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Il linguaggio dell'arte romana di Tonio Holscher, Sintesi del corso di Archeologia

Riassunto completo de "Il linguaggio dell'arte romana - Un sistema semantico" di Tonio Holscher

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Il linguaggio dell'arte romana di Tonio Holscher e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! 1 Il linguaggio dell’arte romana Tonio Hölscher Capitolo secondo L’esempio greco: modello di comportamento, oggetto della formazione o componente della civiltà imperiale? A parte rare eccezioni, le opere d’arte romana corrispondono talmente poco all’ide moderna di un’«arte» creativa, che la ricerca ha dovuto fare un enorme sforzo teoretico per comprenderle. Questo si è rivelato però, almeno da un lato, un vantaggio: mentre l’arte greca suscitava facilmente l’impressione di una immediata e universale familiarità, l’arte romana è sempre stata considerata come una posta a distanza superabile solo tramite un ponte intellettuale. Alla base di ciò stava l’istanza di originalità, che veniva posta assolutamente, ristretta cioè alla sola forma artistica, e isolata così dal suo contesto storico concreto. Collegata ad essa era una concezione assoluta dell’individualità, riferita non solo a singole persone, ma anche a interi popoli: l’originalità doveva garantire il carattere autonomo della «romanità». In tal senso «greco» e «romano» divennero una coppia di antitesi polare. Se prima quest’arte era stata considerata di rilevanza secondaria a causa dell’imitazione dello stile greco, ora era importante nonostante questo temporaneo straniamento. In entrambe le prospettive, del tutto antitetiche, si veniva a perdere dunque di vista un aspetto così rilevante dell’arte romana quali le sue radici greche. Ne conseguì che la ricerca si limitò in maniera unilaterale a quelle opere e a quelle classi di opere sentite come particolarmente «romane»: il ritratto (soprattutto quello repubblicano e tardoantico), il rilievo «storico» (specialmente di età flavia e traianea, ma anche quello di arte «popolare»), e alcuni settori dell’architettura. Senz’altro non è molto produttivo considerare l’arte romana semplicemente come un proseguimento dell’arte greca; ma d’altra parte il suo carattere specificatamente «romano» non può essere neppure individuato in una struttura formale di base autonoma, che costituisca 2 un’antitesi commensurabile all’arte greca: esso si può fondare solo su premesse funzionai e tematiche. La contrapposizione polare tra «greco» e «romano», dunque, nasconde fenomeni storici decisivi. La differenziazione e l’affinamento di tali categorie hanno pertanto aperto la strada alla comprensione scientifica di quelle opere d’arte i cui caratteri greci sono più marcati, e anche a una più generale discussione sul fenomeno del classicismo. La difficoltà di parlare del rapporto tra l’arte romana e i suoi modelli greci è resa manifestata dai differenti usi del concetto di classicismo. In senso ristretto esso sta a indicare la ripresa del modello delle epoche «classiche» dell’arte greca (V e IV secolo a. C.), con un certo risalto per i decenni della «piena classicità» di Fidia e Policleto. In senso più ampio, il concetto contrassegna la ricezione dell’arte greca nella sua totalità, dal tardo-arcaico alla fine dell’ellenismo. Arriviamo così alla domanda su quale fosse il compito svolto dalla tradizione greca all’interno della civiltà imperiale romana. Capitolo terzo I monumenti: problemi, categorie, tesi Il modello, che si propone dapprima per la ricezione dei prototipi greci da parte dell’arte romana sembra essere di una coerente semplicità: ogni periodo della storia romana avrebbe ripreso quella fase dell’arte greca che di volta in volta più si avvicinava ai propri ideali stilistici. Così, in età augustea, il tipo principale del ritratto di Augusto testimonia un ricorso all’ordinato linguaggio formale «classico» del V secolo a. C., in particolare a quello di Policleto; in età flavia, invece, il ritratto di Vespasiano si ricollega alle movimentate forme «barocche» dell’ellenismo. L’idea che sta alla base di questa concezione è quella di un’arte romana che si evolve oscillando tra fasi classicistiche e fasi barocche. «Classicismo» e «barocco» sono intesi in questo caso come «stili dell’epoca» e poli antitetici in senso wölffliniano (Heinrich Wolfflin, Capire l’opera d’arte). Essi troverebbero compimento nella selezione consapevole di stili propri di periodi specifici dell’arte greca; e l’identità di ciascuna epoca romana verrebbe a esprimersi appunto mediante tale selezione. 5 Capitolo quarto Le scene di battaglia e la tradizione del pathos ellenistico Le rappresentazioni romane di battaglie rientrano quasi per intero nel solco di una tradizione che deve aver trovato numerose realizzazioni nell’arte ellenistica. Le raffigurazioni di battaglie dell’età classica – che si trattasse di temi mitici o di soggetti contemporanei, nella grande pittura come sui vasi – risolvevano lo svolgersi degli eventi in monomachie [duelli, singole battaglie]. Ciascun personaggio era posto in relazione esclusivamente con il suo diretto avversario; i vari gruppi di combattenti non erano invece legati da nessun rapporto effettivo tra di loro. L’immediatezza dell’interagire umano che in tal modo viene a esprimersi ben caratterizza i concetti di individuo e di azione delle prime epoche della grecità. Nel dipinto, invece, abbiamo un intreccio di azioni di più personaggi posto all’interno di un ampio spazio continuo: Alessandro e i macedoni attaccarono da sinistra e si scontrano con il centro dell’armata persiana mentre un reparto di cavalieri con le lance in spalla aggira i nemici da tergo, volgendo a destra presso uno stendardo; intanto l’auriga del Gran Re spinge in fuga in avanti verso destra. In questo intreccio di nessi spaziali ciascun personaggio ha un suo posto e un suo ruolo. Uno degli aspetti più pronunciati del quadro, tuttavia, è proprio il gran numero di destini particolari che vi sono contenuti: n nobile persiano si interpone all’ultimo momento sulla via di Alessandro che avanza impetuoso; un altro con estrema fatica tiene pronto per la fuga del Re un cavallo imbizzarrito, il cavallo di un terzo va a scontrarsi con il carro regale che sta cambiando direzione; a sua volta questo travolge tre altri persiani caduti, dei quali uno è capitato sotto gli zoccoli dei cavalli mentre sugli altri due incombe l’enorme ruota chiodata. Nelle scene di battaglia classiche vincitori e vinti erano stati legati come non mai in un medesimo contesto di fato e di azione. L’isolamento delle sorti individuali del mosaico non contraddice certo alla coerenza complessiva della trama del singolo all’interno di una totalità superiore assurgesse a soggetto figurativo, perché si potesse rappresentarne anche l’isolamento. Il nuovo concetto di spazio è la premessa necessaria per questa distinzione dei destini individuali. Tutto lo spettro dei personaggi viene esposto con un pathos finora inconcepibile. La consapevolezza con cui è introdotto codesto motivo del 6 pathos si può vedere dai gesti afflitti dei persiani dietro il carro che, in quanto spettatori nel quadro, sembrano illustrare il turbamento che deve provare l’osservatore esterno. Il dipinto di Alessandro, con la sua rappresentazione di fato e di pathos, dell’insieme e dei singoli, di potenza e di distruzione, punta con straordinaria audacia verso il mondo nuovo, sia politicamente che socialmente e psicologicamente, dell’ellenismo. Ma ciò era possibile in modo così marcato solo nella pittura: gli altri generi poterono seguirla solo per singoli aspetti. Più significativo è il grande monumento per le vittorie di Attalo I di Pergamo, che rappresentava su un lungo basamento un gran numero di avversari vinti, galati e persiani. I vincitori non erano compresi nella rappresentazione: la loro presenza era sottintesa grazie all’impianto in ci il monumento si trovava, e cioè il recinto sacro di Atena Nikephoros («portatrice di vittoria»); essi erano inoltre impersonati nella figura di Attalo stesso, la cui statua equestre, pur erigendosi su un basamento separato, costituiva però senza dubbio il punto di riferimento tematico per le figure dei vinti. Ancora oltre si spinge il monumento a più figure dedicato da Attalo II sull’Acropoli di Atene. In esso erano rappresentate le tanto celebrate lotte di difesa, mitiche e storiche, dei greci contro le aggressioni dei barbari; senza dubbio, anche in questo caso comparivano solo gli avversari vinti: Giganti, Amazzoni, persiani, galati. Qui pure – sembra – i vincitori storici, Attalo II ed Eumene II, cui si riferivano sia i personaggi del mito che quelli della stria, erano presenti come immagini collocate separatamente; ma stavolta non si ponevano in relazione al tema della lotta nemmeno mediante il motivo della statua equestre, bensì erano raffigurati come colossi stanti e con gli attributi della divinizzazione – quindi da ogni punto di vista in posizione di superiorità rispetto al resto della scena. La concezione che sta alla base di queste immagini di battaglia ha una controparte letteraria nella storiografia drammatizzante (tragica) dell’ellenismo. Gli storici di questo indirizzo si proponevano di far rivivere la storia in prima persona ai lettori. Volevano porre gli eventi davanti agli occhi in maniera viva e credibile, destando pathos, e muovendo a spavento e ira, a terrore e compassione. Al centro erano gli uomini, mentre agivano e pativano, di solito isolati, consegnati in balìa della Tyche [dea del fato, nella sua concezione positiva]. Già dal IV secolo a. C. si possono cogliere tendenze in questa direzione, e vi sono tappe preliminari anche più antiche; 7 un sostanziale rafforzamento si è poi forse avuto grazie all’applicazione dei principi dell’estetica aristotelica della tragedia alla storiografia. Già per Aristotele il mezzo principale per suscitare pathos erano «fatti mortali o luttuosi, come uccisioni a scena aperta, sofferenze intense, ferimenti, e cose del genere». Duride e Filarco descrissero a forti tinte tali scene e in particolare il primo dovette raccontarle in ogni loro dettaglio (κατά μέρος); a un effetto del tutto analogo tende la rassegna di terribili estini di morte nel Mosaico di Alessandro. Ma a destare terrore e compassione (φόβος ed έλεος), al di là di una passione generica, Aristotele consiglia particolarmente la morte violenta ad opera di familiari e amici. Anche questo tratto fu ripreso dalla storiografia «tragica»; e vi si aggiunse, anche se Aristotele non lo nomina, il suicidio. Filarco portò a effetti drammatici e di grande forza psicagogica la narrazione della morte di Cleomene e dei suoi compagni che, venutisi a trovare in una situazione disperata, si uccisero fra loro o commisero suicidio. La sensibilità per tali situazioni-limite è solo un aspetto dell’attenzione generale di questo periodo per le imprese e i destini degli individui. Come una tragedia ha pochi eroi in primo piano, così anche la storiografia «tragica» incentra su singole personalità il complesso intrecciarsi degli eventi delle varie epoche. Aristotele e gli storici volgono lo sguardo specialmente ai sofferenti e ai soccombenti. La storiografia «tragica» si interessa con una partecipazione inedita a coloro che sono stati travolti dal Fato e dalla storia. È un punto di vista che appare distintamente già nel Mosaico; i monumenti pergameni per le guerre galate non fanno altro che rendere assoluta tale prospettiva. Per ottenere questi effetti i generi letterari dovevano sforzarsi particolarmente di raggiungere un’evidenza quasi visiva. Di fatto, già Aristotele aveva espresso per la tragedia l’istanza di plastica chiarezza (έυάργεια) e come fine quello di condurre gli eventi come davanti agli occhi; la storiografia «tragica» – usando i medesimi termini – ne fece poi il proprio obiettivo principale. Specialmente efficaci erano ritenuti gli avvenimenti più vicini nel tempo, la cui evidenza veniva rafforzata «visivamente» mediante una descrizione il più ricca possibile dei singoli fatti concreti e di motivi secondari sottolineati ad hoc. L’arte figurativa, ovviamente, non doveva superare ostacoli del genere per raggiungere la concretezza. Ciononostante, il concetto di έυάργεια acquistò pregnanza di significato in età ellenistica anche per le rappresentazioni 10 Alessandro: Traiano spinge i suoi nemici in massa davanti a sé, ma nessun comandante avversario compare a fare da controparte. La Colonna Traiana comprende non solo numerose immagini di battaglia costruite nella maniera ellenistica, ma anche altre scene di alta efficacia «tragica». Per esempio, i daci di una città assediata che scelgono di suicidarsi in massa con il veleno attinto da un grosso recipiente e distribuito da uno dei capi: alcuni si affollano con le braccia protese, altri già si accasciano e vengono sorretti e compianti dai loro compagni, altri ancora giacciono inanimati al suolo, e infine un’ultima parte della guarnigione cerca scampo nella fuga. Obiettivo evidente di questa maniera di rappresentazione era, da un lato, accrescere la gloria del vincitore mediante il pathos della lotta e le sofferenze degli sconfitti; d’altro canto, il linguaggio dinamico delle forme ellenistiche permetteva di esprimere al meglio gli sforzi per la vittoria. Un aspetto ideologico del genere doveva contribuire alla ripresa di tali forme a Roma: qui infatti il concetto di labor circolava un ideale che poteva essere espresso in forme analoghe. Oltre ai combattimenti di schiere addensate, l’arte romana ha proseguito anche le tradizioni che descrivevano eventi militari complessi ambientati in spazi ampi, come gli assedi. Le fonti letterarie ne danno testimonianza per il quadro della presa di Cartagine con le raffigurazioni del situs e delle oppugnationes, che fu collocato e illustrato nel Foro da L. Ostilio Mancino nel 146 a. C., in occasione della sua candidatura al consolato. A causa del legame che stabilisce tra le figure umane e lo spazio circostante, tale maniera di rappresentazione si differenzia ancor più nettamente dalle forme classiche. Ma, raffigurando i luoghi in cui le azioni sono ambientate, essa è in grado di fornire un elemento di importanza centrale per il modo di pensare romano, e cioè l’indicazione delle condizioni geografiche e culturali nelle quali ( e contro le quali ) l’esercito romano si era affermato. Anche qui si tratta dunque soprattutto di una raffigurazione del labor. Luciano, nel suo scritto sulla storiografia, che si ricollega a idee di età cesariana, sostiene le posizioni classicistiche dell’atticismo in genere senza discostarsene molto; ma per la rappresentazione di battaglie sia terrestri che navali ammette un’amplificazione poetica più forte, sia pure entro i limiti di uno stile medio generale. La pratica storiografica opera in maniera analoga. Sallustio, che pure mantiene uno stile di marca rigidamente classicistica, usa i mezzi di rappresentazione della storiografia ellenistica 11 quando deve descrivere una scena di panico a Roma, o un campo disseminato di cadaveri. Livio, nonostante lo stile nel complesso classicistico, impiega mezzi fortemente psicagogici nel parlare di battaglie, assedi, epidemie. In misura ancora maggiore ciò vale per Tacito. Come nell’arte figurativa, vengono anzitutto scelti dei modelli, anche eterogenei, secondo una prospettiva determinata dal tema; in un secondo momento li si integra in uno stile il più possibile unitario. Capitolo sesto Il cerimoniale di stato: la tradizione del decoro classico Le forme di rappresentazione ellenistiche limitate ad alcuni temi, continuarono dunque a circolare anche a Roma; ma nel complesso furono le tradizioni del V e IV secolo a guadagnare il sopravvento: per la storiografia accadde un fenomeno analogo. Al più tardi a partire dalla metà del I secolo a. C., però, gli uomini politici romani cominciarono a opporsi radicalmente a queste forme patetiche in letteratura e arte. La ragione di ciò si ricava con chiarezza dalle critiche di Cicerone alla retorica cosiddetta «asiana», di indirizzo patetico; tali critiche possono valere senz’altro anche per la storiografia «tragica». Secondo Cicerone lo stile asiano non è conciliabile con la gravitas e l’autoritas di un funzionario romano: lo stile oratorio è nel contempo stile politico, le parole sono un riflesso dell’anima. Ma anche nella ripresa dei modelli della grecità è condizionata fortemente da una prospettiva tematica. Policleto, la grande figura-guida per una strutturazione formale razionale e classicistica, assurse a modello nell’arte ufficiale, in particolare per il primo ritratto programmatico di imperatore: si tratta del tipo principale dell’effigie di Augusto, che si collega al Doriforo di Policleto nelle fattezze del viso nettamente definite, a larghi piani curvi, senza indicazioni di età, e nelle ciocche falciformi dei capelli armoniosamente composte. Le caratteristiche di gravitas (dignità) e sanctitas (venerabilità) che Quintiliano ravvisa nel Doriforo sono qualità delimitate tematicamente, che nel contesto romano valevano in primo luogo per il sovrano e per lo stato, considerati dal punto di vista della loro venerabilità; quanto si fosse consapevoli della funzione specificamente tematica del modello usato, lo mostra l’effigie di Agrippa che, nella stessa epoca, doveva render visibile il dinamismo del capo militare, e proseguiva perciò la tradizione ellenistica. 12 Lo stesso vale per la processione sul fregio grande della recinzione dell’Ara Pacis, che rappresenta la solenne cerimonia di fondazione, cui partecipano il princeps, gli alti dignitari e la famiglia imperiale. La composizione dei personaggi mostra notevoli affinità con i fregi classici, per esempio nello stratificarsi delle figure, fra cui alcune di quelle posteriori sembrano sfumare totalmente sullo sfondo piatto; o anche nell’allenamento del corteo grazie ai personaggi rivolti all’indietro. Anche le singole persone dell’Ara Pacis si avvicinano molto a tipi classici; per i togati, in particolare, l’atteggiamento insieme naturale e solenne delle figure sul fregio del Partenone e su rilievi affini si presentava spontaneamente come modello, tanto più che la foggia del vestiario richiedeva solo alcune modifiche di scarsa importanza rispetto all’himation greco. Tutte queste forme non compaiono in un aspetto classico puro, bensì sono frammiste a componenti più recenti, ma non si può mettere in subbio il rapporto sostanziale, e voluto, con la grecità classica. Nella concezione romana lo stile di Fidia incarnava maiestas (regalità), pondus (solennità) e auctoritas (maestà), concetti vicinissimi alla gravitas e sanctitas di Policleto. Entrambi questi soddisfano l’esigenza ciceronica di decoro (dignitas). Con il classicismo Augusto prendeva pubblicamente le distanze da Antonio, cui rimproverava le tendenze «asiatiche» nell’eloquenza, atte a provocare stupore più che convinzione: era una presa di posizione dell’intelletto contro l’emotività. Augusto cercò di ripristinare la dignitas degli ordini sacerdotali e del Senato e, nello stesso senso, provvide che al Foro, centro della vita pubblica, l’unica foggia di vestiario consentita fosse la toga. Ma proprio in quanto si trattava di uno stile generale di Augusto, esso ruotava chiaramente attorno a determinati temi: il Senato, gli ordini sacerdotali più importanti, e soprattutto la propria persona. Lo confermano i suoi gusti letterari: ascoltava volentieri le opere di qualsivoglia ingegno, sicuramente eterogenee tra di loro; ma di quelle che riguardavano sé stesso apprezzava solo quante fossero serie e nel contempo eccellenti, paragonabili al fregio grande dell’Ara Pacis. Le forme greche classiche venivano però impiegate in accezione modificata: esse dovevano rappresentare la dignitas e l’autoritas, idee- guida strettamente inserite nel sistema di valori romano. Solo con questi 15 ripresa di un particolare tipo di Afrodite per la rappresentazione della Vittoria, tale legame ha ricevuto una formulazione convincente dal punto di vista iconografico. Motivazioni contenutistiche ancora diverse determinarono l’impiego del tipo Capua nelle rappresentazioni di Marte e Venere. Sono noti vari esempi di età antonina che si servono del gruppo per ritrarre delle persone nelle vesti delle due divinità. Per il dio della guerra si ricorse al modello dell’Ares Borghese di Alcamene, di piena età classica: la figura illustrava quella divina solennità e maestà che Quintiliano elogia in questo artista, inoltre essa poteva esprimere l’idea romantica della sottomissione a Venere grazie alla testa in posizione chinata. Per la dea dell’amore il tipo Capua si presentava ovvio già solo a causa delle movenze dei gesti, che si potevano facilmente trasformare in un abbraccio. La scelta di modelli eterogenei per il nuovo gruppo era chiaramente il punto di vista orientato sui contenuti e sui motivi. Il successo di questa composizione mostra che la provenienza da epoche diverse non veniva sentita come una discrepanza fastidiosa. La gamma delle riprese di forme stilistiche greche si amplia con il gruppo di Bacco con un Satiro. Per il dio risultava particolarmente adatto un tipo che era sviluppato a partire dalla statua tardo-classica dell’Apollo Liceo, mentre per raffigurare la compagnia del tiaso di solito si preferiva un tipo ellenistico di Satiro: il dio era messo in rilievo proprio grazie al contrasto con la bruttezza semiferina del monello dal corpo robusto e muscoloso, dai movimenti bruschi e dallo sguardo voyeuristico. Certo questo tipo statuario non comprendeva l’essenza del dio nella sua interezza: per mostrare il lato primitivo del culto, si poteva facilmente ricorrere a un tipo arcaizzante. Ciò dimostra che le varie forme stilistiche greche non erano collegate meccanicamente a temi stabiliti, ma valevano come espressioni di determinate caratteristiche. Per completare il quadro, si vede che, nel complesso, per dèi ed eroi di tradizione elevata si riferivano le nobili forme della piena classicità o addirittura del tardo arcaismo e dello stile severo, mentre le figure librate e danzanti come Vittorie e Menadi si sceglievano le forme mosse dello stile ricco della fine del V secolo. Va da sé che non mancano eccezioni a quella che non è una norma vincolante. 16 L’allestimento della Villa dei Papiri. L’apparato della Villa dei Papiri a Ercolano è concepito, secondo un programma puramente contenutistico, come collegamento antitetico dell’attività politica e di una vita ritirata volta alle gioie dello spirito. In ogni caso, all’interno del gran numero di effigi di politici, oratori, filosofi e poeti greci non sussistevano né possibilità né motivi per operare scelte secondo il gusto relativo allo stile. Più istruttive sono le figure ideali. Nel grande peristilio a giardino, un busto di Atena costituisce il centro di una vasta galleria di esponenti insigni della politica e della cultura. Sempre dal peristilio proviene una testa severa arcaizzante che, a giudicare dalla sua collocazione accanto a una poetessa, raffigura probabilmente Apollo. L’Atena Promachos che costituiva il punto di fuga del tablinum si riallaccia a forme dell’ultima fase dell’arcaismo. In questa stanza gli esponenti della paidea greca e i rappresentanti della pietas e della nobilitas romana erano posti gli uni di fronte agli altri. Le forme anticheggianti revocano la grande epoca delle prime eroiche vittorie dei greci contro i persiani, vittorie che nella Roma di Augusto venivano nuovamente celebrate come modello della propria affermazione politica e culturale. Nello stesso tempo l’ideale del καλὸς καὶ ἀγαθός (bello e buono) mostra un affinamento tale che la bellezza e la grazie possono essere caratterizzate nella maniera attica post-fidiaca, l’abilità atletica nelle forme della scuola di Policleto. Un caso simile si ha in una stanzetta attigua, dove il busto di un personaggio barbato, probabilmente Dioniso, è contrapposto a Eracle: il dio rappresenta un decoro dal sapore di primitività, mentre l’eroe incarna l’ideale della più alta ἀρετή (virtù) eroica. Significato analogo sembra aver avuto anche la famosa coppia di busti del Doriforo policleteo e della controparte femminile, da intendere come Achille e Pentesilea. Si deve anche aggiungere il mito nel suo aspetto tragico, ovvero una serie di statue femminili bronzee che sembra rappresentassero le Danaidi, dipendente da grande gruppo con le Danaidi del santuario di Apollo sul Palatino e, come questo, fungente da corrispettivo mitico della battaglia contro Antonio e Cleopatra. Altri temi però richiedevano modelli diversi. Nel peristilio a giardino le immagini bronzee di due lottatori dovevano dare l’impressione di esercizi 17 atletici reali: una resa convincente del loro movimento si poteva ottenere riallacciandosi a Lisipo. Infine modelli ancor più recenti, di età ellenistica, furono ripresi per i numerosi personaggi del tiaso dionisiaco che popolavano sia l’atrio che parte del giardino: Satiri che danzano o che suonano il flauto, mentre schioccano le dita o dormono, Fauni, putti, anche un Pan che si accoppia con una capra, e inoltre diversi animali. Nessun gusto, per quanto classicistico, avrebbe potuto indurre a cercare modelli di V e IV secolo per questi motivi: la scelta delle rappresentazioni possibili era predeterminata dal tema. Il gusto della prima età imperiale influenza in vari modi la ricezione dei modelli: il passo successivo sarebbe allora quello di indagare i mutamenti delle forme stilistiche dell’epoca in relazione a ciò che vogliono esprimere; ma tale problema oltrepassa i confini della semantica qui presa in esame. Rimanendo nell’ambito di tipologia e semantica, un ultimo esempio varrà a illustrare il grado di raffinatezza a cui poteva essere portato questo linguaggio figurativo. I rilievi dell’Ara Pacis Nel caso dell’Ara Pacis emergono in maniera evidente le difficoltà di comprendere l’impiego dei tipi figurativi greci a Roma. L’Ara Pacis, con la sua pluralità di livelli, è un’ottima pietra di paragone per stabilire fino a che punto possiamo afferrare la maestria e la flessibilità dei romani nella ripresa dei modelli. Nell’accostare al fregio del Partenone la cerimonia statale rappresentativa sul fregio grande, la somiglianza che si nota concerne innanzitutto la composizione e la concezione del rilievo in generale. Ciononostante i singoli componenti del corteo si collocano in tradizioni distinte. Mentre gli uomini in toga si avvicinano ai tipi di figure dell’epoca del Partenone, all’avvenente consorte del princeps e alle giovani madri di più tipi delle forma corporee rilevate, nella maniera tardo-classica ed ellenistica. Sarebbe stato impossibile trovare per le donne modelli convincenti nel V secolo. Vanno inoltre ricordati i flamines con il loro abbigliamento specificamente romano per i quali non ci si poteva affatto attenere a schemi tipologici precedenti, ma solo alla realtà. Il tipo «classico» della figura di Agrippa possiede, nella parte inferiore della toga, una serie di pieghe tese e rigidamente contrapposte, che non 20 Dunque queste prime fasi della civiltà greca la trasposizione delle condizioni storiche in forme artistiche si basava su un’esperienza molto concreta del mondo e della vita. Il risultato però è evidente: le concezioni di base circa la realtà umana, grazie alla loro concretezza, trovarono espressione visibile nelle forme dell’arte figurativa in maniera estremamente diretta; la relazione dell’uomo con l’ambiente circostante venne palesata nella concezione dello spazio, la concezione delle interazioni umane nella composizione di gruppo, il concetto delle funzioni organiche del corpo nella costruzione delle figure, l’interesse alla realtà materiale e al suo aspetto nell’esecuzione delle superfici. Rispetto a questo, il nuovo sistema del linguaggio figurativo, creato in Grecia nel tardo ellenismo e rimasto in vigore in tutto l’Impero in età romana, non costituisce solo un altro gradino evolutivo, ma anche una fondamentale rottura. Nello stesso tempo, però, la coesistenza di differenti forme di rappresentazione testimonia un profondo distacco dalla percezione della realtà finora esperita radicalmente. Le possibilità di raffigurazione realistica non furono certo abbandonate, e anzi furono ulteriormente affinate, fino a giungere ai noti tipi di realismo dell’arte romana; ma esse rimasero limitate a determinati settori, comparendo a lato di molte altre forme di rappresentazione. Si smise così di afferrare la realtà in maniera unitaria. Astrazione dei contenuti e tipizzazione delle forme Alla base di tutto ciò sta un mutamento di ampia portata: la realtà visibile diveniva sempre più segno di idee non empiriche. Nelle teorie artistiche coeve tale tendenza si compì mediante l’elaborazione di un sistema di concetti astratti. Esiste una serie di sarcofagi di comandanti romani, che mostrano in successione scene tipiche della carriera dell’élite militare, disposte però in maniera sorprendente dal punto di vista cronologico: prima una battaglia, con i nemici poi sottomessi e graziati, di seguito il sacrificio per la partenza all’inizio della guerra – che in realtà era precedente –, e infine la celebrazione del matrimonio, che normalmente si compiva in un momento antecedente. il raggruppamento di tali scene va inteso come una concezione sistematizzata dei valori ideali, ossia delle virtù politiche primarie1: virtus, clementia, pietas e concordia. 21 Queste virtù formano complessivamente una sorta di sistema ideologico il quale, creato alla fine della repubblica, e pur subendo alcune modifiche durante l’età imperiale, rimase sostanzialmente in vigore con relativa staticità nel corso dei secoli, proponendosi in tal modo a ciascun imperatore e uomo politico di Roma come compito da realizzare. Le scene di sacrificio dei sarcofagi ripetono puntualmente un tipo di composizione che, conservato frammentariamente, compare già su un grande monumento di età claudia. Qui il tipo non contrassegna un sacrificio di preghiera a Giove da parte del comandante in partenza, bensì un solenne sacrificio di stato a Marte Ultore, con al centro sicuramente il princeps. Dello stesso tipo esistono altri esempi, che rappresentano generi d sacrificio ancora diversi. Lo stesso vale per i temi della scultura a tutto tondo. Le figure di divinità, le personificazioni e gli eroi espressero in misura crescente messaggi di ordine concettuale, spesso abbreviati a guisa di slogan. Corrispondentemente venne meno l’interesse per creazioni «individuali», e il repertorio si ridusse sempre più ai tipi correnti. I contenuti astratti richiedevano formule che traessero la loro forza di persuasione non dal grado di oggettività di volta in volta presente, bensì dalla loro efficacia a livello concettuale. Gli elementi di realismo non vengono certo rimossi per questo dall’arte. Al contrario, la concezione artistica romana propendeva in molti casi al massimo grado a effetti realistici e all’ingannevole dissimulazione del confine tra arte e natura. Ma anche questi tipi di realismo erano subordinati al sistema semantico. Il linguaggio figurativo che si sviluppò in tal modo era un ricco sistema di comunicazione visiva che per qualsiasi tema e contenuto metteva a disposizione formule già fissate oppure schemi di formulazione facilmente applicabili. La relativa staticità dei mezzi formali corrispondeva alla relativa costanza dei contenuti concettuali. La struttura del sistema semantico In che modo poté tale linguaggio figurativo avere efficacia in tutto l’Impero con le sue popolazioni così disparate? Quali erano le sue premesse e quale il suo livello culturale? Il fatto decisivo è che in questo sistema i singoli tipi figurativi non erano connessi meccanicamente a determinati temi di rappresentazione. Le 22 forme figurative e stilistiche tradite componevano invece anzitutto un sistema di valori espressivi, ed erano questi valori a determinare la connessione tra forma e tema. Le concezioni artistiche nella teoria. Questo sistema possedeva, da un lato, delle premesse teoretiche. Secondo la teoria dell’arte dominante, quella classicistica, il giudizio e la recezione dei relativi alle varie forme stilistiche si basavano piuttosto su una serie di valori generali i quali univano la sfera delle forme visibili con quella dell’ethos; si tratta di un fenomeno connesso a una sensibilità artistica più astratta, sviluppatasi a partire dal tardo ellenismo. L’arte di Fidia veniva esaltata a causa della sua sublime e venerabile grandezza: grandezza e venerabilità ne sono appunto due caratterizzazioni ricorrenti, collegate alla più alta bellezza. Policleto invece, secondo Quintiliano, non ha rappresentato in maniera così impressionante il pondus e l’auctoritas degli dèi, ma ha superato tutti gli altri scultori in verum soprattutto alla figura umana, in particolare a l’ideale fisico policleteo come adatto agli esercizi della guerra sia quelli ginnici e lo pone accanto a quello di altri giovani combattenti e atleti. Di Callimaco venivano a loro volta ammirate la finezza, la grazia, l’elegantia. La sa opera più famosa, le saltantes Lacaenae dimostra che con tali concetti si intendevano i delicati movimenti vibranti dello stile ricco. Di Lisippo e Prassitele, infine, Quintiliano loda il fatto che ad veritatem accessisse optime ( il miglior approccio alla verità). Anche tale realismo, che più volte viene rilevato a ciascuno dei due, doveva essere quasi ovvio nel caso di determinati temi. All’occasione, addirittura più epoche potevano valere come modello per uno stesso ambito tematico, e senza sostanziali differenze di significato. Le figure di animali erano la gloria dello stile severo, di Mirone e Calamide, ma anche quella di Lisippo. Lisippo è inteso qui, come molte altre volte, quale precorritore dell’ellenismo, le cui raffigurazioni di animali furono spesso imitate nella pratica artistica. Tramite i valori espressivi che stavano alla base del giudizio d’arte colto le forme tramandate potevano essere impiegate per compiti «romani». Con ciò si operava senz’altro un cambiamento di significato rispetto alle finalità iniziali di tali forme: la cosa si può vedere già nel fatto che in origine esse erano state create in tempi diversi, ciascuna come risultato 25 arcaizzanti. Tale pratica si distingue dal sistema semantico successivo per il fatto ce la forma arcaizzante era solo una deviazione anomala rispetto al linguaggio formale del presente, e non uno dei suoi componenti naturali. Perfino in questo sostanziale annullamento dell’unitarietà evolutiva emerge il ruolo primario del cambiamento storico. Premesse e inizi di questo linguaggio figurativo furono prodotti non a Roma ma nella Grecia del II secolo a. C. Il tardo ellenismo portò a un mutamento sostanziale nell’attitudine stilistica, intensificando le forme di stile ellenistiche e riprendendo contemporaneamente le tradizioni classiche. Gli impulsi e i retroscena storici di tale svolgimento sono ancora poco chiari, e qui non se ne può dire nulla. In Grecia la ripresa di modelli antichi possedeva, fin da quando nel II secolo a. C. cominciarono le tendenze retrospettive, anche connotati tematici. In una bottega greca sono nate anche le composizioni dei crateri neoattici a rilievo del tipo Pisa. Il tiaso dionisiaco è qui formato da elementi della provenienza più disparata: Dioniso e la sua compagnia derivano da tipi tardo-ellenistici, che ritrovano anche nella composizione del cosiddetto Rilievo di Icario, mentre le danzatrici vengono da un girotondo tardo- classico con ninfe, di cui una è stata alla fine sostituita con una Menade di un noto ciclo della fine del V secolo. Gli artisti greci portarono presto a Roma questa attitudine formale; la città si andava allora sviluppando in un centro d’arte ellenistico. Nello stesso tempo, però, venivano realizzati ritratti delle personalità-guida di Roma nelle forme stilistiche dell’ellenismo: un esempio è il cosiddetto Dinasta delle Terme che, a causa del luogo di ritrovamento (Roma) e della mancanza del diadema, rappresenta probabilmente un leader romano della metà del II secolo. Particolarmente notevole è l’uso di forme eterogenee nello stesso periodo per due teste appartenenti entrambe a monumenti urbani per le vittorie sui cimbri e sui teutoni, e prodotte dunque verso il 100 a. C. Già qui abbiamo una forma di rappresentazione patetica per il tema della lotta e della sconfitta dolorosa che si trova immediatamente accanto all’elevatezza classica dello stile nell’immagine della dea. Lo spettro delle possibilità formali si ampliò costantemente nel corso del II e I secolo a. C. grazie al progressivo sfruttamento del passato storico- artistico. 26 Ma al più tardi in età augustea il patrimonio formale dovette raggiungere una certa completezza. Da allora si ebbero sì creazioni ex novo, e anche scelte e accentuazioni in direzioni mutevoli; ma nel complesso il sistema semantico sembra aver avuto, almeno nei primi due secoli dell’Impero, un carattere piuttosto statico. Capitolo decimo Il linguaggio figurativo e lo stile Anche se il linguaggio figurativo raggiunse presto una condizione di relativa stabilità, il tempo non cessava di scorrere, e il gusto mutava. È qui che acquistarono la loro pregnanza le categorie di tipo e di stile. Il linguaggio figurativo, formatosi a partire da elementi eterogenei e rimasto poi in vigore in maniera abbastanza statica, era di natura sostanzialmente tipologica. Invece il gusto generale, nel quale gli appartenenti a una stessa epoca, da regione a regione, da un gruppo sociale all’altro, tale gusto si cristallizzava nel fenomeno dello stile. Ci si può chiedere come fosse possibile che una parte così essenziale della strutturazione formale quale la creazione di tipi venisse esclusa dall’ambito dell’espressione stilistica e inserita in quello della semantica. Il problema può essere chiarito a livello teorico mediante le posizioni di Cicerone. Chi, come appunto Cicerone, rifiutava forme retoriche patetiche e raccomandava un eloqui classicamente misurato, poteva trarre sostanzialmente due conclusioni diverse: si poteva trattare della scelta di un habitus comune nel senso più ampio; oppure era una questione d tematiche specifiche e allora le forme classicistiche di stile erano richieste solo lì dove andavano espresse l’auctoritas e la gravitas dei dignitari romani. Entrambe le conclusioni erano in certa misura giustificate, ed entrambe trovano corrispondenza nella pratica della scultura. Accanto alla dignità delle cerimonie di stato bisognava raffigurare il pathos e le pene dei combattimenti, senza però infrangere del tutto l’ideale di una compassata dignità. La selezione di modelli fondata tematicamente rientrava nell’ambito degli schemi di rappresentazione e dei tipi figurativi, mentre l’ideale generale si situava sul piano dell’esecuzione stilistica. Non possiamo qui analizzare sistematicamente quali lati della forma artistica fossero aperti al cambiamento stilistico. Lo stile dei rilievi della bottega augustea, che riunisce tradizioni tipologiche eterogenee, si 27 ripercuote nella lastra con Enea dell’Ara Pacis principalmente sotto due rispetti: nella salda concessione dei personaggi e degli oggetti con al superficie; e nella lavorazione del marmo, dall’esecuzione viva e naturale ma nello stesso tempo dura e netta. In età flavia, invece, il voluto ritorno a forme più prossime al vero causò un certo avvicinamento allo stile dei rilievi ellenistici. È una spia nello stesso senso il fatto che si conoscano copie di opere policletee soprattutto di età giulio-claudia adrianea, e solo più raramente di età flavia. A giudicare dal risultato complessivo, però, quest’aspetto della selezione di modelli tipologici secondo i gusti mutevoli delle varie epoche, su cui ha molto insistito la ricerca del passato, ha un’importanza solo relativa. Ma per la gran parte della produzione è senz’altro vero che i temi e i tipi eterogenei di rappresentazione rimanevano fondamentalmente validi attraverso le epoche e da una regione all’altra. Il ritratto è significativo in questo contesto come caso estremo del rapporto tra tipo e stile. Se nel ritratto il fattore dello «stile dell’epoca» traspare molto più decisamente che in altri ambiti artistici, ciò mostra che tale tema era aperto ad accogliere le esperienze proprie di un determinato periodo in misura maggiore rispetto ad altri campi della produzione d’arte. Il sistema di valori cui appartenevano, avendo un carattere astratto, collettivo e relativamente statico, trovava una formulazione adeguata nelle figure ideali tipizzate della tradizione. Grazie a questo speciale collegamento con la realtà, il ritratto divenne in maniera particolare un campo aperto a molteplici e mutevoli esperienze esistenziali. Il fatto che la scultura ideale romana si sia finora rivelata molto refrattaria a datazioni stilistiche non costituisce solamente una circostanza spiacevole da superare, ma anche un fenomeno significativo: nell’arte romana i cambiamenti sono meno generali, meno sostanziali e meno rapidi che nell’arte greca dall’età arcaica a quella ellenistica. Capitolo undicesimo Sistema formale e stile nelle teorie retoriche e artistiche Il sistema descritto sembra, a prima vista, corrispondere poco all’immagine che le testimonianze esplicite sul classicismo romano lasciano riconoscere.
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