Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

IL lavoro, Devi Sacchetto, Dispense di Sociologia Del Lavoro

Dispensa completa riassuntiva di tutto il libro.

Tipologia: Dispense

2017/2018

Caricato il 22/08/2018

marco-pellizzari
marco-pellizzari 🇮🇹

4.5

(25)

13 documenti

1 / 21

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica IL lavoro, Devi Sacchetto e più Dispense in PDF di Sociologia Del Lavoro solo su Docsity! Il lavoro 1. L’affermarsi del moderno concetto di lavoro Il termine lavoro ha almeno due significati: nel primo indica l’attività stessa, cioè tutti quei compiti che svolgiamo per sopravvivere; e le attività di svago. Questa modalità di utilizzare il termine può essere definita “sostanziale” per indicare tutte le attività utili a produrre risorse per la sopravvivenza. L’altra accezione con la quale utilizziamo il termine è un prodotto della rivoluzione industriale e di complicati e variabili parametri culturali, storici e sociali. Lavoro è sintomo di occupazione, lavorare significa svolgere un’attività sistematica e specializzata che ha come contropartita un reddito piuttosto che il soddisfacimento immediato di un bisogno. Il lavoro inteso come occupazione è quindi indipendente dal contenuto sostanziale dell’attività ed è definito dal quadro formale in cui si colloca. Karl Marx, riferendosi agli operai, parla di lavoro “astratto” perché prescinde dall’utilità immediata dell’attività lavorativa rispetto ai bisogni del lavoratore. Il lavoratore è reso “astratto” dall’intermediazione del salario che spezza il legame diretto di senso tra le attività e i propri bisogni. Mercificazione e specializzazione del lavoro astratto I parametri che delineano il secondo concetto di lavoro sono un prodotto della modernità, della trasformazione capitalistica e industriale, in particolare di due importanti processi di mutamento intrecciati tra loro: la mercificazione e la specializzazione delle attività lavorative. Per mercificazione si intende un processo che distacca il lavoratore dal controllo e dall’uso diretto del prodotto, che diventa parte di un’opera collettiva, qualcosa che viene immessa sul mercato come merce e non consumata direttamente dal produttore. La mercificazione è funzione della specializzazione e dell’aumento della produttività. Vi sono due aspetti del processo di industrializzazione che vale la pena tenere distinti: l’aumento della produttività del lavoro e la subordinazione dei lavoratori. Lavorare significa essere occupati alle dipendenze, subordinati in una organizzazione dove il lavoratore non ha il controllo di quello che produce e non consuma direttamente quanto produce. Il legame tra lavoratore e la sua opera non esiste. Il lavoro sul quale si sono esercitate le scienze sociali è “astratto”, senza controllo sul prodotto. Ma il lavoro astratto degli operai in particolare del XX secolo e solo nei paesi industrializzati, è stato la forma lavorativa dominante nelle rappresentazioni collettive. I criteri di produttività e competitività, che si possono applicare con chiarezza solo alle attività di produzione di merci per il mercato, hanno finito per diventare dei parametri di valutazione da applicarsi a tutte le forme di attività umana. I lavori che si stanno diffondendo sono differenti tra loro, meno stabili e spesso precari; questo cambiamento sta alterando il rapporto tra lavoro e società. Il lavoro astratto e la nascita delle scienze sociali La diffusione del lavoro astratto ha costituito una delle modalità chiave della rivoluzione industriale. Come sottolineano sia Marx che Weber, l’avvento del capitalismo non può prescindere dalla “liberazione” del lavoro rispetto ai molteplici vincoli tipici delle società preindustriali. Non si trattò soltanto di abolire la schiavitù ma ci fu una trasformazione che costrinse gli individui a vendere “liberamente” le proprie energie lavorative a un datore di lavoro. La diffusione del capitalismo, dell’individualismo e del lavoro astratto ha ridisegnato il rapporto tra lavoro e società. L’individuo e la sua specifica collocazione lavorativa sono diventati gli elementi centrali dell’organizzazione complessiva delle società moderne e hanno progressivamente sostituito i parametri tradizionali. Su questa trasformazione centrata sul lavoro astratto, sul reddito e sul consumo monetario insiste Max Weber segnalando la diffusione dei comportamenti “razionali rispetto allo scopo”. La divisione sociale del lavoro; il rapporto tra lavoro e diseguaglianze sociali; la questione dell’identità sociali. La divisione sociale del lavoro Alle origini delle scienze sociali moderne, Marx e Durkheim, utilizzano in modi diversi il concetto di divisione sociale del lavoro. Entrambi hanno in mente l’impatto che la diffusione delle grandi fabbriche e del lavoro industriale ha sulle società. Per Durkheim la divisione sociale del lavoro è soprattutto specializzazione: lo sviluppo industriale e tecnologico favorisce una crescente diversificazione delle capacità lavorative degli individui. Egli chiama corporazioni come le associazioni degli artigiani medievali, difendono le qualifiche professionali e gli interessi dei propri iscritti promovendo allo stesso tempo la loro partecipazione alla vita civica. Ma le corporazioni non bastano a garantire una vita sociale: è indispensabile anche un’autorità regolatrice superiore, lo Stato nazionale moderno. L’organizzazione della vita sociale è centrata sulla personalità del lavoratore, individualista e specializzato, che si rapporta con le associazioni professionali e con l’autorità regolatrice dello Stato Nazionale, che garantisce la regolarità dei rapporti contrattuali. Marx vede gli stessi cambiamenti ma mette l’accento sulla subordinazione. Quella che Durkheim chiama divisione del lavoro per lui è soprattutto divisione tecnica del lavoro, quella chenoi oggi chiamiamo organizzazione del lavoro. Divisione sociale del lavoro per Marx è la frattura tra i lavoratori e chi controlla il processo produttivo. È la divisione tra proletariato e capitalisti dove questo termine definisce il controllo del proprio contributo al processo produttivo. Anche qui l’avvento del lavoro astratto ha una carica radicale di trasformazione della società. La nuova società capitalistica è un’arena di organizzazioni di classe in conflitto tra di loro. Per Marx la subordinazione e la mancanza di controllo sul prodotto e sul processo produttivo sono gli elementi necessario dello sfruttamento, della sottrazione del plusvalore. La divisione sociale del lavoro è il più importante principio di organizzazione delle società industriali e capitalistiche. L’associazionismo dei lavoratori è un prodotto del lavoro astratto. Il lavoro astratto come fonte di identità sociale La centralità del lavoro rispetto all’organizzazione delle società moderne non si limita al campo delle associazioni dei lavoratori e del conflitto e cooperazione nella sfera pubblica. La divisione del lavoro è un processo che produce identità individuale in una conformazione sociale sorprendente. L’identità dei lavoratori astratti è data dal fatto di sentirsi simili ai propri colleghi per interessi, abitudini. Durkheim insiste sul fatto che le società industriali non potrebbero esistere se non ci fossero soglie di formazione professionale con forme e regole che garantiscano rapporti corretti tra individui. Marx insiste sul fatto che i lavoratori industriali, una volta perduti i riferimenti immediati alla necessità concreata delle attività lavorative, sono resi sempre più vulnerabili e travolti dai processi di crescita economica e di innovazione tecnologica. Ma è proprio la possibilità di identificarsi con chi condivide la stessa esperienza che permette ai lavoratori di organizzarsi e difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro. Nelle visioni di Durkheim e Marx sono presenti allo stesso tempo contributi analitici per la comprensione del rapporto tra lavoro e società e due grandi utopie centrate sull’esperienza lavorativa: quella della società ordinata e quella della società giusta. Sia Marx sia Durkheim imputano all’avvento del lavoro moderno un imperativo di trasformazione della società. Durkheim insiste sullo sviluppo delle istituzioni di socializzazione e controllo sociale che permettono la diffusione delle forme di solidarietà organica e contrastino l’incertezza sulle regole sociali. Marx non crede che una società basata su una divisione del lavoro ingiusta possa essere migliorata più di tanto. Il capitalismo ha liberato i lavoratori dai vincoli delle necessità immediate e dei pregiudizi tradizionali, sottraendo loro però il controllo sul processo lavorativo e sul prodotto del lavoro. I contributi interpretativi di Marx e Durkheim mettono in luce l’aspetto centrale della transizione industriale: il lavoro tende a sostituire l’origine sociale. È proprio il meccanismo di connessione tra lavoro, da un lato, e diseguaglianze e identità, dall’altro, che si sta progressivamente indebolendo a favore di altri parametri. Non sta finendo il Meccanizzazione e specializzazione sono dunque i fattori cardine per l’aumento della produttività. È evidente l’implicazione che l’innovazione ha per l’organizzazione del lavoro: viene realizzata prima una parcellazione delle mansioni, una separazione del lavoratore dalla comprensione e dal controllo del processo lavorativo e una imposizione ai diversi lavoratori dei compiti specifici da svolgere. Questi cambiamenti corrispondono a trasformazioni nell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche, ma l’affermarsi della grande fabbrica sta anche in rapporto alle connotazioni dello sviluppo tecnologico. Lo sviluppo della moderna produzione industriale comporta la crescita delle dimensioni delle imprese, inoltre la diffusione di macchine utensili sempre più grandi e potenti implica anche un profondo cambiamento della vita sociale. I processi di proletarizzazione danno luogo ad una nuova figura: l’operaio di fabbrica. La classe operaia industriale è protagonista degli eventi che riguardano il lavoro negli ultimi duecento anni. Si consoliderà un’organizzazione del lavoro sempre più complessa. Un decisivo salto in avanti in questa direzione si realizzerà col taylorismo. Taylorismo e fordismo Le osservazioni di Adam Smith, da un lato suggeriscono una distribuzione articolata dei compiti nel processo produttivo, dall’altro, attribuiscono al lavoratore una certa autonomia rispetto al modo in cui svolgere un lavoro. L’interpretazione di Taylor si basa su una dettagliata analisi del processo produttivo osservato all’interno di un’acciaieria. Egli stesso aveva lavorato come caposquadra proprio per conoscere dal di dentro lo svolgimento del lavoro sei singoli operai che di mestiere mantenevano una grande autonomia. Egli intende incidere proprio su questa autonomia, con l’obiettivo di trasferire l’essenza della conoscenza del processo produttivo. Taylor riconosce l’importanza delle nozioni tradizionali possedute dagli operai. Tradotti in chiave operativa, i principi base del taylorismo si compendiano nell’idea che esista the one best way, cioè un unico e solo modo per realizzare una determinata produzione, e sta nella direzione aziendale il compito di realizzarlo. Risulterà evidente poi che l’idea di Taylor non è applicabile in toto. Un ulteriore elemento riguardante gli effetti del taylorismo è rappresentato dalla modificazione della composizione della classe operaia in fabbrica: l’operaio della catena di montaggio. Il taylorismo è spesso associato al fordismo, che prende il nome da Henry Ford e si irferisce alle innovazioni realizzate nell’industria allo scopo di garantire la produzione su vasta scala e in tempi brevi di un prodotto standardizzato. L’innovazione più significativa sul piano dell’organizzazione del lavoro è rappresentato dalla cosidetta catena di montaggio permette il passaggio dal controllo diretto del caporeparto sul lavoro degli operai a quello che è definito “controllo tecnico”. L’elevato grado di sviluppo tecnologico permette questa nuova organizzazione ed è un aspetto determinante del modello fordista. Insomma il modello taylorista, fondato sull’utilizzazione di manodopera non qualificata, prosegue anche dopo il tramonto della fabbrica fordista di grandi dimensioni, basata su tecnologie elettromeccaniche. Il fordismo persegue elevati livelli di produttività non solo attraverso il controllo, ma anche e soprattutto attraverso gli incentivi materiali e l’aumento del reddito dei lavoratori. Nel modello fordista profitti delle imprese sono garantiti dall’elevata capacità di produzione unita all’alta produttività. Grazie all’alto reddito, l’operaio diventa anche consumatore di automobili e di elettrodomestici. Proprio questa caratteristica porterà a un’integrazione tra fabbriche e territorio e tra la vita lavorativa e vita sociale degli operai. Per Gramsci, nel modello di organizzazione del lavoro che si sta realizzando in America “la coercizione deve essere combinata con la persuasione e il consenso, può essere ottenuto, nelle forme proprie della società data che permetta un determinato tenore di vita. La scuola delle “relazioni umane” Proprio nella misura in cui il lavoro industriale ha un peso di rilievo nella società, l’attenzione della sociologia si focalizza su questa tematica. Le relazioni sociali tra compagni di lavoro hanno una influenza determinante sul morale, sul grado di soddisfazione o insoddisfazione dei lavoratori; e questo ha implicazioni sul livello di produttività. Una scoperta fatta nel corso delle interviste mise in luce un fatto importante da questo punto di vista. Un’operaia intervistata dai collaboratori di Mayo indicò chiaramente il perché la situazione sperimentale rendeva il lavoro più soddisfacente. Ebbe il merito di individuare il ruolo del “fattore umano”, mettendo in evidenza il limite del taylorismo, cioè il non tenere conto l’importanza della soggettività dei lavoratori. Espansione del modello e “nuova classe operaia” La frammentazione del lavoro e la perdita di senso del lavoro stesso per l’operaio saranno l’oggetto principale di queste critiche. Per decenni si parlerà di cambiare il lavoro per renderlo meno noioso e alienante, più umano. Nella misura in cui il sistema produttivo è socio tecnico, la modalità di organizzare la produzione deve considerare le tecnologie disponibili, le specifiche caratteristiche dei lavoratori coinvolti e le relazioni di cooperazione che informalmente si stabiliscono di loro. George Friedmann rivolge la sua critica alla frantumazione del lavoro e al degrado della condizione dell’operaio sul posto di lavoro. Al prelevare di ogni tipo di macchinario corrisponde un tipo di qualificazione richiesta e anche il prevalere di una particolare qualificazione operaia. Sulla base di queste considerazione egli identifica tre fasi nello sviluppo tecnologico: a.Caratterizzata dalla necessità di lavoro qualificato richiesto dalle macchine universali b.Caratterizzata dallo sviluppo del meccanismo e del lavoro non qualificato di alimentazione delle macchine c.Quella dell’automatismo e dell’eliminazione del lavoro direttamente produttivo. Nella fase “b” si generalizza la presenza di un soggetto sociale, una “nuova classe operaia” che emerge negli anni di espansione industriale è costituita anche da operai senza una precedente socializzazione manifatturiera e basa la propria forza sull’identità collettiva. Angelo Pichierri scrive che fino agli anni settanta, la grande fabbrica fordista rappresenta dunque l’elemento trainante dello sviluppo industriale. Comunque la direzione aziendale arriverà all’idea di compensare in qualche modo la povertà del lavoro dopo una serie di studi sulla vita sociale dell’operaio dell’industria dentro e fuori la fabbrica. Il processo lavorativo e il controllo sul lavoro Torniamo all’analisi del processo lavorativo inteso come l’insieme delle operazioni volte a produrre una determinata merce con riferimento alla tecnologia impiegata. Questo approccio ha caratterizzato un filone di ricerca sviluppatosi negli anni settanta sotto l’influenza dell’analisi dei processi di dequalificazione del lavoro condotta da Harry Braverman; l’oggetto principale dello studio riguarda il modo in cui la direzione aziendale realizza il controllo dell’attività lavorativa dei singoli operai e più in generale l’analisi del processo lavorativo. Richard Edwards individua tre diverse modalità di controllo sul lavoro, personale, tecnico e burocratico, corrispondenti a diverse fasi dello sviluppo del capitalismo industriale, ma anche a diverse situazioni produttive. L’origine del controllo burocratico va ricercata già all’interno del tradizionale sistema industriale, ma si applica meglio a imprese di tipo nuovo o a imprese non industriali. Modello giapponese, fabbrica integrata e produzione flessibile Sia Touraine che Edwards individuano tendenze di cambiamento fondate sull’automazione che si realizzeranno nei decenni successivi. Riguardo poi i cambiamenti nel processo lavorativo e nell’organizzazione del lavoro, due sono le radicali innovazioni: 1.La prima (simile al taylorismo) è quella della grande fabbrica integrata, della qualità totale e della produzione flessibile. Si tratta del cosiddetto “modello giapponese”. 2.La seconda è quello dello human re source managment, una ideologia manageriale e una pratica di relazione con i dipendenti fondate sul rapporto individuale della direzione con i lavoratori e sulla valutazione delle loro competenze che tendono ad escludere ogni forma di rappresentanza collettiva nella definizione del trattamento dei lavoratori. Il modello giapponese è stato criticato per le forme di controllo sul lavoro, la pressione eccessiva esercitata sui lavoratori, l’assenza del sindacato, la pesantezza delle prerogative manageriali. Un’organizzazione della produzione snella o flessibile è l’obiettivo ricercato sia dalle aziende grandi che da quelle piccole. Il caso italiano è diventato emblematico delle possibilità alternative alla “produzione di massa” sulla base di un ricco filone di ricerche italiane condotte soprattutto nelle regioni della Terza Italia. La piccola impresa in un contesto produttivo caratterizzato da un alto grado di socializzazione manifatturiera, dalla presenza diffusa di competenze, rappresenta una delle principali alternative alla produzione di massa. La piccola impresa, che sembrava in fase di tramonto, ricompare con una nuova vitalità e si salda dunque con i processi di de verticalizzazione, il cui risultato ultimo in termini di occupazione è un incremento degli occupati nelle piccole industrie. 4. Le categorie del mercato del lavoro Il concetto di mercato del lavoro Abbiamo già visto quanti e quanto complessi siano i significati che si possono attribuire ai termini lavoro e occupazione. Occupato è chi lavora per l’ottenimento di un reddito. Ciò avviene o attraverso la vendita della propria capacità lavorativa (lavoratore dipendente) oppure attraverso la vendita di beni (prodotti utilizzando la propria capacità lavorativa). L’occupato in questo senso è un percettore di salario. In ogni caso questa persona è presente in un mercato. Il mercato del lavoro è quel contesto ideale all’interno del quale avviene la compravendita della capacità lavorativa. È un mercato particolare nel quale la “merce” non può essere fisicamente separata dal suo proprietario. Il fatto che la merce non sia separabile dal proprietario implica che la relazione sociale tra le parti non si esaurisce al momento dello scambio. In secondo luogo, la forza lavoro non nasce storicamente allo scopo di essere venduta. Solo nella misura in cui il lavoro è visto come lavoro astratto si può parlare effettivamente di mercato del lavoro. Infine, la forza lavoro è in grado di contrattare il proprio prezzo. Su quest’aspetto hanno insistito diversi autori: Solow definisce il mercato del lavoro come una “istituzione sociale”. L’oggetto della contrattazione nel mercato del lavoro è il valore della prestazione lavorativa, il salario. Ma nella contrattazione so contrattano anche le condizioni di lavoro. Infine, l’intera legislazione sul lavoro è il riconoscimento delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori in modo significativo sul mercato del lavoro riducendo il libero gioco della domanda e dell’offerta, negando cioè la sua totale mercificazione. Con la “grande trasformazione”, processo che ha portato al riconoscimento dei diritti sociali e umani dei lavoratori. In questo senso il mercato del lavoro riflette aspetti e tendenze generali della società. Componenti e dinamiche del mercato del lavoro L’analisi del mercato del lavoro riguarda anche la forza lavoro potenziale, cioè non ci si occupa solo del livello dei salari, ma anche dei livelli di occupazione e disoccupazione. Dal mercato del lavoro sono escluse le persone ritenute prive di capacità lavorativa, essenzialmente i bambini e gli anziani, che nelle statistiche rientrano nelle “non forze di lavoro”. L’età pensionabile varia nei diversi contesti. Naturalmente questi due gruppi non sono gli unici che rientrano nella popolazione non attiva. Una componente numerosa e significativa è costituita dalle casalinghe secondo una definizione larga del termine “lavoro”, non rientrano Il successo e il reddito sono collegati con la capacità di interagire direttamente con il mercato di aggiornare le proprie capacità professionali in corso d’opera. Nella fase fordista, la regolazione del lavoro dipendente si contrapponeva a quella più libera e meno garantita del lavoro autonomo. All’interno di quest’ultimo prevalevano attività tradizionali, che compensavano la minore produttività con tempi di lavoro più lunghi. Quindi il fatto che in Gran Bretagna i lavoratori con contratti a tempo determinato siano pochi significa soltanto che lo standard stesso dei contratti a tempo indeterminato è particolarmente “flessibile”. Una considerazione importante riguarda il lavoro a tempo parziale. Esso coinvolge soprattutto donne è in più diffuso in Gran Bretagna, Svezia e Germania. L’occupazione femminile Sta crescendo anche la quota delle donne sposate che lavorano per un reddito e sta diminuendo quelle delle casalinghe a tempo pieno. Nei paesi scandinavi sono diffusi i servizi pubblici di welfare, le donne sono occupati con contratti garantiti a tempo pieno o con un tempo parziale lungo. La combinazione virtuosa tra opportunità ha fatto diminuire notevolmente l’impegno domestico non pagato dalle donne. Per converso in Italia e in Spagna la responsabilità domestica delle donne nei servizi di cura è rimasta elevata. Proprio per questo di è parlato di “doppia presenza”. La maggiore o minore presenza delle donne nel mercato del lavoro non dice nulla sulla discriminazione occupazionale delle donne, cioè sul fatto che accedano o meno a lavori meno retribuiti e prestigiosi degli uomini o che siano più o meno confinate in occupazioni molto “femminili”. Infatti l’espansione dell’occupazione femminile è avvenuta soprattutto grazie alla crescita di professioni considerate “tipicamente femminili” (insegnanti, infermiere, colf), da un lato, protetto le donne dalla concorrenza femminile. Nei paesi nordici la partecipazione femminile al mercato del lavoro è elevata. Il modello britannico mantiene intatto il dualismo imposto alle donne tra dedizione al lavoro e dedizione alla cura familiare. Per questo riguarda l’Italia, i dati mettono in luce la consistente e persistente “esclusione” delle donne dal mercato del lavoro. I giovani e l’ingresso nel mercato del lavoro Italia e Spagna hanno tassi di disoccupazione giovanili elevati. In Italia quasi tutti i giovani disoccupati sono alla ricerca di un primo impiego e restano disoccupati più di 12 mesi. A valle di queste considerazioni, la Gran Bretagna è l’unico paese europeo dove la biografia giovanile sembra decisamente caratterizzata dalle esperienze lavorative ancor più che da quelle educative. In Inghilterra gioventù significa più lavoro che scuola, in Germania significa passaggi facili tra scuola e lavoro e pochi giovani sperimentano i tempi lunghi o ricorrenti di ricerca del lavoro che sono oggi invece tipici dei loro coetanei negli altri paesi europei. Vi è infine una tematica su cui ci si interessa riflettere: la proporzione dei giovani che fanno un lavoro autonomo. I sottoinsiemi occupazionali italiani e l’Europa Come abbiamo anticipato, la principale caratteristica del sistema occupazionale italiano è la grande differenza tra il Centro-Nord e il Sud. Il Nord oltre ad avere un basso tasso di disoccupazione in Europa è l’unico caso ad avere una proporzione di occupati nell’industria più elevata di quella tedesca. La percentuale di donne che lavorano nell’industria è al Nord la più elevata in Europa mentre al Sud è la più bassa. Al Nord la questione centrale è la “doppia presenza”, perchè l’occupazione delle donne sposate sta raggiungendo livelli europei. Al Sud resta sempre dominante l’esercito delle casalinghe a tempo pieno. La combinazione tra i due diversi sottosistemi occupazionali e sociali con la svolta degli anni settanta è passata da una situazione di complementarietà, perché l’emigrazione dal Sud e gli investimenti nel Mezzogiorno alimentavano lo sviluppo industriale del Nord e la crescita economica e sociale del Sud. 6 Sindacato e conflitto Premessa Il sindacato, l’organizzazione di difesa e rappresentanza dei lavoratori dipendenti, è un’istituzione tipica delle società industriali che in ciascun contesto nazionale assume caratteristiche diverse a seconda della storia del paese, delle sue strutture produttive e del suo sistema politico. Esso si è andato affermando progressivamente in rapporto allo sviluppo industriale e il suo ruolo è diventato massimo nella fase fordista. Ora vive un periodo di trasformazione e, per molti aspetti, di declino. La controparte del sindacato è rappresentata dai datori di lavoro, privati e pubblici. Il sindacato in generale non ammette al suo interno lavoratori autonomi. Il sindacato può aggregare i lavoratori a partire dai posti di lavoro oppure su base territoriale. In Italia, ad esempio, alla fine dell’ottocento i lavoratori dell’agricoltura si sono organizzati inizialmente su base territoriale. Questa è l’origine delle camere del lavoro, che rappresentano tuttora per il sindacato maggioritario, la CGIL, il livello organizzativo più importante. L’iscrizione al sindacato è in genere libera. La sua principale arma di lotta è lo sciopero che è regolato dalle leggi dello Stato e dai codici di autoregolamentazione che le organizzazioni dei lavoratori si danno. Nella pratica sindacale va ricordato che non sempre il sindacato riesce a gestire il conflitto industriale. Infine, nei diversi paesi i sindacati hanno rapporti diversi con i partiti politici. In Italia la CGIL era a prevalenza socialista e comunista, la CISL era a prevalenza democristiana e la UIL aveva una forte presenza repubblicana e socialdemocratica. Affermazione ed evoluzione storica del sindacato Baglioni sottolinea le gravi condizioni di vita degli operai in questa fase e nota come i contenuti della prima attività sindacale siano di resistenza ed esprimano il tentativo di negazione della stessa condizione operaia. Il conflitto industriale e l’oggetto della contrattazione Istituzione della moderna società industriale, il sindacato è protagonista del principale conflitto che caratterizza questa società. Il ruolo fondamentale e alcune principale caratteristiche del conflitto industriale furono oggetto di un importante studio condotto da Ralph Dahrendorf che non considera il conflitto istituzionalizzato, compreso quella di classe, un elemento negativo, bensì un fattore che attiva lo sviluppo della società industriale. In contrasto poi con la tradizione marxista, egli considera centrali i rapporti di autorità e identifica la base del conflitto industriale nel grado di subordinazione dei lavoratori di fabbrica. Dopo le fasi iniziali l’innovazione portata avanti dal fordismo presentò un passo avanti: l’operaio non è più solo un lavoratore ma anche un consumatore. Il risultato dell’azione sindacale e della contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro si concretizza nel contratto di lavoro. Il punto di riferimento è ancora la settimana di quaranta ore. Le ore di lavoro possono essere più o meno intense l’analisi del conflitto sul tempo non può essere disgiunta dall’analisi dell’organizzazione del lavoro e del controllo che si esercita sul lavoratore in fabbrica. La contrattazione sull’orario è intrecciata con quella sul salario, che è il principale oggetto della contrattazione collettiva. Il sindacato, organizzando e aggregando l’offerta di lavoro, tenta in linea teorica porsi come monopolista, aumentando così il prezzo della forza lavoro, in concreto il livello salariale. In linea di massima, si può concordare con l’affermazione di Alessandro Pizzorno secondo cui i sindacati di mestiere sono per loro natura associativi, nel senso che limitano la loro azione alla rappresentanza degli interessi stretti degli associati, mentre i sindacati che organizzano i lavoratori in base al settore di appartenenza. I principali sindacati italiani, si caratterizzano come sindacati “di classe” per l’attenzione mostrata alle tematiche che esulano dall’azione sindacale in senso stretto. Organizzazione interna e rapporti con i partiti I sindacati possono avere una struttura più o meno centralizzata. La contrattazione stessa può implicare una maggiore o minore autonomia dei momenti organizzativi periferici. All’interno del modello neocorporatista vi sono tre soggetti: lo Stato, le organizzazioni dei lavoratori e le organizzazioni padronali. Cambiamenti nel lavoro e crisi del sindacato Le recenti trasformazioni nel mercato e nell’organizzazione del lavoro hanno avuto un impatto notevole e di segno non positivo sul sindacato. L’indicatore più significativo è dato dalla riduzione della cosiddetta “densità sindacale”, vale a dire l’incidenza dei lavoratori sindacalizzati sul totale, che è diminuita sia nei paesi a densità sindacale alta che in quelli a densità sindacale bassa. La radice di questo indebolimento del sindacato va ricercata in due processi, entrambi di grande rilievo: la notevole riduzione generale della domanda di lavoro nei settori nei quali era stata più forte la presenza sindacale e i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, soprattutto in fabbrica. Un altro fattore di indebolimento significativo è rappresentato dalla riduzione della compattezza della classe operaia con il restringimento delle dimensioni aziendali e delle singole unità produttive. Baglioni tuttavia ritiene che “l’esperienza sindacale non dovrebbe tramontare” per diverse ragioni. In primo luogo le “asimmetrie” nelle relazioni industriali a scapito dei lavoratori e le nuove difficoltà di questi mostrano l’utilità di un’azione come quella sindacale. 7 La divisione del lavoro per genere ed età Introduzione I cicli della vita lavorativa e ruoli occupazionali nelle diverse età e la divisione di genere del lavoro sono una parte centrale della costruzione delle società contemporanee. I giovani studiano, gli anziani sono pensionati, le donne fanno le casalinghe e così via. È importante affrontare criticamente questi problemi per comprendere la realtà del lavoro. Due questioni si intrecciano con la divisione di genere: la differenza biologica tra maschi e femmine e la tradizione patriarcale dalla quale discende gran parte della cultura contemporanea. La tradizione patriarcale sancisce la dipendenza della donna dal potere maschile, sia nell’ambito domestico sia nella sfera pubblica. In questo senso, il patriarcato ha generato una primitiva divisione del lavoro tra uomini e donne, escludendo queste ultime dai ruoli di potere e confinandole nei ruoli subordinati della sfera domestico-agricola. Le donne tra impegni domestici e attività retribuite La divisione di genere si compone di almeno tre aspetti interconnessi tra loro: a.L’attribuzione di responsabilità domestiche non pagate, rendendo le donne in tutto o in parte dipendenti dai redditi maschili; b.La segregazione dell’occupazione delle donne in ambiti lavorativi specifici dove la professionalità è meno riconosciuta, i salari più bassi e le potenzialità di carriera militare. c.La minore probabilità che le donne accedano a ruoli dirigenziali anche quando le pari opportunità sono garantite ed efficacemente implementate. La casalinga dei ceti popolari è un ruolo recente legato all’urbanizzazione e all’industrializzazione a elevata produttività. Essa nella famiglia operaia quindi, costituisce una tappa contingente del processo di modernizzazione. Alla fine della Seconda guerra mondiale numerose donne erano ancora contadine e operaie. La “tappa” delle casalinghe è stata un’importante trasformazione culturale che tende a persistere, mentre le casalinghe a tempo pieno stanno scomparendo. Inoltre è aumentato il tempo dedicato dalle donne alla cura e alla socializzazione dei figli. La tappa successiva avviene su un fronte principale, l’esternalizzazione o defamiliarizzazione, cioè il fatto che alcune attività casalinghe vengono affidate a servizi pubblici o privati. Proprio negli anni in cui in Europa la disoccupazione era più elevata, i dati relativi all’occupazione mostravano una tendenziale tenuta: nuovi settori delle forze di lavoro. Il fenomeno ha riguardato in primo luogo le donne. Certo è che per un periodo che va dalla prima metà degli anni 90 alla seconda metà di questo decennio la disoccupazione ufficialmente registrata si è ridotta. La ripresa occupazionale che ha caratterizzato quel periodo non comporta necessariamente una riduzione sella rilevanza sociale della disoccupazione. I problemi che essa comporta, la sofferenza individuale, le negative implicazioni per la vita delle comunità nelle aree in cui la disoccupazione si addensa restano importanti. La disoccupazione, cosi come la conosciamo ora, non è sempre esistita e il termine è entrato nell’uso comune solo nel Novecento. Sul piano empirico e su quello della misurazione del fenomeno si possono trovare accordi e stabilire definizioni utili per i confronti nazionali. Ma queste definizioni sono il risultato di un compromesso tra orientamenti diversi. Nella sociologia del lavoro, quella della disoccupazione è una delle più controverse. E lo è ancora di più in economia. Se l’oggetto del dibattito verte intorno: • alla volontarietà allora l’area di intervento riguarderà i meccanismi che regolano il mercato del lavoro e il sistema di welfare • alla involontarietà allora le cause vanno ricercate nel funzionamento dell’economia, e di conseguenza, anche gli interventi volti ad affrontare il fenomeno devono rientrare nel campo della politica economica. La domanda di base che si poneva Wight Bakke era se la disponibilità di un reddito derivante da sussidi abbassasse la disponibilità dei disoccupati a cercare, o ad accettare, un lavoro. Inequivocabilmente la risposta è negativa. 60 anni dopo Gallie arriva alle stesse conclusioni e il risultato desta meraviglia: l’attaccamento al lavoro ha ben altre e più generali motivazioni che non la paura e semplice necessità economica. Insomma è come se avesse luogo una presa di coscienza della centralità del lavoro nella vita degli individui proprio nel momento in cui il lavoro viene a mancare. Il contributo degli studi sociologici e psicologici sulla disoccupazione hanno indagato in dettaglio il modo in cui la disoccupazione opera riducendo l’autostima. Le tre forme della disoccupazione Perché si affermi il concetto di disoccupazione nella sua accezione moderna è necessario che si verifichino due condizioni: • la prima è che la disoccupazione abbia una certa portata • la seconda è che essa sia visibile. Bisogna cioè che i disoccupati si mostrino come figure sociali ben identificabili e che la loro condizione sia riconosciuta come effetto di una situazione economica e non come caratteristica morale o scelta dei soggetti in interessati. Grazie alla generalizzazione dei nuovi rapporti di produzione e al consolidarsi di strutture produttive capitalistiche si forma un esercito di persone che vivono del lavoro salariato (vendita della propria forza lavoro) e che hanno sempre minori possibilità di contare su forme tradizionali di autoconsumo che ne garantiscono la sopravvivenza. Ma altrettanto importante è l’altro aspetto: quello relativo alla valutazione morale della condizione del disoccupato ma, l’esistenza della disoccupazione involontaria è del tutto inconcepibile perché è capace di determinare la propria domanda secondo la legge di Say. Il disoccupato è ritenuto responsabile della propria condizione. È solo agli inizi del XX secolo che William Beveridge attraverso l’analisi empirica arriva alla conclusione che esistono comunque delle circostanze nelle quali la disoccupazione si manifesta nelle moderne società industriali e una relazione compilata dai coniugi Sidney e Beatrice Potter Webb denunciava l’esistenza di un serio problema di disoccupazione involontaria e la necessità di operare sulla domanda di lavoro allo scopo di prevenirla. Su questo problema vi fu un dibattito tra Beveridge e i Webb (socialista e riformista) giacchè il primo riteneva (con visione interventista) che la disoccupazione non potesse essere eliminata e che se ne potessero lenire solo gli effetti, mentre i secondi pensavano che si potesse operare sulla domanda e sull’offerta del lavoro prevenendo così la disoccupazione. Grazie al contributo di questi autori risulta che un uomo resta senza lavoro per i problemi di funzionamento della produzione industriale. In Italia la disoccupazione appare nell’edilizia. Al riconoscimento sociale della involontarietà della disoccupazione corrisponde anche l’accoglimento di misure di assistenza. Infine sul piano della teoria economica l’affermazione è legata a Keynes secondo il quale c’è una quota della disoccupazione che comunque non può essere riassorbita solo grazie alla disponibilità dei lavoratori ad accettare salari più modesti. Per quel che riguarda i possibili rimedi, Keynes sposta il problema sul piano degli investimenti e dei consumi. Il continuo fenomeno in rapporto allo sviluppo economico ha comportato un cambiamento delle figure prevalenti di disoccupati nel corso della storia delle società industriali. L’analisi storica permette di individuare tre forme principali di disoccupazione: 1. la disoccupazione di chi non è stato ancora operaio, ma tende a diventarlo. Per costoro l’occupazione operaia sarà un punto di arrivo oggi non hanno rilievo, si tratta di contadini senza terra 2. la disoccupazione di chi è già stato operaio oggi rappresentano solo una frazione 3. la disoccupazione di chi non è mai stato operaio ha scarse possibilità di entrare in quella fascia della classe operaia che gode di un’occupazione stabile. Essa ha carattere intermittente con l’alternanza tra lavoro (precario) e non lavoro è la forma dominante ed essa rappresenta la disoccupazione propria del postfordismo. In questa fase infatti, non si riduce genericamente la domanda di lavoro, ma quella di lavoro stabile alle dipendenze. Un’ulteriore differenza tra la disoccupazione prevalente oggi e quella della società industriale è che quest’ultima rappresentava un incidente all’interno della condizione dell’operaio. Nel caso della disoccupazione prevalente oggi invece mancano sia l’esperienza di un lavoro regolare alle spalle, sia prospettive di una specifica collocazione lavorativa futura. L’emergere di questo tipo di disoccupazione corrisponde al declino delle categorie forti della legge operaia con conseguente crisi della stessa identità lavorativa. Ma l’aspetto principale è l’incremento della precarietà. I disoccupati nei diversi contesti e il modello mediterraneo. La disoccupazione negli ultimi decenni ha colpito in maniera differente nei diversi paesi. Quando si analizza la disoccupazione dal punto di vista sociale devono essere prese in considerazione almeno quattro dimensioni: • quanti sono i disoccupati e perché si intreccia con una questione di tipo economico. Dunque tassi di disoccupazione elevati derivano sia da difficoltà del sistema economico sia da carenze del sistema di welfare. In Italia esistono entrambi i problemi, ma il primo riguarda soprattutto le regioni del Mezzogiorno. • chi è disoccupato riguarda la composizione demografica, sociale e professionale della disoccupazione • qual è la durata della disoccupazione riguarda l’incidenza della disoccupazione di lungo periodo rispetto a transiti brevi • come sta chi è disoccupato riguarda la capacità del sistema di garantire la sopravvivenza a coloro i quali perdono il lavoro o non hanno ancora avuto la possibilità di lavorare. Sulla base di queste dimensioni si possono individuare diversi modelli nazionali di disoccupazione. La concentrazione della disoccupazione nelle fasce di età giovanili, e in particolare tra le giovani donne, che si è verificata in Italia per decenni, può essere collegata a due fattori: il primo riguarda il sistema italiano di relazioni industriali caratterizzato da una forte difesa del posto di lavoro dei già occupati. Un secondo fattore che contribuisce all’elevata disoccupazione giovanile è dato dalla struttura occupazionale, fatta prevalentemente di piccole imprese industriali. Fine del lavoro o cambiamenti radicali? Il rapporto tra sviluppo e occupazione può variare in uno stesso paese anche nei diversi periodi per effetto del diverso grado di intensità dello sviluppo tecnologico e conseguentemente della produttività. Secondo la tesi della jobless growth si sarebbe determinata su vasta scala una forma di disoccupazione tecnologica dovuta all’intenso ritmo dello sviluppo tecnico e al massiccio processo di sostituzione di macchine agli uomini. La crisi del modello occupazionale fordista ha dato origine a un filone di pensiero che è quello della “fine del lavoro”. Jeremy Rifkin sottolineava i vantaggi connessi alla rivoluzione tecnologica e alla riduzione del lavoro necessario ad esempio attraverso l’accorciamento della giornata lavorativa e l’offerta di nuove opportunità. All’interno di questa ottica sembrava anche perdere senso la contrapposizione tra occupazione e disoccupazione, nella misura in cui l’occupazione tende a tramontare. Le tesi presentate da questi autori hanno un innegabile elemento di verità. Ma un’indagine europea di Gallie porta a conclusioni opposte: la disoccupazione continua anche oggi a svolgere un ruolo di rafforzamento dell’etica del lavoro. Con lo sviluppo del welfare state le condizioni dei disoccupati sono indubbiamente migliorate ma ciò non ha ridotto il problema. Marie Jahoda afferma che la disoccupazione oggi , agli occhi degli interessanti, peggiore dei cattivi lavori. 9. Globalizzazione, lavoro e migrazioni internazionali Premessa I processi di globalizzazione riguardano a livello mondiale il lavoro almeno sotto tre aspetti fondamentali: • peggiorano la condizione delle masse contadine dei paesi meno sviluppati • Diffondono la produzione industriale nel Sud del mondo • Alimentano flussi imponenti di migrazioni internazionali Le tradizionali forme di agricoltura contadina sono travolte dalla progressiva penetrazione del mercato per cui i prodotti del settore capitalistico hanno prezzi inferiori ai costi di produzione sostenuti dai contadini. Essi continuano a rappresentare la maggioranza dei lavoratori che presentano processi intensi di modernizzazione. Questi processi incidono in maniera rilevante sulla struttura dell’occupazione. Cambia la condizione della forza lavoro dei paesi di nuova industrializzazione. Per quel che riguarda la delocalizzazione si è potuto osservare come merci con marchi anche prestigiosi di paesi ricchi vengano prodotte nei paesi più disparati e lontani. E già da tempo sono stati denunciati i salari infimi e le condizioni dei lavoratori di queste attività. Di recente il fenomeno si è intensificato. L’indebolimento dal punto di vista della forza contrattuale di questi lavoratori e l’incremento della precarietà esistenziale sono evidenti. Il noto libro di Castles e Miller fu criticato per il titolo “the age of migration” gli autori sottolineano che quella attuale è l’epoca in cui i flussi migratori hanno un carattere più globale e hanno coinvolto più popoli e più paesi. Infatti gli effetti della globalizzazione in termini di mercato del lavoro e di movimenti migratori si esprimono con il fatto che i movimenti riguardano lavoratori provenienti da un numero crescente di paesi e che essi si indirizzano verso le destinazioni più varie. La globalizzazione e i limiti alla circolazione della forza lavoro Oggi si parla spesso di “globalizzazione neoliberista” sottolineando come il processo abbia luogo all’interno di coordinare politiche che pongono come centrale il funzionamento del mercato. Non si tratta però del puro e semplice prevalere di un orientamento ideologico, ma di politiche economiche esplicitamente definite a livello sovranazionale e imposte ai paesi del Sud del mondo. In generale si parte dall’assunto che la globalizzazione e i relativi scambi genereranno sviluppo e che, questo favorirà il superamento dei problemi di reddito e di occupazione. Va ricordato che, fini agli anni ottanta, proprio la Banca Mondiale aveva promosso politiche espansive favorendo l’accesso al credito da parte dei paesi in via di Abbiamo un polo opposto al modello liberista (USA) nel quale il beneficiario dell’assistenza non è né il lavoratore né il cittadino in quanto tale, ma la persona in condizioni di indigenza. Abbiamo infine un modello “corporativo” e familistico, dove la responsabilità del sostegno grava di più sulle famiglie e i servizi di welfare sono poco sviluppati. I nuovi rischi e le esigenze di adeguamento Il cambiamento attuale sta indebolendo tutti e tre i pilastri del walfare capitalism ai quali abbiamo fatto prima riferimento. I processi di adattamento/innovazione propongono ulteriori forme di differenziazione. L’attuale processo di trasformazione del lavoro si presenta quindi come crisi di una particolare “combinazione sociale”, legata all’espansione manifatturiera, costituita da: organizzazione fordista del processo lavorativo + piena occupazione dei maschi adulti + crescita delle quantità delle merci prodotte e consumate + garanzie sociali di massa. La platea dei lavoratori è divenuta più varia, eterogenea. Per entrare più in profondità sull’impatto dei cambiamenti del lavoro rispetto ai regimi di welfare è utile mettere in evidenza i due diversi livelli che hanno caratterizzato la maturazione dei sistemi di protezione sociale dell’era industriale. Il primo livello riguarda specificamente i lavoratori dipendenti e consiste principalmente in tutta una serie di protezioni che sono compensazioni indispensabili della condizione di subordinazione e della impossibilità di usare sul mercato del lavoro la propria capacità professionale. Esse proteggono un bene comune di stabilità sociale ed economica e sono irrinunciabili almeno fino a quando sussistono le condizioni di fondo che le hanno generate. In questo senso i lavoratori atipici, sono comunque portatori di un deficit di protezione sociale che costituisce uno dei problemi più difficili da risolvere per le riforme e gli adattamenti dei programmi welfare. La logica del secondo livello nel quale si esprimono le forme di protezione sociale è più estesa rispetto a quella del primo. Molte garanzie sono orientate a proteggere le condizioni di vita sociale di tutti i cittadini. Le proposte in campo: prospettive e limiti Nell’ambito del dibattito sul cambiamento del lavoro un contributo importante è venuto dal Rapporto su trasformazioni del lavoro e il futuro della regolazione del lavoro in Europa, preparato da un gruppo di esperti di diversi paesi e discipline sotto la direzione di Alain Supiot. Il rapporto parte affermando che si stanno indebolendo gli equilibri basati su stabilità occupazionale e contratto di lavoro a tempo indeterminato. Con il venir meno delle condizioni tipiche del fordismo i rischi della vita aumentano notevolmente. All’interno della trasformazione del lavoro infatti diventano essenziali i benefici derivanti dalla promozione di nuove professionalità che dovrebbero esser appunto garantiti dai “diritti di prelievo sociale”. Questi riguardano la produzione di beni di interesse collettivo in due aree della vita sociale: quella dell’impegno di cura e solidarietà a favore di terzi e quella della valorizzazione culturale e professionale degli adulti durante tutto il corso della vita. Il contributo della Commissione Supiot non costituisce un programma di riforma del welfare, inoltre quella commissione è solo una delle possibili strategie per definire i rapporti tra lavoro e welfare in un contesto di riduzione del lavoro stabile alle dipendenze. Lavoro e welfare nella crisi Ci sono due aree dove le conseguenze della crisi economica iniziata nel 2007 si prospettano molto gravi: la disoccupazione e i tagli alla spesa pubblica. Quasi dovunque quindi i nuovi aumenti della disoccupazione si traducono immediatamente in aumenti della povertà. In molti paesi si è imposto di tagliare la spesa di welfare e soprattutto gli investimenti per l’innovazione, per l’educazione.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved