a quelli della plebe; vengono addirittura considerati come una categoria a parte, da misurare adottando dei criteri differenti per non incorrere in alcun errore di valutazione. La nobiltà è considerata appartenente a un mondo speciale, dotato di regole proprie. Per spiegarsi meglio, il religioso porta l’esempio dell’ira del principe nei confronti di alcuni colletti di camicie, che lascia interdetto Don Pietrino. Pag 195  se Don Ciccio Tumeo aveva in precedenza definito Don Calogero come “l’uomo nuovo come dev’essere” (pag 127), ora Padre Pirrone definisce Don Fabrizio come “il nobile come dev’essere”, che potrà cavarsela nell’aldilà in quanto rispettoso delle regole divine. Il principe viene inoltre definito “generoso”: Padre Pirrone si avvale dell’esempio di Tancredi, adottato da Don Fabrizio, ma estende poi il campo affermando che il principe si sarebbe comportato così anche se al posto del nipote ci fosse stato qualcun altro. Viene infine ribadito il contegno di Salina mantenuto durante l’avvento dei liberali, in contrapposizione al cognato Ciccio Malvica, che era invece scaduto nella codardia. La seconda parte del capitolo riguarda propriamente la questione familiare di Padre Pirrone, giunto a S. Como in occasione dei quindici anni di morte del padre, Don Gaetano; viene sottinteso come anch’egli abbia avuto legami con la malavita e come fosse molto attaccato alla “roba” (Giovanni Verga, La roba), da buon siciliano. In particolare, egli ebbe un’accesa disputa con il fratello, Turi, circa la proprietà di un mandorleto. Proprio a causa di questo, Turi ottenne la sua vendetta facendo ingravidare una nipote di Don Gaetano, Angelina, da suo figlio Santino. Tale situazione sarebbe precipitata qualora ne fosse venuto a conoscenza Vicenzino, padre della ragazza, ma tutto si risolse proprio grazie a Padre Pirrone sotto forma di un matrimonio riparatore, a sua volta basato sul principio del “baratto”, poiché ciascuna famiglia avrebbe rinunciato a una parte del mandorleto. Pag 220  descrizione della sala da ballo in cui spiccano delle dorature: alcune sono caratterizzate dall’oro sbiadito, simbolo della progressiva decadenza dell’aristocrazia; a queste si contrappongono delle dorature sfacciate, simbolo dello sfarzo che l’aristocrazia soleva ostentare. Pag 220  la visione di questo spettacolo causato dalle dorature riporta alla mente di Don Fabrizio delle immagini campagnole, che restituiscono a loro volta i colori sbiaditi delle stoppie, doppiando dunque l’oro sbiadito delle dorature; inoltre c’è l’immagine mortifera dell’arido territorio siciliano, privo d’acqua (simbolo della vita), che doppia la descrizione fatta da Don Fabrizio a Chevalley. L’assenza di acqua ribadisce quindi nuovamente la tematica della morte. 14/01 Pag 221  si capisce come l’osservazione di Calogero Sedara sia volgare che ha la capacità di far sfuriare Don Fabrizio che, invece deve contenersi per non insultarlo. Il motivo della sua reazione negativa è in riferimento alle dorature della sala; egli è sensibile al valore monetario: aspetto della ricchezza e non della bellezza estetica. Don Fabrizio si trova agli antipodi in quanto rappresentante della classe aristocratica che invece tende a valorizzare anche l’aspetto estetico e non solo la ricchezza. Ha questa azione violenta contro Calogero ma finisce per compatirlo. Don Fabrizio nota la coppia formata da Tancredi e Angelica. Pag 221-222  il primo elemento da sottolineare è relativo al fatto che Don Fabrizio pensa al destino di morte che attende i due giovani così come attende anche tutti i presenti alla festa, compreso lui. C’è l’ossessione di morte che sta nei pensieri di Don Fabrizio e fa vedere sotto il segno della morte tutta la situazione del ballo, compresi i due giovani, ignari e ingenui di cosa riservi il futuro. I due giovani sono inoltre definiti “ambiziosi” in quanto il loro matrimonio si basa su dei vantaggi per entrambi. Non si tratta quindi di un amore puro ma di una logica di interessi. Allo stesso tempo c’è anche una sorta di invidia sensuale nei confronti di Tancredi per la sua giovinezza e per il fatto che possa ambire alla mano di Angelica, bella ragazza e anche colma di monete. C’è anche un riferimento letterario a Shakespeare, a Romeo e Giulietta. Questo riferimento esplicito è una conseguenza del pensiero del principe vedendo Tancredi e Angelica, ovvero che essi vivono il loro amore con ingenuità, senza pensare ai possibili problemi che potrebbero crearsi. Allo stesso modo, Romeo e Giulietta vivono in maniera spensierata la loro relazione, inconsapevoli di stare andando incontro a un destino di morte (Romeo si suicida bevendo il veleno e Giulietta si trafigge con il suo pugnale). Il sentimento dominante potrebbe essere di tipo barocco perché i poeti barocchi vedevano lo scheletro dietro i corpi in piena di salute delle persone, con gusto un po’ macabro. Quindi c’è questo disgusto di fronte a questo spettacolo funebre; il principe è come se facesse la radiografia dei corpi e vedesse lo scheletro; questo disgusto però cede il posto alla compassione che si riassume nella domanda “Com’era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire?”: facile provare disgusto quando in realtà è uno spettacolo anche degno di compassione e commiserazione; c’è il riscatto della pietà. E’ presente anche l’immagine del bestiame che attende di essere condotto al macello: Tomasi si diverte ad anticipare ciò che dirà dopo. A questo punto, Don Fabrizio, disgustato, preferisce isolarsi. Si rifugia in un luogo appartato, ovvero la biblioteca di Don Diego Ponteleone; qui evita il contatto con tutto ciò che gli ricorda la morte. In realtà nella biblioteca c’è un quadro che gli restituisce la stessa immagine di morte. Pag 223  descrizione del quadro. Tomasi adotta il procedimento dell’ekphrasis: la descrizione del quadro è contenuta in un quadro. Il pittore francese del 700, Greuze, rappresenta la morte di un giusto. L’uomo rappresentato è oggetto di pianto dei familiari; si notano in particolare delle nipotine che, assumendo una determinata postura, sono scoperte. Questo fa capire come l’interesse del pittore sia più libertino che moralistico: egli è interessato più alla nudità delle ragazze che alla morte dell’uomo. Questo è in linea con l’episodio delle scorribande nel palazzo di Donnafugata, dove tutto lascia pensare all’impertinaggio settecentesco. E’ interessante il fatto che c’è la considerazione sulla pulizia delle lenzuola ma c’è anche un’anticipazione della morte del principe. Don Fabrizio stesso ci fa capire ciò perché si chiese se la propria morte sarebbe stata simile alla morte dell’uomo nel quadro. Altra cosa interessante è che il quadro si intitolava “Il figlio punito” perché nell’angolo del quadro c’era raffigurato il figlio dell’uomo morto nell’atto di battersi il petto in senso di pentimento tardivo nei confronti del padre morto. Tomasi omette questo elemento importante per adattare il quadro alle circostanze. Il titolo mutato “La morte del giusto” fa il palio con la morte del principe. Pag 224  Tancredi e Angelica lasciano il ballo e irrompono nella biblioteca in cui sorprendono Don Fabrizio pensieroso. C’è l’invito di Angelica di ballare il prossimo ballo con il principe. Durante il ballo il principe sente di ringiovanire ma allo stesso tempo ha un pensiero nei confronti di Concetta. Pag 226  il principe è felice in quel momento ma è come se la figlia avesse ricevuto un torto da parte sua: nel figlio punito del quadro potrebbe essere anche implicata Concetta. Ritorna il personaggio di Pallavicino, legato al fatto dell’Aspromonte e al Risorgimento. Don Fabrizio non accetta l’invito di sedersi insieme a Tancredi e Angelica ma si siede accanto a Pallavicino. Pag 229  discorso di Pallavicino che riprende la questione dell’Aspromonte. Egli racconta di come sia messo in croce per aver sparato al generale e si giustifica dicendo di aver ubbidito agli ordini superiori. A distanza di anni sente ancora questo senso di colpa proprio perché Garibaldi era acclamato da tutti. Lui si attribuisce il merito di aver fermato Garibaldi ottenendo di liberalo dai suoi seguaci che fingevano di credere nei suoi ideali ma che in realtà perseguivano altri fini. Qui c’è una versione di parte perché i seguaci non erano così interessati al potere come li presenta Pallavicino, ma è una strategia difensiva. Si avvicina alla verità dei fatti quando dice che, se non avesse fermato Garibaldi, sarebbe intervenuta la Francia di Napoleone III. Pag 230-231  sembrerebbe che sia portato un po’ a mistificare quando racconta del fatto di Aspromonte; dopo aver bevuto il vino invece registra l’inutilità della sua azione: è vero che aveva salvato il compromesso però non aveva poi ottenuto di unire l’Italia, ciascuna città del Regno d’Italia rivendica un ruolo egemonico in un determinato campo (Torino vorrebbe essere capitale; Firenze ha timore di perdere le opere d’arti ecc.). Pallavicino sta ridimensionando il significato dell’impresa d’Aspromonte; ha fermato Garibaldi ma i problemi si sono aggravate; vede più lucidamente le cose. Questa ammissione di sconfitta è quella di un continentale. Altri continentali avevano fallito, per esempio il contino milanese aveva inutilmente corteggiato Concetta e allo stesso modo Chevalley aveva cercato di smuovere dalla sua inerzia il principe. Fine sesta parte. La festa si conclude verso le 6 del mattino. Mentre la famiglia Salina ritorna a casa in carrozza, Don Fabrizio torna a piedi inventando la scusa di prendere un po’ d’aria ma in realtà voleva confortarsi guardando le stelle (via di fuga dalla vita). Pag 232  Don Fabrizio confronta le stelle con gli uomini che erano presenti al ballo: da una parte le stelle sono lontane mentre gli uomini sono fin troppo vicini; le stelle sono onnipotenti in contrapposizione agli uomini onnipotenti e infine le stelle sono docili in contrapposizione agli uomini riottosi, ribelli. Nel mondo celeste c’è un’alternativa al caos e all’irrazionalità della vita e c’è anche un’anticipazione dell’aldilà. La morte, infatti, viene richiamata subito dopo con l’immagine dei macellai che trasportano i buoi uccisi al macello e dai carretti sgocciola il loro sangue. Questa parte si chiude con l’immagine della morte così come si era aperta con la processione del viatico. Apparizione dell’astro di Venere, la stella del mattino. Quest’immagine viene ripresa nel capitolo successivo. Qui Venere assume le fattezze di una donna con la quale Don Fabrizio vorrebbe avere un appuntamento meno effimero di quello che finora gli era stato concesso. Gli altri appuntamenti si sono tenuti all’alba durante le sue battute di caccia. L’altro appuntamento si ha alla fine della festa ma lui ne vorrebbe uno meno effimero e più impegnativo. Da ciò si capisce che questo astro di Venere, che ha acquistato le valenze di una metafora femminile, si connota ulteriormente in senso metaforico, perché rappresenta la morte: lui aspetta l’appuntamento con la morte personificata con l’astro. Parte settima Incentrata sulla morte del principe. Qui ci troviamo nel luglio del 1883, 21 dopo dal ballo. La scelta spazio- temporale non è stata fatta casualmente. Ciò ci viene confermato dal modo in cui si esprime il narratore quando parla della sensazione del principe di sentirsi morire, che lo affligge da molto tempo. Pag 235  con l’immagine del fluido vitale che sta abbandonando il principe abbiamo la conferma del fatto che ce un fluido che sta fuoriuscendo lasciando il principe in uno stato di completa secchezza. Tutto questo è in sintonia con il clima. Segue l’immagine barocca dei granellini di sabbia che passano dalla parte inferiore della clessidra: si parla di immagine barocca perché l’utilizzo della metafora è frequente nella poesia barocca e quindi i granellini di sabbia sono paragonati al tempo che passa. Oltretutto l’acqua che scorre fa rumore e infatti viene sfruttata anche a dimensione dei suoni per descrivere le sensazioni che prova il principe in questo momento. La fuoriuscita del fluido vitale ha un suono che si fa sempre più forte; infatti si parlerà del fragore di una cascate per rendere meglio l’idea di questa fuoriuscita impetuosa. Si arriva anche a dire che il flusso vitale non è più un fiume ma un oceano. Pag 236  viene messo in evidenza come dal serbatoio vitale ci siano continue perdite e lui, infatti, si meraviglia di come abbia ancora tante riserve di energia. Oltretutto la metafora acquatica è anche nel riferimento alle particelle di vapore acqueo che si esalano da uno stagno per formare le nubi nel cielo: i granellini di sabbia cedono il posto alle particelle di vapore (metafora acquatica). La sensazione di morte non l’aveva confessata a nessuno, forse solo Tancredi aveva intuito quando dice allo zio, nella biblioteca, durante la festa, “corteggi la morte”. Ritorna l’immagine dell’astro di Venere. Adesso il corteggiamento era finito perché la donna a cui era stato rivolto il corteggiamento accetta; c’è la ripresa dell’immagine con cui era terminato il capitolo precedente. Si introduce un altro motivo, quello del viaggio. Il principe viene infatti portato via treno a Napoli, dove sarebbe stato ricevuto dal dottore Semmola e avrebbe ottenuto un responso circa le sue condizioni. Al suo risveglio, si ritrova nel vagone di un treno con accanto il nipote Fabrizietto e Tancredi; quest’ultimo si rivolge a lui con tenerezza, privo della sua solita ironia. Da questo, il principe comprende come le sue condizioni siano critiche, e che dunque non si possa più fare nulla per salvarlo. A questo punto si passa al luogo di morte di Don Fabrizio, una stanza di un albergo affacciata sul mare. Quest’ultimo si mostra immobile e appiattito, battuto dal sole. Pag 239  All’albergo non è presente il medico di famiglia ma un medico di un quartiere popolare e, per quest’ultimo viene usata una metafora, il medico presenta a sua volta dei connotati funerei: egli viene paragonato a un otre dalla pelle consumata che perde le sue ultime gocce di olio. Don Fabrizio specchiandosi non si riconosce e si chiede perché la morte si ostina a far morire le persone con una faccia deformata, come se avessero una maschera in volto, portando l’esempio del suo priogenito Paolo e del soldato borbonico trovato morto nel giardino, entrambi con la faccia stravolta. Pag 240  durante la sua agonia, Don Fabrizio porta alla mente i ricordi delle “povere cose care” che lui sta abbandonando e quindi destinate all’oblio: si tratta di oggetti con valore affettivo sebbene senza valore monetario, come i cannocchiali, le bertucce, i quadri dei feudi, il letto di rame. Essi però sono ricordi di natura particolare perché si tratta di oggetti particolari, per esempio le bertucce sulle pareti non si trovano dappertutto nelle case dei borghesi, sono raffinatezze di un mondo nobile. Sono quindi ricordi che si distinguono dai ricordi delle persone non nobili. Pag 254-255  viene dunque presentata donna Rosa, commerciante di reliquie sacre conosciuta da Carolina, che dimostra di avere un certo zelo religioso; a questo si contrappone il suo vero mestiere di ladra di sacrestie, poiché lei suole rubare le reliquie dalle chiese a scopo di arricchirsi. Pag 257-258  la scoperta della falsa autenticità delle reliquie impensierisce Concetta, poiché teme che ciò possa guastare i rapporti tra i Salina e la Chiesa; questo è infatti l’ultimo rapporto che può fungere da fonte di prestigio per la casata, poiché ormai essa è decaduta sia a livello sociale che economico. Pag 256-257  viene presentata la camera di Concetta, che diventa il luogo chiave della seconda parte del capitolo. Essa è costellata da reliquie pagane, che si contrappongono alle reliquie sacre custodite dalle sorelle: esse consistono in un quadro del padre, la pelliccia di Bendicò imbalsamato e alcune casse di legno, contenenti il suo ormai inutilizzato corredo matrimoniale; proprio per questo, e perché Concetta era sempre stata fedele all’amore per Tancredi, lei si rifiuta di aprire le casse, in quanto contenenti ricordi dolorosi; nel contempo, però, lei si rifiuta di buttarle. Ritorna qui la logica del compromesso. Pag 257  circa la pelliccia di Bendicò imbalsamato, essa rappresenta l’unica reliquia che non risveglia in Concetta ricordi dolorosi, e pertanto ella si rifiuta di buttarla, sebbene sia fortemente usurata dal tempo. Visita di Angelica. Pag 258  nell’incontro tra Concetta e Angelica vi è l’ironia pungente di Tomasi: se il loro rapporto all’esterno è cordiale, all’interno loro sono assimilabili all’Italia e all’Austria, che si troveranno ad affrontarsi 4 anni dopo nello scenario della Grande Guerra. Ciò dimostra come, anche a distanza di cinquant’anni, Concetta covi in cuor suo ancora della rivalità nei confronti di Angelica. Pag 259  Angelica è entrata a far parte del comitato di organizzazione del cinquantenario dell’unificazione d’Italia, e giunge alla villa dei Salina per far sfilare in capo alla marcia Fabrizietto; vi è dunque una seconda morte di Don Fabrizio, poiché il nipote, appartenendo alla generazione degli “sciacalletti”, viene meno all’ideologia immobilista propria del principe e di Tancredi; oltretutto, è ormai evidente come le famose parole di Tancredi, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, si siano dimostrate falsamente profetiche. Pag 263  Angelica è accompagnata da Tassoni, ex compagno d’armi di Tancredi e amante di Angelica. Al suo arrivo nella villa, egli spiega come la storia dell’irruzione nel monastero raccontata da Tancredi in occasione del pranzo con i Sedara era stata inventata. Poiché in quell’occasione Concetta si era indignata dal racconto e aveva cominciato a provare un forte rancore sia verso Tancredi che verso il padre, in seguito a questa rivelazione comprende di essere stata troppo impulsiva nel portare rancore verso il cugino, e che in tutti quegli anni la sua antagonista non era stata Angelica ma sé stessa. Questa può senz’altro essere vista come una punizione di Concetta, e pertanto è possibile affermare che il quadro “Il figlio punito” sia un riferimento alla donna. Pag 267  vi è infine la visita del cardinale arcivescovo, anch’egli un continentale il cui scopo è quello di cambiare la Sicilia. Egli ispeziona la cappella e le reliquie, giungendo alla conclusione che esse sono prive di qualunque valore sacro e che quindi possono anche essere buttate nell’immondizia. Pag 268  a Concetta pare di vivere un mondo estraneo, anche in relazione alle reliquie. Viene descritto il ritratto di Don Fabrizio, la cui grande mole era stata quasi fatta prigioniera della piccola cornice del quadro, come per castigo. Il mondo che è ormai lontano è quello del casato; poiché l’esistenza di questo è dipendente dai ricordi trasmessi dalle stesse reliquie; nel momento in cui queste diventano estranee, gli stessi ricordi vengono meno. Le reliquie sono metafore dunque del mondo nobiliare, e l’attività di collezionismo da parte delle sorelle Salina può configurarsi come un estremo tentativo di non far morire quel mondo. Le reliquie sono le “povere cose care” che Don Fabrizio nomina nel capitolo precedente. Pag 268  per eliminare completamente qualunque rapporto con il vecchio mondo, Concetta lancia dalla finestra nell’immondezzaio la pelliccia dell’ormai imbalsamato Bendicò, che la guarda quasi come se volesse rimproverarla di quell’atto. Nel volo, la pelliccia sembra animarsi, richiamando la stessa figura del Gattopardo che solleva una zampa in segno di imprecazione. Questa immagine può essere vista come lo stesso fantasma di Don Fabrizio, che impreca verso la nuova generazione di “sciacalletti” che, diventando la nuova classe dirigente, hanno decretato la fine della casata nobiliare dei Salina.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved