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"Il Medioevo" di Giovanni VITOLO (fino al capitolo 25), Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto dei primi 25 capitoli del manuale per la preparazione dell'esame di Storia medievale

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 17/10/2020

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Scarica "Il Medioevo" di Giovanni VITOLO (fino al capitolo 25) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! PARTE PRIMA – La trasformazione del mondo antico e l’inizio del Medioevo 1-IL MONDO ELLENISTICO-ROMANO E LA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO Nomadi e sedentari- La vicenda dell’impero romano è molto simile a quella di altri organismi politici contemporanei, creati da popoli provenienti dalle steppe euroasiatiche e definiti Indoeuropei, per indicare l’area in cui si stabilirono. Meno evoluti delle popolazioni già presenti, ne presero il posto o si fusero con esse dando vita a civiltà rurali. Ricordiamo ad esempio la Persia (corrispondente all’incirca agli attuali Iran e Iraq, parte dell’Afghanistan e Pakistan), conquistata definitivamente nel 331 a.C. (Battaglia di Gaugamela) da Alessandro Magno, passò nel III secolo a.C. sotto il dominio dei Parti, cavalieri-pastori nomadi che, trasformatisi in sedentari, diedero vita ad un potente impero costantemente in lotta con quello romano. Altro grande impero era quello dell’India settentrionale, che raggiunse il suo massimo splendore con la dinastia Gupta. Anche l’India era caratterizzata da una civiltà agricola, creata dagli Ariani, pastori e allevatori che si erano trasformati in contadini. Più a oriente, si venne formando un’altra civiltà agricola nella pianura alluvionale del Fiume Giallo, in Cina, che a seguito di numerosi contrasti tra sedentari e nomadi diede vita ad un vasto impero per opera di Shih Hwang-ti, il “Cesare cinese”, che fu anche il promotore della costruzione della Grande Muraglia, per difendere il Paese dalle incursioni dei Mongoli. Una delle più grandi dinastie fu sicuramente quella degli Han che si occuparono del consolidamento delle frontiere, della creazione di una rete stradale militare e di insediamenti per i contadini-soldati lungo i confini. Così come avvenne per l’Impero romano, anche in Cina, tra II e III secolo d.C., si aprì una fase di lotte sociali e confusione che portò alla divisione dell’impero, costantemente pressato dalle invasioni nomadi e dalla formazione di regni barbarici. Negli ultimi due millenni a.C. anche l’area mediterranea era stata investita dal flusso migratorio di genti indoeuropee, come ad esempio i Celti nella Germania renana che si spinsero poi verso l’area danubiana e balcanica, verso le isole britanniche, in Gallia, nell’Italia settentrionale e poi in quella centrale; fu Roma a bloccarli e farli arretrare ma non potè contrastare la fusione con i latini creando il cosiddetto connubio latino-celtico. Il mondo delle città- Per i Romani il limes rappresentava il confine tra genti e stili di vita differenti: il mondo delle foreste dell’Europa centrale-settentrionale e quello delle città con la loro organizzazione sociale più complessa. La città non era una creazione dei Romani ma essi ebbero il merito di diffondere le caratteristiche della civiltà ellenistica in tutto il Mediterraneo e nelle regioni settentrionali di Gallia, Britannia. Queste caratteristiche erano state assimilate dai Romani stessi attraverso le conquiste nel Mediterraneo orientale del II-I secolo a.C. Nonostante i differenti livelli di sviluppo delle aree si ebbe comunque una certa omogeneità, grazie agli scambi commerciali e ai fulcri di questo nuovo tipo di società, le città appunto. Bisogna tenere in considerazione la topografia di una città romana: diversamente dalla città medievale, essa non era separata dal territorio circostante da mura difensive (che verranno erette soltanto nel III secolo d.C proprio per la minaccia di invasioni esterne). Il centro urbano vero e proprio, l’urbs, aveva funzioni amministrative, politiche e commerciali. La campagna era organizzata in centurie, cioè divisa in un reticolo di settori quadrangolari disposti lungo il prolungamento degli assi viari principali della città (cado e decumano). Tra la campagna e il nucleo urbano si estendeva il suburbio, area destinata agli impianti artigianali, alle necropoli, alle ville lussuose e ad alcuni edifici come gli anfiteatri. L’economia di queste città era basata principalmente sullo sfruttamento agricolo, attraverso il lavoro degli schiavi, e le rendite dei grandi latifondi permettevano non soltanto una vita agiata ai loro proprietari ma anche la costruzione di grandi opere pubbliche per accrescere il prestigio della stessa città. La diffusione del Cristianesimo- Il periodo compreso tra I e II secolo d.C. vide non soltanto la nascita e lo sviluppo della grande cultura imperiale ma anche la diffusione della scrittura tra le classi meno abbienti. Questa fase rappresenta anche il momento di crisi della religio tradizionale di tipo politeistico sotto l’influsso delle innumerevoli correnti mistico-filosofiche provenienti dal Mediterraneo orientale che promettevano la redenzione dal male la salvezza ai loro adepti (culto di Cibele, culto di Mitra, culto del dio Sole, culti di Iside e Osiride). La diffusione di culti differenti da quelli tradizionali non avvenne solo nell’Impero romano ma anche più a Oriente, in Cina e in India dove si propagarono Il Buddhismo e il Confucianesimo; tuttavia fu tipico dell’impero di Roma il conflitto tra le varie correnti religiose e mistiche fino a quando non si giunse all’emergere definitivo del Cristianesimo nel IV secolo. La scelta di appoggiare il Cristianesimo e la sua diffusione dipese non solo dalla scelta dell’imperatore Costantino ma soprattutto dall’esuberanza ed eccentricità tipica degli altri culti, caratteristiche che non si conciliavano con la compostezza dell’aristocrazia cittadina. Lo stesso Cristianesimo si impose soltanto quando mise da parte i toni apocalittici e le continue contestazioni ad alcuni aspetti della vita del Nicea il primo concilio ecumenico, occasione in cui la dottrina ariana venne condannata all’unanimità per le pressioni dell’imperatore, desideroso di mantenere la pace in Asia Minore dove il Cristianesimo aveva assorbito la maggior parte della popolazione. Da questo momento procedettero parallelamente la formazione di una nuova ideologia imperiale che assegnava all’imperatore la suprema responsabilità nella difesa dell’ortodossia e l’elaborazione definitiva della dottrina. Da qui in poi si può parlare di eresie, cioè dottrine che si oppongono a quelle stabilite dalla Chiesa. L’Arianesimo non venne però soppiantato e si diffuse rapidamente tra le popolazioni germaniche che ne fecero un elemento della propria identità. In seguito, le decisioni dei concili ecumenici provocarono lotte interne alla cristianità ancora più gravi, contribuendo a far scoppiare le rivolte delle province: fu il caso delle contestazioni del Donatismo (diffusosi tra i vescovi africani) che negava la validità dei sacramenti amministrati da preti moralmente indegni. Forti tensioni si verificarono anche a causa della contesa cristologica che voleva definire il rapporto tra il Cristo umano e quello divino e di quella che metteva al centro la figura di Maria: i Nestoriani (seguaci del teologo di Antiochia, Nestorio) volevano chiamarla “Madre di Cristo” e non “Madre di Dio” per evitare confusione tra la persona umana e quella divina del Cristo. La contesa trovò conclusione con il Concilio di Calcedonia del 451 che dichiarò Cristo vero Dio e vero uomo, dotato di due nature distinte ma inseparabili. A questa decisione si opporranno i Monofisiti, convinti della fusione delle due nature in una sola. Le origini del monachesimo- Contemporaneamente a queste dispute teologiche, in Egitto, in Siria e poi in altre regioni sia orientali che occidentali, si sperimentava una forma di vita cristiana distaccata dalla società e apparentemente destinata a restare marginale. In realtà questa forma di vita, il cosiddetto monachesimo, sarà una delle caratteristiche vitali del Medioevo. Il fenomeno non era tipico del mondo ellenistico-romano e assunse grandi dimensioni in India per poi essere conosciuto anche nel mondo ellenistico al tempo di Alessandro. Inizialmente i monaci buddisti si presentarono come monaci girovaghi e dediti all’elemosina ma successivamente scelsero la vita stabile in comunità, edificando grandi monasteri. Questo fenomeno si diffuse anche nel mondo greco ma tra i filosofi, in particolare tra i pitagorici che formarono una vera e propria comunità basata sull’amore fraterno. Il monachesimo cristiano nacque in Egitto nel III secolo, principalmente tra le classi inferiori e caratterizzato da un totale disgusto per i costumi dilaganti e per la ricerca della solitudine anche attraverso delle insolite abitudini: ad esempio il vivere rinchiusi in una tomba vuota oppure in cima ad un albero o ad una colonna (gli stiliti). Si svilupparono, però, anche forme meno estreme di questo fenomeno, come la nascita di colonie di eremiti che vivevano non lontani tra di loro nei pressi di una chiesa. Si diffuse l’erezione dei monasteri, per opera del cenobitismo, in cui l’ascesi era praticata in maniera moderata e tutta la vita era regolata. Di questa corrente più moderata fece parte Basilio, vescovo di Cesarea in Cappadocia che promosse la fondazione di monasteri ai quali destinò le sue Regole, una serie di indicazioni per i cristiani che vivevano in comunità. Una delle caratteristiche delle Regole fu la figura del superiore che aveva il compito di promuovere il bene della comunità e che si rivelò un elemento di stabilità nelle comunità di monaci. La diffusione del monachesimo in Italia- Dall’Egitto giunse presto in Occidente la fama di questi monaci, presso cui nacquero dei veri e propri pellegrinaggi da parte dell’aristocrazia desiderosa di conoscerli e osservarne le abitudini. Alcuni decisero addirittura di seguirne l’esempio permettendo la nascita di comunità monastiche latine in Palestina da cui si diffuse successivamente il monachesimo in Occidente. Figura fondamentale è quella di Girolamo che visse inizialmente da eremita in Calcide per poi divenire a Roma un punto di riferimento delle nobildonne romane e nuovamente abbandonare la città per l’ostilità nei suoi confronti. I monasteri cominciarono a sorgere numerosi a Roma e in altri luoghi (anche al di fuori dell’Italia) in particolare per iniziativa di vescovi, come Ambrogio di Milano. Quando si parla del monachesimo si tende sempre a fare riferimento alla figura di Benedetto da Norcia e al monachesimo benedettino come punto di arrivo del fenomeno. Recentemente la storiografia ha ridimensionato la figura di Benedetto, fondatore e abate del monastero di Montecassino per il quale scrisse la Regola (considerata da lui stesso non perfetta e definitiva). Sicuramente nelle intenzioni del monaco non c’era quella di fondare un nuovo ordine religioso e il famoso ora et labora, che poneva l’accento sul lavoro manuale, non sembra essere un aspetto originale: esso infatti era già svolto dagli eremiti nel deserto e dalle comunità cenobitiche precedenti. L’originalità è stata individuata nella capacità di Benedetto di raccogliere l’eredità precedente e utilizzarla nella sua esperienza diretta con grande moderazione e realismo: proprio all’equilibrio era improntata la regola ora et labora che prevedeva una vita attiva ed una vita contemplativa perfettamente armonizzate tra di loro. 2- L’OCCIDENTE ROMANO-GERMANICO Il mito della razza pura- Lo storico latino Tacito definiva quella dei Germani come una razza pura senza mescolanze e nel 1500 si riteneva che essi fossero originari delle terre che effettivamente occupavano. Questa concezione è stata man mano superata negli ultimi decenni dimostrando che non è mai esistita una comunità germanica originaria ed omogenea a livello culturale e linguistico. Possiamo individuare tre grandi gruppi all’interno della popolazione germanica: quello settentrionale in Scandinavia e Danimarca, quello orientale e quello occidentale nell’odierna Germania. I Germani entrarono in contatto con i Romani, inizialmente quando furono bloccati nella loro avanzata da Mario e successivamente quando Cesare portò avanti la conquista della Gallia. Questi contatti favorirono il progresso delle popolazioni germaniche nei settori dell’agricoltura, della lavorazione dei metalli e causando una crescente differenziazione sociale. I continui spostamenti dipesero dall’improduttività dei terreni sottoposti ad un’agricoltura comunque primitiva; tuttavia l’acquisizione di nuove terre non portò alla nascita di scontri interni poiché esse venivano divise per clan e non esisteva la proprietà fondiaria. Interessante è capire la società e la sua organizzazione del potere che ruotavano attorno all’attività bellica: i Germani erano guidati dai duces, capi militari riconosciuti come tali per il loro prestigio guerriero e per la sacralità della stirpe cui appartenevano. Erano posti sotto il controllo del consiglio degli anziani e dell’assemblea del popolo in armi e non consideravano se stessi superiori agli altri; semplicemente ogni capo militare emergeva per la sua capacità di riunire attorno a sé un certo numero di giovani guerrieri con i quali compiete razzie. Soltanto con gli scambi commerciali e i contatti con i Romani la situazione cominciò a cambiare per approdare ad una vera e propria gerarchizzazione della società. La pressione sui confini dell’impero- Furono i Germani occidentali a penetrare gradualmente all’interno dell’impero e delle sue strutture: infatti la loro presenza si rivelò indispensabile per il reclutamento delle legioni adibite alla difesa dei confini e per il ripopolamento dei territori spopolatisi proprio a causa delle loro invasioni. Dal III secolo i Germani entrarono a far parte anche dei più alti vertici della gerarchia militare imperiale e si creò un vero proprio equilibrio tra mondo romano e mondo germanico. Tuttavia l’impero, sopravvissuto alle incursioni germaniche, cominciò a subire un graduale declino con l’arrivo degli Unni dalle steppe asiatiche che spinsero le altre popolazioni di cavalieri nomadi, stanziate ad Oriente, verso Occidente travolgendo l’impero stesso: è il caso dei Visigoti che ottennero di potersi stabilire entro i confini, in Tracia, evento che provocò una rivolta della popolazione e la nascita di una guerra che terminò nel 378 con la disfatta delle truppe romane ad Adrianopoli. che l’aristocrazia gallo-romana abbandonò lo stile di decoro e cultura per assimilare lo stile violento dei Germani. Alla morte di Clodoveo, il regno venne diviso tra i quattro figli in altrettante aree che mostravano caratteristiche peculiari proprie non solo geografiche e politiche ma anche etniche: la Neustria, tra Loira e Senna e dove era stata più forte la compenetrazione tra Romani e Germani; l’Austrasia, la parte orientale del regno; l’Aquitania, che conservava le tradizioni gallo-romane; la Borgogna, che conservò la sua individualità polita e culturale. L’espansionismo franco, tuttavia, ebbe una battuta d’arresto a causa delle lotte fratricide e familiari che si susseguivano ad ogni successione, e avrà nuova vita nell’VIII con la guida di Pipino il Breve. Uno sguardo d’insieme sul mondo romano-germanico- Il mondo romano- germanico presenta, ovunque, dei fattori comuni; ad esempio il ruolo dei vescovi che rappresentano non soltanto la figura protettrice della popolazione latina ma si pongono come forza conservatrice delle caratteristiche ellenistico-romane: la città era una di queste. A causa della crisi e poi delle invasioni, le città si erano impoverite e spopolate, si erano ridotte di estensione e avevano perso il proprio primato. Molte città non scomparvero proprio perché erano sedi vescovili e quindi punti di riferimento per i latini. Durante le invasioni, i vescovi si erano posti come interlocutori dei Germani e questo condusse ad una collaborazione e alla conversione delle popolazioni con conseguente nascita di organismi politicamente solidi, contrariamente a quelle situazioni in cui i barbari continuarono a persistere nell’arianesimo e soprattutto a perseguitare i cattolici, delineando una vita effimera per i regni. I vescovi erano il tramite della cultura antica e potevano fornire alle monarchie germaniche gli strumenti culturali per la nascita di un apparato politico- amministrativo. La cultura antica si manifestò in particolare nell’attività legislativa dei sovrani che si posero il fine di dare un diritto certo ai loro popoli. Tuttavia nacquero delle difficoltà nell’amministrazione della giustizia a causa della personalità della legge: col diffondersi dei matrimoni misti bisognava stabilire a quale legge dovessero obbedire i figli e inoltre potevano nascere controversie tra persone che vivevano secondo leggi differenti. La situazione si risolse dal VII con la creazione di consuetudini nate dalla fusione tra il diritto romano e quello germanico. 3-L’ORIENTE ROMANO-BIZANTINO E SLAVO Le ragioni di un destino diverso- La parte orientale dell’impero riusciva a resistere alle pressioni esterne e alle crisi interne grazie alla fedeltà alla tradizione e alla capacità di adattamento al cambiamento della situazione politica e sociale. Nasce una nuova forma statale e una nuova civiltà che continua ad essere direttamente collegata al passato di Roma, tant’è che sia gli imperatori che i sudditi continuano ad essere chiamati Romani. Questa differente evoluzione delle cose tra Occidente e Oriente dipese dal differente livello di sviluppo che aveva caratterizzato le due parti dell’impero: l’Oriente non aveva conosciuto la concentrazione delle terre nelle mani dell’aristocrazia che, invece, in Occidente aveva portato al latifondo a conduzione schiavile e al declino dei piccoli proprietari. Le città orientali erano più numerose, popolate e avevano una struttura economica e sociale molto più complessa, con forte presenza del ceto mercantile padrone del Mediterraneo. L’aristocrazia orientale non era chiusa in sé stessa e non godeva di una forte superiorità rispetto al resto della popolazione. La crescita impetuosa di Costantinopoli- L’inizio di quello che sarà poi lo Stato bizantino va individuato l’11 maggio del 330, quando Costantino inaugurò la nuova capitale dell’impero sul Bosforo, nata dalla ristrutturazione dell’antica Bisanzio. Doveva essere un monumento alla sua persona ma già con il figlio Costanzo II, la città orientale entrò in competizione con Roma che cominciò a declinare come sede del potere, dal momento che gli imperatori per ragioni di controllo e difesa erano costretti a spostarsi da una città all’altra dell’impero; nel 404 si stabilirono definitamente, al tempo di Onorio, a Ravenna collegata via mare con Costantinopoli. La popolazione cresceva a dismisura tanto da superare quella di Roma e per garantire l’ordine interno, attraverso la politica del panem et circenses, Costantinopoli fu dotata di un ippodromo direttamente collegato al palazzo imperiale (come il Circo Massimo) per facilitarvi l’accesso dell’imperatore che compariva visibilmente distaccato dalla popolazione, aumentandone l’aura sacrale. La sacralità del potere dipese in particolare dalla visione della figura imperiale quale baluardo della dottrina cristiana e responsabile della salvezza dei cristiani. Per questo motivo divenne consuetudine che fosse l’imperatore a convocare e presiedere i concili ecumenici e a decidere l’elezione dei vescovi delle sedi più importanti. Dalla tradizione romana si distaccò il rito dell’incoronazione che divenne una vera e propria cerimonia religiosa, con la consegna della corona da parte del patriarca di Costantinopoli. È evidente il crescente divario tra Oriente ed Occidente, acuito dalla spartizione dell’impero alla morte di Teodosio nel 395 e soprattutto dal diverso trattamento riservato ai Germani: se in Occidente questi furono inseriti all’interno delle strutture imperiali, fino a ricoprire le più alte cariche militari, in Oriente, invece, si palesò un netto rifiuto nei loro confronti che portò alla loro estromissione dalle alte cariche militari. Giustiniano e la ripresa dell’iniziativa imperiale- Liberandosi dalla pressione germanica, gli imperatori d’Oriente poterono occuparsi dei problemi interni, in particolare dei contrasti religiosi, la cui risoluzione risultava impossibile: un atteggiamento più tollerante nei confronti della corrente del Monofisismo1 avrebbe scatenato rivolte a Costantinopoli e contrasti con la Chiesa di Roma. Tutto ciò fu evidente sotto il regno di Giustiniano (527-565) che volle riportare l’Occidente sotto l’autorità imperiale, recuperando la collaborazione con il pontefice. Tentò di far rientrare nell’ortodossia i monofisiti, appoggiati dalla moglie Teodora, facendo loro concessioni in materia dottrinale. I Monofisiti insistevano nel dichiarare come il Concilio di Calcedonia del 451 non avesse condannato debitamente i Nestoriani e lo stesso Giustiniano non era in disaccordo, in quanto il Nestorianesimo2 si stava diffondendo largamente. Nel 543/544 fu convinto ad emanare l’editto dei Tre Capitoli in cui vennero condannati gli scritti di tre teologi filonestoriani di Antiochia, provocando la rottura con il papato e non risolvendo l’opposizione dei monofisiti. Il papa Virgilio, ostile a qualsiasi cambiamento della dottrina fissata dal Concilio di Calcedonia, non ratificò l’editto e fu arrestato e trasferito a Costantinopoli, dove accettò le proposte dell’imperatore. Poiché Giustiniano voleva riportare l’Occidente sotto la corona imperiale, nel 535 avviò la riconquista dell’Italia, lunga e difficoltosa, al termine della quale, nel 554, emanò la Prammatica sanzione per restaurare gli antichi rapporti sociali e dare un nuovo assetto amministrativo al territorio. Le mire di Giustiniano si volsero alla Spagna occupata dai Visigoti che richiesero proprio l’aiuto dell’imperatore, attraverso il re Atanagildo, per contrastare i filoariani. I bizantini conquistarono un’ampia fascia costiera nella parte sud-orientale della penisola iberica e in questo modo il Mediterraneo tornò ad essere un “lago romano”. Dell’opera di riassetto dell’impero, concepita da Giustiniano, faceva parte anche il potenziamento delle attività commerciali e industriali, in modo da mettere in collegamento Costantinopoli con i centri orientali produttori di seta. La città sarebbe diventata il punto di incontro delle rotte commerciali e dei continenti. Un altro progetto dell’imperatore fu quello di riorganizzare il patrimonio giuridico romano dall’età repubblicana, attraverso il Corpus Iuris Civilis che divenne la base della legislazione bizantina ma influenzò anche la produzione giuridica europea successiva. 1 Monofisismo: corrente cristologica secondo cui la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina e dunque in Lui era presente solo la natura divina. In contrasto con il Nestorianesimo. 2 Nestorianesimo: dottrina che rifiuta l’interpretazione divina della figura di Cristo. Afferma la totale separazione delle due nature, umana e divina; per questo motivo in Gesù Cristo convivrebbero due distinte persone, l’uomo e il dio. presentandole però come unite da una sola volontà (Monotelismo). La nuova dottrina fu accettata ovunque, anche dalla Chiesa di Roma che, successivamente, vi si oppose provocando un lungo conflitto tra papato e impero che si concluse nel 653 con l’arresto di Martino I deportato a Costantinopoli. Nel 680 l’imperatore Costantino IV raggiunse un accordo con il pontefice Agatone e convocò il VI concilio ecumenico che condannò il Monotelismo e riconfermò la dottrina del Concilio di Calcedonia. Il tentativo di Eraclio non aveva avuto effetti positivi, soprattutto nella parte orientale dell’impero che risultò indebolita davanti all’invasione degli Arabi del 638, che riuscirono a raggiungere l’Egitto e furono accolti ad Alessandria dai monofisiti, convinti della tolleranza della religione islamica. La funzione storica di Bisanzio- Nonostante gli sforzi di Eraclio, l’impero vide la perdita di parte dei suoi territori per mano degli Arabi. Alla fine del VII secolo l’impero era ridotto ad un terzo rispetto a quello del tempo di Giustiniano e comprendeva gran parte dell’attuale Turchia, il retroterra di Costantinopoli e la parte dell’Italia non conquistata dai Longobardi. Tra IX e X secolo, però, riuscì ad avviare una dinamica politica estera in Italia e nei Balcani, con la conseguente bizantinizzazione degli Slavi. 4-L’ITALIA TRA BIZANTINI E LONGOBARDI La guerra greco-gotica- Nel 535 Giustiniano avviò la riconquista dell’Italia, inviando un esercito guidato dal generale Belisario. La prima fase della guerra si concluse nel 540 con la conquista di Ravenna e il ritiro dei Goti che cercarono di staccare Belisario dall’imperatore offrendogli la corona di imperatore d’Occidente; il progetto non andò a buon fine. Nel 542 i Goti ripresero le ostilità, guidati dal re Totila, contro i Bizantini, ora guidati da Narsete, che uccisero Totila ed ebbero la meglio sul suo successore Teia. Per ribaltare le sorti della guerra, i Goti chiamarono in aiuto Franchi e Alamanni che nel 553-554 saccheggiarono l’Italia. La riconquista fu accompagnata dal tentativo di restaurare l’ordine sociale e amministrativo, sulla base della Prammatica Sanzione emanata da Giustiniano(554) su richiesta di papa Virgilio. Gli atti emanati da Teodorico e immediati successori furono mantenuti ma furono annullati quelli di Totila. Le chiese ariane subirono la confisca delle terre che passarono alle chiese cattoliche e l’Italia fu divisa in distretti nei quali l’amministrazione civile era affidata ad un iudex, mentre quella militare ad un dux, tutti posti sotto l’autorità di Narsete. Fu previsto il pagamento della tasse arretrate e la riduzione delle spese pubbliche (abbassando il salario dei soldati e diminuendo la distribuzione dei viveri ai poveri); tuttavia in questo modo calò il morale delle poche truppe e anche quello della popolazione che rimpiangeva il regime politico precedente, creando le premesse per il crollo del dominio bizantino dopo l’invasione dei Longobardi. I Longobardi e la rottura dell’unità politica dell’Italia- I Longobardi erano un popolo germanico della Scandinavia che nel 568 giunse in Italia attraverso il Friuli, guidato dal re Alboino. Rispetto alle altre popolazioni, essi non avevano avuto dei contatti significativi con il mondo romano e il loro regno, non inquadrato nell’impero ma ad esso ostile, si impose come una dominazione straniera; inoltre, rispetto agli altri popoli erano quelli che meno si erano allontanati dai propri costumi e quindi il re aveva ancora il carattere di capo militare e il suo potere era limitato dall’ordinamento tribale del popolo. Stando al monaco longobardo Paolo Diacono, il loro esercito era articolato in gruppi di guerrieri appartenenti a famiglie che si richiamavano ad un antenato comune e che si muovevano, sotto la guida dei loro duchi, stanziandosi nei territori via via occupati. Il gruppo che si spinse più a sud fu quello del duca Zottone che raggiunse Benevento. Il grosso dei territori conquistati erano concentrati, però, nell’Italia Settentrionale, Padania, Piemonte, Friuli, Trentino e Toscana; i bizantini riuscirono a mantenere il controllo di gran parte della Romagna, della Pentapoli (cinque città situate sulla costa romagnola e marchigiana: Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona) ,di una striscia di terra che collegava Ravenna con Roma attraverso l’Umbria, delle isole (Sicilia, Sardegna e Corsica), del litorale veneto, delle coste della Liguria e della Toscana, della costa tirrenica da Civitavecchia ad Amalfi, della Puglia centro-meridionale e di parte della Calabria. I Longobardi non riuscirono a portare avanti una conquista completa a causa sia della resistenza bizantina sia della crescente autonomia dei loro duchi che, alla morte di Alboino, rinunciarono a darsi un nuovo re per dieci anni; fu il periodo dell’anarchia militare che causò una sopravvivenza difficile alla popolazione latina, in particolare a quella che viveva nelle aree più largamente occupate dai Longobardi e che fu sottoposta a espropriazione dei terreni. Come ha osservato Paolo Delogu, il problema non riguardò i rapporti con la popolazione romana, intesa come giuridicamente autonoma e dotata di propri ordinamenti ai quali si affiancavano quelli dei Germani, come era avvenuto precedentemente; i Longobardi avevano una forte coscienza di sé e nel loro dominio politico-militare si sarebbero potuti inserire, come avvenne, i discendenti di quei Romani che erano stati capaci di accumulare beni e risorse finanziarie, a patto però di assumere il diritto e le tradizioni longobarde. Si spiega, quindi, perché anche dopo la conquista da parte dei Franchi, gli abitanti continuassero ad essere considerati longobardi. L’Italia, con la conquista longobarda, dovette chiudere i rapporti con il passato e questo fu ben evidente nella condizione di inferiorità giuridica e politica della popolazione latina e nell’organizzazione del territorio: esso infatti risultava fortemente degradato a causa del ventennio di guerra greco-gotica e i Longobardi stravolsero l’assetto delle circoscrizioni amministrative ed ecclesiastiche, anche perché alcune di esse erano divise tra lor e i Bizantini. I Longobardi non ebbero riguardo per la Chiesa cattolica e soprattutto non fecero distinzione tra i beni ecclesiastici e quelli privati, ostacolando il funzionamento dei vescovadi, che spesso si ritrovarono privi del loro titolare. Tutto questo non significa che i Longobardi stravolsero l’assetto viario e la rete degli insediamenti, ma anzi ebbero come punto di riferimento proprio le città romane e scelsero i siti già abitati dai Romani. A livello archeologico ne sono un esempio siti come Castelseprio che apparentemente si erano rivelati come siti di fondazione longobarda per poi rivelarsi, invece, di età imperiale, o aree cimiteriali che sorsero proprio in siti già utilizzati dai Romani, come Cividale del Friuli e Nocera Umbra. Il fatto che vi fosse continuità non significa però che nulla fosse cambiato: le strutture edilizie erano già fortemente in degrado dal IV secolo, motivo per cui Teodorico aveva avviato un vasto intervento di recupero. L’arrivo dei Longobardi non fece che aggravare il degrado già esistente, anche nelle aree ancora occupate dai Bizantini, dove si restrinsero le aree abitate, gli edifici pubblici in rovina furono utilizzati come cave di materiale e le tecniche edilizie peggiorarono. Gregorio Magno e l’evoluzione politica dei Longobardi- Per acquisire un ordinamento politico più evoluto, i Longobardi si volsero al modello romano rafforzando il ruolo del re, che necessitava dell’appoggio dell’episcopato cattolico. Il procedimento fu quello comune agli altri regni romano-germanici ma più lento. Nel 584 viene restaurata l’autorità regia per opera di Autari che si fece cedere dai duchi la metà delle loro terre; per la gestione dei beni del sovrano vennero creati degli appositi funzionari, i gastaldi, che con il passare del tempo videro aumentare le proprie competenze con lo scopo di limitare il potere dei duchi e tenerli sotto controllo per conto del re. Un’altra categoria di collaboratori furono i gasindi, legati al re da vincoli di fedeltà personale, fedeltà ricambiata con ricchi doni. Ad Autari successe Agilulfo che instaurò il suo rapporto con la Chiesa cattolica in toni non conflittuali; pontefice era Gregorio Magno, discendente da una nobile famiglia romana e dotato di cultura giuridica e letteraria, che ebbe il merito di voler rendere autonomo il papato dall’impero bizantino per farne la guida della Chiesa universale: fino ad allora, infatti, il primato del vescovo di Roma sulla Chiesa era considerato soltanto onorifico, sia in Oriente che in Occidente, e la lontananza dal potere imperiale lasciava i vescovi d’Occidente privi di un riferimento sicuro. Gregorio Magno si preoccupò di dare unitarietà alla cristianità occidentale riordinando e diffondendo la liturgia romana con il relativo canto, che da lui prese il nome di gregoriano, e di evangelizzare maggiormente le popolazioni pagane e 5-IL MONDO ARABO E IL MEDITERRANEO Il più grande impero del Medioevo- Durante il conflitto tra Bizantini e Persiani, in Arabia maturarono eventi che di lì a poco avrebbero cambiato le sorti del Mediterraneo e dei popoli su di esso affacciati, eventi riconducibili alla nascita di una nuova religione, l’Islam. La “questione araba” fu di vitale importanza per la nascita dell’Europa stessa, come individuato da Pirenne: infatti, secondo lo studioso, i Germani che si erano insediati all’interno del mondo romano, non ne avevano alterato comunque i caratteri fondamentali e quindi le città continuarono ad essere i centri dello scambio e della vita politico-amministrativa e il Mediterraneo a rappresentare il fattore unitario di tutte le popolazioni. Furono gli Arabi a porre fine al commercio occidentale e all’unita del Mediterraneo, oltre che a provocare la scomparsa delle città e la nascita di un’economia agraria. A questa tesi di Pirenne, però, sono state fatte delle obiezioni: è stato notato come la crisi dell’urbanesimo e dell’economia occidentali fosse avviata già da tempo (anche se il culmine della crisi stessa coincide proprio con l’espansione araba) e come anche dopo l’espansione araba i traffici nel Mediterraneo non cessarono. Lo storico francese Lombard, anzi, rendeva merito agli Arabi di aver rivitalizzato l’economia occidentale. Sicuramente la tesi di Pirenne rimane ancora valida soprattutto tenendo conto del fatto che effettivamente gli Arabi sferrarono un durissimo colpo all’impero bizantino, riducendone l’influenza ed estensione, creado un vuoto di potere in occidente e lasciando campo libero alla Chiesa di Roma e al regno dei Franchi, L’Arabia prima di Maometto- La penisola arabica, situata tra Africa ed Asia, è nel complesso un tavolato desertico caratterizzato da rilievi lungo la fascia costiera, il che rende il clima molto caldo e secco. Uniche risorse idriche sono le acque sotterranee che alimentano le oasi e rendono possibile l’irrigazione. Secondo le fonti più antiche, l’area centro-settentrionale era abitata da tribù di nomadi beduini che praticavamo allevamento, commercio e razzie, e da tribù di sedentari che vivevano in città o poveri villaggi. L’area meridionale, invece, favorita dalle piogge e punto di incontro tra oceano Indiano e mar Mediterraneo, era popolata da stirpi di lingua diversa rispetto a quelle dell’area settentrionale e più civilizzate e proprio qui fiorirono vari regni, come quello di Saba famoso per le sue ricchezze. Tuttavia, la vicinanza alla Siria e all’Egitto e il contatto con Egiziani, Macedoni, Greci, Persiani e Romani favorirono anche al nord la nascita di forme di vita più civilizzate e di importanti centri politici e culturali, come il regno dei Nabatei e di Palmira alla cui scomparsa la penisola conobbe un periodo di regresso. La maggior parte della popolazione era formata da Beduini che avevano sviluppato, vivendo duramente nel deserto, un forte senso di unità e solidarietà all’interno delle tribù, permettendo l’aggregazione in sistemi intertribali. I membri delle tribù erano uguali tra loro ma alla guida di ognuna di esse vi era un capo elettivo, assistito da un consiglio e da un giudice; le donne erano considerate beni di famiglia e venivano cedute ai mariti dietro pagamento di una dote. Differenze tra le due aree della penisola erano presenti anche sul piano religioso, all’interno del quale prevaleva il politeismo. Gli Arabi meridionali adoravano divinità che erano la personificazione dei pianeti e a loro dedicavano templi e santuari, quelli del Nord adoravano divinità varie, sottomesse però ad una divinità suprema, Allah. I luoghi di culto erano meta di pellegrinaggio ma anche punti di incontro e di scambi commerciali. Nella penisola erano presenti anche il Cristianesimo e l’Ebraismo. La frammentarietà politica e culturale sembrava dover tenere marginati gli Arabi, ma la penisola era comunque il luogo di transito delle merci provenienti dall’India o dall’Africa e dirette verso la Mesopotamia o il Mediterraneo. La rotta via terra passava per La Mecca, che divenne successivamente una delle città maggiori grazie alla posizione geografica, alla grande presenza di sorgenti e alle capacità politiche dei capi. Mecca fu il luogo di nascita di Maometto tra il 569 e il 571. Maometto e la nascita dell’Islam- Maometto proveniva da una famiglia non tra quello dominanti ma neanche tra le ultime della città. Rimasto orfano, fu allevato da uno zio e sposò una ricca vedova, raggiungendo una condizione economica che gli permise di dedicarsi alla riflessione religiosa. Nel 610 gli apparve l’arcangelo Gabriele che gli annunciò di essere l’apostolo di Allah; nel 613 Maometto diede inizio alla sua predicazione che mirava a far riconoscere Allah come unico vero Dio e a far fare atto di sottomissione alla sua autorità, senza però attaccare direttamente il politeismo. Ben presto, però, cominciò a condannare i culti idolatrici, temendo che il suo messaggio venisse assimilato al politeismo. Gradualmente il profeta elaborò la nuova dottrina e il rituale della preghiera, che il credente doveva recitare rivolto verso Gerusalemme. Nel 622 lasciò La Mecca e raggiunse la città della famiglia materna, che prese il nome di Medina (città del profeta): questo evento rappresentò per i suoi seguaci l’inizio di un’era. A Medina cercò di riunire attorno a sé tutti gli abitanti, compresi gli ebrei, incoraggiandoli a convertirsi e ottenendo risultato solo con gli Arabi politeisti; gli ebrei, che inizialmente avevano visto dei punti di contatto con la loro religione, si allontanarono man mano che l’Islam riceveva una sua caratterizzazione ben precisa: evento fondamentale fu la sostituzione di Gerusalemme con La Mecca come punto di orientamento della preghiera. Allo stesso tempo, Maometto cercava di accentuare l’esclusività della sua religione, etichettandola come l’unica vera fede, in quanto gli era stata rivelata da Dio, e istituendo il ramadan in ricordo dell’episodio. Il Corano e i pilastri della fede islamica- Il pensiero di Maometto non fu raccolto e sistemato da lui stesso ma fu fissato nel libro sacro del Corano una ventina di anni dopo la sua morte (632) e utilizzando la lingua dei poeti arabi, compresa sia da nomadi che da sedentari, che divenne lingua di cultura a seguito dell’espansione musulmana. Elementi fondamentali della religione islamica, i cosiddetti pilastri, sono:  La doppia professione di fede: Non c’è altro dio che Allah e Maometto è il suo inviato. In questo modo l’Islam viene distinto dal politeismo e dalle altre religioni monoteistiche;  La preghiera per richiedere perdono e benedizione, recitata con il viso rivolto verso la Mecca, sia individualmente 5 volte al giorno al richiamo del muezzin sia in forma comunitaria, il venerdì a mezzogiorno in una moschea, dove l’Iman commenta i problemi del momento sulla base del Corano;  Il ramadan, nel cui mese è proibito dall’alba al tramonto bere, mangiare e avere rapporti sessuali. Il divieto non è valido per la notte;  Il pellegrinaggio a La Mecca, a patto che ve ne siano le possibilità materiali, almeno una volta nella vita. È un atto di purificazione e tende a tenere uniti e solidali i musulmani sparsi per il mondo;  L’elemosina di purificazione, cui erano tenuti i benestanti per aiutare i fratelli bisognosi. Alcuni musulmani aggiungono un sesto pilatro, rappresentato dalla guerra santa, la jihad, considerata l’equivalente della crociata cristiana. In realtà la jihad ha un significato molto più profondo e va considerata non soltanto come vera e propria guerra per diffondere e difendere l’Islam, ma come una guerra con se stessi, contro le cattive inclinazioni. Nonostante si ritenesse che il Corano potesse dare una risposta a qualsiasi problematica, nel mondo arabo ci si accorse ben presto che questo non era possibile e quindi si fece ricorso alla sunna, ovvero la tradizione relativa al comportamento di Maometto in particolari circostanze, che divenne una delle basi del diritto musulmano. La comunità musulmana delle origini e il califfato elettivo- A Medina, Maometto fece costruire una casa che divenne luogo di preghiera e di riunione degli abitanti, ad eccezione degli Ebrei, che furono cacciato o sterminati. Gli attacchi alle carovane partite o dirette a La Mecca permettevano agli abitanti di Medina di sopravvivere e allo stesso tempo accrescevano il prestigio di Maometto. Nel 629, dopo una tregua, anche nell’esercito, che si caratterizzava per il reclutamento di mercenari, che passò al comando di capi militari, gli emiri, che acquistarono un ruolo sempre più crescente. Per questo motivo, nel X secolo, fu istituita la figura del capo supremo dell’esercito, l’emiro degli emiri, posto anche sopra al visir. La lingua araba si rivelò un potente fattore di unità religiosa e culturale, infatti essa fu il principale mezzo di comunicazione del mondo musulmano ma anche una lingua di cultura. La cultura araba, grazie all’apporto di numerosi popoli, si sviluppò in nuovi campi, come la medicina, la filosofia, la fisica, l’astronomia, la matematica e la geografia. Soltanto l’arte non raggiunse, con gli Abbasidi, lo splendore raggiunto invece con gli Omayyadi, ai quali risalgono i monumenti più importanti dell’architettura araba religiosa e civile. Si assistette ad uno slancio anche sul piano economico: il settore produttivo principale era quello agricolo, che registrò notevoli cambiamenti soprattutto nel campo delle tecniche agrarie, che videro il perfezionamento dei sistemi di irrigazione, l’introduzione di nuove colture e l’incremento di quelle destinate sia all’alimentazione che all’industria tessile. Ruolo centrale rivestirono le città: ne furono fondate di nuove, ma anche quelle vecchie ebbero un notevole incremento demografico, diventando centri di vita intellettuale oltre che sedi di attività produttive. Si sviluppò l’artigianato, che portò alla nascita di quartieri specializzati, e il commercio, i cui guadagni venivano investiti nel settore edilizio e in quello agricolo. La rottura dell’unità islamica- L’aumento della ricchezza all’interno del mondo arabo-musulmano accentò gli squilibri sociali, in particolare la concentrazione di terre nelle mani degli alti funzionari provocò danni ai piccoli coltivatori che preferirono cedere le loro terre ai grandi proprietari e mettersi sotto la loro protezione. Lo sviluppo delle città avvenne a spese delle campagne che si spopolarono e questo portò alla concentrazione di emarginati nelle stesse città. Tuttavia furono le spinte autonomistiche a mettere in crisi l’impero abbaside, spinte dovute a motivazioni religiose ma anche alle ambizioni personali dei governatori locali. Gli stati islamici di Egitto e Spagna- La Spagna musulmana era divenuta, col tempo, un emirato indipendente e, nel X secolo, un califfato ed aveva raggiunto una grande prosperità economica e un alto livello di civiltà, grazie alla tolleranza nei confronti di cristiani ed ebrei e alla capacità dei suoi emiri. Alla fine del X secolo, la capitale Cordova rivaleggiava con Baghdad come centro di traffici commerciali e sul piano artistico e letterario. In questo periodo fu avviata una politica espansionistica ai danni dei Cristiani del nord e dei Berberi musulmani del Marocco. In un decennio, però, i numerosi conflitti interni e le rivolte dei cristiani provocarono la frantumazione del califfato in tanti piccoli Stati, frantumazione interrotta dagli Almovaridi, una dinastia berbera che dal Marocco estese il suo dominio in Spagna. Comunque l’espansionismo musulmano cominciava a scontrarsi con quello Cristiano. Ugualmente in Egitto si creò un califfato autonomo, per opera dei Fatimiti sciiti, che estesero il loro dominio anche sulla Sicilia. La Sicilia islamica- La Sicilia aveva affrontato le incursioni degli Arabi dal 625 ma la conquista vera e propria ebbe inizio dall’827 con la dinastia degli Aghlabiti che, dopo essere sbarcati a Mazara ed essersi vittoriosamente scontrati con i Bizantini a Corleone, si diressero a Siracusa, avanzando anche nel resto dell’isola, fino a Palermo. La conquista della parte occidentale fu completata intorno all’840 e gli Arabi si diressero a conquistare anche la parte orientale, impadronendosi di Messina nell’842/843. Per un decennio la situazione rimane in stallo a causa dei conflitti tra Arabi e Berberi, ma nell’878 venne conquistata anche Siracusa e il resto dell’isola che divenne un emirato indipendente e conobbe un periodo di crescita e sviluppo, testimoniato dalla fiorente vita urbana, di cui Palermo rappresentava un esempio: divisa in cinque quartieri, ricca di edifici sacri e non, centro di attività commerciali e artiginali. La disponibilità di sorgenti e acque correnti permise lo sviluppo dell’agricoltura più avanzata del tempo in tutta l’isola, caratterizzata da colture di agrumi, gelsi, palma da dattero e papiro. L’isola divenne fiorente anche nel campo culturale e letterario, come centro di studi di diritto e interpretazione del Corano e della sunna, di studi storiografici, filologici e poetici. Gli Arabi, il Mediterraneo e l’Europa- E’ necessario ricordare come l’espansionismo arabo non abbia provocato fratture nel Mediterraneo: continuarono i contatti diplomatici e culturali, continuarono i traffici commerciali di prodotti tipici come l’olio, i cerali, i tessuti e le razzie permisero lo sviluppo di un nuovo tipo di commercio, quello degli schiavi, particolarmente richiesti sia in Occidente che in Oiente. PARTE SECONDA- La nascita dell’Europa 6-ECONOMIA E SOCIETA’ NELL’ALTO MEDIOEVO Il paesaggio e l’ambiente- Tra VI e VIII secolo il mondo bizantino riusciva a mantenere intatte le caratteristiche della civiltà ellenistico-romana, quello arabo ad elaborare una fiorente civiltà urbana mentre il mondo cristiano occidentale entrava in un grave declino sul piano dell’urbanesimo e in un processo involutivo che coinvolgeva qualsiasi aspetto della società. Questa involuzione era visibile in particolare nel paesaggio, abbandonato e degradato stando alle fonti antiche: le città scomparvero o diminuì la loro estensione poiché gli abitanti molto spesso ne occupavano solo l’area meglio difendibile. Il fenomeno non ebbe la stessa intensità ovunque ma toccò anche quelle zone che sembravano esserne immuni, come l’Italia meridionale influenzata da bizantini e arabi. Non scomparvero solo le città ma anche la fitta rete di villaggi, ed anche in questo caso non in maniera omogenea: il fenomeno fu più intenso e precoce al sud e toccò maggiormente le pianure e le aree urbanizzate rispetto alle aree interne e montuose. Ne risentì anche la rete viaria, che era stata uno dei vanti dell’impero romano, sempre in maniera variabile da regione a regione; tuttavia essa fu completamente sconvolta: i tracciati persero il selciato, causando il peggioramento delle condizioni di percorribilità e soprattutto il venir meno degli scambi. Tutto questo rappresentò un peggioramento delle condizioni ambientali in generale, poiché con l’abbandono delle città, dei villaggi e delle strade venne meno la manutenzione degli argini dei fiumi, la canalizzazione delle acque e la sistemazione dei pendii, motivo per cui ovunque si assistette all’avanzamento delle paludi e all’aumenti dei terreni incolti. Il bosco tra realtà e rappresentazione mentale- Ugualmente cominciarono a dilatarsi le foreste, che in antichità avevano subito il diboscamento, variabilmente a seconda delle aree: in quelle a clima più secco non videro la rinascita di grandi boschi, che invece caratterizzavano le regioni oltre il Reno. In generale, il bosco ebbe grande importanza per le popolazioni dell’Alto Medioevo, in campo economico, materiale e psicologico: nei boschi si praticava la caccia. La selvaggina era particolarmente abbondante e vi era scarsità di cacciatori, motivo per cui i prodotti della caccia rappresentavano una componente essenziale dell’alimentazione. Le foreste permettevano la raccolta di frutti spontanei, della legna, fondamentale per la fabbricazione di attrezzi agricoli, per edilizia abitativa e per quella a scopo difensivo. Rispetto all’antichità, in cui il legno era comunque una la curtis o villa, di cui faceva parte anche un terzo gruppo composto da boschi, prati, stagni, terre incolte, indispensabili per la sopravvivenza delle famiglie contadine. Il ruolo delle prestazioni d’opera- I prodotti dell’agricoltura e dell’artigianato della curtis non venivano sempre consumati in loco. Spesso i proprietari possedevano più corti, in cui si recavano per consumare i prodotti accumulati, ma a volte li facevano trasportare nel luogo di residenza vero e proprio. Questo accumulo e trasporto di beni rappresentava una necessità per i monasteri che, dovendo accogliere e sfamare i bisognosi e i pellegrini, avevano bisogno di una maggiore disponibilità di prodotti. Da qui l’organizzazione dei servizi di trasporto. Le origini dei poteri signorili- Quando si parla della curtis o della villa, più che di proprietario si parla di signore, col passare del tempo. Ovviamente, sui servi egli aveva pieni poteri ed esigeva totale obbedienza, sebbene questi avessero visto, grazie al Cristianesimo, un miglioramento delle proprie condizioni di vita; tuttavia la Chiesa non era ancora arrivata a bandire del tutto la schiavitù. Inizialmente la condizione dei servi era differente da quella dei coloni, che dipendevano dal proprietario solo dal punto di vista economico ma, crescendo il ruolo dei grandi proprietari che divennero protettori anche dei coloni, fu inevitabile che i signori esercitassero il loro potere giuridico e di comando anche su questi ultimi. Non si trattava di una dipendenza priva di atti formali: già nell’VIII secolo vennero stilati documenti relativi all’uso di riconoscere per iscritto l’autorità del signore (pratica della commendatio), in cambio della sua protezione e del suo aiuto in caso di necessità. 7- L’IMPERO CAROLINGIO E LE ORIGINI DEL FEUDALESIMO L’ascesa dei Pipinidi- Il graduale cambiamento del paesaggio e dei rapporti sociali non furono che lo sfondo per i grandi eventi di natura politica e militare che avrebbero segnato il destino dell’Europa. Al centro del quadro politico-militare era il regno dei Franchi che, dopo la morte di Clodoveo, vide un progressivo indebolimento del potere regio e la divisione del regno in Neustria, Austrasia, Aquitania e Borgogna, in conflitto tra loro. Nel VII secolo le lotte per l’egemonia vennero concentrandosi tra Austrasia e Neustria, in cui il potere era effettivamente detenuto dai maestri e maggiordomi di palazzo: alla metà del secolo si imposero i maestri di palazzo dell’Austrasia, i Pipinidi, le cui fortune furono procurate da Pipino II di Heristal, a capo del potere di Austrasia, Neustria e Borgogna. Suo successore fu Carlo Martello, fautore di un’opera di ricostruzione politico- territoriale che lo vide rinsaldare il potere nelle regioni già sotto il suo controllo e in quelle in cui il potere dei Franchi non si era mai imposto definitivamente, come la Frisia, l’Alemannia e la Turingia. Decise di porre sotto il suo controllo anche l’Aquitania, preoccupato del pericolo degli Arabi che avevano valicato i Pirenei e si erano spinti in Borgogna. Carlo Martello riportò sugli Arabi una grande vittoria a Poitiers nel 732, vittoria che non respinse gli Arabi oltre i Pirenei ma che gli conferì grande prestigio e il ruolo di difensore della cristianità. Dopo la scomparsa senza eredi diretti del re merovingio, Carlo Martello lasciò il trono vacante in modo da poter governare come un sovrano a tutti gli effetti: infatti suddivise il regno tra i figli, assegnando l’Austrasia, l’Alemannia e la Turingia al primogenito Carlomanno e la Borgogna, la Neustria e la Provenza al giovane figlio Pipino il Breve. Tuttavia i figli non riuscirono a seguire la strada battuta dal padre e , dopo due anni, per contrastare l’opposizione dell’aristocrazia dovettero porre sul trono la dinastia merovingia. I due fratelli sostennero l’attività di evangelizzazione del monaco Bonifacio, che si era recato a predicare il vangelo a Frisoni e Sassoni, invano. La sua opera fu però importante per poter porre quelle regioni sotto l’influenza della Chiesa di Roma e sotto il dominio dei Franchi, attraverso la creazione di distretti ecclesiastici che divennero sedi vescovili. Nel 747 Carlomanno abdicò, ritirandosi nel monastero di Montecassino, lasciando campo libero al fratello Pipino il Breve, che ritenne doveroso dare una parvenza formare al suo potere. Nel 751 si fece acclamare re da un’assemblea di grandi a Soissons, facendosi ungere con l’olio santo da Bonifacio e da altri vescovi, dopo aver rinchiuso in un convento il sovrano merovingio. Pipino volle porsi in maniera differente rispetto ai merovingi: l’unzione e l’approvazione del papa servirono a dare al suo potere un fondamento sacro, facendolo discendere direttamente da Dio. Questo aspetto fu sottolineato e ribadito quando si fece consacrare nuovamente qualche anno dopo insieme ai figli Carlomanno e Carlo, dal pontefice Stefano II, recatosi in Francia per richiederne l’aiuto contro i Longobardi. Le basi della potenza dei Pipinidi e le origini del feudalesimo- Alla base della ricostituzione dell’unità politica dei Franchi vi erano sicuramente le capacità politico- militari di Pipino di Heristal, Carlo Martello e Pipino il Breve ma anche le potenzialità della clientela armata. I popoli germanici erano per definizione dediti alle armi, dedizione che si era attenuata con la trasformazione dei guerrieri in proprietari terrieri. Tuttavia questa dedizione alle armi non si era annullata e la partecipazione all’esercito regio rappresentava una prerogativa e un dovere per tutti gli uomini liberi. L’attitudine alla guerra rimaneva, però, intatta in alcune minoranze guerriere i cui giovani entravano a far parte del seguito armato dei sovrani o dei nobili che, una volta terminate le guerre di conquista, per ricompensarli, li tenevano con sé, accasandoli attraverso la concessione di terre. In cambio i guerrieri, dopo aver prestato giuramento, si impegnavano a prestare servizio militare in determinate circostanze. L’ingaggio del guerriero venne, man mano, formalizzato attraverso una vera e propria cerimonia e sancito con un giuramento di fedeltà: in questo modo il termine celtico vassus (servitore, giovane) assunse il significato di cavaliere legato al suo signore da un vincolo di fedeltà personale. La ricompensa da parte del signore venne indicata con il termine feudo, che passò dal significare bestiame o bene mobile a bene fondiario (poiché generalmente il vassallo veniva ricompensato con la concessione di terre). All’interno dell’esercito regio, quindi, vennero assumendo un ruolo di preminenza i nuclei vassallatici, sia per la prestanza fisica e l’abilità nell’uso delle armi che per un armamento più efficace, non alla portata di tutti. Il nuovo tipo di armamento dipendeva dallo sviluppo delle nuove tecniche di combattimento che richiedevano un’armatura più pesante per difendere il cavaliere dalla violenza dell’urto. Ovviamente i Pipinidi potevano ampiamente contare di seguiti armati di questo tipo, grazie ai numerosi possedimenti, ma sotto Carlo Martello attinsero anche al patrimonio di monasteri e chiese vescovili, con l’ovvia opposizione di vescovi e abati che venne aggirata lasciando agli enti ecclesiastici la proprietà dei beni concessi ai vassalli, che versavano loro un canone e prestavano loro servizio armato in difesa della cristianità, minacciata dagli Arabi. Quindi i Pipinidi poterono contare su un vasto numero di clientele militari e politiche, il che spiega come Pipino riuscì a spodestare i merovingi. La ripresa dell’espansionismo franco e la conquista dell’Italia- Grazie all’appoggio di questo vasto apparato clientelare, Pipino il Breve potè dare inizio ad una nuova fase di espansione del regno. I primi ad esserne colpiti furono i Longobardi, impegnati anch’essi ad espandersi in Italia a seguito del re Astolfo. Davanti Carlo Magno non volle rendere perfettamente omogenei i territori conquistati e ne è una testimonianza il fatto che in essi rimasero in vigore gli ordinamenti e le leggi preesistenti. Dove non costituì regni dotati di autonomia e affidati ai figli, Carlo creò dei distretti a capo dei quali pose funzionari pubblici con il titolo di conti e con il compito di provvedere alla difesa e all’amministrazione della giustizia. Nelle zone in cui era necessario un più forte impegno militare, i distretti, le marche, avevano maggiore estensione ed erano affidati ai marchesi, sempre funzionari. Distretti erano anche i ducati. Conti, duchi e marchesi erano solitamente reclutati sul posto ma, nel caso di un controllo più efficace sulle popolazioni più irrequiete, venivano scelti tra i vassalli diretti del re o tra le famiglie più legate alla corte franca. I funzionari si radicavano nel territorio di loro competenza, creandosi una larga base patrimoniale e stringendo rapporti all’interno del distretto di competenza; non bisogna dimenticare, inoltre, che spesso erano già in possesso di un proprio feudo o comunque lo avrebbero ricevuto in cambio della fedeltà al sovrano. Nelle mani del funzionario finiva per concentrarsi un vasto patrimonio, comprensivo di terre detenute a vario titolo, che entravano a far pare dei beni di famiglia. Per poter controllare i funzionari, all’interno dei distretti furono insediati i vassi dominici, fedeli diretti del re, e si fece sempre più uso dell’immunità per sottrarre al fisco i beni del demanio imperiale e per ridurre l’autorità dei funzionari. L’amministrazione dell’impero faceva capo al palazzo e ai suoi funzionari e dignitari, tra i quali tre svolgevano un ruolo di primo piano: l’arcicappellano, capo dei chierici del palazzo e preposto agli affari di natura ecclesiastica; il cancelliere, ecclesiastico e posto a capo del personale addetto alla redazione dei documenti; i conti palatini, responsabili della giustizia e spesso incaricati di missioni speciali in veste di delegati del re. Il sovrano nominava anche i missi dominici che, in coppia e ogni anno, visitavano una contea, una marca o un ducato per controllare l’operato di ecclesiastici e funzionari laici. L’attività legislativa di Carlo Magno- Uno dei pochi aspetti attraverso cui dare omogeneità all’impero, fu l’attività legislativa di Carlo che si esprimeva nei capitolari, leggi formate dai capitula (brevi articoli) ed emanate nelle annuali assemblee, dette placiti. Si avevano due placiti all’anno: una ad ottobre, in cui si scambiavano le idee sui problemi del momento, e l’altra a maggio, con la partecipazione di tutti i funzionari minori e dei vassalli del re. In particolari i capitolari trattavano di diritto pubblico e diritto ecclesiastico. La riforma di chiese e monasteri- Carlo si occupò particolarmente della restaurazione ecclesiastica, come farà successivamente anche il figlio Ludovico il Pio. Alla base vi erano anche motivi politici: gli ecclesiastici di corte infatti vedevano una coincidenza tra l’impero e la comunità cristiana che erano retti da imperatore e pontefice seguendo lo stesso indirizzo politico e religioso. Quando, infatti, veniva conquistati nuovi territori, subito seguivano l’opera dei missionari e l’introduzione dei modelli della Chiesa franca: questa era articolata in province, diocesi e pievi; le prime erano rette da arcivescovi e comprendevano diocesi più o meno grandi, che a loro volta divise in circoscrizioni parrocchiali dette pievi. Ugualmente l’imperatore si occupò della riforma dei monasteri, che erano decaduti e avevano perso prestigio, a causa della dispersione del patrimonio e alla mancanza di disciplina interna. Fu proprio la disciplina monastica ad essere restaurata, attraverso l’imposizione della regola benedettina. Nel progetto di riforma rientrava l’innalzamento del livello culturale dei monaci, per il quale furono istituite scuole presso le cattedrali e i monasteri stessi, nelle quali oltre alle arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica ed astronomia) si insegnavano teologia, canto gregoriano e le norme della Chiesa. Desiderio di Carlo era quello che tutti i sudditi beneficiassero dell’istruzione, motivo per cui sollecitò spesso i rettori delle pievi per istituire scuole rurali. La rinascita carolingia- L’interesse verso l’istruzione scolastica fu influenzato da un gruppo di intellettuali, ecclesiastici, che Carlo aveva riunito alla corte di Aquisgrana, dando vita alla Schola palatina, un cenacolo di uomini di varia cultura, di cui fece parte lo storico longobardo Paolo Diacono e, più tardi, Eginardo che scrisse la biografia di Carlo Magno. Strumento fondamentale dell’attività di studio fu la nuova scrittura carolina, facilmente leggibile e per questo motivo prontamente diffusasi in Europa. La rinascita del settore scolastico continuò anche dopo la morte di Carlo Magno ed entrò in crisi soltanto con la crisi della dinastia carolingia, sebbene non in maniera grave come gli altri settori. 8- LA CRISI DELL’ORDINAMENTO CAROLINGIO E LO SVILUPPO DEI RAPPORTI FEUDALI Le difficoltà della successione imperiale- Il problema più grave dell’impero di Carlo Magno fu sicuramente quello della successione. Nell’806 egli divise i domini tra i tre figli: assegnò la maggior parte della Francia e le conquiste orientali al primogenito Carlo, l’Aquitania a Ludovico il Pio, l’Italia e la Baviera a Pipino, rimandando a tempi successivi la designazione del successore al titolo imperiale, che toccò a Ludovico il Pio a causa della prematura morte dei due fratelli, nell’814. Ludovico era diverso dal padre ed era maggiormente proteso ad accentuare la sacralità del potere e a guidare l’impero in stretta sinergia con la Chiesa di Roma. Una delle prime preoccupazioni fu quella della successione, che rischiava di minare l’integrità dell’impero. Nell’817 emanò l’Ordinatio Imperii, costituzione con la quale proclamò l’indivisibilità dell’impero, destinato al primogenito Lotario, mentre al figlio Pipino assegnò l’Aquitania con la marca spagnola e a Ludovico (il Germanico) la Baviera. Lotario fu subito associato al potere e inviato in Italia, dove impose nell’824 alla Sede Pontificia la Contitutio romana, con la quale stabilì che il papa avrebbe dovuto prestare giuramento di fedeltà all’imperatore prima di essere consacrato. Ludovico era più debole di carattere rispetto a Carlo Magno e non riuscì ad evitare ulteriori divisioni dell’impero e la conflittualità tra i figli, da cui nacquero scontri armati che videro Lotario e i fratelli ribellarsi al padre. Per risolvere la situazione Ludovico cercò di allargare la schiera dei vassalli, invano. Gli ecclesiastici continuavano ad insistere sulla sacralità e indivisibilità dell’impero ma aggiunsero il principio secondo cui quando l’imperatore non era in grado di assolvere ai suoi compiti di garante della pace e della giustizia, spettava alla Chiesa intervenire per guidarne l’azione e giudicarne il comportamento. Questo pose le basi per l’intervento pontificio nella sfera temporale e politica. La situazione precipitò con la morte di Ludovico il Pio, a seguito della quale Lotario arrivò allo scontro frontale con i fratelli Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, succeduto a Pipino. Questi sconfissero Lotario presso Auxerre e stipularono nell’842 a Strasburgo un patto solenne, promettendosi aiuto reciproco. Nell’843 Lotario fu costretto ad accettare il trattato di Verdun con cui fu sancita la divisione dell’impero: a Carlo il Calvo spettò la parte occidentale (Neustria, Aquitania e Marca spagnola), a Ludovico la parte orientale (Carinzia, Baviera, Alemannia, Turingia e Sassonia), a Lotario la parte centrale (dall’Italia Settentrionale al mare del Nord, passando per la Borgogna, la Provenza, la Lorena e l’Olanda). Lotario mantenne il titolo imperiale ma oltre i suoi domini non aveva alcun potere effettivo. Nell’855 gli successe il figlio Ludovico II e alla morte di questi fu Carlo il Calvo a prendere il dominio d’Italia e la corona imperiale; all’esaurirsi della discendenza diretta di Carlo il Calvo, Carlo il In ogni caso veniva modificato il popolamento della zona, perché gli abitanti delle piccole realtà circostanti tendevano a stabilirsi sotto alla fortezza per essere protetti in maniera più efficace. Ovviamente le trasformazioni colpirono anche la rete viaria che si organizzò gradualmente in funzione dei collegamenti tra i centri fortificati. Fu sconvolta anche l’organizzazione territoriale ecclesiastica: la popolazione rurale faceva capo alla pieve ma, una volta che questa si concentrava nel centro fortificato, la pieve doveva essere adeguata alla nuova organizzazione, motivo per cui molte pievi scomparvero e si formarono nuove parrocchie, il cui ambito territoriale coincideva con quello del castello. Il groviglio dei diritti signorili e l’evoluzione dei rapporti vassallatico-beneficiari- Si è detto come la crisi dell’età carolingia abbia avuto il suo fondamento nei rapporti vassallatico-beneficiari che avevano progressivamente frantumato il potere centrale dell’impero. In realtà non furono soltanto essi la causa della crisi, anche perché furono proprio questi ad esserne coinvolti e ad essere profondamente snaturati. Originariamente fattore fondamentale era il vassallaggio, cioè la fedeltà che il vassallo giurava al suo signore e che solo successivamente veniva ricompensata con un feudo (beneficio), a sua volta impegno per futuri servizi. Il rapporto in queste periodo, invece, si capovolse: il feudo divenne l’elemento decisivo e quindi si diventava vassalli di qualcuno per ricevere un feudo. La fedeltà finì per essere commisurata alla grandezza o meno del feudo. Si giunse alla cosiddetta pluralità degli omaggi: un cavaliere prestava l’omaggio e il giuramento di fedeltà a più signori, ricevendo un feudo da ognuno di essi; in caso di conflitto tra i suoi signori, si considerava obbligato a prestare servizio militare a quello che gli aveva concesso il feudo più grande. Il feudo venne inserito progressivamente nel patrimonio familiare e considerato ereditario, grazie anche ai provvedimenti legislativi a favore: ad esempio il Capitolare di Quierzy, emanato da Carlo il Calvo nell’877, con cui venne stabilito che, in caso di morte di un conte o di un vassallo regio con un figlio minorenne o al seguito dell’imperatore, si sarebbe dovuto provvedere ad una amministrazione provvisoria della contea o del feudo, in attesa del suo ritorno (dell’imperatore). Carlo il Calvo non sancì l’ereditarietà dei feudi e delle contee, riservandosi di decidere al suo ritorno, ma tese ad assicurare ai cavalieri del suo esercito che non sarebbero stati danneggiati nelle loro aspettative di successione, durante la loro assenza. Tuttavia l’ereditarietà dei feudi era in atto già da tempo e il capitolare fu interpretato come provvedimento formale a vantaggio dell’ereditarietà dei feudi maggiori, cioè quelli concessi direttamente dal sovrano. Per i feudi minori, concessi dai vassalli ai loro fedeli, bisognerà aspettare la Constitutio de feudis del 1037. Quindi il risultato dei rapporti vassallatico-beneficiari fu un’intricata rete di rapporti politici che portò alla frantumazione politica. La crisi dell’ordinamento ecclesiastico- La dissoluzione dell’impero carolingio e la frantumazione politica, come già detto, non furono causate semplicemente dalla diffusione dei rapporti feudali ma dalle condizioni complessive dell’Europa del tempo, incapace di far funzionare grandi ordinamenti; infatti parallelamente alla crisi dell’ordinamento pubblico si ebbe quella dell’organizzazione ecclesiastica. I vescovi dedicavano più tempo all’esercizio del potere signorile che all’attività religiosa e soprattutto concedevano in feudo ai loro vassalli le risorse delle chiese. Spesso provocarono l’impoverimento dei monasteri, facendo concessioni ai propri fedeli. Essendo di proprietà laicale, molte chiese furono sottratte al controllo dei vescovi: nonostante la legislazione prevedesse che ai proprietari delle chiese spettasse semplicemente il diritto di presentare al vescovo il chierico candidato ad assumere la cura della chiesa, la realtà era molto diversa, poiché il proprietario laico sceglieva il chierico cui affidare la chiesa e al vescovo non restava che accettarlo. Il danno era maggiore se si trattava di chiese parrocchiali, perché il vescovo veniva privato dell’esercizio del suo ministero pastorale. Diffusa era anche la tendenza di imperatori, re e principi territoriali a imporre propri candidati alla guida di diocesi e grandi abbazie, in modo da averne il sostegno politico oltre che religioso. Al controllo dei laici non sfuggì nemmeno il papato, il vertice della cristianità: e infatti ricordiamo come Lotario impose al papato la Constitutio romana, con la quale il papa eletto avrebbe dovuto giurare fedeltà all’imperatore prima di essere consacrato. 9- L’ITALIA FRA POTERI LOCALI E POTESTA’ UNIVERSALI La frantumazione politica dell’Italia- Nel X secolo l’Italia si configurava con caratteri molto particolari. Erano in atto: crisi del potere regio e comitale, incastellamento, rete intricata di poteri signorili e relazioni vassallatiche, proliferazione di chiese e monasteri privati, basso livello culturale del clero, vescovi più intenti alle funzioni politiche che a quelle religiose. La caratteristica principale era però la coesistenza di localismo e universalismo. Il quadro politico risultava molto frammentato; l’Italia settentrionale e parte di quella centrale formavano il Regno d’Italia, mentre quella meridionale costituita da Puglia, Basilicata, Calabria e parte della Campania erano inserite nell’impero bizantino. L’Italia divenne una terra di incontro e scontro dei due imperi, che rivendicavano i diritti sui territori meridionali rimasti ai Longobardi, come l’antico ducato di Benevento, che si divise in due principati di Benevento e Salerno. La situazione politica dell’Italia meridionale era particolarmente intricata e lo dimostra un episodio che ebbe come protagonista l’imperatore Ludovico II, impegnato nella lotta contro i Saraceni. Dopo aver liberato Bari dal loro dominio nell’871, portò con sé a Benevento l’emiro Sawdan che si accordò con il principe beneventano Adelchi e fece prigioniero l’imperatore, rilasciandolo con la promessa di non vendicarsi del tradimento. Teorica era la sovranità bizantina sui ducati di Napoli, Gaeta e Amalfi, rette da dinastie locali e sempre in conflitto con gli Stati longobardi. Al centro della penisola erano le due signorie di Montecassino e S. Vincenzo al Volturno, poste sotto speciale protezione degli imperatori e rette tra fine VIII e metà IX secolo da abati di origine franca o legati dei carolingi. Con la crisi dell’autorità imperiale videro venire meno il loro appoggio sicuro e furono esposte alle scorrerie dei Saraceni. Il fattore che rendeva tutto più complicato era il papato, che esercitava la sua signoria su parte del Lazio, Umbria e Marche, ma che rivendicava una funzione universale sia politica che religiosa. Bisogna aggiungere la definitiva conquista della Sicilia da parte degli Arabi, che da qui si muovevano per le incursioni nel Mediterraneo occidentale e nel Sud Italia. Il regno d’Italia- Dopo la deposizione di Carlo il Grosso, nell’887, il regno fu attribuito da un’assemblea di nobili a Berengario, marchese del Friuli, contro cui si mosse Guido, duca di Spoleto, che riuscì a sconfiggere Berengario e ad ottenere la corona di imperatore. Alla sua morte gli successe il figlio Lamberto, che venne però contrastato dal re di Germania, Arnolfo di Carinzia, riconosciuto re dai feudatari italiani e incoronato imperatore da papa Formoso. Arnolfo fu però colto da paralisi cresceva lo scontento dell’aristocrazia per lo scarso interesse dell’imperatore rispetto ai problemi del paese; in Italia i grandi feudatari non gradivano che il re fosse costantemente presente, abituati ad una grande autonomia, e scontenta era anche l’aristocrazia romana, poiché privata dell’influenza sul papato. Tutto ciò causò la sollevazione dei feudatari italiani, guidati dal marchese Arduino d’Ivrea, cui seguì quella dei Romani che costrinse l’imperatore a lasciare la città. Ottone III morì nel 1002 senza eredi diretti. Arduino d’Ivrea primo re nazionale? – Ad Ottone III successe il cugino Enrico II che concentrò gli sforzi in Germania, grazie all’appoggio dei vescovi, cui l’imperatore fece ampie concessioni, mantenendo un vigile controllo. Poiché Enrico si occupava della Germania, in Italia progredirono i progetti dell’aristocrazia che non vedeva di buon occhio l’accostamento del regno d’Italia a quello di Germania e l’eccessivo potere nelle mani dei vescovi. Nel 1002 venne incoronato re a Pavia Arduino d’Ivrea, che però venne sconfitto due anni dopo da Enrico II che ottenne la corona d’Italia. Il potere locale e l’emergere di nuovi ceti – Nel 1014 Enrico II si fece incoronare imperatore dal pontefice Benedetto VIII, della famiglia dei conti di Tuscolo. Il fatto che questa famiglia avesse ripreso il sopravvento in particolare nelle questioni del papato, ci fa capire come gli imperatori tedeschi avessero difficoltà a rendere effettivo il loro potere in Italia. La situazione era resa difficoltosa dal fatto che in Italia non si erano creati grandi principati territoriali che potessero coordinare e controllare le forze signorili locali; la loro formazione era stata impedita dalle numerose incursioni saracene, che avevano contribuito all’incastellamento e alla nascita di piccole dominazioni territoriali; la vitalità delle città, accresciuta nonostante la crisi dalla politica ottoniana di appoggio ai vescovi. Questi ultimi erano fortemente condizionati dalla comunità cittadina e non potevano operare se non con il consenso degli abitanti, che erano lieti di sostenerli perché i poteri nelle mani dei vescovi rappresentavano per la comunità e per gli operatori economici una maggiore libertà e un coinvolgimento nella vita politica locale molto più ampi rispetto a quanto avveniva nelle campagne. Città e poteri signorili in Italia meridionale – Processi simili erano in atto anche nell’Italia meridionale, in particolare in Campania e in Puglia le città erano avviate alla ripresa economica e demografica. Amalfi, Gaeta, Napoli, Salerno, Bari, Otranto, Taranto e Reggio traevano vantaggio dal collegamento con il mondo bizantino e con quello arabo. La struttura sociale cominciava a differenziarsi grazie all’emergere di nuovi ceti legati all’artigianato e al commercio. Emerse man mano anche la coscienza cittadina e la consapevolezza di poter giocare un ruolo sul piano politico. Tra le zone longobarde e quelle bizantine le differenze erano molto più evidenti fuori dai grandi centri urbani: nelle prime vi era la tendenza a formare signorie territoriali e fondiarie, come nel resto d’Italia; le aree bizantine di Puglia, Basilicata e Calabria, organizzate nei temi di Longobardia, Lucania e Calabria, furono inserite in una struttura di governo superiore, il catepanato d’Italia con sede a Bari. In queste zone i Bizantini cercarono di assicurarsi l’appoggio dei vescovi sottomettendoli all’autorità del patriarca di Costantinopoli o consentendo l’elezione di prelati sulla cui fedeltà potevano contare. Concessero titoli onorifici agli esponenti del ceto dirigente locale, assicurandosene la fedeltà, e attraverso il monachesimo italo-greco la popolazione venne orientata verso i modelli del mondo bizantino. 10-SPLENDORE E DECLINO DI BISANZIO La grecizzazione dell’impero- Alla fine dell’VIII secolo l’impero bizantino comprendeva un territorio fortemente ridimensionato rispetto a quello del secolo precedente, ma ebbe comunque la capacità di resistere e addirittura reagire verso la metà del IX secolo. A questo nuovo slancio contribuì sicuramente l’attenuarsi delle pressioni degli Arabi ma il fattore principale fu lo sforzo delle dinastie per rinnovare l’organizzazione statale. Fu riformata l’amministrazione provinciale con la creazione dei temi e il concentramento dei poteri militari e civili nelle mani dello stratega, riforma che ebbe come obiettivo il radicamento dei soldati, gli stratioti, nel territorio, rendendoli colonizzatori e proprietari di terre che avrebbero dovuto trasmettere ai figli. Oltre alle proprietà degli stratioti furono favorite le piccole proprietà di contadini liberi, che vivevano in comunità di villaggio che a loro volta costituivano unità amministrative e fiscali. L’impero, impegnato nelle lotte a difesa dei propri territori, dovette rinunciare alle pretese di dominio universale e acquistò un carattere sempre più orientale: il latino fu sostituito dal greco, comunque diviso lingua ufficiale della corte e lingua del popolo; il titolo imperiale abbandonò la terminologia latina per fare uso del termine greco basileus; anche la forte compenetrazione tra vita civile e vita religiosa e la crescente influenza della Chiesa erano di stampo orientale. La controversia sul culto delle immagini- La parte dell’impero più soggetta ad attacchi e sempre in prima linea nella lotta era quella delle province orientali, che proprio in virtù di tale ruolo e consapevoli della loro importanza rivendicavano una maggiore autonomia dal governo centrale, contestando lo strapotere dell’alto clero. Queste province erano anche quelle più direttamente influenzate dall’Islamismo e dal Giudaismo che accusavano il Cristianesimo di idolatria, poiché da sempre contrari alla rappresentazioni della divinità sotto sembianze umane. Nacque, quindi, quel grande fenomeno che fu la controversia iconoclasta, cioè la lotta al culto delle icone; il movimento giunse alla corte di Bisanzio con l’ascesa al trono di Leone III Isaurico che accolse le richieste delle province orientale e inflisse un duro colpo al potere dei monaci e al loro culto delle icone, poiché divenuti troppo indipendenti dal potere imperiale e dotati di grande influenza sul popolo. Non sappiamo se effettivamente l’imperatore fosse convinto delle motivazioni spirituali della lotta iconoclasta o se il suo intento fosse piuttosto quello di mantenere salda l’unità dell’impero. Ad ogni modo, nel 726 egli proibì con decreto imperiale il culto di tutte le immagini, ordinandone la distruzione nonostante l’opposizione del patriarca di Costantinopoli e del pontefice di Roma, che scomunicò l’imperatore e i suoi sostenitori. dove aveva sede il califfato musulmano, per poi conquistare Gerusalemme e dare un duro colpo all’impero bizantino, sconfiggendolo in Armenia. Il pericolo maggiore fu rappresentato, però, dai Normanni dell’Italia meridionale, che rischiavano di minare la sopravvivenza dell’impero: essi, infatti, espulsero i Bizantini dall’Italia, conquistarono Durazzo e puntarono a prendere Costantinopoli. L’imperatore Alessio Comneno fu costretto a richiedere l’aiuto di Venezia, che sconfisse i Normanni, chiedendo un alto compenso e facendosi concedere ampi privilegi, come la libertà di commercio in tutte le città dell’impero senza dover pagare dazi e tasse. In poco tempo, i Veneziani divennero arbitri della vita economica dell’impero bizantino. PARTE TERZA- L’apogeo della civiltà medievale 11- INCREMENTO DEMOGRAFICO E PROGRESSI DELL’AGRICOLTURA NELL’EUROPA DEI SECOLI XI-XIII L’aumento della popolazione- Nella seconda metà dell’XI secolo comparvero nel Mediterraneo nuovi soggetti politici, tra cui Normanni e Veneziani, che rappresentavano solo una parte di un ampio movimento, che vide tutte le regioni occidentali in crescita e alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali. Agli inizi del nuovo millennio la popolazione europea aumentò nuovamente: ovunque furono ampliate le terre messe a coltura attraverso diboscamento e bonifica dei territori paludosi; le città si ripopolarono e divennero centri produttivi e di scambio; salirono i prezzi dei prodotti agricoli; aumentò il numero dei membri delle famiglie nobili; migliorarono le condizioni di vita, stando ai ritrovamenti ossei che fanno pensare ad un aumento della durata media della vita. Un elemento fondamentale fu la fondazione di nuovi villaggi, in numero molto più elevato rispetto a quanto avvenuto in precedenza, e simbolo quindi di un aumento demografico. Ovviamente non in tutta Europa la popolazione raggiunse lo stesso livello demografico, dal momento che bisogna tenere conto del numero della popolazione nei secoli precedenti, che variava in base alle zone: l’Italia, ad esempio, era molto più popolata nell’Alto Medioevo rispetto a paesi come Germania e Inghilterra, che effettivamente videro ora triplicata la propria popolazione. L’ampliamento dello spazio coltivato e del popolamento rurale- Altro fenomeno di grandi dimensioni fu l’ampliamento dello spazio coltivato, tenendo sempre in considerazione le differenti condizioni di partenza dei vari paesi. A causa del loro più esteso ed antico popolamento, Italia e Francia non potevano contare sulle immense distese boschive dei paesi centro-orientali. In questi casi di popolamento già consistente, l’espansione delle coltivazioni avveniva a spese delle zone incolte delle curtes e dei villaggi, motivo per cui non si ebbero spostamenti di popolazione e nacquero dei veri e propri contratti tra proprietari terrieri e coltivatori: i primi (soprattutto i monasteri) concedevano la terra, i materiali e le sementi, chiedendo in cambio il pagamento di un canone in natura. L’espansione dello spazio coltivato fu favorita anche dai nuovi ordini monastici del XII secolo, come cistercensi e certosini che, desiderosi di riscoprire lo spirito della regola benedettina e stanchi della ricchezza e potenza delle grandi abbazie, cercarono solitudine e povertà, rifugiandosi nelle foreste e provvedendo al proprio sostentamento. I lavori più pesanti, col tempo, furono lasciati ai conversi, monaci allo stato laico, e intorno ai nuovi monasteri sorsero villaggi di contadini. Non bisogna pensare, però, che la popolazione dedita alle opere di colonizzazione vivesse concentrata nei villaggi, dal momento che nelle aree urbanizzate, le messa a coltura delle terre incolte comportava la costruzione di dimore contadine sparse per i campi o, in altri casi, di case coloniche che fungevano da centro di un’azienda agraria, nata dall’accorpamento di più terre. In questo modo si superò la dispersione delle terre e i cominciò a chiudere i campi attraverso siepi o altri mezzi. Tutto questo avveniva in presenza di disponibilità di capitali; altrove i successi furono minimi e spesso i nuovi villaggi scomparvero per la poca produttività della terra. Le grandi opere di colonizzazione- I dissodamenti, diboscamenti e le opere di bonifica interessarono anche vaste aree fino ad allora quasi deserte, modificando anche il paesaggio stesso. Questo avvenne nei Paesi Bassi, scarsamente popolati nell’Alto medioevo e caratterizzati da isolotti di pescatori e produttori di sale. In pochi secoli l’area acquitrinosa fu bonificata grazie alla creazione dighe e canali di drenaggio per liberare le terre dall’acqua. Le aree così liberate videro la nascita di aziende agrarie e di allevamento. In Spagna il ripopolamento e la messa a coltura di nuove terre andavano di pari passo con la riconquista cristiana dei territori occupati dagli Arabi nell’VIII secolo. Il paese con lo slancio espansivo più forte fu la Germania, grazie all’iniziativa dei principi territoriali che si spinsero vero Oriente, desiderosi di ampliare i propri possedimenti, guidando i coloni oltre i propri domini. Inizialmente dovettero scontrarsi con le rivolte degli Slavi ma durante il XII secolo riuscirono a far risorgere castelli, villaggi e a sovrapporsi agli Slavi, che furono convertiti e assorbiti. Verso la fine dello stesso secolo le mire espansionistiche si rivolsero all’area baltica, dove la conquista portò con sé anche la conversione delle popolazioni ancora pagane. L’evoluzione sociale delle campagne- Alla base degli spostamenti e delle opere di bonifica e diboscamento vi fu l’incremento demografico, ma non minore fu la spinta dettata dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, sottraendosi al potere dei signori fondiari. I flussi migratori non ebbero conseguenze solo sui territori di arrivo, ma anche su quelli di partenza, i cui signori dovettero porsi il problema di evitare lo spostamento dei loro contadini. Inizialmente tentarono di riportare i fuggiaschi con la forza ma si resero presto conto che l’unico modo per evitarne la partenza era venire incontro alle loro esigenze di maggiore libertà. Nacquero numerosi patteggiamenti, grazie ai quali molto spesso i contadini riuscirono a far valere i propri diritti, come il riconoscimento di usi e costumi locali, la possibilità di gestire in proprio i servizi di interesse comune, come la riscossione delle imposte e la polizia campestre. Quindi, la curtis subì delle trasformazioni, differenti in base alle caratteristiche del paese; ovunque fu ridotta la riserva padronale ed estesa l’area gestita dai coltivatori, Nonostante questi miglioramenti, la maggior parte dei traffici avveniva via terra, utilizzando le bestie da soma e carri a due o quattro ruote. Le strade, però, non erano più quelle del mondo romano, ben lastricate e dritte, ma erano percorsi accidentati, polverosi o fangosi. Tuttavia la rete viaria si infittì, per l’intensificarsi degli scambi che fecero emergere nuovi assi viari, abbreviando i viaggi dei mercanti e fornendo dei punti di appoggio per il cambio dei cavalli. Le merci del commercio internazionale- La novità del commercio fu l’aumento delle merci in circolazione: ormai circolavano merci di ogni tipo, non solo beni di lusso ma grandi quantità di generi alimentari per il rifornimento delle popolose città. Un prodotto di largo consumo era il grano, in particolare quello del Sud Italia; il sale, per la conservazione della carne e del pesce; il vino, particolarmente richiesto ed esportato dalla Grecia, dalla Francia, dall’Italia meridionale, da Cipro e da Rodi. Intensa era la circolazione delle materie prime per l’industria tessile e dei tessuti, come il cotone o le lane provenienti dall’Inghilterra, come anche la circolazione degli schiavi. Il ruolo del mercante- Il mercante è una figura particolarmente studiata dagli storici; nell’XII e XII secolo non troviamo più il mercante avventuroso che trasportava poche merci ma una vera e propria figura specializzata, che si avvaleva di strumenti sempre più sofisticati per rendere più semplici gli scambi ma anche per evitare che briganti e pirati potessero sottrarre grosse somme di denaro: ad esempio la lettera di cambio o la cambiale tratta. Anche la navigazione fu resa più sicura attraverso la nascita di convogli gestiti dallo Stato e assicurazioni marittime. Un’altra forma di protezione fu la diversificazione degli investimenti, per cui un mercante non impiegava tutte le risorse in un’operazione, ma coinvolgeva in essa altri mercanti, creando una vera e propria società con dei vantaggi: il mercante riusciva a trovare i capitali necessari e poteva investire nel viaggio solo una parte del proprio e i finanziatori beneficiavano degli utili delle attività mercantili. Artigianato e attività manifatturiere- Il commercio si basava non solo sulle derrate alimentari ma anche sui prodotti dell’artigianato e dell’industria tessile, che fu il settore principale dell’industria medievale, in particolare quello laniero, e che portò alla crescita, in Italia, della produzione di tessuti di cotone e seta, diffusa soprattutto nelle città della Lombardia per poi trovare sbocco grazie all’opera dei Veneziani. Gli altri settori produttivi- Tra i settori produttivi acquistò sempre più peso la lavorazione dei metalli per la fabbricazione di armi, soprattutto in Lombardia, e di attrezzi da lavoro. Un settore nuovo fu quello della fabbricazione della carta, inventata in Cina e trasmessa in Europa dagli Arabi; il centro di produzione più importante in Italia per molto tempo fu Fabriano ma nel ‘200 sorsero altre cartiere che favorirono lo sbocco della carta italiana sul mercato europeo. Altri settori artigianali erano quelli dell’intarsio del marmo per l’ornamentazione di pavimenti, dell’oreficeria, della lavorazione dell’avorio, dell’industria del vetro. La bottega artigiana e le corporazioni- Alla base della produzione vi era la bottega artigiana, costituita dal titolare(maestro) con il quale lavoravano i familiari, i collaboratori stabili, gli apprendisti e i salariati, assunti per determinati periodi o per lavori stagionali. Gli apprendisti vivevano nella casa del maestro, che trasmetteva in un certo numero di anni i segreti del mestieri. Diventare maestro portava molti vantaggi, come le maggiori prospettive di guadagno, l’inserimento nella struttura economica della città e l’acquisizione degli strumenti di partecipazione politica attraverso le associazioni di categoria, le corporazioni. Di queste facevano parte i maestri e, subordinati, i collaboratori e discepoli, mentre ne erano esclusi i salariati, che però erano soggetti ai tribunali delle corporazioni. Le corporazioni rifornivano le botteghe di materie prime, regolamentavano i salari, controllavano la quantità e la qualità dei prodotti. Le innovazioni tecnologiche- La più importante tra queste fu sicuramente l’utilizzo dell’energia idraulica in svariati settori. Questa fonte di energia non era sconosciuta, e infatti precedentemente veniva utilizzata per i mulini ad acqua; tuttavia non vi erano i mezzi per sfruttarla pienamente. Di particolare utilità si rivelò l’invenzione dell’albero a canne che trasformava il movimento circolare di una ruota in un movimento lineare alterno che consentì di azionare vari meccanismi a scopo industriale. Sorsero mulini in grado di azionare macchine a martelli per battere i panni e renderli più morbidi, per la lavorazione del ferro, per la concia delle pelli, per la produzione della carta e per segare il legname. 13- LO SVILUPPO DEI CENTRI URBANI E LE ORIGINI DELLA BORGHESIA Dalla città antica alla città medievale- Dall’XI secolo le città furono una componente importante della storia europea; ovviamente esistevano anche prima ma nell’Alto Medioevo ebbero una funzione poco rilevante e a volte marginale. L’urbanizzazione in età antica era stata varia: massima in Italia e Francia meridionale e via via minore man mano che aumentava la distanza dal Mediterraneo. Se nelle aree marginali dell’impero romano le città scomparvero del tutto, altrove sopravvissero anche se ridimensionate in estensione e numero di abitanti. Alla sopravvivenza di queste città contribuirono dei fattori politici e culturali: fu decisivo il ruolo dei vescovi, la cui presenza fece in modo che la città continuasse ad essere il punto di riferimento delle popolazioni contadine dei dintorni. Sopravvivenza non significa, però, continuità: anche in Italia ci sono città romane che scompaiono, altre che cambiano sede, altre che modificano la loro posizione nella gerarchia urbana della loro regione, perdendo importanza rispetto al passato o acquistandone una più grande. Le città romane avevano avuto un ruolo economico modesto, dal momento che rappresentavano centri di consumo più che di produzione e di scambio. Diverso fu l’urbanesimo medievale, che attribuiva alla città il ruolo di centro di produzione e di scambio, dove gli esponenti dei ceti produttivi davano vita a nuove attività economiche e creavano proprie organizzazioni. L’urbanesimo in Italia meridionale- L’Italia meridionale rappresentava il punto di incontro e collegamento tra l’urbanesimo antico e quello medievale, dove le città erano rimaste inserite nello spazio commerciale bizantino e musulmano. Le attività manifatturiere erano in piena espansione ma in generale tutti i settori della produzione erano in forte crescita; tuttavia nonostante questo forte sviluppo commerciale e produttivo, le città meridionali non assunsero un ruolo nuovo rispetto al passato, continuando ad essere gestite dall’aristocrazia fondiaria. Le città marinare dell’Italia centro-settentrionale: Venezia, Genova, Pisa- Sempre nell’XI secolo alcune città apparivano già proiettate verso il futuro, ad esempio le città marinare dell’Italia centro-settentrionale. In primis Venezia, formatasi tra VI e VII secolo in seguito al trasferimento nella laguna degli abitanti del Veneto che fuggivano dai Longobardi. La città rimase nell’orbita di Bisanzio ma ben presto assunse un’organizzazione autonoma. Venezia nel IX secolo poteva disporre di una flotta da guerra e i suoi mercanti avevano contatti in tutto il Mediterraneo, esportando giovani slave destinate agli harem dei sultani arabi. L’intento della città era di rendere il mar Adriatico un mare loro giuramenti di pace e, per limitare i signori territoriali, avviarono con questi delle trattative per avere la concessione di una carta di Comune, cioè l’autorizzazione a formare il Comune. Le trattative risultavano semplici quando i Comuni potevano versare ingenti somme di denaro o quando aumentavano la forza contrattuale, per ragioni differenti. Non mancò però il ricorso alla rivolta armata. Anche in Germania la situazione era simile: le autonomie comunali nacquero dalle trattative alternate a momenti di rivolta e l’iniziativa politica si concentrò nelle mani delle famiglie di grandi mercanti e proprietari terrieri. Nel resto dell’Europa, dove lo sviluppo cittadino fu più lento, le comunità cittadine ebbero minore capacità politica ma riuscirono ad ottenere comunque il proprio spazio di autonomia. 14- IL RINNOVAMENTO DELLA VITA RELIGIOSA E LA RIFORMA DELLA CHIESA La crisi dell’ordinamento ecclesiastico- La generale crescita dell’Europa coinvolse tutti i campi della società, non ultimo quello religioso che mostrò una forte esigenza di rinnovamento. Nel X secolo si era assistito alla crisi delle istituzioni politiche ma anche di quelle ecclesiastiche e, come l’ordinamento pubblico si era frantumato in una fitta rete di diritti signorili, così anche l’ordinamento ecclesiastico non riusciva a funzionare per l’intromissione dei laici nelle nomine di papi, vescovi, abati e per il basso livello morale e culturale di prelati e chierici che trascuravano i loro compiti e sottraevano beni alle chiese. Entrambe queste cause dipendevano a loro volta dal clientelismo, con cui si procedeva a nominare vescovi, chierici etc. La situazione peggiorò con la diffusione della simonia, cioè l’accettazione o la richiesta da parte di sovrani, vescovi e laici di somme di denaro da coloro che aspiravano a conseguire la dignità ecclesiastica. Altro problema era quello dei chierici ammogliati e di quelli che vivevano in concubinato, fenomeno diffuso particolarmente in Italia meridionale per l’influenza della Chiesa greca, che ammetteva il matrimonio dei preti. Alla crisi dell’ordinamento pubblico ci si abituò facilmente, anche perché gli strumenti in mano all’Europa non erano consentivano il funzionamento di grandi organismi politici; alla crisi di quello ecclesiastico, la società reagì prontamente e questo si spiega con l’importanza attribuita agli uomini di Chiesa, il cui comportamento immorale fu sentito come intollerabile, ma anche con la disponibilità, del mondo ecclesiastico, di strumenti culturali per comprendere facilmente il fenomeno e porvi rimedio. Venne avviato, così, un grande movimento di riforma della Chiesa. Cluny e la riforma dei monasteri- Il rinnovamento partì proprio dai monasteri, luoghi in cui la tradizione di studi e riflessione teologica non si era mai arrestata. Nel X secolo cominciarono ad essere sperimentate nuove forme di vita monastica e organizzative, in modo da frenare il condizionamento esterno nei confronti dei monaci. Esperienza importante fu quella del monastero di Cluny, fondato nel 910 in Borgogna, in cui furono sperimentate varie novità; infatti Cluny rappresentò il primo esempio di ordine religioso: se la regola benedettina prevedeva l’indipendenza del monastero sotto l’abate e il vescovo, la regola imposta dai cluniacensi, invece, prevedeva più monasteri sotto la guida di un solo abate, quello di Cluny, coadiuvato localmente dai priori. In questo modo veniva garantita una certa uniformità gestionale e una maggiore resistenza dai condizionamento esterni. L’abate di Cluny godeva dell’immunità ed era direttamente dipendente dal papato. Già al tempo di Ludovico il Pio, l’equilibrio tra vita contemplativa e lavoro della regola benedettina era stato modificato per dare più spazio alla preghiera; i cluniacensi andarono oltre ed eliminarono del tutto il lavoro manuale, che venne affidato a coloni e servi, per introdurre nella loro giornata la lettura di salmi, solenni funzioni religiose, nuovi culti di santi e riti in suffragio dei defunti, che comprendevano non solo preghiere ma anche la distribuzione dei pasti ai poveri. Gli abati dedicavano molto tempo allo studio e all’attività letteraria, in particolare all’agiografia, poiché attraverso le vite dei santi potevano essere proposti modelli di vita cristiana. L’eremitismo e la nascita di nuovi ordini religiosi- L’eremitismo era stato praticato fin dai primi secoli dell’era cristiana come forma di vita monastica dedita all’allontanamento dalla società. Intorno al Mille ebbe grande ripresa, ponendosi come ricerca di una religiosità diversa e più aderente al modello evangelico, in netto contrasto con il modello cluniacense e la sua grandiosità di riti ed edifici. Inizialmente si caratterizzò per la presenza di eremiti isolati ma presto nacquero dei veri e propri ordini religiosi di tipo eremitico, come quello dei Certosini, fondato in Francia alla fine dell’XI secolo. Differente era l’ordine dei Cistercensi, anch’esso fondato nell’XI secolo e alla ricerca della povertà evangelica: per questo motivo i cistercensi si stabilirono in luoghi incolti e paludosi che essi stessi bonificarono e misero a coltura, per procurarsi da vivere con il proprio lavoro. Essi rimasero sottomessi ai vescovi che ne favorirono la diffusione. Il movimento canonicale e i fermenti religiosi nel mondo dei laici- Nella riforma della Chiesa rientrarono anche le comunità canonicali, che erano state favorite dal desiderio dei sovrani carolingi di ripristinare la vita comune del clero, che tuttavia non fu rispettata. La riforma partì dalle cattedrali, tra il X e XI secolo, che cercarono di ripristinare la vita comunitaria come rimedio contro il concubinato: nacquero comunità di chierici, da non confondere con quelle monastiche in cui spesso i monaci non erano chierici. All’interno di questo movimento per la rinascita della vita evangelica si colloca la contestazione, nata a Milano alla metà dell’XI secolo, promossa dal diacono Arialdo che si scagliò contro i chierici che vivevano nel concubinato, esortando a rifiutarne i sacramenti. La riforma imperiale- Gli imperatori tedeschi, a partire da Ottone I di Sassonia, erano stati interessati al funzionamento dell’ordinamento ecclesiastico, per motivi non solo religiosi ma soprattutto politici e di appoggio all’autorità imperiale. Il rinnovamento della Chiesa, quindi, coinvolse e fu promosso proprio dagli imperatori stessi. Significativa fu l’attività di Enrico III che avviò un’opera moralizzatrice all’interno dell’episcopato, poiché molti vescovi avevano adottato uno stile da signori feudali e concedergli la facoltà di investire i vescovi con i simboli del potere spirituale (anello e pastorale), nel 1111. L’anno dopo un nuovo concilio annullò la concessione. Alla ricerca di un compromesso. Il concordato di Worms- Si cercò ancora una volta il compromesso che fu possibile soltanto dividendo i due ambiti, spirituale e politico, nel conferimento dei poteri ai vescovi: l’autorità ecclesiastica avrebbe conferito le prerogative spirituali mediante anello e pastorale, mentre l’autorità politica si sarebbe occupata dell’investitura delle funzioni temporali mediante i simboli tipici del potere politico, lo scettro ad esempio. Il 23 settembre del 1122 fu stipulato il concordato di Worms, un compromesso in cui fu però affermata la non ingerenza del potere politico nell’elezione di vescovi e abati che sarebbero stati eletti, i primi, dal clero e dal popolo della diocesi e, i secondi, dalla comunità di monaci. L’imperatore sarebbe potuto intervenire successivamente per l’investitura dei poteri temporali. L’evoluzione del papato in senso monarchico- Uno strumento importante per il governo pontificio fu l’istituto della legazione, per la quale i rappresentanti del papa (legati) venivano temporaneamente inviati presso sovrani o enti ecclesiastici per discutere di questioni particolari, ma con il tempo se ne aggiunsero di permanenti. I poteri dei legati erano molto ampi ed essi potevano decidere riguardo alle controversie, consacrare e deporre vescovi, presiedere concili provinciali. Per le missioni più importanti erano i cardinali a svolgere i compiti di legati, in quanto stretti collaboratori del papa. In poco tempo la Santa Sede divenne il punto di riferimento della politica europea, riuscendo ad influenzare la vita di molti Stati; il papato interveniva in difesa e promozione della fede che, comprendendo numerosissimi aspetti della vita in generale, lo legittimavano ad intervenire in numerose questioni. Il papato finì per giocare un ruolo di supremazia non soltanto in ambito ecclesiastico ma anche in quello politico, configurandosi come una ierocrazia, cioè come potere sacerdotale al di sopra di quello secolare. 15- RINASCITA CULTURALE E NUOVE ESPERIENZE RELIGIOSE Una rinascita improvvisa? – La rinascita culturale carolingia, nata dal desiderio di Carlo Magno di elevare il livello di istruzione del clero, ebbe il merito di recuperare il patrimonio letterario classico della lingua latina. Nel X secolo fu la Germania a raccogliere questa eredità grazie agli imperatori della dinastia di Sassonia, sotto cui la corte non divenne un vero e proprio centro di cultura e i monasteri non raggiunsero una grande vitalità culturale, tanto che subirono l’influenza di quelli francesi di Cluny e Citeaux. Una forte attività culturale era in atto alla metà dell’XI secolo in Italia meridionale, in stretto contatto con il mondo greco e quello arabo, mentre in Italia settentrionale si assisteva alla rinascita del diritto romano, studiato sulla base del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano. Nell’XI secolo l’attività culturale riprese fortemente in tutti i campi in Francia, dovevo fiorirono non solo lo studio delle arti liberali, trivio e quadrivio, ma anche della filosofia, della teologia e la poesia in latino e in volgare. I centri della rinascita culturale- La rinascita culturale ebbe una forte accelerazione, però, nel XII secolo. Fino ad allora erano stati i monasteri a svolgere un ruolo culturale di grande rilievo, in particolare quello di Montecassino dove vennero trascritte le opere degli autori classici. Dalla metà del XII secolo furono gli ordini religiosi di nuova fondazione a collocarsi all’interno della rinascita culturale, ad esempio i cistercensi e i certosini, che tuttavia contribuirono solo in minima parte al progresso culturale, impegnati nel perseguire l’ascesi spirituale. Centri fondamentali furono, invece, le cattedrali che avevano anche il vantaggio di essere inserite nelle città, anche esse in forte sviluppo; alcune di esse divennero così famose da attrarre studenti dal resto d’Europa, come quelle di Orléans, Parigi, Chartres, Toledo, Canterbury etc. La nascita dell’università – Nel XII secolo nacquero le università, inizialmente come semplici associazioni di studenti e professori, a cui vennero riconosciute autorità civile ed ecclesiastica e che cercarono di ottenere la concessione di privilegi giuridici ed economici, essenziali soprattutto per gli studenti più poveri. Le università cercarono di fissare i programmi di studio, i compensi dei professori e le modalità per sostenere gli esami e conseguire la laurea, che corrispondeva alla licenza di insegnamento. Originariamente il termine universitas aveva un significato diverso da quello attuale e indicava solo la struttura corporativa, che si occupava di far funzionare l’organizzazione didattica, detta studium, divisa in quattro facoltà: quella delle Arti, dove si insegnavano trivio e quadrivio, e le tre facoltà superiori di diritto, medicina e teologia. L’università ad essere considerata la prima dell’Europa medievale era la Scuola medica di Salerno, nota già nel X e XI secolo. A Bologna, alla metà del XII secolo, nacque l’università di diritto; a Parigi la nascita dell’università era collegata alla scuola della cattedrale di Notre Dame, esempio seguito anche da Oxford e poi da Cambridge. Anche Bologna fu madre di altre università, come quella di Padova del 1222, seguita da quella di Napoli del 1224 ma fondata per iniziativa di Federico II. Alla fine del Medioevo in Europa si potevano contare circa ottanta università. L’organizzazione degli studi universitari- Le università ebbero una loro autonomia organizzativa, che le rese diverse una dall’altra, ma nonostante ciò vi erano degli evidenti elementi in comune. I corsi si tenevano nelle case dei maestri o in sale affittate e le assemblee e gli esami si svolgevano in chiese o conventi. L’insegnamento si basava sulla lezione e sulla disputa: la prima consisteva nella lettura e nel commento delle opere degli autori fondamentali di una determinata disciplina; la disputa era molto più originale e consisteva nella scelta di un tema da parte del maestro, tema presentato agli studenti da un suo assistente (baccelliere) che doveva anche rispondere alle domande degli studenti. Il giorno successivo il maestro procedeva alla determinatio, cioè alla sintesi della discussione e all’esposizione della sua tesi a riguardo. Al termine degli studi, gli studenti conseguivano dei titoli che permettevano loro di insegnare a loro volta o di fare carriera nell’organizzazione ecclesiastica e pubblica. Lo sviluppo della produzione libraria- Con la nascita dell’università anche la produzione dei libri subì delle modifiche; se all’inizio questi si configurarono come beni di lusso e molto costosi per le modalità di produzione molto lunghe ed accurate, ora era necessario disporne più facilmente, in molte copie e poco costose. Inizialmente studenti e maestri furono costretti a procurarseli da soli ma in poco tempo il problema fu risolto con l’introduzione, su esempio di Parigi e Bologna, della pecia, che assicurava la correttezza dei testi e la possibilità di rifornirsene a prezzi più accessibili. Una commissione di professori approvava i testi ufficiali , che venivano forniti da stationarii (librai-editori) riconosciuti dall’università; gli stationarii utilizzavano i testi ufficiali per trarne delle copie da destinare alla vendita o per darli in prestito a studenti e professori. nelle mani dei francescani di case, conventi e chiese, stabilendo che questi ne avessero soltanto l’uso e non la proprietà, che spettava alla Chiesa romana. L’ordine continuò a cambiare e un segno fu l’elezione nel 1239 del ministro generale dell’ordine, seguita un decennio dopo dall’elezione di un frate minore a vescovo. Il processo di trasformazione vide il suo punto di arrivo nel generalato di Bonaventura da Bagnorea, che si occupò di una sorta di rifondazione del francescanesimo, affidando compiti di natura pastorale anche ai frati. Lo scopo di Bonaventura fu quello di risolvere i contrasti interni all’ordine, a cui non si arrivò; anzi nacque una spaccatura fra gli spirituali, che volevano restare fedeli alla regola di Francesco, e i conventuali, che volevano adattarla al nuovo stato dell’ordine e ai suoi compiti. Nonostante i contrasti, i frati minori riuscirono a insediarsi in tutti gli ambienti sociali, fissando le loro sedi nelle città o nei centri abitati che fungevano da poli di aggregazione dei territori. I frati non si allontanavano dal mondo ma cercavano il contatto con gli uomini, soprattutto con gli emarginati. Questo stile di vita fu adottato anche da altri movimenti mendicanti, ma la Chiesa con il Concilio di Lione del 1274 cercò di frenare il fenomeno, riconoscendo come mendicanti solo francescani e domenicani, e successivamente anche agostiniani e carmelitani. Nacque la quadrilogia mendicante. 16- RAPPORTI FEUDALI E PROCESSI DI RICOMPOSIZIONE POLITICO- TERRITORIALE. L’IMPERO E L’ITALIA DEI COMUNI Il movimento delle Paci di Dio e la nascita della cavalleria- Il crescente dinamismo della società europea richiedeva maggiori condizioni di sicurezza per mercanti e contadini, per realizzare le quali era necessario porre fine al continuo stato di guerra. Fu la Chiesa a tentare di risolvere il problema, già alla fine del X secolo, con il movimento delle Paci di Dio, di cui furono protagonisti i vescovi che organizzarono grandi assemblee di clero e popolo, per promuovere la difesa dell’ordine pubblico e in particolare delle chiese, dei chierici, dei monaci e delle categorie più deboli. Durante le assemblee venivano liberamente accusati coloro che si erano macchiati di aver violato la pace, cioè i signori di castelli, alcuni dei quali, però, si unirono alla protesta contro la violenza. Si cercò di proibire l’attività bellica in determinati giorni, come la domenica, le festività religiose e i giorni precedenti ad esse. Il ceto dei guerrieri venne indirizzato, quindi, alla difesa dei più deboli, permettendo la nascita dell’ideale del cavaliere, intento anche a difendere la fede. Nel corso dell’XI secolo i cavalieri presero gradualmente coscienza della loro particolare condizione sociale e giuridica, di far parte cioè di un ceto privilegiato, la nobiltà, cui si accedeva solo per volontà del sovrano o di coloro che ne facevano già parte. Proprio il modello cavalleresco contribuì a dare coesione a questo ceto, all’interno del quale la cerimonia dell’investitura assunse la forma di un rituale a carattere religioso. In passato l’investitura si era caratterizzata per la semplice consegna della spada benedetta dal sacerdote; dalla seconda metà dell’XI secolo, invece, il rituale cominciò a comprendere il bagno purificatore del neocavaliere e l’intera nottata in veglia di preghiera, il giorno precedente la cerimonia. Il cerimoniale non fu sempre rispettato ma è una prova del carattere religioso assunto da un rito originariamente di tipo militare. Nel corso del XII secolo il codice cavalleresco si arricchì progressivamente grazie ai cavalieri più giovani, quelli non sposati e privi di feudi, che elaborarono l’ideale di una vita avventurosa in cui trovavano posto i tornei, le conversazioni amorose e la lettura di poesie e romanzi cavallereschi. Questo ideale, tuttavia, non va inteso come reale stile di vita dei cavalieri, effettivamente impregnato di violenza e aggressività che si cercò di indirizzare al di fuori della Cristianità. Nel concilio di Narbona del 1054 si affermò che non era lecito versare sangue cristiano, perché sarebbe stato come versare il sangue di Cristo; per questo motivo il cavaliere fu gradualmente legittimato in quanto miles Christi e quindi autorizzato e spronato alla lotta contro gli infedeli, lotta che ebbe la sua massima espressione nelle crociate. I rapporti feudo-vassallatici come rinnovato strumento di governo- Nel XII secolo, quando si tentò di coordinare e frenare i poteri locali, si fece ricorso proprio ai rapporti feudo-vassallatici. Nel IX-X secolo questi stessi rapporti erano stati utilizzati per creare clientele armate che dessero un sostegno militare nel controllo dei territori, ma dall’XI persero il carattere militare e divennero veri e propri strumenti di governo per il controllo di territori più estesi. Alla base della trasformazione vi furono, principalmente, due fattori: il riconoscimento anche giuridico dell’ereditarietà dei feudi e la nascita del diritto feudale. Nacque il cosiddetto sistema feudale, che conobbe la sua massima espansione proprio tra XI e XIII secolo e al quale contribuirono i giuristi, che individuavano nello Stato la fonte del diritto e di ogni potere. Quindi l’esercizio del potere di comando e del potere legislativo non erano concepibili senza la formale delega da parte dell’autorità sovrana. Ne nacque l’immagine famosa della piramide feudale, cioè della società caratterizzata dall’atto di delega che procede dal vertice verso il basso. Le origini dei Comuni italiani- Le comunità cittadine italiane non erano formate solo da mercanti e artigiani ma anche da esponenti della piccola e media nobiltà, e la situazione politica vedeva una ripartizione delle funzioni pubbliche tra vescovi e altri soggetti politici, come i conti o i grandi monasteri. Questa frammentarietà non permetteva di risolvere le controversie nate all’interno delle comunità, che diventavano sempre più numerose. Questo equilibro precario fu reso ancora più instabile dalle tensioni religiose provocate dal movimento di riforma della Chiesa e dalla lotta per le investiture. Quest’ultima, però, favorì lo sviluppo delle autonomie cittadine, poiché imperatori e pontefici erano interessati a guadagnarsi il sostegno delle comunità locali, alle quali elargivano numerose concessioni. Proprio durante la lotta per le investiture, nel 1097, appaia documentata per la prima volta a Milano la nuova magistratura dei consoli, simbolo di un nuovo ordinamento politico. Poiché il potere vescovile si era indebolito, le famiglie più in vista avevano assunto il governo della città allo scopo di garantirne la pace interna; fu eletta la magistratura collegiale del Consolato, i cui membri erano per la maggior parte esponenti dell’aristocrazia feudale affiancati, in posizione minoritaria, da esponenti del ceto mercantile e di quello delle professioni; ne era escluso il popolo. Nonostante i membri provenissero da un ristretto gruppo di famiglie rappresentavano comunque la città. sul commercio, sulla pesca, sulle saline, sulle miniere, di riscuotere multe, di assorbire i patrimoni senza legittimi proprietari, di imporre lavori per riparare e difendere le proprietà pubbliche. Questi diritti erano già in possesso dei Comuni da tempo e l’imperatore fu disposto a concederli, a patto che per essi fosse versato un tributo annuo e fosse riconosciuto l’impero come fonte di tutti i poteri; proprio per questo emanò la Costituzione sulla pace, con la quale proibì le leghe tra città e le guerre private. L’intendo di Federico I era di creare uno Stato in cui tutti i poteri derivassero dall’imperatore; per riscuotere tributi, furono inviati ovunque funzionari che assunsero il controllo diretto dei Comuni più bellicosi in qualità di podestà. Poiché gli ecclesiastici godevano di poteri di natura pubblica, l’imperatore cercò di imporre anche su di loro un controllo, andando però oltre il compromesso del concordato di Worms. A causa di ciò nacque un forte movimento di opposizione, cui prese parte il pontefice Alessandro III: l’imperatore reagì opponendogli l’antipapa Vittore IV e assediando e radendo al suolo Milano. I Comuni del Veneto diedero vita alla Lega veronese, cui seguì quella cremonese, le quali si unirono per formare la Societas Lombardie, la Lega Lombarda, sancita dal giuramento di Pontida il 7 aprile del 1167, a cui prese parte lo stesso papa Alessandro III, tanto che la città costruita in posizione strategica prese, in suo onore, il nome di Alessandria. Su questa città si concentrarono gli sforzi dell’imperatore che la pose sotto assedio, per poi rinunciarvi a causa della situazione critica creata dai feudatari in Germania. Durante il viaggio di ritorno, l’imperatore fu travolto dall’esercito della Lega e sconfitto a Legnano, nel 1176. Decise, quindi, di puntare sulla via della diplomazia e giunse ad un accordo con il pontefice, impegnandosi ad abbandonare l’antipapa e a restituire alla Chiesa di Roma i territori e le regalie. Il papa si impegnò a convalidare gli atti ecclesiastici compiuti in Germania e a fare da mediatore con i Comuni, che però rifiutarono la mediazione. Si giunse ad una tregua di sei anni e solo anni dopo ad un trattato di pace, stipulato nel 1183 a Costanza. Fu un compromesso che ribadiva il principio che tutti i poteri pubblici derivavano dall’imperatore e che garantiva ai Comuni della Lega le regalie di un tempo. I Comuni si impegnarono a versare un’indennità una tantum, un fodro (imposta che sostituiva l’originario foraggio dei cavalli) all’imperatore in occasione della sua venuta in Italia e a consentire il ricorso al tribunale imperiale contro le sentenze emesse dai giudici cittadini. L’evoluzione sociale e istituzionale dei Comuni- Le concessioni fatte dal Barbarossa erano destinate alle sole città della Lega ma finirono per essere considerate valide per tutti i Comuni, che divennero degli organismi politico-amministrativi perfettamente inseriti nella struttura dell’impero, senza che essi perdessero la propria autonomia. Durante la crisi dell’autorità imperiale, dopo la morte di Federico I e del figlio Enrico VI, i Comuni approfittarono per consolidare le loro istituzioni e avviare la sottomissione delle campagne. Si definirono i rapporti con il vescovo, che venne estromesso dalla giurisdizione civile; le città furono dotate di edifici pubblici, costruiti spesso lontano dalla cattedrale, per evidenziare la laicizzazione delle istituzioni comunali e l’autonomia dal potere vescovile; si provvide alla stesura dei codici di leggi, gli Statuti. Il contado fi progressivamente sottomesso, tant’è che i detentori di fortezze e diritti signorili dovettero riconoscersi vassalli del Comune e risiedere una parte dell’anno in città, per poter essere controllati. La novità più importante fu la sostituzione della magistratura dei consoli con il podestà, a causa del cambiamento della società comunale, che diveniva più complessa. Mercanti e artigiani divennero consapevoli della loro forza economica e non erano più disposti a lasciare la gestione delle cariche pubbliche nelle mani della vecchia aristocrazia, che tendeva a chiudersi con l’accrescersi del numero dei nuovi ricchi e dei nobili del contado. Si crearono due schieramenti, i detentori del potere e quelli che volevano sostituirsi alla vecchia classe dirigente. I conflitti creavano delle spaccature anche all’interno del collegio dei consoli, per questo motivo furono sostituiti dal podestà, prima locale e poi forestiero, per garantire la sua indipendenza rispetto agli interessi delle classi. Il compito del podestà era quello di eseguire le decisioni dei Consigli cittadini, di applicare le leggi, di amministrare la giustizia e sovrintendere all’apparato burocratico del Comune. Le lotte fra nobiltà e popolo- Inizialmente la figura del podestà riuscì a fungere da mediatore tra i gruppi sociali della città, ma verso la metà del Duecento le tensioni riesplosero, soprattutto nei Comuni più dinamici economicamente e più popolosi. Non era più un problema di contrapposizione tra vecchia aristocrazia e borghesia in ascesa, ma di lotte anche tra i membri dello stesso ceto: i nobili facevano distinzione tra famiglie antiche e famiglie da poco immigrate in città ed erano divisi da odi familiari. Essi riunivano attorno a sé numerosi clienti e amici di vari ceti, creando dei veri e propri clan che si riunivano in federazioni, a volte formando due raggruppamenti opposti, guelfi e ghibellini. Nei nomi richiamavano gli schieramenti formatisi durante le lotte tra Comuni e impero: i guelfi erano i sostenitori del papa, i ghibellini i sostenitori del potere imperiale. Complessa era anche la situazione del ceto popolare, che rimaneva saldo solo nella lotta alla nobiltà, e di cui facevano parte anche i nobili da poco immigrati in città e addirittura qualche esponente della vecchia classe aristocratica in contrasto con il suo ceto. I nobili esclusi dall’aristocrazia, i mercanti, gli artigiani e gli intellettuali laici si riunirono in una propria associazione, la societas pupuli, organizzata sul modello del Comune, con il risultato che la città aveva più centri di potere. Il Comune popolare e l’affrancazione dei servi- La complicata situazione politica dei Comuni portò al fenomeno del fuoriuscitismo, cioè l’espulsione dalla città degli esponenti della parte perdente, con relativa confisca di beni; i fuoriusciti spesso si organizzavano anch’essi in Comune, stringendo collegamenti anche con Comuni rivali. Spesso le lotte terminavano con la presa del potere da parte del popolo, complicando la situazione politica dal momento che il popolo non scioglieva la sua società e la affiancava agli altri organi del Comune. Nasceva una sorta di sistema bicamerale in cui i provvedimenti dovevano passare attraverso i consigli del Comune e della societas populi. Il potere esecutivo venne diviso tra il podestà e i capi del popolo, gli anziani. La pace pubblica non veniva garantita, perché i governi popolari non tutelavano le classi inferiori, spingendole alla rivolta e all’alleanza con la nobiltà, e mostravano atteggiamenti punitivi nei confronti della vecchia aristocrazia. Simbolo di questa politica antinobiliare furono le leggi antimagnatizie, che escludevano dalle cariche più alte i magnati, gli esponenti dell’antica aristocrazia e i popolani ricchi che ne avevano assunto lo stile di vita. Ad ogni modo i governi popolari consentirono il massimo di partecipazione e democrazia, soprattutto tenendo conto della brevità delle cariche che, quindi, permetteva un coinvolgimento maggiore del popolo nella gestione della politica cittadina; nonostante questa ampia partecipazione, non dobbiamo considerare i governi popolari democratici in seno moderno, dal momento che nessuna tutela era da loro assicurata alle classi più povere. L’affrancazione dei servi della gleba, da sempre considerato come espressione della modernità del governo popolare, oggi viene ricondotta a motivi di natura fiscale; l’obiettivo era quello di aumentare il numero dei contribuenti (essendo proprietà dei padroni, i servi non pagavano le tasse): ai servi diventati liberi era vietato immigrare in città ma venivano comunque sottoposti ad una pesante pressione fiscale. (Ruggero II, Guglielmo I e Guglielmo II) di sfruttare le strutture politiche di Arabi e Bizantini, dotando il regno di un’efficiente amministrazione. I sovrani non erano solo a capo dell’apparato burocratico ma anche al vertice della piramide feudale, in cui erano inseriti, a livelli differenti, i discendenti degli antichi conquistatori, che esercitavano poteri signorili in cambio del servizio militare prestato al sovrano. Ampia autonomia era concessa alle antiche abbazie di Montecassino, Monreale, Venosa, così come anche alle città, cui fu concesso di conservare le proprie consuetudini. I sovrani seppero realizzare un equilibrio tra forze locali e autorità regia, grazie soprattutto ai funzionari che esercitavano un controllo sui feudatari, sugli enti ecclesiastici e sulle comunità cittadine. Le origine delle crociate- I Normanni dell’Italia meridionale furono anche i protagonisti, alla fine dell’XI secolo, di uno degli eventi più significativi del Medioevo, le crociate. Durante la riforma della Chiesa, papa Urbano II, dopo aver condannato le lotte fratricide tra cristiani, esortò chiunque vi avesse preso parte a intraprendere un pellegrinaggio in Terrasanta, come purificazione dei peccati e come occasione per soccorrere la Chiesa minacciata dagli infedeli. Tuttavia, del discorso del papa vi sono quattro versioni, scritte in seguito alla conquista di Gerusalemme; probabilmente gli autori, conoscendo ormai lo sviluppo degli eventi, potrebbero aver esasperato le parole di Urbano II. Sicuramente le parole del papa sortirono effetto per il forte slancio espansivo, che caratterizzava la società europea del periodo, e per la forte inquietudine religiosa. Il desiderio di espiazione dei peccati e quello dell’avventura fecero incrementare il numero di pellegrini, che ormai non si dirigevano solo verso le mete tradizionali (Roma, S. Michele Arcangelo sul Gargano, Gerusalemme) ma anche verso santuari in forte sviluppo, come Santiago di Compostela: il pellegrinaggio verso questo santuario si caricava di suggestioni particolari, perché la Spagna era teatro di guerra tra cristiani e musulmani; inoltre una tappa fondamentale era il passo di Roncisvalle, dove, secondo la tradizione, era caduto Rolando, paladino della corte carolingia, nel tentativo di combattere gli infedeli (nella realtà storica erano i Baschi). La religione permeava la vita degli uomini, nel Medioevo, e infatti i cavalieri non erano mossi solo da spirito di avventura, bensì anche da fervore religioso. Di questo si fece promotore il predicatore Pietro di Amiens, che nel 1095 promosse la “crociata dei poveri”, una crociata di cui furono protagonisti poveri ed emarginati che si misero in viaggio per l’Oriente, saccheggiandolo e massacrando gli Ebrei. La crociata “ufficiale” iniziò nel 196 per volere di Urbano II, preoccupato dalle partenze di pellegrini fanatici, le armate si concentrarono a Costantinopoli e si mossero nel 1097, con grandi difficoltà a causa della stagione estiva e del suo clima che non favoriva i cavalieri, armati in maniera inadeguata, e a causa anche delle rivalità tra i capi dei contingenti, tra i quali spiccava Goffredo di Buglione. Nonostante tutto il 15 luglio del 1099 i contingenti conquistarono Gerusalemme, massacrando la popolazione musulmana ed ebraica. Gli Stati crociati e l’esportazione dei rapporti feudali in Oriente- Man mano che si procedeva alla conquista dei centri più importanti, molti dei capi dei contingenti preferivano fermarsi e lasciar andare avanti gli altri, questo per crearsi un proprio dominio. Il Regno di Gerusalemme fu assegnato a Goffredo di Buglione, che in segno di umiltà assunse il titolo di avvocato del Santo Sepolcro; alla sua morte il regno passò al fratello Baldovino, che assunse il titolo di re e avviò un’opera di consolidamento del regno, cercando di rendere più sicure le strade battute dai pellegrini. I crociati che avevano rifiutato di tornare in patria ottennero feudi dal sovrano, che cercò di trattenere anche coloro che si recavano lì per adempiere ad un voto, con la prospettiva di un feudo. Nonostante cercasse di instaurare dei legami feudali e creare una solidarietà di classe, il sovrano non riuscì a superare le rivalità al suo interno. D’aiuto furono gli ordini monastico-militari, i cui membri si impegnavano anche a combattere contro gli infedeli, come ad esempio Gli Ospedalieri di San Giovanni (oggi Cavalieri di Malta), i Templari, i Cavalieri Teutonici. Necessario fu anche l’aiuto delle città marinare, in particolare di Genova e Pisa inizialmente e successivamente anche di Venezia. La riscossa dei musulmani- Il successo dei crociati fu possibile anche grazie alle lacerazioni esistenti all’interno del mondo musulmano; agli inizi del XII secolo la situazione cambiò grazie all’emiro di Mossul e Aleppo, che riuscì ad esercitare una forte pressione sugli Stati crociati. Fu Bernardo di Chiaravalle, uomo di spicco dei cistercensi, ad organizzare una nuova crociata, mobilitando i grandi sovrani occidentali: l’imperatore tedesco Corrado III, il re di Francia Luigi VII e il re di Sicilia Ruggero II. La cosa non andò a buon fine poiché ogni sovrano perseguiva i propri obiettivi politici ed espansionistici. La riscossa musulmana arrivò, definitivamente, una decina di anni dopo per mano del Saladino, che si rese indipendente da Baghdad e creò un proprio sultanato. Nel 1187 sconfisse i Franchi ed entrò a Gerusalemme, provocando una forte mobilitazione in Occidente. I protagonisti furono l’imperatore Federico Barbarossa, il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone e il re di Francia Filippo Augusto. La spedizione ebbe ancora una volta scarsi risultati e, addirittura, il Barbarossa vi perse la vita nel 1190. Il più impegnato fu Riccardo Cuor di Leon, che riuscì a recuperare alcuni centri, lasciando Gerusalemme in mano ai musulmani. La quarta crociata e la formazione dell’impero latino d’Oriente- La terza crociata si concluse nel 1192. Già da un anno sul trono imperiale sedeva il figlio di Barbarossa, Enrico VI, che per volere del padre aveva sposato Costanza d’Altavilla, erede del re di Sicilia Guglielmo II. Tancredi di Lecce, figlio illegittimo di Ruggero II, contestò il suo dominio sulla Sicilia ma non riuscì ad impedire che Enrico si impadronisse del regno meridionale. L’intento dell’imperatore era quello di utilizzarlo come base per un’espansione nel mediterraneo, ai danni di Bizantini e musulmani, alcuni dei quali accettarono di versargli tributi in segno di sottomissione. I progetti dell’imperatore furono però bloccati dalla sua morte improvvisa nel 1197 a soli 32 anni; la sua scomparsa impedì ai cristiani di sfruttare la situazione favorevole creatasi con la morte del Saladino, dopo la quale il suo regno si era frantumato in varie formazioni politiche. Consapevole di questa situazione era il pontefice Innocenzo III, promotore di una grande crociata, con l’obiettivo di restituire Gerusalemme ai cristiani e ricondurre la Chiesa orientale sotto l’autorità pontificia. Quest’ultimo progetto risultava assai favorito dall’evidente crisi dell’impero bizantino, la cui situazione economica era tutt’altro che florida, a causa del predominio dei Veneziani che cercarono di trasformare il controllo economico sullo Stato bizantino in controllo politico. L’occasione fu proprio la crociata di Innocenzo III: i crociati si radunarono a Venezia nel 1202, per raggiungere l’Oriente. Essi erano, però, privi di mezzi necessari per il pagamento delle navi; il doge offrì loro il trasporto gratuito a patto che essi facessero scalo a Zara per aiutare i Veneziani a prenderne possesso. In seguito il doge convinse i capi crociati a puntare alla conquista di Costantinopoli, sfruttando la presenza di un pretendente al trono, Alessio, che prometteva lauti compensi e la riunificazione delle due Chiese sotto l’autorità pontificia. Nel 1023 i crociati si impadronirono di Costantinopoli e posero Alessio sul trono, che non seppe domare l’ostilità della popolazione contro gli occidentali e la Chiesa di Roma. I crociati presero il controllo della città, saccheggiandola e fondando l’impero latino d’Oriente, che fu anche spartito: parte del territorio toccò a Venezia, insieme alla basilica di Santa Sofia, e la parte restante fu divisa in vari domini. La fine dell’impero latino d’Oriente e l’agonia dell’ideale della crociata- L’impero latino d’Oriente era stato una costruzione molto debole fin dall’inizio, soprattutto per l’ostilità della popolazione; e con esso naufragò anche il sogno di Innocenzo III di riunificare le due Chiese. A questa situazione critica contribuirono anche le insofferenze di Genovesi e Pisani per la posizione egemonica di Venezia. Ma nonostante tutto, il papa non volle abbandonare l’idea di riconquistare Gerusalemme e riportarla alla cristianità, tant’è che riuscì a bandire una nuova crociata, che partì nel 1217 ma non andò a buon fine e terminò nel 1221 nel delta del Nilo. motivo, nonostante l’invito del pontefice alla moderazione, furono perpetrati saccheggi e stragi anche ai danni dei non catari. Alla base dell’intervento contro i catari c’era anche il fatto che il papato rivendicasse a sé il diritto di indicare di volta in volta i nemici pericolosi per la fede, che gradualmente furono identificati nei semplici nemici politici. La crociata divenne quindi uno strumento politico del papato. Alla morte di Innocenzo III, nel 1216, la Chiesa era al culmine del suo prestigio e del potere temporale ma i suoi successori si trovarono in forte difficoltà a causa della potenza e della capacità organizzativa sempre più crescenti dei sovrani, come il re di Francia e quello di Sicilia. La restaurazione del potere monarchico in Francia- In Francia, il re Filippo Augusto era impegnato a risollevare l’immagine della monarchia, portando avanti una riorganizzazione interna ed esterna, cercando di indebolire il sovrano inglese suo vassallo. Appena salito al trono si impegnò a favorire rivolte nobiliari nei domini di Enrico II e all’interno della stessa famiglia reale, portando dalla sua parte il figlio del sovrano, Riccardo Cuor di Leone. Una volta salito al trono inglese quest’ultimo, sembrò che i rapporti tra Francia ed Inghilterra dovessero migliorare, ma il sovrano francese aveva degli interessi precisi: durante il viaggio in Terrasanta, Riccardo strinse alleanza con Tancredi di Lecce, in lotta con l’imperatore Enrico VI per la successione al trono in Sicilia; Filippo Augusto si schierò invece dalla parte di Enrico VI e fu una scelta fortunata perché, durante il viaggio di ritorno, Riccardo fu spinto da una tempesta nell’Adriatico e fu preso prigioniero proprio dall’imperatore, che lo liberò solo in cambio del giuramento di vassallaggio. La morte di Riccardo e di Enrico VI aprì uno scenario politico nuovo: l’impero entrò in crisi e sul trono di Inghilterra salì il debole fratello di Riccardo, Giovanni Senzaterra. La situazione era favorevole ad Innocenzo III ma anche al sovrano francese. Un vassallo del sovrano inglese in Aquitania ricorse alla giustizia regia, offrendo a Filippo Augusto il pretesto per citare Giovanni davanti alla corte di Parigi, alla quale il sovrano inglese non si presentò, venendo condannato alla confisca dei beni. In questo modo molti territori furono reintegrati nei domini francesi. Filippo Augusto tentò anche di conquistare l’Inghilterra ma dovette fermarsi di fronte all’abile mossa di Giovanni che si pose sotto la protezione di Innocenzo III, dichiarando il suo regno feudo della Chiesa. Lo scontro tra le due potenze fu solo rinviato. Fu la situazione politica della Germania ad offrire l’occasione: qui, appoggiato da Innocenzo III, era salito al trono Ottone di Brunswick, ma quando lo stesso papa si distaccò dal sovrano e promosse una coalizione contro di lui, Filippo Augusto vi aderì e ne divenne il protagonista principale, poiché tra gli alleati di Ottone figuravano Giovanni d’Inghilterra e altri feudatari della Francia settentrionale. Lo scontro avvenne presso Bouvines, in Fiandra, dove l’esercito anglo-germanico venne sconfitto. La Magna Charta e le origini delle istituzioni parlamentari- Dopo la sconfitta, il sovrano inglese dovette affrontare la reazione dell’opinione pubblica e della nobiltà del regno, contrarie anche alla decisione del re di dichiararlo feudo della Chiesa. Nel 1215 la protesta arrivò violentemente anche a Londra e baroni e grandi ecclesiastici imposero al re la concessione della Magna Charta, con la quale il sovrano si impegnava a rispettare i diritti dei nobili, degli ecclesiastici e dei liberi del regno, le concessioni dei suoi predecessori a favore di Londra e delle altre città, il diritto dei liberi di essere giudicati da tribunali di loro pari. Il sovrano fu obbligato anche a non imporre nuove tasse senza il consenso di nobiltà e clero. La situazione non migliorò per il sovrano, che venne sconfessato da Innocenzo III, che, in quanto signore del regno, annullò tutte le concessioni fatte dal sovrano. I rivoltosi dichiararono Giovanni decaduto e offrirono la corona al figlio di Filippo Augusto, Luigi. Tuttavia gli fu preferito, per orgoglio nazionale, Enrico III, figlio di Giovanni Senzaterra. La ripresa dell’iniziativa imperiale e la restaurazione del potere regio nel regno di Sicilia- Al momento dello scontro di Bouvines (27 luglio 1214), un altro personaggio destinato a diventare uno dei simboli del Medioevo, Federico II di Svevia, si trovava in Germania, dove era arrivato nel 1212 a seguito di un viaggio avventuroso dalla Sicilia, durante il quale più volte aveva rischiato la vita a causa dei sostenitori di Ottone. Fu decisivo l’appoggio di vescovi e ed ecclesiastici superiori, un appoggio non disinteressato. Il 12 luglio del 1213, infatti, Federico dovette emanare la Bolla d’oro di Eger, con la quale rinunciò ai diritti che il concordato di Worms del 1122 aveva riconosciuto al potere imperiale nell’elezione di vescovi e abati. Intanto Innocenzo III aveva cercato di risolvere il problema della separazione della corona di Sicilia da quella imperiale e nel 1216 si fece promettere da Federico che avrebbe rinunciato al trono di Sicilia in favore del figlio Enrico. Con la morte del pontefice, Federico si ritenne sciolto dalla promessa e non rinunciò al trono di Sicilia. Fece, anzi, condurre in Germania il figlio Enrico, cui fu conferito il titolo di re dei Romani, premessa per il titolo imperiale. Così facendo, Federico designò il suo erede al trono, introducendo il principio di ereditarietà della carica imperiale. Questo modo di agire dell’imperatore era favorito dal carattere più remissivo del nuovo pontefice, Onorio III, che aveva in mente solo la riconquista di Gerusalemme. In cambio della promessa di partire per la crociata e di portare avanti la lotta all’eresia, Federico II ottenne dal papa di mantenere l’unione delle corone, precisando che questa concessione fosse straordinaria e non trasmissibile agli eredi. Il 22 novembre 1220 Federico fu incoronato imperatore a San Pietro e subito dopo si trasferì nel Mezzogiorno, dove il primo obiettivo fu di rivendicare tutti i diritti regi, cosa che fece già nello stesso anno con la dieta di Capua, in cui si decise di abbattere i castelli costruiti abusivamente, annullare le avanzate autonomie cittadine e riesaminare i privilegi concessi da Ottone di Brunswick. Il sovrano riuscì a superare le rivolte dei baroni, il problema dei Saraceni di Sicilia, sconfitti e deportati a Lucera, in Puglia, dove fu loro concesso di vivere secondo le proprie usanze e professando la propria religione. Questo atto di tolleranza suscitò l’indignazione di molti, ma in questo modo l’imperatore potè godere dell’appoggio dei Saraceni di Lucera, e così anche i suoi successori. Il sovrano attuò una serie di misure per risollevare l’economia del regno, favorendo gli scambi attraverso la costruzione di porti e garantendo la sicurezza delle strade; volle potenziare l’apparato burocratico e, necessitando di giuristi e funzionari preparati, fondò a Napoli, nel 1224, la prima Università statale occidentale, proibendo ai sudditi di recarsi a studiare a Bologna o altrove. Federico II era convinto di poter esercitare la sua autorità anche nell’Italia centro- settentrionale, dove la crisi dell’impero aveva permesso ai Comuni di assumere sempre maggiore autonomia. Indisse una dieta a Cremona per la Pasqua del 1226, per discutere dei diritti imperiali, della lotta all’eresia e della preparazione della crociata; per questo motivo le città lombarde ricostituirono la Lega lombarda e chiesero aiuto al pontefice. L’imperatore evitò di forzare la situazione e annullò la dieta. La crociata di Federico II e il conflitto con il papato- Alla morte di Onorio III, salì al soglio pontificio Gregorio IX, pontefice intransigente e autoritario, che impose a Federico II di partire per la Terrasanta. Questi convocò i crociati e i pellegrini a Brindisi, ma scoppiò un’epidemia che fece molte vittime, tra cui lo stesso imperatore che dovette tornare indietro. Il papa non credette alle motivazioni e gli lanciò la scomunica nel 1227. Una volta guarito, Federico riprese i preparativi della crociata e partì nonostante la scomunica; riuscì a trovare un accordo con il sultano Malik al- Kamil, evitando stragi da una parte e dall’altra. Il pontefice trovava, però, scandalosi i rapporti di Federico con gli infedeli, e al suo ritorno l’imperatore fu costretto ad affrontare una crociata bandita contro di lui. Una volta sconfitto l’esercito crociato nemico, raggiunse il compromesso con Gregorio IX, sancito dalla pace di Ceprano del luglio 1230. L’imperatore fu prosciolto dalla scomunica ma rinunciò al controllo sull’elezione dei vescovi. Federico II si dedicò fortemente al miglioramento dell’organizzazione amministrativa e, momento più significato di questa azione riformatrice, fu l’emanazione delle Costituzioni di Melfi nel 1231, con le quali dotò il regno di un codice organico di La struttura sociale ed economica degli Stati spagnoli- L’espansionismo cristiano riprese verso la fine del XII secolo e portò alla vittoria dell’esercito castigliano- aragonese e verso la metà del Duecento la reconquista poteva dirsi conclusa, a danno dei musulmani che mantennero il controllo su un piccolo territorio. Anche la struttura sociale e quella economica dei tre Stati cristiani risultavano ben definite; nonostante le differenze tra Castiglia e Aragona, con economia agricola e pastorale, e Catalogna e zone costiere, con economia basata sui traffici marittimi, la guerra contro i musulmani aveva lasciato un’impronta destinata a durare nel tempo. Poiché la reconquista aveva richiesto un continuo coinvolgimento delle popolazioni rurali e urbane, queste poterono conseguire più autonomia; in molte zone si costruirono villaggi, fortezze ma anche città, in cui si cercava di attrarre colonizzatori con l’assegnazione di terre. PARTE QUARTA- L’autunno del Medioevo e le origini del mondo moderno 20- L’EUROPA TRA CRISI E TRASFORMAZIONE Il rallentamento dello sviluppo economico e la crisi demografica- Agli inizi del Trecento si registrò, in Europa, un rallentamento del processo di crescita che aveva caratterizzato i secoli precedenti. Gradualmente si arrestarono le opere di dissodamento e rallentò anche la fondazione di nuovi insediamenti. I generi alimentarono cominciarono a scarseggiare, con la conseguente crescita dei prezzi e automaticamente anche del generale tasso di mortalità, cui seguì un calo del tasso di natalità. Studi più recenti hanno dimostrato come la crisi sia da ricondurre al peggioramento del clima, diventato nel Trecento più freddo e piovoso e caratterizzato dall’avanzamento dei ghiacciai e dall’innalzamento del livello del Mar Caspio. In effetti le cronache del tempo ci danno notizia di ricorrenti catastrofi naturali, ma va anche sottolineato che questi eventi erano presenti anche nei secoli precedenti e il loro intensificarsi potrebbe dipendere dal fatto che si infittì anche la documentazione. A parte l’incidenza del clima, le numerose crisi di sussistenza frenarono la crescita della popolazione e la resero più vulnerabile alle epidemie, che divennero più catastrofiche. Ormai era evidente lo squilibrio tra risorse e popolazione, che divenne più difficile soprattutto in città, dove cercavano rifugio gli abitanti delle campagne. Con l’aumento impetuoso della popolazione urbana, peggiorarono anche le già precarie condizioni igieniche, che favorirono il dilagare delle malattie e delle epidemie. Sulla popolazione fiaccata dalla carestie e dalle epidemie si abbattè nel 1348 la “morte nera”, la peste bubbonica, giunta dal Medio Oriente, che provocò dei forti vuoti nella popolazione, non facilmente colmabili. Non si trattò sempre di peste, ma gli effetti furono gli stessi a causa dell’indebolimento causato dalla carestia e dalle scarse difese immunitarie della popolazione, che veniva contagiata facilmente da qualsiasi malattia. Le epidemie di peste non colpirono sempre una fascia d’età in particolare: ad esempio quelle del 1348 e del 1371 colpirono soprattutto gli adulti, mentre quella del 1360 colpì i giovanissimi. Il 1348 non fu solo l’anno della peste bubbonica, ma anche del violento terremoto che colpì l’Austria centro-meridionale, provocando numerosissime vittime; nel 1349 un altro terremoto colpì l’Appenino centrale, provocando danni anche alla basilica di S. Pietro e a quella di S. Giovanni in Laterano, a Roma. La guerra e le compagnie di ventura- Un altro evento di portata superiore ai secoli precedenti fu la guerra che, dal Trecento, durò per decenni. Era un nuovo tipo di guerra, combattuta soprattutto da milizie mercenarie e volta ad annientare l’avversario distruggendone le risorse. Le truppe mercenarie erano nate in seno alla società feudale, infatti inizialmente erano bande armate capeggiate da esponenti della piccola e media nobiltà, i cui patrimoni sempre più esigui non potevano assicurare loro un livello di vita decoroso. Con la crescente domanda di truppe mercenarie da parte degli Stati e il numero sempre più alto di bande armate, crebbe in maniera esponenziale il fenomeno delle milizie mercenarie. Il fatto di volersi accaparrare i guerrieri più forti e di maggior prestigio, sottraendoli ad eventuali avversari, portò gli Stati a dover far fronte a spese militari maggiori e li costrinse ad una maggiore pressione fiscale. Tra Trecento e Quattrocento, quindi, gli Stati si trovarono in una costante precarietà finanziaria, che non permetteva facilmente di pagare i soldati, che in caso di ritardo del pagamento diventavano incontrollabili. Rivolte contadine e tensioni sociali- Guerre e carestie incisero sulle popolazioni tanto da far esplodere rivolte contadine e tensioni sociali. Ogni rivolta ebbe le sue caratteristiche, sia riguardo alle classi sociali che vi erano coinvolte sia per i modi e i tempi della repressione. La rivolta più famosa fu quella della jacquerie francese, esplosa nel 1358, un moto contadino che prese il nome dal capo dei rivoltosi, Jacques Bonhomme, e che si espanse grazie all’appoggio del ceto mercantile. La reazione dei nobili di campagna fu violenta e portò alla repressione dei rivoltosi. Anche la rivolta inglese del 1381 partì come moto contadino ma coinvolse successivamente anche operai e artigiani. Altro movimento fu quello dei Tuchini, che alla fine del Trecento si estese dalla Francia al Piemonte. I rivoltosi si scagliarono contro la feudalità, che stava aumentando la pressione fiscale sul contado, ma a Torino furono sconfitti dall’esercito del conte di Savoia. In Italia meridionale le modalità furono diverse; si verificarono rivolte contro i signori laidi ed ecclesiastici ma con carattere episodico e locale. Tuttavia, il fenomeno che ebbe più risonanza nel tempo e che risultò essere generale per tutto il meridione fu il brigantaggio, diffusosi soprattutto nelle zone interne e i cui fautori furono chiamati malandrini, nei documenti del tempo. Le rivolte degli operai dell’industria tessile- L’Italia centro-settentrionale mostrava, però, dei caratteri particolari. Qui v’era stato un forte incremento dell’artigianato e un forte sviluppo industriale del settore tessile. Tra Duecento e Trecento vi erano, 21- IL CONSOLIDAMENTO DELLE ISTITUZIONI MONARCHICHE IN EUROPA L’evoluzione del pensiero politico e il conflitto tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII- I pensatori politici del Duecento e del Trecento cominciarono a teorizzare il superamento dell’ideologia imperiale per approdare al riconoscimento dei pieni poteri dei vari sovrani europei, nell’ambito dei rispettivi regni. A livello materiale, questo pensiero contrastava con la resistenza del papato e con l’aggravarsi dei conflitti, che facevano sentire a più di qualcuno la necessità di un’autorità superiore che potesse garantire la pace e la giustizia. Il problema di impero e papato venne chiarendosi agli inizi del Trecento grazie a numerosi eventi succedutisi rapidamente. Il primo evento ebbe come protagonisti il re di Francia Filippo IV il Bello e il pontefice Bonifacio VIII, la cui elezione era stata contestata dalle famiglie della nobiltà romana e dagli ordini mendicanti, che reclamavano un rinnovamento della Chiesa per un ritorno ai valori evangelici di povertà e carità. Contro gli oppositori Bonifacio VIII si mosse energicamente, arrivando a gettare in carcere gli esponenti francescani spirituali. Nel 1300, per affermare il ruolo centrale del papato, indisse il Giubileo, concedendo indulgenza plenaria a tutti coloro che avessero visitato le tombe degli apostoli dopo essersi confessati e comunicati. Gli interventi del papa ebbero effetto in due realtà politiche differenti:  Il Comune di Firenze, in cui il papa si inserì per aiutare la fazione dei Neri, costituita dalle famiglie legate al papato, a prevalere su quella dei Bianchi, che voleva una politica più indipendente dal papato;  Il Regno di Francia, in cui Filippo da tempo si impegnava nel consolidamento dello Stato, coinvolgendo anche il clero che venne tassato senza l’autorizzazione pontificia. Il conflitto derivatone si risolse con l’accordo secondo cui era permesso tassare il clero, in caso di grave necessità, senza il consenso di Roma. Il conflitto dopo poco tempo riesplose, quando Filippo imprigionò il vescovo Bernardo Saisset, legato al papa; quest’ultimo annullò la concessione precedente ed emanò la bolla Unam Sanctam, in cui fu riaffermata la sottomissione di ogni creatura umana, quindi di ogni autorità politica, al pontefice. Filippo il Bello raggiunse, allora, il papa ad Anagni per trascinarlo davanti ad un tribunale francese, ma la popolazione riuscì a liberarlo e far ritirare i Francesi. Con il trasferimento della sede pontificia ad Avignone nel 1309, voluta da Clemente V che, dopo l’elezione al soglio pontificio, temeva un’accoglienza ostile da parte dei Romani, e la morte di Bonifacio VIII, Filippo il Bello si ritrovò nella condizione di poter esercitare un controllo anche sul papato. L’idea di sovranità da Dante a Marsilio da Padova- I Germania, dopo la morte di Federico II nel 1250, il particolarismo politico si era accentuato a causa delle spinte autonomistiche delle città. Nel 1308 salì al trono Enrico VII, conte di Lussemburgo, che tentò nuovamente di unire l’autorità regia e la dignità imperiale; scese in Italia per cingere la corona imperiale, suscitando entusiasmo in coloro i quali, come Dante, vedevano in lui il restauratore della pace e della giustizia. Proprio in quegli anni il poeta scrisse il De Monarchia, in cui esponeva il proprio pensiero politico, secondo cui la cristianità dovesse essere guidata da due autorità uguali e indipendenti l’una dall’altra, il papa e l’imperatore che, dovevano guidare gli uomini verso la salvezza eterna e la felicità terrena. Secondo questo pensiero, l’imperatore doveva mostrare nei confronti del pontefice un atteggiamento di devozione ma non di subordinazione. I propositi dell’imperatore fallirono e i suoi successori disattesero le aspettative di Dante Alighieri, scostandosi dalla sua interpretazione della figura imperiale. Ad esempio, Ludovico il Bavaro non si curò della scomunica inflittagli dal pontefice Gregorio XXII e si fece incoronare imperatore, mostrando di voler fare proprie le teorie di Marsilio da Padova. L’intellettuale padovano si rifaceva alla teoria aristotelica dell’istinto naturale dell’uomo a vivere in società, giungendo a dare una nuova base al potere politico, derivante da Dio ma poggiante sul consenso del popolo. Ugualmente, all’interno della Chiesa la sovranità doveva appartenere alla comunità dei fedeli, che assumeva più autorità del papa e della gerarchia ecclesiastica. Secondo Marsilio da Padova il principe, come difensore della pace, non aveva bisogno della legittimazione pontificia e addirittura doveva occuparsi dell’organizzazione della Chiesa, intervenendo nella scelta del papa. Il rafforzamento del potere monarchico in Inghilterra e la guerra dei Cent’anni- Il rafforzamento del potere monarchico e la riorganizzazione dello Staro erano in atto in Inghilterra dal Duecento, nonostante la Magna Charta operasse un controllo sul sovrano. Enrico III cercò di svuotare le concessioni del suo predecessore, suscitando la rivolta dei baroni che portò ad un rafforzamento delle concessioni della Magna Charta: del Consiglio comune del regno entrarono a far parte anche due rappresentanti della piccola nobiltà per ogni contesa e due borghesi per ogni città dipendente direttamente dalla corona. Il Consiglio, che aveva preso il nome di Parlamento, gradualmente fu diviso in una Camera dei Pari, costituita da tutti i grandi nobili ed alti ecclesiastici del regno, e in una Camera dei Comuni, costituita dai rappresentanti della piccola nobiltà, del basso clero e delle città. Bisogna ricordare che il sovrano inglese era un vassallo del re di Francia, in quanto detentore di grandi feudi in quel regno; il re di Francia si trovava nella condizione di non poter esercitare la sua autorità su quelle terre e le due monarchie, inoltre, erano anche in concorrenza per il controllo delle Fiandre, che dipendevano a livello feudale dalla Francia ma erano legate economicamente all’Inghilterra. Nacquero una serie di conflitti tra i due regni, ma agli eventi tra il 1337 e il 1453 si dà solitamente il nome di Guerra dei Cent’anni. Le ostilità ebbero inizio con l’estinzione della dinastia francese dei Capetingi, dopo la morte senza eredi di Carlo IV, figlio di Filippo il Bello. L’eredità del regno di Francia fu rivendicata da Edoardo III re d’Inghilterra e da Filippo di Valois, nipoti (figli di sorella e fratello) di Filippo Il Bello. La scelta cadde su Filippo, perché gli Stati generali avevano espresso l’orientamento di escludere dalla successione i discendenti in linea femminile; il sovrano assunse il nome di Filippo VI, dando inizio alla dinastia dei Valois. Alcuni anni dopo, Edoardo III sbarcò, però, in Fiandra, proclamandosi re di Francia e dirigendosi verso Parigi. La prima fase della guerra fu favorevole agli Inglesi, che occuparono Calais, sulla Manica; dalla parte francese la situazione fu resa ancora più distruttiva dal dilagare della peste, così nel 1360 si giunse alla pace di Bretigny, con la quale il sovrano inglese rinunciò ai diritti sul trono di Francia e ricevette in cambio la piena sovranità su un terzo del territorio francese. Nel 1369 le ostilità ripresero, sotto forma di incursioni e scontri locali, allo scopo di fiaccare la resistenza nemica; e infatti gli inglesi furono costretti ad abbandonare la maggior parte dei territori conquistati. In entrambi i regni, il potere monarchico venne scosso da crisi dinastiche e conflitti sociali che portarono, in Inghilterra, all’avvento della dinastia dei Lancaster e all’alleanza tra Enrico V e il duca di Borgogna contro il re di Francia, Carlo VI. Nel 1415 gli inglesi travolsero l’esercito francese ad Azincourt e il re francese fu costretto ad accettare il trattato di Troyes, con cui diseredava il figlio e trasferiva il diritto di successione proprio ad Enrico V. Un evento inatteso sconvolse la situazione; una pastorella della Champagne, Giovanna d’Arco, rivelò di aver avuto delle visioni in cui Dio le avrebbe ordinato di salvare la Francia e restituirla al legittimo sovrano. La ragazza si fece affidare la guida dell’esercito e diede inizio alla liberazione dei territori francesi, cui partecipò un numero sempre crescente di cittadini, pervaso dal fervore patriottico. Fu subito liberata Orleans e inflitta una pesante sconfitta agli inglesi, a seguito della quale il delfino Carlo potè farsi incoronare come Carlo VII. L’anno dopo, Giovanna d’Arco fu catturata e portata in territorio inglese, dove fu processata per eresia e condannata al rogo. La sua morte non fermò la rivolta francese che riuscì a far riconquistare Parigi e man mano tutto il territorio francese. Nel 1453 le ostilità cessarono e agli Inglesi non rimase che il distretto di Calais.
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