Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Il libro antico: Storia, Diffusione e Descrizione Lorenzo Baldacchini III ed., Dispense di Biblioteconomìa

Riassunto fatto bene e completo, ad eccezione dell'ultima capitolo (mancante ma poco importante), del manuale per Bibliografia Il libro Antico, di Lorenzo Baldacchini

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 19/09/2022

mirta-ottone
mirta-ottone 🇮🇹

4.6

(24)

5 documenti

1 / 39

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Il libro antico: Storia, Diffusione e Descrizione Lorenzo Baldacchini III ed. e più Dispense in PDF di Biblioteconomìa solo su Docsity! Il libro antico: Storia, Diffusione e Descrizione Lorenzo Baldacchini III ed. PREMESSA ALLA NUOVA EDIZONE: Questa nuova edizione è al contempo un aggiornamento di un testo ormai “antico”, ma anche qualcosa di completamente nuovo, vi sono parti interamente nuove e altre aggiornate, altre rimaste invariate. Destinatario: per la prima edizione ne aveva individuati due (bibliotecari e giovani che aspirano alla professione), per la seconda aveva registrato un uso notevole in ambito universitario, ora si confermano i due precedenti destinatari (con precisazione che in ambito del percorso universitario è rivolto maggiormente a corsi magistrali e master), in più piace pensare a un possibile terzo lettore: curioso, non spinto da motivazioni bibliofiliche ma con voglia di conoscere meglio origini di un oggetto che ha accompagnata e accompagna ancora la nostra civiltà. I. UNA STORIA DI LUNGUA DURATA 1.1. Ex oriente lux La definizione più semplice che si può dare di libro antico è la traduzione dell’espressione angloamericana hand-printed-book, ossia: LIBRO STAMPATO A MANO, CON TECNICHE MANUALI; dunque questa espressione si riferisce a una categoria di manufatti che si identifica in una tecnica di messa a produzione. Chi, Come, Quando mette a punto questa tecnica? Si sviluppa in Europa nel XV secolo ma solo dopo numerosi e a noti solo in minima parte, precedenti tentativi nel continente asiatico. La tecnica: I manufatti sono prodotti mediante caratteri mobili di metallo (piccoli parallelepipedi composti con una lega di piombo, antimonio, stagno + tracce di rame, con incisa all’estremità, in rilievo, l’immagine rovesciata di una lettera dell’alfabeto o di un altro segno grafico). Queste lettere dell’alfabeto o segni grafici sono prodotti da una fusione in una matrice ottenuta tramite l’incisione data da un punzone d’acciaio su una tavoletta di rame (ipotesi che nel procedimento di Gutenberg le matrici non fossero in metallo). La pagina si compone tramite la composizione manuale ossia l’allineamento al contrario dei caratteri in modo da formare parole, righe, pagine del testo, ossia una forma pronta per la stampa (forma poi inserita nel torchio). L’ultimo passaggio decisivo era quello dell’impressione, dopo l’inchiostrazione della forma con una vernice grassa (inchiostro tipografico), con una leva manuale si azionava il torchio, la platina così scendeva (pressa metallica, parte integrande del torchio) sino a imprimere la forma su di un foglio di carta. Sostituendo i fogli e reinchiostrando i caratteri l’operazione poteva essere compiuta x volte, consentendo la riproduzione in serie di carte stampate. Questa è la tecnica usata dall’orefice, e inventore, di Magonza, Gutenberg, a cui si attribuisce l’invenzione negli anni 40-50 del 400, per scrivere artificialmente libri e testi in più copie. È noto però come tecniche analoghe a xilografia e tipografia fossero utilizzate in Cina nel XI secolo (con caratteri in ceramica, legno e bronzo), e in Corea, con caratteri in metallo, già nel XIV e inizio XV secolo. Cina: -Diffusione del supporto carta a partire già dal I sec. A.C., ciò consente alla scrittura di divenire più accessibile. -Nell’VIII secolo D.C. compare la xilografia (consente la riproduzione dei testi tramite caratteri incisi su un blocco di legno) usata per la realizzazione si scritti buddisti (il più antico “libro” è un sutra – sutra del diamante 868 d.C.). La tecnica passa nelle mani di abili commercianti e viene usata per stampare dizionari, testi di medicina, almanacchi, manuali di divinazione e opere si astrologia. Per iniziativa governativa diviene mezzo attraverso cui pubblicare le edizioni “normalizzate” dei classici confuciani. -XI secolo, tempo della dinastia Song, Bi Sheng fabbrica i primi caratteri mobili di terracotta che venivano fissati in un telaio di ferro con linee guida spalmate di colla. -XIV secolo Wang Zhen utilizza i caratteri mobili di legno in una forma con fermi di legno. -Da fine XIV secolo è documentato l’uso di caratteri mobili di bronzo o altri metalli. Perché allora questa tecnica di caratteri mobili ebbe in Cina un limitato utilizzo? Per la natura stessa della scrittura cinese, che comprende pii di 50mila caratteri, ne consegue dunque, almeno inizialmente, un immenso impiego finanziario; infatti fino al XIX secolo il principale metodo per la stampa di testi rimase la xilografia con blocchi fissi di testo che non richiede dunque un immenso impiego finanziario. Dunque non è chiaro se il procedimento “inventato” da Gutenberg sia ricomparsa, imitazione o riscoperta: ipotesi che la tecnica messa a punto debba molto alle esperienze cinesi e coreane (ip dell’umanista francese Loys le Roy, II metà XVI sec. / Thomas Carter 1955 / poi non ebbe seguito in Occidente). Comunque lo stato delle nostre conoscenze non permette di escludere l’ipotesi dell’imitazione, ossia che le conoscenze siano state imitate da tecniche asiatiche. Sicuramente una delle premesse indispensabili per il successo di questa tecnica è stata la diffusione della carta, importata in Occidente dalla Cina attraverso la mediazione degli arabi ne corso del Medioevo. Alla comparsa dei primi incunaboli (=stampa in cuna = nella culla; libri prodotti nel 4cento), la carta era confezionata da stracci di tela, tritati e fermentati all’interno di un mulino ad acqua e ridotti a una sorta di pasta. Questa pasta veniva estratta in strati di spessore minimo mediante un telaio (reticolo di fili di rame orizzontali - sottili - fitti, ossia le vergelle, e fili verticali - più grossi e radi -, i filoni. Entrambi lasciano la loro traccia visibile nel foglio di carta così come veniva lasciata la filigrana = oggetto metallico situato in una metà del telaio che riproduceva firma o marchio della cartiera e forse, in un certo periodo, poteva indicare la qualità del prodotto). Cina: anche la carta viene dall’oriente e in particolare dalla Cina. Dove abbiamo: primi supporti scrittori sono gusci di tartaruga, ossa di animali, terracotta, pietra, giada e bronzo si aggiungono poi i Jian Du, lamelle sottili di bambù o legno, legate fra loro con fili di seta o lino sulle quali si scriveva usando un pigmento nerofumo, in seguito usata anche un tipo particolare di seta chiamata Bo. Diffusione confucianesimo, (dinastia Han 206 a.C. - 202 D.c.) si moltiplicano i testi letterari in circolazione e ciò determina l’esigenza di disporre di supporti più maneggevoli o meno costosi della seta. È qui che teoricamente il funzionario Ts’ai Lun, nella sia biografia, scrive di aver inventato la carta partendo dalla corteccia degli alberi, dai cascami della canapa, dagli stracci delle reti da pesca. Tuttavia ricerche mostrano che questa era già in uso dal II secolo a.C. Questa antica tecnica (tutt’ora praticata in alcune zone periferiche della Cina) consiste nella lenta macerazione delle materie prime (canapa, reti da pesca, scorze di legno) in acqua, poi tagliuzzate e battute con pestelli di legno in recipienti di pietra (mortai a pedale velocizzano il procedimento nell'epoca di Han). Dopo la battitura il materiale veniva cotto con ceneri vegetali e poi versato in un setaccio rettangolare - telaio (o fisso in tela o fatto da lamelle di bambù / per operare il drenaggio se tela fissa era lasciato a galla nell’acqua, se di bambù veniva scosso il telaio). Poi il telaio era steso all’aperto e il materiale infeltrato (primi secoli era volgare il procedimento è perfezionato con lisciatura e patinatura / dinastia Jin 265-429 d.C. usata mola ad acqua per migliorare raffinazione, battitura e collatura prima con colla d’amido poi di gelatina e allume, che rendono il tutto impermeabile e dunque più adatto alla scrittura). A partire da questo periodo (dinastia Jin) si inizia a usare la carta anche per scritture sacre e testi ufficiali (testimonianza affermazione come supporto durevole e affidabile); con la diffusione del buddismo (VI secolo d.C.) e la necessità di tradurre molti resti dalla lingua hindi accrebbe il numero delle materie prime usate per la produzione: corteccia gelso, iuta, yama, ramia, bambù, sandalo blu, paglia, ibisco. l’impronta del carattere. Si giustifica così che la matrice in modo che la profondità dell’impressione del punzone fosse uniforme. -Una volta che una polizza (assortimento o serie completa di caratteri) doveva essere fusa, ciascuna matrice veniva fissata a turno nella forma e da essa potevano essere prodotti un numero infinito di caratteri tutti uguali. Naturalmente chi produceva la serie aveva l’accortezza di realizzare un numero maggiore di segni di più frequente uso (diversi a seconda della lingua). -fusione: il fonditore stringeva le due parti della forma contenenti la matrice nella mano sinistra, con la destra solleva il cucchiaio contenente una lega metallica fusa, versa così il metallo nell’orifizio della forma e nello stesso tempo da uno strattone per farlo entrare nei recessi della matrice (intensità dello strattone varia a seconda delle lettere). Così una porzione del metallo che entra nella matrice va a formare l’occhio del carattere (parte destinata a trasferire l’inchiostro sulla carta riproducendo il segno o la lettera) mentre il resto del metallo riempiva il condotto rettangolare. Poi il fonditore rimuove la molla che tiene ferme le matrici nella forma, con il pollice percuote la matrice in modo da staccare il carattere; apriva la forma e, per mezzo di un filo di ferro, espelle la nuova lettera. Un bravo fonditore poteva creare fino ai 4mila caratteri al giorno, uno ogni 10-12 secondi, dunque ritmi alti di produzione per cui solo i bravi artigiani riuscivano ad avere una bassa percentuale di errori. Una volta ottenuti i caratteri restano poche azioni secondarie che svolgeva di solito un altro lavorante: rimozione schizzi di fusione dalla forma, asportazione del pezzettino di metallo in eccesso al piede (la base) del carattere, limare e levigare superficie e lati del fusto, ispezione dell’occhio del carattere per rilevare difetti. All’inizio le fonderie sono parte delle tipografie poi staccate e dunque questi caratteri venivano venduti. Tra fine 400 e inizio 500 la fusione e vendita non sono” a parte” delle tipografie. Solo dopo la metà del 500 la fusione dei caratteri comincia a diventare una materia a sé stante; si arriva così a offrire un prodotto finito - il carattere fuso - ai tipografi (tra l’altro per la tipografia i costi sono cosi minori, non vi è più costo dell’equipaggiamento). Già a inizio 600 la maggioranza dei tipografi acquista caratteri già confezionati piuttosto che produrli in proprio. Riportando le parole di Alberto tino: ≪ l’acquisto dei caratteri segna un primo, timido inizio di passaggio dalla fase artigianale, spesso a conduzione famigliare, a quella industriale≫ . Non solo anche la professione del punzonista, che nei primi tempi della stampa era interna all’officina tipografica, andò staccandosi e specializzandosi, finché non divenne un lavoro a parte come quelli di monete o medaglie. Ricordiamo anche che i primi punzonisti specializzati sono artigiani provenienti dal mondo oreficeria (Gutenberg be è un esempio). La lega tipografica: Dal 1500 abbiamo fonti dirette, ma per il 400 no; la fonte della prima descrizione di fusione dei caratteri è sempre la Pirotechnia di Biringucci:« le lettere hanno una composizione di tre parti di stagno fino, e un’ottava parte di piombo negro, e un’altra ottava parte di marcassite d’antimonio fusa» (92,3% stagno, 3,85% piombo e antimonio). Standard diversi da quelli contemporanei, oggi: 15% stagno, 25% antimonio, 60% piombo, con tracce di rame. La composizione chimica del carattere varia però non solo in base al tempo ma anche allo spazio (diversi luoghi). Dai colophon e documenti 400centeschi, sembra che molti incunaboli fossero composti dall’unico ingrediente dello stagno, ma vi sono numerose obiezioni in merito perché: è assai costoso, non offre resistenza alle curvature, il piombo è spesso nominato in alcuni dei documenti più antichi riguardanti la fusione (Gutenberg quando faceva esperimenti a Strasburgo è attestato che comprò del piombo). La varietà dei caratteri in circolazione rimase sempre abbastanza notevole; le tre grandi classi latine sono: romano, gotico e corsivo. La cassa tipografica: Prima del XVII secolo (fonti xilografie) pare che le lettere fossero disposte in rodine alfabetico, non si sa a chi si deve l’invenzione di porre al centro i caratteri più frequenti nell’utilizzo. post XVII secolo la cassa aveva già subito questa variazione e si era sdoppiata in cassa alta (o di sopra) e cassa bassa (di sotto). -cassa alta: ha 98 box di uguali dimensioni, nella metà sinistra le lettere maiuscole in ordine alfabetico (eccetto le J e U che seguono la Z e altri segni grafici quali dittonghi, liniette, graffe ...). Sul lato destro abbiamo invece le piccole maiuscole (maiuscole corsive), frazioni, lettere accentate, segni di rinvio (asterischi ...). -cassa bassa: ha 54 box di differenti larghezze e misure contenenti le lettere minuscole, quelle di uso più frequente (come la -e-) si trovano più vicine alla mano del compositore. Il telaio su cui sono disposte è inclinato; la cassa singola pesa più o meno 34 kg, le due casse capienza di 18-20 kg, non devono superare i 27 kg. Ovviamente vi sono varianti nazionali es. Francia e Olanda lettere –h,y- piccoli scomparti periferici, in Inghilterra, dove sono molto usate, sono nei settori più larghi e centrali. Scarsi sono i dettagli sulla cassa usata dai tipografi italiani. Nei paesi tedeschi la cassa singola rimase più tempo. Le fasi della stampa: Sono tutte manuali, Composizione: allineamento al contrario dei caratteri mobili nel compositoio (contenitore a forma di stecca), così da formare parole, righe, pagine di testo > queste pagine di testo sono collocate poi nel vantaggio (simile a una tavoletta munita di una cornice da cui potevano essere estratte) > le pagine dal vantaggio sono legate con spaghi e trasferite in una forma di stampa (telaio di legno atrezzato per ricevere più pagine, munito a tale scopo di una cornice esterna e di più cornici interne, tante quante erano le pagine – di regola numero pari). Inchiostrazione: per mezzo dell’inchiostro tipografico, una vernice grassa, chimica (simile a quella della pittura ad olio). Impressione: Il torchio veniva azionato con una leva manuale che fa scendere la platina, una pressa metallica, sul foglio di carta, comprimendolo sulla forma. Il foglio è fissato sul timpano, un telaio con degli spilli collocati in prossimità degli angoli e chiuso dalla fraschetta, una cornice ribaltabile allestita in modo tale da lasciare vuoti gli spazi in corrispondenza delle pagine presenti nella forma e, consentendo al foglio di venire a contatto con la forma contenente le pagine di caratteri inchiostrati. Di volta in volta il foglio veniva sostituito e la forma reinchiostrata, l’operazione poteva essere ripetuta x volte permettendo la moltiplicazione delle copie di un testo. Ottenuto il numero di copie volute del medesimo testo i fogli venivano girati e veniva inserita una nuova forma con nuove pagine, così abbiamo foglio stampati su entrambi i lati. I fogli una volta piegati e tagliati danno luogo a fascicoli di più carte stampati da entrambi i lati (pagine), contenenti quindi un testo ordinato in sequenza; ovviamente per dar luogo alla sequenza erano necessari schemi prefissati con cui inserire le forme (impostazione della forma). Evidentemente l’insieme di queste operazioni si basa su riproduzioni speculari: il carattere è l’immagine speculare del punzone che batte la matrice. La pagina stampata è la riproduzione speculare della forma di stampa (in questo senso non sorprende l’altra invenzione di Gutenberg ossia degli specchietti volti a catturare a distanza immagini sacre, poi periodicamente mostrati al pubblico in occasioni di particolari festività). Questo processo rimane pressoché identico sino all’800, dove la tecnica non fu più manuale ma meccanica sia per la stampa vera e propria che (composizione e torchi), sia per la fabbricazione dei supporti (carta) che per gli strumenti di produzione (caratteri). Come già accennato: è stata dunque un'invenzione di Gutenberg o vi è imitazione? Si discute da tempo sull’ipotesi che la sua invenzione sia da mettere in relazione con le precedenti esperienze cinesi e coreana, la tesi dell’imitazione non si può confutare nel senso che qualche informazione, magari vaga, delle tecniche asiatiche può essere attivata in Europa e ripresa dai prototipografi (es. Presenza ambasciate cinesi a Costantinopoli, presenza di mercanti cinesi a Magonza). Non è invece fondata la tesi per cui Gutenberg abbia stampato con lastre metalliche e non caratteri mobili. Nelle altre operazioni di allestimento dei libri non ci furono particolari innovazioni: la cucitura dei fogli, l’apposizione di una coperta con rilegatura e realizzazione di eventuali decorazioni manuali come le miniature erano note e sperimentate da secoli nella confezione dei codici manoscritti. Oggi innanzi a un incunabolo e a un manoscritto del XV secolo difficilmente siamo in grado di distinguerli senza aprirle ed esaminare se la scrittura del testo sia scritta o stampata. Laurens Coster di Haarlem v.s. Johannes Gutenberg: dibattito discusso per più di 200 anni per l’identificazione dell’inventore della stampa. Dibattito acceso maggiormente nei periodi in cui prevalgono sentimenti nazionalistici, alla fine ha “vinto” Gutenberg, a quanto pare Haarlem, sebbene fosse arrivato prima del tedesco, utilizzava caratteri in legno, a Gutenberg dunque si deve la tecnica per produrre in serie alfabeti fondendo i singoli caratteri di metallo in una matrice collocata all’interno di una forma. Purtroppo nessuno degli strumenti di Gutenberg è arrivato fino a noi. Quando parliamo di caratteri tipografici delle origini, parliamo in sostanza di un oggetto misterioso. Perché? Cosa possiamo vedere oggi di un carattere del 400? -in primis le sue impronte di libri: tracce lasciate dall’inchiostro all’estremità (occhio) del carattere, impronte che hanno lasciato sulla carta caratteri “coricati” ossia usciti fuori dalla riga durante la stampa per un difetto della forma non ben stretta. n.b. carattere significa sia per indicare l’oggetto tridimensionale sia per l’impronta sul foglio. Oltre a queste orme non disponiamo di altri reperti se non... -ritrovamento a più riprese, nel 1868, di 243 caratteri risalenti a periodi tra fine XV secolo e inizio XVI secolo lungo la riva sinistra del fiume Saona a Lione. È grazie a questo ritrovamento eccezionale e fortuito che abbiamo avuto la possibilità di tenere in mano non solo le “orme” dei caratteri tipografici delle origini ma anche gli oggetti tridimensionali. Come mai questi reperti sono così rari? Oltre alle piccole dimensioni, e dunque la fragilità, una volta consumato l’occhio del carattere il fusto veniva rifuso per produrre nuovi caratteri. II. IL LIBRO DELL’ANCIEM REGIME 2.1 Dal manoscritto alla stampa Esaminiamo la “transizione” dal manoscritto alla stampa ora, in un’epoca nostra che è anch’essa di transizione che ci sta portando dalla “galassia Gutenberg” a qualcosa che si sta ancora definendo, qualche anno fa indicata come epoca “elettronica”, “digitale”, “del web” … 2.2 Una differenza relativamente visibile Nel periodo in cui manoscritto e stampa convivono come prodotti commerciali, la seconda metà del 400, vi è assoluta impossibilità di distinzione se li si osserva chiusi, vi è totale identità delle forme esteriori tra manoscritti e incunaboli; il nuovo mezzo della stampa non portò nessuna novità rilevante sull’aspetto esteriore dei libri. Nonostante ciò non possiamo fare a meno di sottolineare come la relativa invisibilità della introduzione del nuovo mezzo stampato, sia a posteriori un elemento particolarmente visibile. Vediamo dove sia invece visibile, in vari ambiti: -Come osserva Lotte Hellinga in un intervento del 1993, ciò che fondamentalmente permetteva agli utenti di distinguere dall’esterno produzione manoscritta e stampata era la differenza nel prezzo. Ciò fa riflettere sul fatto che la coscienza dei contemporanei sull’invenzione della stampa fu la coscienza di fare in un diverso modo, un prodotto essenzialmente analogo a quello già esistente del manoscritto, che voleva essere il più possibile simile a quello vecchio e che però poteva costare meno. -Nella scoperta della stampa venne investito anche l’aspetto dei rapporti tra docenti e discenti della dimensione sociale della lettura: si deve sempre a Lotte Hellinga, che comparando una miniatura che mostra una classe di studio, a una xilografia di una classe di studio post invenzione stampa mostra come con il manoscritto abbiamo gli studenti che pendono dalle labbra dell’insegnante osservandolo, con il libro stampato ogni studente ha un proprio libro. Dunque il messaggio, in conclusione, è che se compri questo libro non hai bisogno di seguire le lezioni. -Altro approccio significativo è quello che esamina il rapporto manoscritto/libro a stampa dal punto di vista della decorazione. Con l’avvento del libro stampato questo imita le scritture librarie dei manoscritti riproducendo il sistema di abbreviazioni latine e anche le decorazioni dei manoscritti (“un intero layout si trasferì da un modello all’altro”), anche per questo un occhio inesperto fatica a 2.4 Un problema di trasporto Se guardiamo alla storia del libro, siamo tentati di affermare che lo specifico del libro a stampa sia la mobilità, ma allora il libro manoscritto invece sta per staticità? Si tratterebbe di una semplificazione un po’ “grossolana”, è sì vero che la maggioranza dei manoscritti occidentali non è stata scritta per scopi commerciali (ma per autoconsumo su commissione), è sì vero però che siamo a conoscenza di fenomeni di mobilità anche dei manoscritti. Se guardiamo alla sua natura di merce, abbandonando il paragone con il manoscritto, rimane abbastanza evidente che il libro a stampa, se non si muove non fa circolare le sue copie, non giustifica l’investimento iniziale che la sua produzione comporta. Il libro a stampa deve dunque viaggiare, ha bisogno di una rete di distribuzione, di un réseau. Quindi come viaggiavano i libri? Quanto costa farli viaggiare? Quali erano itinerari e mezzi di trasporto? Quanto tempo impiegavano per arrivare a destinazione? Ecco le fonti da consultare, ma notiamo come per molte di queste categorie vi siano elementi di criticità: -Atti notarili (però spesso si riferiscono solo a libri particolarmente costosi); -Libri di amministrazione aziendale, -Diari personali (così come i libri di amm. aziendale fanno riferimento solo a vicende note a chi registrava i fatti, non di rado avari di notizie precise quindi); -Registri e tariffe daziari (trattano i libri come una merce qualsiasi e dunque tacciono su contenuto e caratteristiche esteriori, servono parzialmente); -Testamenti; -Inventari di beni e libri (più utili delle fonti mercantili ma tacciono il prezzo e le vie attraverso cui i libri sono giunti in possesso ai proprietari). -Epistolari. LE STRADE E IL MARE: La rete stradale del Basso Medioevo, pur non coincidendo in tuto con quella romana, mantenne gli antichi tracciati quali infrastrutture della circolazione fino al XVIII secolo; verso la fine del Medioevo assistiamo all’incremento di molte attività, indotto proprio dallo sviluppo della rete stradale. I traffici terrestri del XV secolo vengono relegati in secondo piano dalla navigazione marittima, nel 500cento invece si riafferma dominante, questa riaffermazione fece però emergere il problema della manutenzione della sicurezza delle strade e dei ponti, della protezione dei mercanti dai briganti, nonché dall’assicurazione delle merci (casi in cui si regolamenta altezza piante che avrebbero potuto nascondere predoni). Anche se è vero che si assiste alla vittoria delle vie terrestri verso il 1600, tuttavia permane l’importanza del commercio fluviale interno: «il Mediterraneo è un complesso di strade» (Febvre). Il regime delle esazioni dei pedaggi e dei dazi è il principale “punctum dolens” del sistema viario e di quello commerciale nel Medioevo, vista la molteplicità e la varietà degli oneri fiscali e dei posti di dogana, una situazione che permase anche nei secoli successivi. Tuttavia l’istituzione della dogana, rappresenta una svolta nella documentazione. L’area del primo mercato internazionale del libro a stampa è quella che comprende le regioni della dorsale europea tra le Fiandre e l’Italia del Nord che saranno da ritenere le prioritarie vie di comunicazioni che attraversano questa direttrice, in particolare le vie terrestri che erano quelle preferite per le merci più pregiate. Le derrate alimentari e le merci pesante privilegiano invece i percorsi marittimi. Per l’itinerario Occorreva tra Italia e Nord europeo occorreva naturalmente superare le Alpi, i principali passi erano: Moncenisio (passaggio privilegiato dal XV secolo in poi per le fiere a Lione), San Gottardo, Sempione, Gran San Bernardo, Stelvio, Brennero (ad eccezione dell’ultimo non sono vie carrozzabili fino a fine XVI secolo, sono cammini accessibili solo a muli e pedoni). Per quanto riguarda invece il mare, Venezia per mezzo delle navi e Lione con la collaborazione di Marsiglia provvedevano alla circolazione nel Mediterraneo di una regolare produzione libraria, mentre Genova forniva la carta. Numerosi fonti presentano percorsi misti terra/mare per il commercio tra Italia e Francia es. Milano- Genova-Marsiglia-Avignone, es.2 Milano-Pavia-Genova-Arles-Avignone, es.3 Cremona-Piacenza- Genova-Marsiglia-Avignone. Un elemento da tener presente è rappresentato dalla navigazione interna, nel 1495 tra Milano e Pavia è possibile una regolare navigazione con barche trainate da cavalli lungo le strade alzaie. Esistono notevoli differenze di costo tra i trasporti terresti e fluviali, arrivano a 6 a 1, ma quelli fluviali sono poi gravati dal costo di dazi e pedaggi maggiori, per questo è importante sottolineare l’importanza dell’esenzione dai dazi di alcune merci, come la carta, in alcuni luoghi, che consegue il proferimento di una via anziché un'altra. Le figure impegnate nel trasporto ci sono note in prevalenza grazie ai contratti notarili di trasporto: “partitor ballarum” (smistava le balle delle merci), “carratores”, “vecturales”, “portatores ad dorsum”. Diffuso era l’impiego del carro mentre gli animali utilizzati erano: muli, cavalli e buoi. Il trasporto a tappe fu sempre poco gradito dal mercante a causa dei danni subiti dalle balle durante le operazioni di carico e scarico ma nonostante ciò il trasporto diretto non riuscì a soppiantare quello a tappe. Tendenzialmente si preferiva il piccolo cabotaggio, un sistema combinato di trasporti terrestri e marittimi o fluviali. Si diffusero i cosiddetti “ospizi della balla”, come quelli di Milano o di Costanza, qui l gestore funzionava anche da daziere, da custode delle merci e dei denari dei mercanti. IL COSTO: Il costo del trasporto era ripartito in: imballaggio, vettura e provvigioni. Ovviamente però a tal riguardo vi sono molti aspetti che andrebbero segnalati, e mole varianti e influenza (es. Armi e prodotti metallici spenso 1 lira per balla, 2 per i fustagni etc.. ): -Analisi delle strutture delle città in rapporto alle esigenze del commercio; -Analisi delle merci vendute; -Analisi dei sistemi stradali; -Organizzazione del sistema fieristico; -Approfondimento dei meccanismi della mercatura; -Incidenza della cultura mercantile. Una variabile non trascurabile è rappresentata dalla quantità degli esemplari spediti per ciascuna destinazione. Le città media provano l’importanza del ruolo dell’esportazione meglio ancora delle grandi metropoli (es. Basilea: si stampano pamphlet religiosi in alto tedesco anziché nel dialetto locale=buona rete di diffusione). Spesso vengono stretti legami con università e accademie più per ottenere nuove copie che per smerciare (es. Né Venezia, Lione, Londra, Anversa, Francoforte – tutti luoghi di alto commercio e smercio – sono città universitarie, invece a Basilea, che lo è, gli editori incrementano i rapporti con gli universitari per produrre opere di alto livello scientifico). Le città come Venezia, Lione e Anversa erano centri importanti votati al commercio internazionale, libri come merci, e animati da grandi librai di statura internazionale. Importane anche il ruolo delle fiere, importanti quelle di Lipsia e Francoforte, in Italia abbiamo invece; Foligno, Recanati, Lanciano e la Sansa di Venezia (per il libro Venezia è da considerarsi una “fiera permanenete”). In generale la struttura del commercio del libro rimane precapitalistica: da una parte abbiamo i centri importanti votati al commercio internazionale e animati da grandi librari di statura internazionale, dall’altra parte una rete di piccole città edite perlopiù a smercio locale. Dall’altra parte vi erano piccole città dedite a testi di smercio locale. Va sottolineata: l’importanza del canale di scambio Venezia-Lione, il ruolo di Torino come punto di passaggio tra Italia e Francia, e infine ricordato infine il caso di Pietro Perna, nominato dal fiammingo Lorenzo Torrentino, che ha azienda a Firenze, quale suo rappresentante in Italia e Francia. A volte i rapporti personali sono più convenienti quando si tratta di far arrivare a destinazione alcune copie (es. Chiedendo agli amici in viaggio anziché alla rete commerciale). Caso dei testi dei riformati: La traduzione nei volgari delle opere dei riformatori produce altri tipi di viaggi per i libri. Gli scritti riformati italiani non vedono la luce nella penisola, gli scritti riformati nascono nei centri della Riforma, prima fra tutte Ginevra, le Bibbie qui nate passano poi da Francoforte. Nei primi decenni il riformato è sostanzialmente un esiliato, un viaggiatore, che spesso viaggia con libri; paradossalmente le persecuzioni ne facilitano la circolazione. Strategie di commercio principali attuate: -si effettuano scambi con libri di altri centri, tanto che a volte si installa un rappresentante fisso, un “facteur”. -si incontrano i libri nelle diverse fiere (es. Francoforte) e qui è spesso la conoscenza delle lingue a ravvicinare i commercianti. -hanno un ruolo importante infine i “colporteurs”, ambulanti a cui è affidata la vendita al dettaglio o piccoli librai. Per concludere il discorso ricordiamo infine come gli editori stessi sono spesso viaggiatori (es. frequente è la presenza di Aldo Manuzio e Andrea Torresani a Parigi). 2.5 Non dimentichiamoci la politica La scelta di cosa stampare è anche legata alla politica, se il libro manoscritto, specialmente nel Rinascimento, era stato modello di rappresentazione del potere, con la stampa se ne esaltò la potenzialità quale strumento di propaganda, proprio per la sua riproducibilità tecnica (Ciò è emerso dagli studi di Lowry, un esempio su tutti il cardinale Bessarione, candidato due volte al soglio pontificio, agli albori della stampa usa strategie politiche collegata alle più importanti iniziative tipografiche italiane, vi è anche uno studio di Feld che mostra come la venuta in Italia di Sweynheym e Pannartz – tradizionalmente indicati come i primi stampatori operanti in Italia – dipendesse proprio dalla politica del cardinale per la propaganda neoplatonica). Dunque vi era la necessità per una neonata tipografia di creare compromessi con la politica (es. I primi due stampatori interrompono la stampa di ciò che facevano per stampare un’opera di Rodercius Zamorensis, custode delle carceri di Castel Sant’Angelo, personaggio che Andrea de’ Bussi, legato al vescovo Bessarione, doveva ingraziarsi, specie dopo essere stato accusato di Paganesimo e dopo essere stato incarcerato, come altri umanisti legati all’Accademia romana). Dunque, rispetto a quelle del manoscritto, vediamo una serie di regole nuove, basti pensare alle dediche che, dal momento che vengono stampate su molte copie, modificano la loro funzione, da un rapporto interpersonale dedicatore-dedicatario si passa a una forma di comunicazione che coinvolge un pubblico più o meno vasto e quindi la forma stessa della dedica cambierà. 2.6 Le origini in Italia: latino o volgare? Il problema di come sia avvenuta l’introduzione della stampa nella penisola italiana potrebbe essere apparentemente relegato in una sorta di disputa di campanile del tipo: Subiaco (Roma) o Bondeno (Ferrara)? La questione geografica non è da sottovalutare, ma sono più interessanti gli aspetti che questo tema propone e prima fra tutte le similitudini: In entrambe i casi sono uomini (chierici) provenienti dalla Germania a portare con loro le conoscenze legate all’arte di scrivere artificialmente; percorrono un itinerario lungo 2000 chilometri. Ci furono soste in questo cammino? Luigi Balsamo ha affermato di no ma invece forse delle soste ci furono, durante le quali forse si produssero degli stampati dei quali però si sono perse le tracce. Questi pionieri venivano dalla culla della stampa tipografica occidentale, da Magonza. Ma molto diverse dovettero essere le condizioni logistiche e ambientali dei loro spostamenti, a riguardo vi sono molte questioni aperte: le stamperie tedesche non era raro utilizzare carta italiana ma l’indagine sulla provenienza delle carte non è mai stata ben fatta (qui Baldacchini parla di Paolo Veneziani, un critico, che ha analizzato la passio christi, incunabolo bondese, per Baldacchini è forzata l’idea per cui si tratti di una stampa tedesca realizzata per il mercato italian es. uestioni che pone è perché allora, se è do stampa tedesca, è stata realizzata su carta emiliana? Altri critici già prima di Baldacchini avevano ipotizzato che potesse essere già stampata in Italia...) Certo però è che l’apparition du livre e la sua diffusione fu costellata da tanti esperimenti, prove, insuccessi e fallimenti disastrosi, molti dei quali non hanno lasciato tracce documentarie, e lo stesso si è verificato ogni volta che è comparso nella storia di un nuovo medium. Per Baldacchini, tornando all’incunabolo, l’aspetto più interessante resta il tipo di prodotto popolare che la Passio incarna: c’è stato negli studi disinteresse verso i primi prodotti della stampa in volgare tipografia si compongono e stampano parecchi libri simultaneamente e ciò influisce su ritmi e sull’organizzazione del lavoro. 3.2 Imposizione e segnatura Con il termine IMPOSIZIONE si indica il modo nel quale una forma è sistemata in un particolare arrangiamento delle pagine. L'avvento dell'arte della stampa portò con sé il problema di imporre il nuovo libro sia in senso fisico che letterale. Molto presto, già all'epoca degli incunaboli, si sviluppò la procedura (peraltro non sconosciuta all'epoca del manoscritto) di stampare un foglio di carta, piegarlo poi assemblarlo per ottenere le pagine in sequenza; ciascun lato di un foglio è stampato da una forma che può contenere un numero variabile (pari) di pagine. Se è impiegata una forma singola può stampare solo un lato di un foglio e dà quindi vita a materiale generalmente destinato all'affissione. -Se sono impiegate due forme, una per il recto e una per il verso, di due pagine ciascuna, il foglio poteva essere piegato in due per ottenere un in-folio (due fogli stampati sul recto e sul verso realizzavano 4 pagine). -Un quarto era prodotto stampando forme di 4 pagine ciascuna, "4 contro 4”. Il foglio veniva allora piegato due volte, una per il largo e una nel senso della lunghezza, ottenendo in questo modo 8 pagine. -Questa modalità di preparazione continuava per produrre libri sempre più piccoli quanto all'altezza: un ottavo, 8 pagine contro 8, cioè 16 per foglio, -un sedicesimo (32 pagine, 16 contro 16), -un trentaduesimo (64 pagine, 32 contro 32), -e un sessantaquattresimo (128 pagine, 64 contro 64). Questi erano i modi più comuni di piegare i fogli di carta per lavorare i libri che si svilupparono lungo l'arco del XVI secolo (nel 400 furono usati solo i formati più grandi). Ma c'erano altri e più complicati arrangiamenti: -Due forme di 12 pagine ciascuna potevano dare vita a un dodicesimo (ciascun foglio conteneva 24 pagine, 12 contro 12). Lo si poteva realizzare in due modi. Un metodo consisteva nel collocare le pagine nella forma in 3 file di 4 ciascuna e poi piegare il foglio due volte nel senso della lunghezza e tre volte per largo. Più accuratamente il foglio poteva essere tagliato nel senso della lunghezza. Il risultato era un libro non tanto largo in paragone alla sua altezza. L'altro metodo consisteva nel sistemare le pagine nella forma in 2 file di 6, poi dividere il foglio in pagine, con S tagli verticali e 1 orizzontale. Si otteneva un libro alto, ma molto “magro" (dodicesimo lungo). -Un ulteriore passo in questa direzione era il ventiquattresimo (fogli stampati da forme di 24 pagine ciascuna, che erano ottenute fondamentalmente negli stessi modi). -Il diciottesimo veniva prodotto tagliando un foglio in due sezioni ineguali (uno un terzo, l’altro due terzi del totale). La prima sezione veniva tagliata in 6 e la seconda in 12. Pare sia stato per primo Aldo Manuzio il Giovane a usare per primo le espressioni “In folio”, “quarto”, “ottavo”, “sedicesimo”, nel catalogo del 1541, poi ripresi in altri cataloghi (Basilea, Zurigo, Lione). Il metodo della piegatura non era l’unico fattore a determinare le dimensioni di un libro. Un libro prodotto piegando i fogli a metà sarà più largo di uno prodotto piegando i fogli in quattro, ma l’altezza dei fogli della carta prodotta manualmente, usata dalle tipografie fino all’inizio del XIX secolo, era determinata dalle dimensioni della forma usata dalla carteria. Pertanto, un volume in quarto stampato con carta più grande della media poteva essere alto quanto un libro in-folio che utilizzava carte più piccole. Analogamente due in-folio, due in quarto ecc. Non avevano esattamente le stesse dimensioni. LA SEGNATURA: basata su un sistema alfanumerico che contrassegna ciascun fascicolo (costituito da uno o più fogli) con un numero progressivo. Il sistema di base della segnatura (più accurata e con meno errori della numerazione delle pagine) consiste nel fatto che ciascun elemento piegato o unità di almeno 4 pagine mostra una segnatura sulla prima pagina. Es. un normale foglio in ottavo (16 pagine) mostra nei recti delle carte segnature nell’ordine A (o AI), A2, A3, A4 rispettivamente sulle pagine 1,3,5,7. Invece sui recti della seconda metà del fascicolo (9, 11, 13, 15) non vi sono segnature. Se, come di regola negli ottavo, le carte in un fascicolo sono 8, sulla 17esima troveremo B (o BI) e così via B2, B3, B4. Ma potrà succedere anche che al fascicolo A, di 8 carte, e perciò indicato come A8 anche se segnate sono solo le carte fino ad A4), potrà seguire un fascicolo B di 4 carte per cui, dopo le segnature da A (o A1), seguiranno quelle segnate B (o B1). In altre parole, si avrà un totale di 24 pagine, piegate e cucite il primo gruppo in 16 e il secondo in 8. Che si indicheranno con A8 – B4 3.3 Inchiostrazione Abbiamo visto come la carta sia il materiale di supporto basilare del libro a stampa, sulla quale i caratteri imprimono i segni. Questi segni, che fanno si che noi possiamo chiamare libro un insieme di fogli, sono tracce di inchiostro, almeno fino alle innovazioni più recenti (fotocomposizione e simili). Le notizie storiche intorno agli inchiostri tipografici sono particolarmente scarse, ciò, come già detto, è da mettere in relazione con la reticenza dei tipografi a propagandare i segreti della loro arte. Il principale storico dell’inchiostro è Bloy (op. Prima sugli inchiostri tipografici del 1972) che sottolinea come la scoperta di un inchiostro da stampa, da parte di Gutenberg o di chi per lui, fu altrettanto importante di quella dei caratteri mobili e del perfezionamento del torchio. I primi inchiostri adoperati, almeno negli incunaboli pervenutici, appaiono già praticamente perfetti (si rimane impressionati dal nero dei caratteri di Gutenberg, Fust e Schoeffer, privi di ombre o macchie che invece si riscontrano in edizioni successive). L'inchiostro dei primi incunaboli è il risultato di un lungo e paziente lavoro di ricerca, nato anche dal bisogno, come ricorda lo stesso Bloy, di competere con il grado di leggibilità e con l'eleganza estetica dei manoscritti del 400. Successivamente invece, post affermazione sul manoscritto, aumentata la domanda di libri a stampa e la concorrenza, i tipografi dovettero sacrificare la qualità ai costi, ricorrendo a inchiostri (e a carta e caratteri) più scadenti. A differenza della carta, che in Europa precede di qualche secolo l'apparizione della stampa, l'inchiostro tipografico nasce con la tipografia: le soluzioni acquose di gomma aventi come pigmento nerofumo, oppure una sospensione di gallato ferrico, usato per l'impressione di stampe e tavolette, e simili a quelle usate dai copisti, si rivelarono inadeguate per la stampa con caratteri mobili in quanto difficili da applicare in modo omogeneo su superfici metalliche, tendevano infatti a posizionarsi a “granuli” anziché spalmarsi in modo uniforme, rendendo i testi mal-leggibili. La soluzione dunque arrivò probabilmente dal mondo della pittura e consistette in un inchiostro oleoso. La pittura a olio, conosciuta dai romani e usata per decorare porte, infissi e scudi, ebbe per secoli un impiego molto limitato, si diffuse solo dopo che fu perfezionata e divulgata dai pittori fiamminghi, questi si si servivano di resine per produrre un veicolo di olio resina (vernice), usando olio di lino, di noce, trementina, stucco, ambra e sandracca. È dunque probabile che i primi stampatori fossero in contatto con il mondo degli artisti (in particolare fiamminghi, vista la diffusione nel XV secolo di questo tipo di pittura). Un pittore infatti era spesso anche decoratore di libri, ed era quindi obbligato a conoscere la chimica e ad avere familiarità con numerose tecniche di manifattura. Non si hanno ricette di inchiostri che risalgono al periodo dell'introduzione della stampa, non se ne può dunque stabilire con certezza la composizione chimica degli inchiostri con i quali furono stampati gli incunaboli, ma le ipotesi lasciano supporre che: -inchiostro: composto di olio di lino, trementina, ragia, vernice soda o liquida, a seconda delle stagioni, dal momento che la temperatura influisce enormemente sulla viscosità dell’inchiostro; -pigmento nero: erano adoperati nerofumo di lampada e marcassite; -inchiostri rossi: si usavano il cinabro e la lacca; -inchiostro da scrittura: si usavano la galla e il vetriolo. Oltre la fonte già vista (Bloy), l’altra fondamentale è Platin con i Dialogues, dal 600 poi le fonti si moltiplicano. Ma come veniva preparto l’inchiostro? Sappiamo che molti tipografi lo realizzavano in proprio, almeno fino alla metà del XIX secolo. -inchiostro incunaboli: possiamo supporre che fosse un'oleoresina con la probabile aggiunta di trementina. Rispetto a quello di lino l'olio di noce ringiallisce prima se è riscaldato e richiede più tempo per seccare: questo poteva essere un particolare di scarsa rilevanza per uno stampatore di incunaboli, ma era destinato a diventare assai importante nei secoli successivi con l'aumentare dei ritmi di produzione. L'olio di noce, inoltre, invecchiato risultava migliore. -Spesso veniva aggiunto qualcosa per liberare l'olio dai grassi superflui: i pittori, ad esempio, erano soliti incorporarvi ossa, gesso e materie similari. Più tardi i tipografi usarono a questo scopo croste di pane e cipolle. La trementina invece era riscaldata fino alla liberazione di tutta la materia volatile ed era ridotta in colofonia, che rimane liquida solo finché calda. L'effetto dell'aggiunta della trementina era di prevenire o ridurre la possibilità dell'olio di distendersi successivamente. Il nerofumo era invece tratto certamente da resina di pece bruciata. - Comunque, che si usasse olio di lino o olio di noce, il segreto era la durata del trattamento al quale gli inchiostri erano sottoposti. Questo richiedeva qualche ora e un notevole consumo di combustibile. Volendo ridurre il tempo e il consumo, si comprometteva la qualità dell'olio, con il risultato che, al momento dell'uso, l'inchiostro si spargeva male sulla carta, lasciando grumi neri, segni poco nitidi e macchie scure. (Ricetta di Moxon e di Fertel su cui si basano poi tutte quelle pubblicate fino all’800: Moxon: Il metodo olandese descritto da Moxon richiedeva l'uso di un buon olio di lino. Dopo averlo riscaldato, vi si immergeva una cipolla, in modo da determinare la corretta temperatura, La velocità con la quale si formava la schiuma dopo l'immersione della cipolla era il fattore decisivo. Dopo di che veniva aggiunta la colofonia (in precedenza ridotta in polvere in un mortaio) in misura di 1/2-1 libbra per gallone. L'aggiunta della colofonia doveva avvenire piano piano, per evitare che la schiuma montasse troppo velocemente, traboccando. L'olio veniva poi messo sul fuoco per far seccare la vernice e integrato con un'oncia di litargirio ogni 4 galloni per rischiararlo. Infine, si faceva bollire a fuoco lento. Dopo il raffreddamento era filtrato e lasciato riposare il più a lungo possibile. Fertel: l'olio, di noce o di lino, si faceva bollire per 2 ore con l'aggiunta di una crosta di pane per sgrassarlo. Una volta carbonizzata, la crosta era tolta e l'olio veniva fatto bollire a fuoco lento per altre 3 ore. Dal momento che l'inverno richiede una vernice più debole, Fertel consiglia di aggiungere, in questa stagione, un uovo dopo la crosta di pane. Egli sostiene, inoltre, che l'uso della trementina previene la formazione di aloni intorno alle lettere e migliora il tempo di essiccazione, ma nello stesso tempo l'abuso di questa sostanza può condurre a un'essiccazione troppo rapida che causa la lacerazione della carta. Pertanto, la trementina doveva essere aggiunta all'olio solo in proporzione di 1 a 10. La sua preparazione richiedeva una bollitura di 2 ore e si aggiungeva alla vernice mentre entrambe erano ancora calde; l'insieme veniva poi cotto per un altro quarto d'ora. La prima opera interamente dedicata all'inchiostro da stampa, quella di Savage compare più tardi (Savage, 1832). IL TAMPONE / MAZZO: strumento per spalmare l’inchiostro sui caratteri. Aveva un manico di legno di acero o di ontano e la parte posteriore era concava, in modo da contenere la massima quantità di lana o pelo, che era usata per riempirlo. Aveva un diametro di circa 7 cm ed era rivestito di pergamena, trattata in modo da ricevere bene l'inchiostro e trasferirlo sul carattere: la pergamena era tagliata in pezzi circolari dopo essere stata macerata nell'urina, liquido necessario nell'antica officina tipografica. Tali pezzi erano levigati e spremuti, dopo di che la pelle era stesa e applicata sul tampone. L'abilità manuale degli inchiostratori doveva essere notevole: essi tenevano due tamponi, uno per mano, e li facevano ruotare sul piano da inchiostro in modo che ricevessero il liquido, quindi ripetevano l'operazione sulla forma, trasferendo l’inchiostro sui caratteri in modo uniforme, per evitare che rimanessero macchie sulla carta. 3.4 Stampa al torchio L’origine del torchio come strumento per stampare è oscura; probabile che vada collegata con la contemporanea scoperta di un inchiostro sufficientemente viscoso da permettere che la carta venisse posta sulla superficie pronta per la stampa ed entrambe pressate dal torchio stesso, senza che l’impressione risultasse piena di macchie. Era uno strumento familiare all’epoca di Gutenberg e Coster: -pressa da biancheria: molto comune nelle case, formata da una tavola con due sostegni verticali portanti una traversa, attraverso la quale una vite di legno faceva scendere un piano; -torchio da vino: a tal proposito ricordiamo come Magonza fosse una città ricca di vigneti. Ovviamente questi tipi di torchio furono modificati per la stampa dei libri. Sarà infatti stato necessario materiale di supporto o i modi di produzione) l'unico parametro adeguato da tenere presente, bensì il modo in cui una società guarda a determinate categorie di documenti. Inoltre non dobbiamo cadere nell’equivoco di considerare i libri a stampa, in quanto documenti prodotti in serie, sotto un profilo completamente diverso dai manoscritti. In quanto manufatto, ogni esemplare è un unico. Questo ci insegnano più di cento anni di studi di bibliografia analitica, che hanno abbondantemente dimostrato come le copie di un'edizione tipografica non siano quasi mai assolutamente identiche, dividendosi in: impressioni, emissioni e stati. •Impressione: è costituita dalle copie di un'edizione stampate in una volta. Ogni edizione ha necessariamente almeno un'impressione. Nel periodo della stampa manuale, come sappiamo, era regola ridistribuire e riusare i caratteri adoperati per la stampa delle copie di un foglio da una forma, perciò l'edizione e l'impressione in questo periodo generalmente coincidono. Possono come i libri a stampa esserci comunque delle eccezioni, nei casi di piccole edizioni popolari o di edizioni di successo (o per altre varie ragioni), per le quali i caratteri di un'impressione erano conservati nelle forme per essere ristampati successivamente. •Emissione: è rappresentata dalle copie di quella parte di un'edizione che è identificabile in un insieme pensato coscientemente come distinto dalla forma base della copia ideale. Quindi l'emissione è costituita dall'insieme dagli esemplari di un'edizione o di un'impressione offerti al pubblico in una volta per la vendita. In genere è caratterizzata da diversi frontespizi recanti differenti note tipografiche per due gruppi di copie divise per la vendita tra l'editore e/o il tipografo e/o il libraio. Può avvenire, poi, che uno o più errori sul frontespizio (riscontrati a stampa già ultimata) provochino la sostituzione di uno o più fogli con altrettanti recanti la versione rettificata: gli esemplari corretti saranno considerati un'emissione. Un'emissione dunque non comporta grandi cambiamenti nella composizione. Essa può essere perfino caratterizzata dal supporto (carta speciale, pergamena ecc.) sul quale un certo numero di copie dell'edizione fu stampato, o da una sorta di annullo sul frontespizio, simile a quelli usati per i francobolli. Un'edizione e un'impressione dunque possono risultare composte da più emissioni. •Stato: usato per indicare tutte le differenziazioni della forma base della copia ideale. Si riscontrano: a) alterazioni non riguardanti l'impaginazione, apportate intenzionalmente o no durante la stampa, quali le correzioni ultime, cioè effettuate durante il procedimento di stampa, a volte per intervento dello stesso autore. es. ricomposizioni di una o più linee a causa di incidenti interni al procedimento di stampa; ricomposizioni avvenute in seguito alla decisione, presa sempre durante la stampa, di aumentare la tiratura; b) aggiunta, sottrazione o sostituzione di materiale, riguardante l'impaginazione, ma effettuata durante la stampa; c) alterazioni, non riguardanti un nuovo frontespizio, messe in atto dopo la vendita di un certo numero di esemplari es. Inserzione l'eliminazione di pagine preliminari o del testo, l'aggiunta di errata- corrige avvertenze ecc.; d) errori di imposizione, cioè di impostazione delle pagine all'interno della forma. Tali varianti riguardano comunque soltanto i fogli stampati separatamente e non il modo in cui furono riuniti per formare il volume. Dunque, uno stato può essere definito «una forma tipografica con una determinata composizione tipografica, e anche, più normalmente, come tutti i fogli stampati da una forma tipografica in uno stato determinato». Dalle differenti combinazioni di due o più stati possono risultare una serie di gruppi di esemplari differenti fra loro. Cosa consegue a ciò... Edizione: è l'insieme delle copie che derivano sostanzialmente dalla medesima composizione tipografica e che comprendono tutte le varie impressioni, emissioni, e stati. Teoricamente, tutte le copie di un'edizione dovrebbero essere identiche. In realtà, vediamo che spesso non lo sono. Per questo si è detto che derivano “sostanzialmente” dalla medesima composizione tipografica e si è messo in risalto l'avverbio, è difficile stabilire una regola, si può comunque affermare che siamo sicuramente in presenza di una nuova edizione quando la metà almeno dei caratteri delle forme è stata ricomposta, anche se questa è una condizione sufficiente, ma non strettamente necessaria. In ogni caso, se meno del 50% dei caratteri è stato ricomposto, è probabile che ci troviamo di fronte a un'altra emissione, o a diversi stati delle forme della stessa edizione. Per tutto il periodo della stampa manuale, edizioni che appaiono pressoché identiche risultano quasi sempre distinguibili a un'attenta osservazione. Infatti, anche nelcaso in cui il compositore abbia seguito l'ortografia e le abbreviazioni di un'edizione precedente, riproducendola parola per parola e linea per linea, la sua ricomposizione risulta sempre identificabile mediante un'attenta analisi delle differenti spaziature tra le parole e degli accidenti fortuiti occorsi ai caratteri. In pratica due edizioni molto simili possono essere riconosciute come separate nel confronto tra due copie, anche facendo ricorso a delle riproduzioni. Qualora non fosse possibile disporre di riproduzioni, la prova di un'eventuale ricomposizione si avrà confrontando le posizioni dei titoli correnti rispetto alla prima riga del testo o quelle delle lettere usate per segnare i fascicoli rispetto a quelle della riga immediatamente superiore, e cioè l'ultima riga della pagina. In sostanza quella che in inglese si chiama skeleton form e che in italiano è definita gabbia della forma o ossatura. Il concetto di copia ideale: uno studioso americano, Thomas Tanselle, ha sostituito “ideale” con standard, Fahy sull’esemplare standard scrive: «l’esemplare standard o ideale, che è l’oggetto di una descrizione bibliografica, è una ricostruzione storica della forma o delle forme degli esemplari di un’impressione o emissione come venivano offerte al pubblico dai loro produttori. Una tale ricostruzione abbraccia tutti gli stati di un’impressione o di un’emissione, tanto quelli ottenuti di proposito quanto quelli dovuti al caso; ma esclude quelle modifiche introdotte dai singoli esemplari una volta che sono usciti dalle mani del tipografo o dell’editore». Esclude dunque la legatura (almeno fino a fine 700, da qui i libri vengono distribuiti ai librai a fascicoli sciolti). Possiamo pertanto definire la copia ideale come il più perfetto stato di una pubblicazione come fu intesa originariamente da chi la stampò o pubblicò, comprese tutte le modifiche intenzionali avvenute durante la lavorazione. È logico che, nel caso in cui siano sopravvissute solo poche copie, quella ideale possa unicamente essere ipotizzata anziché ricostruita. V. GLI UOMINI I fattori della nascita del libro prodotto manualmente sono individuabili in: lavoro intellettuale, manuale e nel capitale. Questi fattori sono permanentemente in rapporto e in contraddizione tra loro e contemporaneamente con un quarto polo: quello costituito dai consumatori-lettori, il pubblico. Lo schema di Robert Escarpit (1972) che delinea le fasi di questo processo: ≥ il lavoro intellettuale viene fornito da uno scrittore-realizzatore (autore) sotto forma di testo scritto da lui o da lui rivisto, tradotto, curato, commentato ecc.; ≥ entra in scena un imprenditore-produttore che noi chiamiamo editore, il quale acquisisce il testo mediante il possesso del capitale, lo scambia cioè o con una somma di denaro o con altri valori commerciabili; ≥ è la volta del lavoro manuale, fornito dagli operai della tipografia, che possono dipendere sia da un altro industriale-artigiano (lo stampatore), sia dallo stesso editore, nel caso che quest'ultimo sia anche proprietario di un'azienda tipografica. Il lavoro manuale rende possibile la riproduzione del testo in un certo numero di oggetti vendibili, aventi cioè un valore commerciale: i libri. ≥ Successivamente l'editore, direttamente o tramite la distribuzione di un libraio, fornisce questi oggetti ai consumatori che li acquistano in cambio di una somma di denaro. Tale denaro ritorna al capitalista-editore, al netto naturalmente di una serie di spese che possono variare. La somma incassata deve consentire all'editore di rientrare dei suoi due investimenti di base (autore e tipografo) e di realizzare un profitto. Questo schema: non è naturalmente applicabile in tutte le situazioni, in tutte le epoche e in ogni luogo; è il risultato di un processo di gestazione, ossia arriva gradualmente allo stadio descritto; prevede una serie di eccezioni. 5.1 L’autore L’ autore è il primo anello della catena, ed è anche l’elemento più anomalo perché non può essere assimilato a un qualsiasi produttore di materie prime poiché fornisce un prodotto già elaborato. Pertanto può essere considerato il fornitore di un prodotto, piuttosto che di una materia prima. Ma allora qual è la materia prima del suo prodotto? Chi la fornisce? Dov’è? Questo è una perplessità ancora tutt’oggi aperta, la soluzione attuale porterebbe a dire che il prodotto nascerebbe artigiano in quanto opera, diventerebbe industriale nella fase della pubblicazione, per ritornare poi artigiano al momento della fruizione (Francesco Barberi). Rimane comunque aperto il problema della materia prima che è in fondo costituita dalla memoria collettiva, accumulata in buona parte nei libri, senza la quale nessun testo potrebbe forse essere scritto. La trasformazione della produzione libraria in una vera e propria industria ha da una parte fornito all’autore un’organizzazione del lavoro alternativa a quella della corte e della chiesa (risparmiandogli l’obbligo di essere cortigiano o chierico) ma lo ha sottoposto alle leggi del mercato e del capitale con tutti gli svantaggi (sottrazione plusvalore …) e i vantaggi (laicizzazione) che questo comporta. È un dato di fatto però che questa “trasformazione” dell’autore da chierico e cortigiani, in lavoratore (seconda metà 400, età apparizione stampa, tendenza degli intellettuali a divenire cortigiani / Rinascimento pochi si guadagnano da vivere con lavoro intellettuale e se non vi è più corte vi è però editore e pubblico di lettori al posto di questi), è un processo lungo che oggi forse non si è ancora concluso, oggi, solo un’infima minoranza di autori di libri, trae dalla propria attività un reddito pari o superiore a quello di un operaio qualificato. Questa situazione dello scrittore è probabilmente determinata dal fatto che l’editore dipende solo parzialmente dalla materia prima (se all’autore deve vendere per vivere, l’editore può sempre realizzare prodotti diversi es. Ripubblicando opere classiche, già lo fece Aldo Manuzio delle 124 edizioni solo 25 erano di autori viventi). Sul rapporto tra autore e editore indagò Lowry per il quale: l’invenzione della stampa provocò due fenomeni solo apparentemente contradditori: • Da una parte dare un’opera alle stampe significava perderne il controllo e questa decisione spaventava gli scrittori (perdita di controllo sull’opera) • Dall’altra la diffusione simultanea di più copie recava la premessa di fama letteraria alla quale pochi riuscivano a resistere (aumento dell’area di diffusione dell’opera stessa). Queste due trasformazioni male si legavano con il lavoro intellettuale, il frutto della fatica dello scrittore è considerato una proprietà da sfruttare e non il prodotto di un lavoro. Dal punto di vista giuridico solo con il Copyright Act del 1709 (In gran Bretagna) si fissarono i diritti di proprietà dell’autore sulla sua opera, della quale egli può disporre a piacimento sul mercato. Successivamente la legge arrivò anche in altri paesi (It 1840). A livello internazionale il diritto d’autore è sancito solo nel 1886 a Berna. 5.3 L’editore / libraio Vengono riprese due definizioni significative di editore: -Amedeo Quondam: «la funzione editore si determina nell’enunciazione di un’assenza: assenza di discorso, di scrittura, solo messa in questione dall’emergere del nome proprio nel frontespizio o nel colophon (…) L’editore parla soprattutto – e sempre – nel corpo fisico del suo libro: nel formato, nei caratteri, nell’impaginazione, nei corredi illustrativi (…) L’editore parla attraverso l’insieme dei corpi fisici dei propri libri». -Angelo Fortunato Formiggini, editore modenese del primo 900, dialogo con una signora (lei è editore scrive libri? No quelli autori; stampa? No quello tipografi; li vende? No librai; allora cosa fa?). La dimensione editoriale è quella che afferma con forza, portandola alle estreme conseguenze, il carattere del libro in quanto merce, valore di scambio. Per il libro antico le cose si complicano perché per i primi due secoli della stampa le funzioni di editore, tipografo e libraio spesso si sovrappongono. Abbiamo poi personaggi che solo occasionalmente finanziano imprese editoriali, es. vescovi che promuovono la stampa di opere liturgiche. Però già dai primi secoli della stampa e dal primo documento di società tipografica-editoriale, quella di Gutenberg, Fust e Shoeffer, a Magonza, assistiamo alla prevaricazione, prevalenza del capitale, nella figura di Shoeffer che, come sappiamo, avvalendosi del prestito in fiorini d’oro fatto a Gutenberg gli sottrae la maggioranza delle attrezzature che darà poi al genero. Questa prevalenza del Ovviamente ci sono anche delle eccezioni, es. grandi umanisti come Salutati e Niccoli avevano messo insieme importanti biblioteche alla fine del 400, con molti classici copiati in scrittura carolina o gotica antica e avevano introdotto un nuovo modello di libro, imitandone la scrittura, la produzione e il layout. L’imitazione di manoscritti altomedievali fu veicolo che fornì dei modelli per nuove forme o nuovi usi delle vecchie forme. Es. Frontespizi particolare di Vespasiano da Bisticci, l’idea può essergli stata suggerita da un manoscritto del primo XII secolo che egli restaurò per la Biblioteca di San Marco nel 1448, ma quello stile rettangolare non durò a lungo, infatti dall’inizio degli anni 60 lo sostituì con una struttura circolare più semplice. Es. Il più antico manoscritto (lo dice Barbieri) con nomi di autori e titoli nelle prime carte sarebbe l’Erbario di Dioscuride a Vienna 512 anno, realizzato a Bisanzio) che presenta un tondo con il titolo a fronte della pagina in cui vi è l’indice. Anche se cospicue sono comunque tutte eccezioni; come già detto nei manoscritti prevalgono incipit e intitolazione ed entrambe contengono il titolo. Ma siamo ancora per il momento nel campo di presentazione di un singolo oggetto, del codice. La duplice funzione del titolo riguarda solo l’opera da una parte e l’oggetto fisico dall’altra: manca ancora il terzo termine (l’edizione) che riunisce copie prodotte in serie. In Italia non esiste ancora una “titologia” come disciplina autonoma, mentre l’importanza dei titoli in ambito paratestuale è sottolineata da Genette (più di qualsiasi altro elemento del paratesto, la definizione stessa di titolo pone alcuni problemi ed esige uno sforzo d’analisi, spesso la titolazione è un insieme complesso). Definizione di Incipit in un glossario: parole iniziali di un testo, senza tenere conto dei principii e dell’intitolazione (principii: l’insieme di pagine di un libro che precedono il testo vero e proprio e degli scritti che esse contengono; intitolazione o titolatura: formula che contiene il nome dell’autore, il titolo o qualsiasi altra designazione dell’opera, collocata all’inizio del testo, introdotta generalmente dalla parola “incipit” o alla fine di esso). Frontespizio o pagina del titolo? le due forme di presentazione dell’incipit e del titolo autonomo (che raramente però si presenta su una pagina autonoma) furono assunte anche dai primi libri tipografici. Con la dovuta precisazione che molti incunaboli usarono intitolazioni sia stampate sia manoscritte che dovevano venire apposte su ciascun esemplare o su quelli che venivano effettivamente venduti a chi poteva pagare un sovrapprezzo per queste rifiniture. Nei primi decenni della stampa numerosi elementi accessori venivano aggiunti a mano e quindi copia per copia, ma non tutti gli “esemplari” erano rifiniti in questo modo es. famoso incunabolo rifinito con titolo aggiunto è la Bibbia di Gutenberg. Bisogna considerare il frontespizio, cioè quello che è in definitiva il punto d’approdo della vicenda, una cornice del titolo o piuttosto un’etichetta del nuovo prodotto-libro, reso possibile grazie al mezzo tipografico? Domanda lecita perché di fatto stiamo analizzando un percorso che produce contemporaneamente due nuovi effetti: 1) Da una parte un nuovo contenitore autonomo per il titolo e l’autore, cioè per quelle caratteristiche del libro in quanto prodotto intellettuale, quindi dell’opera. 2)Dall’altra una sorta di etichetta del prodotto che pubblicizza l’aspetto commerciale del libro- oggetto, quindi l’edizione, cioè la materializzazione tipografica del testo. Come vedremo questa constatazione porta con sé però un problema terminologico. Comunque a cambiare le regole del gioco è l’irrompere dell’edizione tipografica, in pochi decenni non basterà più presentare gli elementi dell’opera (autore e titolo) ma occorrerà sottolineare anche quelli di finanziatori, produttori e distributori, ci sarà l’esigenza di esaltare le virtù del libro che si presenta: va magnificato il contenuto, cantare le lodi della cura filologica o della traduzione, sottolineando la novità e l’aggiornamento talvolta anche in modo non corretto (edizione rinfrescate). In definitiva bisogna: promuovere una merce e le aziende che agiscono sul mercato. Ed è da qui che nasce il problema terminologico: per l’autore bisogna chiamare frontespizio quello nel quale gli elementi dell’informazione ci siano in qualche modo tutti: titolo, autore, responsabilità editoriale, quindi quando entrambe le funzioni (contenitore titolo / autore ed etichetta del prodotto) siano assolte. Forse non è un caso che, tranne che in italiano, la pagina del titolo sia detta così in quasi tutte le lingue dei principali paesi dove fu introdotta la stampa nel 400 (“titlebaltt” ted, “page du titre” fra, “title-page” ing.) mentre in queste stesse lingue e persino in russo i vocaboli che hanno la stessa radice del nostro frontespizio servono a indicare in realtà quello che noi in italiano chiamiamo “antiporta”. Questa particolare etimologia dell’italiano è influenzata dal lessico degli storici dell’arte, infatti i nostri storici della miniatura chiamano frontespizi le prime carte dei codici manoscritti decorate con cornici, iniziali e stemmi a prescindere che contengano testo o no, ma i bibliografi non sono d’accordo. Sicuramente “frontespizio” deriva dal linguaggio dell’architettura, il termine è attestato già nel mondo degli artisti fiorentini del 300, ma anche in campo librario il suo uso è precoce. Per Maragert Smith è “title-page” qualunque forma di pagina autonoma che contenga un titolo, quindi anche quelli che bibliotecari e bibliografi italiani chiameranno “occhi, occhietti o occhielli”. Si possono distinguere pagina del titolo e frontespizio semplicemente per definire il frontespizio, tra le fonti di informazione di un libro a stampa, quella pagina autonoma che funge da presentazione bibliografica (editoriale) dell’espressione di una o più opere contenute in una manifestazione. La stessa Smith lamenta che repertori importanti si limitino a dare indicazioni generiche sulla natura delle pagine iniziali. Ma in realtà piuttosto che essere l’uno (occhietto o pagina del titolo) esclusivamente l’anticipazione dell’altro (frontespizio), si tratta di due forme diverse, che rispondono ad esigenze diverse: la pagina del titolo è una sorta di etichetta, mentre il frontespizio è la vera soglia del libro. Parlando di soglia, a tal proposito non bisogna dimenticare che gli uomini del medioevo davano molta importanza alla porta (es. le porte delle città sono il luogo privilegiato dei contatti e degli scambi, ma le porte più significative sono quelle delle chiese perché arrecano il simbolo di Cristo - LeGoff). Con la stampa il libro diventa un oggetto che ha una soglia e questa soglia è il frontespizio che verrà arricchito di elementi. Se è vero, come afferma LeGoff, che con la stampa il libro cessa di esser visto come prolungamento dell’oralità e diviene a pieno un oggetto, tale oggetto avrà una soglia, il frontespizio, che finirà per essere sempre più arricchito di elementi. Questa è un’immagine affascinante che però non esaurisce il fenomeno, vi sono infatti modalità orali sopravvissero a lungo nei libri (es. formule dell’incipit come “Hic habes, degnissime lector, librum”, che indicava come fossero libri destinati alle letture in piazza che nel 500 e 600 iniziavano ancora rivolgendosi all’uditorio). Tuttavia la pagina del titolo, come si manifestò raramente nei manoscritti e, qualche anno dopo l’avvento della stampa, negli incunaboli, non è ancora un vero frontespizio e forse non lo sarebbe mai diventata se non fossero intervenute ragioni collegate alla distribuzione dei libri, come aveva intuito Hellinga. In sostanza: nel XV secolo iniziò a emergere un nuovo modo di produrre dei libri, l’ars scribendi artificialiter, in un testo scritto il titolo non aveva ancora quella che potremmo chiamare “dimensione standard”, che venne poi assumendo poi con l’invenzione della stampa (basti pensare che per lo stesso testo poteva essere usati titoli diversi e che persino il concetto di paternità intellettuale si definì con l’umanesimo). Per quanto riguarda il termine frontespizio, e i suoi equivalenti in lingue straniere, sono chiaramente presi, come detto, dall’architettura. In particolare si riferiscono al periodo in cui per decorare le pagine che accompagnano quella del titolo, venivano usate le incisioni in rame. Infatti per l’Oxford English Dictionary “frontespiece” è: «illustrazione posta di fronte al frontespizio di un libro o di una parte di libro»; chiaro dunque che in italiano nel linguaggio bibliografico, il termine corretto è “antiporta”. Come abbiamo visto, il succo della tesi di Margaret Smith è quella di vedere il frontespizio come esigenza nata in seguito all’affermazione di una “produzione di massa” dei libri a stampa (questa espressione non la usiamo per i primi devenni del 400 dove anche se vi è una notevole mole di libri questi non superano il centinaio di copie, si stimano 180 copie per la Bibbia di Gutenberg). Questo più che una produzione di massa diede origine a un fenomeno nuovo: un vero mercato del libro. Innanzitutto bisogna tenere presente il differente suolo della legatura nel manoscritto e nel libro a stampa. Il manoscritto è un unicum e quindi il rapporto tra edizione e legatura è un rapporto paritario (1:1); nel libro a stampa, dal momento che la legatura di regola non è editoriale, il rapporto è squilibrato (1: n) ossia un'edizione può avere tante legature diverse quanti sono gli esemplari. Il particolare meccanismo della produzione/distribuzione del libro a stampa impedì per molto tempo che ci fossero legature editoriali di serie. Quindi impedì che una presentazione editoriale del libro avesse la coperta come luogo privilegiato nell'ambito della distribuzione. Naturalmente, all'epoca del manoscritto non solo non si ignorò, ma anzi si praticò frequentemente l'uso di inserire in qualche modo i titoli nelle legature es. mediante striscioline di carta giustapposte al piatto anteriore o posteriore, con autore e titolo dell'opera. Tali abitudini riguardavano, però, i possessori e non i produttori e quindi non potevano essere facilmente proseguite dalla stampa. La quale aveva però da sfruttare le possibilità offerte da una produzione in serie. Di qui i cosiddetti wrappers, cioè qualche caso episodico di “copertina" negli incunaboli. Se ne annoverano sostanzialmente due tipi: 1) Le più antiche che ritroviamo nel periodo 1480-90 ad Augusta e sono copertine con xilografie disegnate appositamente per i libri, presenti sia in più copie della stessa edizione, sia in più edizioni dello stesso tipografo. 2)Leggermente posteriori sono quelle ferraresi: xilografie che non avevano un preciso legame con il contenuto del libro ma venivano prodotte probabilmente su commissione del libraio o del legatore, che le usava come mezzo decorativo (ma economico), per proteggere il testo. La più antica italiana è datata 1490. Si ritrovano poi a Venezia e a Bologna circa un quindicennio più tardi; oggi gli esemplari sopravvissuti sono rarissimi. Può rientrare in questo genere anche l’end-title, che dovremmo tradurre con l’espressione titolo finale ancora una volta abbiamo un problema terminologico. È indiscutibile che l'area della lingua inglese esercita almeno fino al 600 un ruolo del tutto secondario nella diffusione della tecnica tipografica. Nonostante ciò, anche se questi fenomeni appaiono ben prima in Italia, capita oggi che agli studiosi di altre aree linguistiche di dover tradurre dall'inglese queste espressioni, con difficoltà (in particolare, come già detto, in Italia, manca un lavoro sulla terminologia del libro a stampa mentre c’è sul manoscritto). Perché? La spiegazione ha due parti, una relativa alla pratica del manoscritto, l'altra relativa ai cambiamenti che occorsero con I 'invenzione della stampa. Margaret Smith, sulla scia anche di studi precedenti, individua diversi possibili ruoli del frontespizio: - ruolo di protezione fisica del libro; - ruolo di identificazione del suo contenuto; - ruolo di promozione del libro in quanto merce. Secondo la studiosa statunitense: il primo passo verso il frontespizio poté essere rappresentato da una pagina bianca con funzione di protezione, occorrente nella fase tra la stampa e la legatura (dobbiamo ricordare che il commercio all'ingrosso dei libri stampati avveniva per ragioni economiche con i libri non ancora rilegati, sembra infatti che l’indicazione ”con-coperta” indicasse il libro ”usato”) Un’etichetta può essere poi inserita, prima manoscritta poi a stampa, con funzione di identificazione, necessità interna ancora una volta al circuito commerciale. poi abbiamo l’aggiunta di altre informazioni e inserimento di decorazioni, tra cui marchio di produttori e distributori, determinato da un’esigenza di pubblicità e promozione. Ma è credibile una funzione di protezione della pagina bianca o un intero foglio bianco a inizio volume? Specialmente visto che le copie non erano legate dal tipografo che senso ha quella pagina bianca che rimaneva a volte anche interi mesi sopra quei ”fascicoli”, che tipo di protezione può avere? Diviene importante capire, a tal proposito come i libri venivano assemblati, se le pagine erano già tagliate può avere senso se no no, per questo è una tesi un po’ instabile, lei risponde a ciò supponendo che dopo l’asciugatura avvenisse la piegatura dei fogli e dunque un foglio bianco che ”avvolge” gli altri poteva avere sì un ruolo di protezione, ma è una tesi non sufficiente. L’esigenza non è solo quella di proteggere i libri ma anche quella di identificarli all’interno dell’officina, durante il trasporto, nelle botteghe del libraio prima e dopo la legatura; era necessario definitiva solo per il tipografo, in quanto gli consentiva di identificare immediatamente una forma e un foglio. In ogni caso lo stesso discorso relativo al ruolo di protezione potrebbe essere assegnato all'ultima carta, ovvero al verso dell'ultima carta. Chi ci dice infatti che i libri non fossero assemblati talvolta, per così dire, a rovescio, cioè con il dorso a destra? Potrebbe essere questa la spiegazione non solo degli end-titles, i titoli finali. Questo modo insolito di collocare una sorta di occhietto al termine del libro è in verità piuttosto raro. Non va naturalmente confuso con il colophon, che ha forma e funzioni diverse, il colophon viene collocato in genere alla fine del testo, mentre il titolo finale si trova in una pagina separata e può essere accompagnato da un'immagine o da una cornice. Irrompe l’immagine Una svolta per la nascita del moderno frontespizio avvenne dall’incontro tra l’occhietto e la xilografia, anche se esaminando le caratteristiche degli occhietti questi sono più frequenti privi di xilografia. Gli occhietti con incisione in legno (o in metallo) sono infatti solo 1/5 del totale, la maggioranza stampati post 1490. Uso frequente lo si riscontra nei paesi Bassi. Dagli anni 90 diventa comune in Germania, Italia, Francia e Spagna. I libri con occhietto e xilografia sono più consueti nelle lingue volgari che in latino e molti sono testi scolastici, libretti di piccoli formati comuni a Firenze, Colonia e Deventer dove troviamo centri specializzati in questo tipo di editoria. Sono invece rari nei grandi in-folio legali stampati a Venezia negli anni 90. Dunque libri prevalentemente destinati a quella che si suole definire una “larga circolazione”. È probabile che si determinassero differenze notevoli tra i vari “segmenti” del mercato librario, infatti all’epoca degli incunaboli, tra libri universitari e libri di lettura, le forme di presentazione variavano in modo considerevole. Si crea una sorta di dialettica tra i titoli, il loro contenitore (incipit, colophon, occhietti, frontespizi) e le loro rappresentazioni negli inventari e nei cataloghi prima e poi nelle bibliografie: - Il colto risulta più conservatore perché il suo destinatario è più identificabile; -negli incunaboli scientifici sembrerebbe che gli occhietti compaiono più tardi, più graditi “titoli- sommario” che elencano in dettaglio il contento del volume; - libro popolare si riscontra una tendenza conservatrice, forse perché destinato a un pubblico alfabetizzato solo in modo superficiale, forse per il rapporto residuale con l’oralità; - libro di lettura e libro pratico, rivolti a un ceto e pubblico medio, vi è una maggiore tendenza all’innovazione, infatti una delle prime anticipazioni del frontespizio, quella del Calendarium di Regiomontanus, un libro di astronomia di carattere pratico che reca un importante apparato xilografico. L’idea che il frontespizio nasca come un semplice contenitore del titolo sembrerebbe smentita dall’edizione del Calendarium perché vi troviamo una pagina che è molto di più che un contenitore, ma un vero e proprio advertise: il testo è un componimento poetico che, nella versione italiana, è un sonetto caudato di endecasillabi non tutti perfetti (18 versi) e seguono poi i tre nomi: Bernardus pictor de Augustea Petrus loslein de Langencen Erharus ratdolt de Augusta Il tutto chiuso in una cornice xilografica composta da tre elementi con vasi e motivi floreali, mentre alla base ci sono due fregi xilografici. Il lato superiore della cornice presenta uno spazio bianco, contenente uno scudo, per l’inserimento di uno stemma del futuro acquirente o del committente dell’edizione, in qualche esemplare cornice e fregi furono colorati a mano. I primi tipografi usarono spesso componimenti in versi nei colophon, realizzati da umanisti che fungevano da consulenti per la scelta e la cura dei testi, ma un significato ha usarla alla fine del libro, un’altra nella prima pagina. Come vediamo è bel altro che un contenitore di un titolo, è invece un vero manifesto pubblicitario in versi che annuncia una nuova epoca nella storia del libro. Qui non solo libro aprendosi si rivolge al lettore, forma già presente dell’incipit, ma a farlo sono direttamente i sottoscritti di una società tipografico-editoriale, i quali, per la prima volta, escono subito allo scoperto, instaurando un dialogo con i lettori. Ricordiamo che Ratdolt aveva un rapporto speciale con la xilografia ma che questi sono anche anni particolarmente importanti per gli studi che artisti e scienziati realizzarono sulla scrittura, sulle lettere facendo sentire la sua influenza sulla mise en page e sul rapporto tra la pagina tipografica e l’illustrazione, quindi in primis la xilografia. Pacioli e Giocondo, maggiori teorici della littera antiqua, erano legati al mondo degli stampatori, Giocondo collaborò con Manuzio il Vecchio. E’ ovvio che i tipografi fossero influenzati dalle regole sulla proporzione delle lettere: il canone dettato da Leon Battista Alberti prevedeva un rapporto di 1 a 12 tra la larghezza e la larghezza delle aste ascendenti dei caratteri, ma era stato ridotto da Feliciano a 1 a 10, ma Pacioli lo abbassò ancora a 1 a 9, questa sorta di querelle virtuale ebbe le sue ripercussioni nel mondo della stampa determinando l’evoluzione del carattere romano nel corso del 400 e modificò i canoni relativi alle proporzioni della pagina stampata nell’equilibrio tra bianchi e neri e anche il layout di occhietti e frontespizi e le dimensioni dei caratteri utilizzati nella pagina di presentazione dei libri. e fu condizionato anche il rapporto tra testo stampato e illustrazioni. L’incunabolo non fu solo un’imitazione del manoscritto, il libro a stampa imitò il manoscritto non più di quanto la macchina abbia fatto con la carrozza o la fotografia il quadro. Inoltre dopo l’invenzione della stampa hanno grande importanza le tirature. Bisogna considerare anche le variazioni delle percentuali tra questi vari segmenti del mercato > tra le pubblicazioni scolastiche spiccano in alcune aree geografiche gli accipies (testi per l’apprendimento medio-superiore, in cui il magister offre la sua opera allo studente) che recano in prima pagina un’incisione xilografica che presenta il magister in cattedra che si rivolge agli scolari mediante un cartiglio contenente il titolo preceduto qualche volta dalla parola “accipies” (una sorta di fumetto inciso nel legno). Quindi i tipografi iniziarono a riempire gli spazi vuoti, infatti la parte di peritesto che occupa la pagina iniziale di un libro divenne un luogo per la comunicazione e persino uno spazio conteso tra chi le figure che concorrevano a formare il circuito del libro a stampa, infatti con il tempo ognuna arrivò ad avere un proprio spazio nella pagina di apertura. -Questa comunicazione può essere talvolta interna al circuito della produzione/distribuzione (es. Occhietto); - Può essere una comunicazione intellettuale tra autore e pubblico (es. Sempre occhietto); - O ancora può essere di tipo commerciale per promuovere della merce (incontro occhietto e xilografia). Inoltre va segnalato che nel 500 c’è la comparsa dei ritratti avrà una funzione importantissima per la promozione dell’autore (es. Caso di Pietro Aretino che si autopromuove tra i poeti laureati in alcune cornici xilografiche di primo 500). Con l’accostamento tra scrittura e immagine si promuove non solo l’opera, dunque il messaggio intellettuale, ma anche l’oggetto, dunque la merce e i suoi produttori, accendendo la fantasia del destinatario. Tanto più che le immagini messe ad inizio libro iniziano a comparire anche nei marchi dei produttori (editori, tipografi, librai) che scivolano dal colophon verso la prima pagina. Alla fine del circuito ci saranno anche i lettori (proprietari dell’oggetto) ad occupare quegli spazi, si sono infatti trovate tracce di segni posteriori alla produzione quali ex libris, note di possesso, segnature di collocazione in biblioteca, timbri, censure. Dunque è come se ad un certo punto tutti gli attori del processo si accorsero del nuovo ruolo che la pagina iniziale poteva giocare e si adoperarono per sfruttarla con le immagini: Prima si usarono le vignette già presenti all’interno, e poi inserendone altre, commissionate per il frontespizio o comunque l’occhietto (es. accipies) una volta stabilizzata la presenza del marchio questa viene anche sancita dalla dichiarazione stampata in caratteri tipografici del luogo di edizione/stampa/distribuzione, del nome dell’editore/ tipografo/libraio e della data. Ma la contesa dello spazio va oltre, spesso si arriva alla compresenza sul frontespizio della marca dell’editore e della sottoscrizione del tipografo (che ritorna se no nel colophon). Protezione, informazione, promozione, ornamento sono tuti elementi che concorrono nel tempo a plasmare quella che abbiamo chiamato la soglia del libro e che determinarono a suo tempo le forme che precedettero la nascita del frontespizio e influirono sulla sua standardizzazione, ma un’importante svolta fu rappresentata anche dall’introduzione dei privilegi. Nel momento in cui il libro diviene anche oggetto di diritto, il titolo acquisisce un valore nuovo perché sta a indicare un testo determinato, protetto da regole e che si può riprodurre a certe condizioni. Il titolo sarà standardizzato e la pagina deputata a contenerlo diventerà una sorta di carta d’identità del libro, accogliendo nel tempo tutti i dati anagrafi con luogo, anno e paternità editoriale. Anche se i primi tipografi (come afferma Sarton) non volevano creare una standardizzazione, ma si preoccupavano di realizzare una diffusione, in realtà la somma delle varie scelte, degli attori, questa strada tortuosa, ha portato di fatto ad una standardizzazione. La strada per la standardizzazione fu lunga e tortuosa, richiese uno spazio, un luogo che venne sempre conteso o condiviso dagli attori del libro. Quindi l’apertura dei libri fu di volta in volta rappresentata da incipit e intitolazioni, come nella maggior parte dei manoscritti, spesso ornati da cornici xilografiche, attraverso queste pagine parlarono gli autori, ma soprattutto gli editori e tipografi e anche artisti come gli incisori, quindi questo spazio non si delineò sempre pacificamente né con andamenti lineari, ma fu anzi oggetto di singolari anticipazioni, come quelle di Ratdolt, di persistenze conservative ai limiti dell’old-fashion, come quelle di certi testi giuridici o delle stampe popolari, ma anche di ripensamenti o svolte brusche e decisive. Anche in questo campo il libro a stampa non imitò il manoscritto. Sembrerebbe che si debba concludere che pagine bianche, occhietti, copertine, titoli finali… non abbiano seguito lo stesso andamento delle legature nel diversificarsi per generi letterari. Ovviamente le aziende non sono tutte uguali e non hanno lo stesso peso e prestigio, è chiaro che le soluzioni proposte da Manuzio dovettero avere maggiori possibilità di essere imitate, per il solo fatto di essere state adottate da lui, i cosiddetti occhi di Manuzio non furono davvero una sua invenzione, ma il fatto che a partire dal 1496 li utilizzasse in modo massiccio contribuì alla loro definitiva affermazione. Ci sono fondamentalmente due filoni che si confrontano nel contendersi la soglia dei primi libri stampati: - Filone estetico : che si preoccupa di creare una entrée il più possibile elegante, per i clienti e i committenti esigenti, non si cura dell’advertise o dell’informazione, ma tende a realizzare una decorazione che, all’inizio è manuale e dunque non prevista per tutte le copie - Secondo filone: Mira a privilegiare la notitia rei literariae e poi la notitia librorum e si configurerà, alla fine del percorso, come bibliografica e commerciale. Epigrafe e manifesto sono invece due differenti forme di comunicazione pubblica legati storicamente da sottili fili che passano anche per i libri e frontespizi. È indubbio, nel passaggio da manoscritti a stampa, il ruolo di alcuni personaggi, come Feliciano, come arbitri e suggeritori del gusto grafico (Feliciano aveva aiutato Marcanova a raccogliere una silloge di disegni e iscrizioni copiati dagli originali antichi). Che questo mondo avesse influenzato quello della tipografia è provato dal ruolo che alcuni copisti avevano giocato per la nascita del carattere romano di Jenson. (pag. 151-52 incomprensibile). 6.2 Il colophon 1. Cos’è il Colophon? Formula con la quale si conclude un libro, sia manoscritto che a stampa. Nel rapporto con l’explicit, può accompagnarlo, sostituirlo o essere sostituito (explicit= chiusura di un testo o di una sua parte: tomo, sezione, capitolo …; a differenza di questo il colophon è la conclusione del libro in quanto oggetto o edizione. Da regola vi è indicato: titolo e nome autore / informazioni su copista o tipografo / luogo e tempo della stampa o della copia / eventuali notizie sul patrono, editore, libraio, miniatore … 2. Il rapporto con il frontespizio? Convivono ancora ora. economiche, talvolta recanti impressioni in oro, furono in realtà realizzate in Germania e secondo Barber devono l’appellativo alla confusione terminologica tra gli aggettivi “Dutch” e “Deutsch”. La (ri)nascita della coperta stampata sui libri si deve alla Francia e all’Italia, ma presto si diffonde anche in Inghilterra e Olanda. Viene però preceduta da legature leggere del tipo brochure anche se non è detto siano fornite dall’editore. Già nel 1750 il codice dei legatori francesi concedeva di coprire i pamphlet e i libri piccoli con carta o pergamena senza rinforzo. Contemporaneamente in Inghilterra i libri scolatici si emettevano con semplici legature coperte con tessuto rozzo, cose analoghe c’erano anche in Italia. Fino all’800 non è raro trovare note che informano sul costo del libro legato, anche in questo caso, come i periodici, è la natura del consumo veloce ed effimero a sancire la diffusione delle coperte editoriali. Soprattutto la letteratura pamphlettistica pare congeniale a un assemblaggio del libro rapido ed economico. Un consumo veloce presuppone anche una certa velocità nel trasporto dei materiali stampati, grazie anche alle trasformazioni delle vie di comunicazione che conobbe l’Europa nel 18 secolo, soprattutto con la diffusione dell’energia del vapore che cambiò anche la produzione della carta stampata. A un certo punto si manifesta la combinazione tra la legatura della casa e la stampa della sua intera decorazione. Le origini sono da ricercare nel XVIII secolo, Van Leeuwen fornisce in compenso 32 esempi olandesi datati fra il 1776-1800, la copertina più antica che cita è quella di una cronaca- almanacco, le copie esaminate presentano legature in carta con decorazione, in carta stampata da un blocco unico o in pelle, alcune sono decorate solo sul dorso. 6.5 L’illustrazione Compare quasi subito come COMPONENTE ESSENZIALE DEI LIBRI STAMPATI, in Italia da Meditationes, 1467, del cardinale Troquemada, stampato a Roma da Ulrich. Nel libro antico vi sono 3 tipi di illustrazioni: 1) Decorazioni a mano: deriva dalle miniature dei manoscritti, scompare presto; 2) Xilografia: (incisione su legno) per quasi un secolo su unica forma di illustrazione perché essendo in rilievo consentiva un’impressione simultanea si caratteri; 3) Calcografia: (incisione di rame), prende il sopravvento da metà 500cento, confinando la xilografia alle edizioni popolari, con la calcografia aveva maggiori possibilità di resa il chiaroscuro. L’incisione di lastre di rame avviene o per azione diretta, o per strumento acciaio chiamato bulino, o per mezzo di sostanze corrosive. Nel 700cento abbiamo invece la rinascita della xilografia e la comparsa della litografia (inventata da Aloys Senefelder, tecnica rivoluzionaria). -Litografia: basata sul principio del respingimento tra acqua e grassi, consentiva la riproduzione di un disegno tracciato con una matita grossa su una speciale pietra calcarea, che veniva poi posta in un particolare torchio e produceva una stampa per contatto (planografica), quindi non in rilievo come la xilografia, ma nemmeno a incavo come la calcografia. -Marche tipografiche / editoriali: elemento che compare inizialmente nelle sottoscrizioni ma che lentamente si trasferisce sui frontespizi, sino a divenire una componente essenziale. Marchi di fabbrica, consento spesso di attribuire a un’azienda edizioni prive di note tipografiche. Destinate a scomparire nelle forme tradizionali del 700cento, le marche tipografiche-editoriali possono consistere in uno stemma araldico, in una vignetta con motto o in un emblema contenete un monogramma: le iniziali del tipografo o dell’editore. Nell’editoria degli ultimi due secoli si può parlare di marchi o di loghi, che sono gli eredi. VII. LA DEDICA Dedica (elemento significativo del paratesto, indicata anche come epistola dedicatoria), questo istituto attraversa tutta l’epoca del libro e è stato recentemente oggetto di studi in Italia. A differenza degli altri elementi del paratesto è un microgenere letterario. Ma cos’è? È l'offerta (“scambio oro-alloro) di un'opera a un personaggio potente che gli darà lustro e onore, e dal quale in cambio ci si aspetta un riconoscimento. In cosa consite questo riconoscimento? -puramente venale (riconoscimento monetario, ricchezze …) -una forma di patronage, di protezione es. Dalle critiche di avversari -rapporto di dipendenza dal dedicatario per cui è si viene ripagati con un vero e proprio stipendio, la dedica è qui un obbligo scontato. La dedica non riguarda solo le opere letterarie, riguarda spesso anche quelle scientifiche (es. Dedica di Galileo a Ferdinando II de’ Medici in Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo – una delle più belle dell’ancien régime). In ogni caso la dedica è sempre un dono dal quale ci si attende un ringraziamento concreto. Lo studioso italiano che si è più occupato dello studio delle dediche è stato Marco Paoli che ha elaborato un decalogo del sistema delle dediche: 1. Chi firma la dedica deve possederne il diritto, titolarità dell’opera (in quanto autore, editore, traduttore …) 2. Il dedicatario deve essere un personaggio vivente; 3. La scelta di questo risponde a criteri di opportunità e convenienza e deve ssere motivata dalla dedica; 4. La scelta deve rispettare la gerarchia; 5, L’opera oggetto di dedica deve essere inedita 6. Deve essere richiesta preventivamente al patrono l’autorizzazione a dedicare 7. L’edizione deve essere presentata al patrono in uno o più esemplari prima della diffusione; 8. Il patrono ha l’obbligo di ricompensare il dedicante, una volta che sia stata accettata la dedica; 9. Il “gradimento” deve avvenire in modi e tempi adeguati; 10. L'eventuale ristampa curata dall’autore deve conservare, in caso di avvenuto gradimento, lo stesso dedicatario (non necessariamente la forma della dedica). L’istituto della dedica è molto più antico della stampa quindi Paoli sottolinea che peculiari del periodo della stampa sono i punti 1,5,7,10. Chiaramente da stampa a manoscritto vi sono fondamentali modifiche anche per la dedica: la dedica del manoscritto è letto dai due, la stampa da molti di più, la dedica coinvolge tutti i fruitori dell’edizione (anche il pubblico diventa indirettamente destinatario e testimone della dedica. Nascono quindi intricati rapporti dovuti a questa nuova presenza). Lo spazio fisico occupato dalla dedica: è collocata nella parte iniziale nel libro, in ogni caso prima dell'inizio del testo che spesso presenta. VIII. PRIVILEGI, CENSURA E COPYRIGHT 8.1 Privilegi Privilegio: concessione dell'esclusiva della stampa in un certo ambito, rientra nel sistema dei rapporti giuridici ruotanti intorno al libro post invenzione della stampa. Oltre a ciò è anche paratesto specialmente se viene pubblicato il testo o un suo estratto all’interno del libro stesso. Come appaiono? Subito con l’invenzione della stampa: -inizialmente come concessione di esclusiva assoluta dell'attività tipografica all'interno di una compagnia statale (es. Giovanni da Spira, a Venezia); -successivamente può riguardare la concessione di un'esclusiva di stampa di un determinato testo: vale sempre in un determinato regno e per un determinato periodo di tempo (cambia da rengo a regno es. A Venezia dove la Repubblica ha sempre favorito la cultura sono largamente concessi, altrove ad esempio vengono concessi poco e spesso da persone esterne al regno così che paghino la tassa prevista). A ottenere privilegi non sono solo editori e tipografi ma anche autori, come il caso di Ariosto per L’Orlando Furioso (stampato a Ferrara 1516, 15 ed. Abusive, lui si fa dare il privilegio da Leone X re di Francia). -Un altro tipo di privilegio era dato sotto forma di patente: concedeva i diritti esclusivi su un’invenzione (es. Aldo Manuzio 1945 per i caratteri gotici). Precisiamo inoltre che: IL PRIVILEGIO NON ERA UN DIRTITO, quantomeno fino al copyright, ma una gentile concessione di chi è al comando, lo scopo? Difendere un investimento, non un'idea. 8.2 Censura Viene portata avanti dalla Chiesa cattolica in particolare qualche decennio dopo la comparsa della stampa. La chiesa cattolica controlla la stampa inizialmente con le bolle papali: - Innonezo III Inter sollicitudines fine XV secolo (1487): la concessione a stampare è prevista per i testi che non esprimono tesi contrarie alla religione o alla morale; -1515 Leone X con Super Impressione librorum – regola dell’imprimatur, ogni pubblicazione deve subire un controllo preventivo; -1559, post tesi di Lutero e l'avvento della Riforma: la censura si fa più rigida: ◦ divieto per gli autori non cattolici, ◦ divieto per un elenco di titoli, stampatori e versioni della Bibbia ◦ categoria di opere proibite → è un fenomeno che colpisce con forza soprattutto nel 500-600, ma in realtà continua in maniera più o meno diretta fino al 900. 8.3 Verso il copyright Copyright: è un concetto che nasce solo a fine 700 e si diffonde molto lentamente in Europa Prima c'erano stati autori che avevano tentato di proteggere le proprie opere in quanto frutto del loro intelletto, ma con risultati scadenti. Il diritto d'autore non nasce dagli autori, ma dai librai... I librai londinesi si oppongono allo Statute del 1709 che limitava a 14 anni la durata del c. ed erano in contrasto con i librai di provincia che vivevano con le riedizioni delle opere di successo. Cosa fanno? Cercano di assimilare il c. alla Common Low Right della proprietà dell’autore, che aveva loro ceduto un diritto. Dunque vediamo come deriva dai librai e non dagli autori. Nonostante ciò dalla diatriba esce la concezione della proprietà intellettuale dell’autore, influenzato anche da Locke con le teorie dello stato di natura per cui ciò che l’uomo modifica con il suo lavoro diventa di sua proprietà, la proprietà non è quindi convenzione sociale ma un diritto naturale. Concretizzata dai librai londinesi la teoria produce la nozione per cui la loro è una proprietà fondata sul lavoro dell’autore che l’autore stesso può vendere al libraio (l’autore gli ha venduto il diritto di stampa e quindi il loro privilegio non dovrebbe avere una scadenza). La discussione continua anche in Francia (conflitto librai parigini e di provincia) dove la proprietà letteraria è ritenuta ingiusta: le idee appartengono a tutti (Condorect e Sieyés) e dunque non possono essere oggetto di appropriazione individuale inoltre la loro appropriazione limita il progresso, appunto perché devono essere un bene comune per tutti. Ne scaturisce un dibattito sulla natura della creazione letteraria (es. Diderot per cui l’opera è un bene negoziabile). 8.4 La legislazione degli stati moderni: -1709 Copyright Act Inghilterra: attribuisce la proprietà letteraria all'autore e non più all'editore. - 1791-1793: in Francia le leggi Chaperlier e Lakanal riconoscono il diritto intellettuale come uno dei diritti fondamentali dell’individuo, e introducono la distinzione tra contenuto e forma esteriore di presentazione. riconoscono il diritto intellettuale. In Italia, nonostante ordinanze più o meno regionali, il riconoscimento avviene solo dopo l'Unità. -ITALIA 1801 la Repubblica Cisalpina e poi tutti gli Stati italiani preunitari promulgano provvedimenti in materia -1826 re di Sardegna emana provvedimenti in materia di diritti esclusivi tra cui quello di stampa e vendita delle proprie opere per 15 anni, riservato agli autori di libri e disegni. -1840 Convenzione austro-piemontese cui aderiscono anche gli altri stati italiani, a eccezione del regno delle Due Sicilie, nell'Italia centro settentrionale viene messa al bando e rubricata fra i reati penalmente perseguibili la pirateria libraria. -1886 Convenzione di Berna: i paesi europei aderenti, tra cui l’Italia, e alcuni extraeuropei si costituiscono in Unione per la protezione delle opere letterarie e artistiche. IX. NON SOLO LIBRI
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved