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Il mito di Fedra nel Cinquecento italiano, Tesi di laurea di Letteratura Italiana

Il testo esamina la riscrittura del mito di Fedra attraverso l'analisi di alcune cinquecentine del periodo rinascimentale in Italia.

Tipologia: Tesi di laurea

Pre 2010

Caricato il 25/07/2022

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Scarica Il mito di Fedra nel Cinquecento italiano e più Tesi di laurea in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! 3 PREMESSA Il presente lavoro si propone di studiare l'evoluzione del mito di Fedra nel Rinascimento italiano, attraverso l'analisi delle tragedie ad esso dedicate, tragedie che non hanno avuto edizioni successive alla pubblicazione cinquecentesca. Si è cercato di procedere isolando i momenti centrali della vicenda (cause scatenanti, rapporto dell'eroina con la propria nutrice, incontro tra Fedra ed Ippolito, catastrofe), dedicando poi ad ognuno d'essi un capitolo. L'analisi è stata condotta tenendo presente costantemente i precedenti classici di Euripide, di Ovidio e di Seneca e la produzione drammatica del Cinquecento, in special modo le tragedie trattanti il tema dell'incesto e, prima fra tutte, la Canace speroniana. Queste ultime si sono rivelate particolarmente utili quando si è trattato di evidenziare situazioni in alcuni casi assenti nelle fonti greco- latine, ma diffuse in molte tragedie cinquecentesche, quali il motivo del sogno premonitore (cui è stato consacrato un capitolo) e la presenza di ombre e Furie sulla scena quali motori della catastrofe finale (si veda a questo proposito il relativo paragrafo nel secondo capitolo). Si sono tentati in certi casi anche alcuni riscontri con le tragedie francesi che nel Cinque e Seicento riprenderanno la vicenda di Fedra e Ippolito. Nell'ultimo capitolo si analizza la rielaborazione del mito operata da Baroncini nella sua tragedia. Quest'autore infatti contamina la storia incestuosa di Fedra, quale ci è stata 6 tramandata dai classici, sia introducendo un quarto personaggio nelle vesti della donna amata dal figliastro della regina, sia aggiungendo il motivo del matrimonio segreto tra questi due giovani. Per offrire un esempio completo della trattazione cinquecentesca del mito, in appendice si pubblica il testo dell'Hippolito di Ottaviano Zara. 7 INTRODUZIONE 8 Teseo, e il tema unico e dominante consiste nella passione della matrigna per il figliastro. La Fedra di Francesco Bozza è strutturata secondo lo schema tipico della tragedia della Controriforma, che ha come fine quello di inviare al pubblico determinati messaggi etici. Tale tipo di tragedia prevede la presenza di uno o più personaggi malvagi che meritano la punizione divina; le disgrazie che accadono loro sono un ammonimento per lo spettatore a fuggire il peccato4. La tragedia si apre con un Prologo in cui Fortuna espone il concetto che ogni malvagio non può non incorrere nel castigo divino se muore senza essersi prima sinceramente pentito del male compiuto. Una simile meditazione è poi affidata nell'atto terzo anche al personaggio del Consigliere, il quale denuncia il gran numero di offese a Dio perpetrate nella corte di Teseo. Il re è colpevole di non aver posto un freno ai vizi e alla malvagità e per questo sarà punito. Da ciò si desume che la vicenda dell'amore insano di Fedra per il figliastro, che ad esempio in Euripide e nella Thesida scaturisce come vendetta di Venere, nella tragedia di Bozza diventa una punizione per lo stesso Teseo, il quale in seguito alla morte della consorte e del figlio troverà giusta punizione per le sua colpe nella 4Il rapporto male-castigo divino è un tema tipico della tragedia controriformistica ed è presente all'interno della produzione tragica per la prima volta nell'Orbecche di Giraldi Cinzio. Nell'ambito di questo tipo di tragedia e relativamente a questo rapporto, il tema del fato acquista una rilevanza particolare venendo ad identificarsi col concetto di provvidenza divina. Il fato investe l'intera realtà e sottopone alla giustizia di Dio non soltanto l'azione morale, ma anche quella politica. Sul rapporto di Orbecche con la tragedia della Controriforma cfr. R. MERCURI, La tragedia, in N. BORSELLINO - R. MERCURI, Teatro del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp.88-94. 11 disperazione più cupa. Fortuna e il Consigliere svolgono anche un'altra importante funzione poiché portano avanti una requisitoria contro le passioni e i vizi umani. Fortuna condanna la passione amorosa, il Consigliere l'ira, a causa della quale Teseo provocherà la morte dell'innocente Ippolito. Nel Seicento il mito di Fedra continuerà a "turbare" in misura costante la scena italiana. Vanno ricordati l'Ippolito di Vincenzo Giacobilli, le versioni di Ettore Nini e di Andrea Santamaria, la Fedra incoronata di P. Paolo Bissari, l'Ippolito di Emanuele Tesauro. Prende inoltre piede il tema di Crispo e Fausta, una rivisitazione in chiave storica del mito di Fedra. Al personaggio di Fedra corrisponde Fausta, moglie di Costantino; a quello di Ippolito, Crispo, figlio di primo letto dell'imperatore; a quello di Teseo infine lo stesso Costantino. Oltre al Crispus del gesuita Stefonio, vanno ricordati il Crispo di G. Francesco Savaro e il Costantino di Filippo Ghirardelli5. Il tema di Fedra e quello di Fausta sono presenti anche nel teatro francese della fine del Cinquecento e del Seicento, fino a culminare nel capolavoro di Racine. Gli Ippoliti di Robert Garnier e di La Pinelière sono rispettivamente del 1573 e del 1635. François de Grenaille pubblica L'innocent malheureux nel 1639 e Tristan l'Hermite La mort de Chrispe 5 Del 1601 è l'Ippolito di Giacobilli, Santamaria e Nini pubblicano le loro versioni rispettivamente nel 1619 e nel 1622, la Fedra incoronata è del 1662, l'Ippolito di Tesauro del 1661. Il Crispus dello Stefonio fu pubblicato a Lione nel 1609, il Crispo di Savaro a Bologna nel 1622, il Costantino del Ghirardelli a Roma nel 1653. 12 ou les malheurs domestiques du Grand Constantin nel 1645: si tratta di due tragedie incentrate sulla vicenda di Fausta e Crispo. Dal 1646 al 1677 vengono scritte e pubblicate altre quattro tragedie sul mito di Fedra: l'Hypolite di Gabriel Gilbert, l'Hippolyte di Mathieu Bidar, Phèdre et Hippolyte di Jacques Pradon e, infine, Phèdre di Jean Racine6. La vicenda di Fedra va inserita in un tema più ampio, quello dell'incesto, già diffuso nella tradizione letteraria greca e latina, e presente anche in quella rinascimentale, che di quella classica si fa specificamente erede. I miti antichi legati al motivo dell'incesto che più hanno avuto diffusione nel teatro italiano rinascimentale e poi barocco sono, oltre a Fedra, quello di Edipo e, anche se in misura meno rilevante, quello di Canace. Il mito di Edipo ha i suoi precedenti classici nelle omonime tragedie di Sofocle e di Seneca, nelle Fenicie di Euripide e nelle Phoenissae di Seneca, a cui attingono i tragediografi cinquecenteschi. Oltre alla traduzione dell'intero corpus tragico di Seneca, operata da Lodovico Dolce (in cui Phaedra compare col titolo di Ippolito) e pubblicata a Venezia nel 1560, vanno ricordati l'Edippo di 6 Le tragedie francesi sul mito di Fedra sono state oggetto di studio da parte di Daniela Dalla Valle, la quale ha pubblicato vari studi. Vanno ricordati: Gli "Hippolytes" senechiani del teatro francese, Torino, Meynier, 1986 (che contiene gli Ippoliti di Garnier e di La Pinelière); Le tragedie francesi su Crispo, Torino, Meynier, 1986 (che contiene le tragedie su Crispo di Tristan e di Grenaille); Quando Ippolito s'innamora, Torino, Meynier, 1990 (in cui sono riprodotti l'Hypolite di Gilbert, quello di Bidar e Phèdre et Hippolyte di Pradon). Cfr. anche D. DALLA VALLE, Classicità della Phèdre di Racine, in AA.VV., Atti delle giornate di studio su Fedra, Torino, Celid, 1985; ID., Le mythe de Phèdre dans le classicisme français, in Klassik im Vergleich Normativitat und Historizitat europaischer Klassiken, DFG-Symposion, Stuttgart-Weimar, Verlag J.B. Metzler, 1990, pp.232-241. 13 conclusione, che nel Torrismondo il tema dell'incesto è però strettamente legato e subordinato a quello dell'amicizia: esso infatti non è tanto fine a sé stesso, quanto piuttosto l'occasione per saggiare la validità del rapporto che intercorre tra Torrismondo e Germondo. 2. Se ci interroghiamo sulle ragioni della scelta del mito di Fedra, e sull'eventuale significato che a questo mito viene dato dai tragediografi del Cinquecento, converrà esaminare se gli autori stessi abbiano espresso un loro parere al riguardo. A tal fine sarà utile passare in rassegna rapidamente le introduzioni preposte alle quattro tragedie in questione. In effetti non si tratta di vere e proprie introduzioni, ma di lettere dedicatorie, estremamente concise e alquanto generiche nel tono laudativo richiesto dal genere. Addirittura la lettera dedicatoria del testo più antico, quella premessa alla Tragedia di Baroncini, non ci dice nulla, essendo opera dell'editore che richiama semplicemente la morte prematura dell'autore. Alcune considerazioni interessanti, invece, ricaviamo dalle premesse all'Hippolito di Zara e alla Thesida di Trapolini. 16 Nell'Hippolito il problema affrontato nella lettera proemiale si riconnette alle discussioni sulla traduzione dei testi tragici classici. Zara sembra dare per scontato semplicemente opera di traduttore: [...] Altri poi mi bandirà del numero eziandio di coloro che traducono gli altrui scritti, non che de' scrittori, dicendo che, trasportando ne la nostra lingua questa favola, dovevo almanco immitare quell'ordine e testura de' concetti e sentenze da Seneca suo primiero autore osservati, s'io non voleva traddurla di parola in parola per acquistarne (non potendo altro) il nome di traduttore. Né mancheranno de' curiosi e censori intorno a lo stile dubbitando et argumentando di passo in passo ora de la convenienza e disconvenienza de le cose, et ora de la proprietà et improprietà de le parole, formando il più de le volte nove regole a lor modo et imprimendole sofisticamente ne gli animi altrui, da far disperare ogni altro celebrato scrittore, non che me, che dietro le vestigie di quei più dotti caminando raccolgo quanto inestando ne' rami di questa mia incolta pianta, mi sforzo renderla atta al possibile a produr frutti, se non del tutto in parte almeno a chi assaggiar gli voglia (s'io non m'inganno) gustevoli11. Zara, come si vede, afferma certamente di tradurre da Seneca ("Seneca suo primiero autore"): i problemi sono semmai quelli linguistici e stilistici connessi ad ogni opera di traduzione ("la proprietà et improprietà de le parole"), sono il desiderio di rifare il modello illustre ("dietro le vestigie di quei più dotti caminando"). Quello che Zara intende però chiarire è che per lui tradurre è adattare. Per lui infatti la traduzione è sempre necessariamente un adattamento: [...] se bene averei potuto oppormili con assai buone difese provandogli ch'una favola d'altro autore in altra lingua 11Hippolito, cc.2v-3r. 17 scritta si possa ne la nostra Italiana trattare, adattando l'ordinamento et accidenti in essa a la conformità de' novi tempi,12 Più complesse le riflessioni premesse al testo di Trapolini. Qui non si affrontano tanti problemi di traduzione, quanto piuttosto si fa riferimento alle poetiche di Aristotele e Orazio per giustificare una struttura e una tematica derivate dai classici: [...] E per conseguente anchora, di che più alta, et importante materia, e degna delle orecchie sue potevo appresentarla, che questa, ove si affaticaron già tanto Sofocle, e Euripide suoi progentitori? Et in cui non altri, che Dei, Prencipi, e gran Signori vi posson meritamente intervenire? benché gli Dei (si come Horatio e lo Stagirita affermano) non per altro se vi introducano, che per dissolvere alcune difficoltà, a cui humana forza non sia bastante: sì come ancho si troverà nella predetta mia Thesida in persona di Venere, e Diana servato.13 Il passo citato, apparentemente generico, contiene la celebrazione dei classici, considerati modelli di perfezione, al punto che legittima è la domanda se sia utile rifare in qualche modo il loro lavoro, ripercorrendone le tematiche. Nello stesso tempo l'imitazione dei classici appare canone indiscutibile fino al punto di giustificare, anzi di esigere l'imitazione pedissequa, come nel caso dell'introduzione del deus ex machina. L'importanza del riferimento ai classici viene d'altra parte ribadita in funzione morale: 12Ibid., c.3r. 13Thesida, c.4r. 18 I precedenti classici del mito di Fedra vanno ricercati nell'Ippolito Coronato di Euripide, nella Phaedra di Seneca e, specialmente per la Thesida, anche nella quarta eroide di Ovidio. Tra i due modelli tragici, all'inizio, è Seneca ad essere seguito con maggior fedeltà. Ma gli autori italiani e francesi che nel Cinque e Seicento ripropongono questo 21 mito, rivelano un atteggiamento particolare nell'elaborare il vecchio tema classico: come nel caso della Thesida, essi tendono ad integrare il modello senecano con il modello euripideo. Ciò risulta importante se si pensa che nel Seicento francese -che rappresenta l'area europea ove il mito avrà maggior seguito e sviluppo- l'Hypolite di Gilbert, quello di Bidar e la Phèdre et Hippolyte di Pradon presentano la tendenza ad abbandonare in misura sempre più evidente il modello senecano, recuperando talvolta quello euripideo. Alcuni di questi autori italiani e francesi inoltre introducono il gusto per un certo comportamento galante dei personaggi e una particolare connotazione per l'ambiente, che costituisce una cornice in cui il vecchio mito viene adattato. Tale contesto è già presente nella Fedra di Bozza, ma raggiunge una più completa realizzazione nell'Ippolito di Giacobilli. 1- L' Ippolito di Euripide Con la vicenda di Fedra nei suoi due drammi d'Ippolito, Euripide rappresentò l'erompere all'interno dell'anima femminile della passione amorosa che si trasforma nel suo contrario, l'odio. Il primo dei due drammi, detto dai 22 grammatici Ippolito Velato, perché Ippolito alla proposta di Fedra fattagli senza vergogna, si vela il capo per il pudore, fu rappresentato prima della Medea verso il 435; il secondo, il Coronato, così definito per un particolare esteriore del primo ingresso del protagonista, fu rappresentato nel 428. Soltanto quest'ultimo è giunto sino a noi. Euripide dette un contributo decisivo all'ingresso del motivo erotico nella tradizione tragica. Ma il radicalismo con cui egli lo portava in scena urtava ed indignava gli Ateniesi: per questo al primo Ippolito più passionale, Euripide dovette sostituire un secondo più contenuto che gli diede la vittoria nelle gare del 428. Il primo Ippolito ci è noto solo nei lineamenti fondamentali. La vicenda era, nel complesso, la stessa, simile era la struttura e anche Ippolito era rappresentato con uguali caratteristiche. Soltanto Fedra era vista in tutt'altro modo. La donna si abbandonava con tutta l'anima alla sua passione, la giustificava in base a ragioni sofistiche e, malgrado gli avvertimenti della nutrice, finiva col gettarsi ai piedi del figliastro. Respinta, lo calunniava dinanzi al padre, non lasciando una lettera, ma mentendo direttamente allo sposo ritornato; in seguito alla morte di Ippolito, colpita dal rimorso, si suicidava dopo aver rivelato la verità. Ciò che distingueva la seconda versione dalla prima era dunque la nuova interpretazione di Fedra che non rivela il suo amore al figliastro, ma cerca di soffocarlo. 23 apparire prostrata in un languore mortale, e proprio per questa condizione la nutrice riesce a strapparle il segreto, che rivela poi ad Ippolito, con lo scopo di aiutare la regina; ma, al contrario, la porta alla sventura, perché il figliastro prova soltanto ripugnanza per tale rivelazione. Fedra, che ha ascoltato tutto, capisce che per lei non c'è più nulla da fare e sceglie di morire. Il motivo della lettera da lei lasciata, in cui accusa Ippolito di averle usata violenza e che trascina il giovane nella rovina, è motivato dal rancore che la donna respinta prova per il giovane orgoglioso della propria virtù. In questo dramma, dominato dalle passioni umane, è singolare la parte riservata agli dei. Come Afrodite inizia la tragedia recitando il Prologo e spiegando le ragioni della propria vendetta, così Artemide la chiude, rivelando a Teseo l'innocenza di Ippolito morente. Nelle parti in cui viene descritto il rapporto del giovane casto con la dea Artemide, Euripide riesce a rivelare la natura di Ippolito con immediatezza; ad esempio quando egli offre alla dea una corona di fiori puri provenienti da un prato che non è mai stato calpestato. Ma la stessa scena rivela nella sua natura quella unilateralità che i Greci definivano hybris: Ippolito infatti respinge bruscamente il vecchio servitore che gli ricorda di onorare anche Afrodite, rinnegando così la grande potenza dell'amore dai Greci considerata divina. Per spiegare il modo di intendere la presenza degli dei in questo dramma tutto dominato dai sentimenti umani, ancora una volta, giungono a proposito le osservazioni di Albin 26 Lesky18. Il critico ricorda che Euripide non credeva affatto all'esistenza di simili dei sottolineando l'abisso che separa le scene divine dell'Ippolito dalle corrispondenti dell'Orestea di Eschilo e dell'Aiace di Sofocle. Dopo aver respinto però l'interpretazione opposta (che in queste figure divine vuol vedere nient'altro che la protesta del poeta contro la tradizione e il tentativo di ridurle "ad absurdum"), egli giunge alla conclusione che, nell'Ippolito, Afrodite e Artemide sono simboli ripresi dalla fede popolare e come tali conducono per via rapida e diretta alla comprensione delle forze fondamentali che animano il dramma. Il pubblico attico li capiva e il devoto poteva prenderli per realtà. Essi possono aver contribuito al successo della tragedia conservata e, si può supporre, che mancassero nella prima versione. 2- Le Heroides ovidiane. La Thesida è l'unica opera a ricorrere con una certa costanza nella ricostruzione del mito alle Heroides di Ovidio. L'uso di questa fonte, che non consiste in una tragedia, rappresenta una sostanziale novità, poiché gli altri autori si ispirano quasi soltanto a Seneca ed Euripide. 18 Ivi, p. 489. 27 La figura di Fedra compare nella quarta eroide. Si tratta di una epistola metrica incentrata sulla dichiarazione d'amore di Fedra ad Ippolito e va quindi considerata come una lettera di seduzione, l'unica di tutta la prima serie delle Heroides. Comprendiamo quindi che, rispetto ad Euripide, la novità più rilevante in Ovidio consiste nel fatto che è Fedra stessa a rivelare ad Ippolito la propria passione; ciò ha fatto supporre l'influenza del cosiddetto Ippolito Velato, la prima tragedia in cui era presente una simile confessione. La Fedra ovidiana è molto diversa da quella euripidea dell'Ippolito Coronato: nella lettera da lei scritta la regina cerca in più modi di "sdrammatizzare" la situazione, ad esempio facendo apparire la sua eventuale relazione con Ippolito non come un incesto, ma come un semplice adulterio, come un'avventura priva di rischi. Si nota già in ciò la distanza che separa il personaggio ovidiano dall'eroina greca, prigioniera della propria passione e incapace di esprimerla. La Fedra ovidiana si fa sostenitrice di un'etica moderna e tollerante, nella quale trova legittimazione addirittura l'incesto, che, secondo le sue parole, è un tabù antiquato, proprio della morale arcaica dell'età di Saturno, ma incongrua per la moderna età di Giove. Quest'ultimo ha deciso che è giusta ogni cosa che piace e, sposando la sorella Giunone, ha legittimato anche l'incesto. Fedra nella sua opera di convincimento, giunge a sottolineare l'utilità che i due amanti potranno trarre dalla loro parentela: se qualcuno li vedrà abbracciati, saranno 28 Seneca, infine, insiste più sui particolari cruenti e orribili come nella descrizione dello strazio che subisce il corpo di Ippolito prima di morire, trascinato attraverso i rovi dai cavalli infuriati; oppure nel gesto del coro che ricompone le membra dilaniate del giovane enumerando particolari anatomici e brandelli sanguinolenti. 4- Il Fenice e la Stenebea. A storie di amori proibiti simili a quella di Ippolito e Fedra, ci richiamano anche altri due drammi di Euripide, a noi non pervenuti: il Fenice e la Stenebea. Nel Fenice la concubina del re Amintore, respinta dal figlio di questi, lo calunniava presso il padre, che lo faceva accecare. Nella Stenebea, la moglie del re Preto di Tirinto -di nome appunto Stenebea- dopo una lunga fedeltà coniugale, si abbandonava con violenza alla passione per Bellerofonte: anche qui il naturale rapporto fra uomo e donna ne risultava rovesciato e la donna assumeva la parte attiva. Con la mediazione della sua vecchia nutrice, ella si offriva al giovane ospite della reggia; respinta, anch'ella calunniava l'amato presso il marito22. 22 ? Max Pholenz ha delineato a grandi linee quella che poteva essere la trama della Stenebea. Egli afferma che la proposta della donna e il rifiuto di 31 5- Le storie bibliche di Giuseppe e di Susanna. Il motivo della falsa accusa e della calunnia si ritrova anche in due storie bibliche. Si pensi alla vicenda di Giuseppe e della moglie di Potifar (un tema che fu oggetto, tra l'altro, della tragedia di Nicolas de Montreux Joseph le Chaste del 1601), e, anche se limitatamente al motivo della calunnia, all'episodio di Susanna e i vecchioni. La storia di Giuseppe23 è narrata nel libro della Genesi. Giuseppe, venduto dai fratelli, viene portato in Egitto. Potifar, a sua volta, lo compra come servo. Ben presto il giovane ne ottiene la fiducia, al punto che il nuovo padrone gli lascia l'amministrazione dei suoi beni dovendosi assentare per qualche tempo. La moglie di Potifar si invaghisce di Giuseppe, gli rivela la sua passione, ma viene respinta; offesa e sdegnata, lo accusa di aver cercato di usarle violenza. Bellerofonte erano presupposti all'inizio della tragedia. Nel Prologo infatti Bellerofonte parlava già della sua decisione di sottrarsi alle profferte amorose di Stenebea, abbandonando la città. (Cfr. M. PHOLENZ, op. cit., p.324.) 23 La storia di Giuseppe è narrata in Genesi, 39, 7-20. 32 A una analisi dettagliata si riscontrano alcune somiglianze tra quest'ultima e la vicenda di Fedra. Quando la donna rivolge le sue profferte amorose a Giuseppe, Potifar è assente, così come è assente Teseo quando Fedra incontra Ippolito. Volendo fuggire più rapidamente Giuseppe abbandona la tunica alla quale la donna si è attaccata per trattenerlo; allo stesso modo e per lo stesso motivo Ippolito fugge lasciando la spada. La tunica e la spada sono poi esibite entrambe, l'una a Potifar, l'altra a Teseo, come prova della violenza. Da ultimo va ricordato che Giuseppe è accusato solo di aver avuto l'intenzione di abusare della donna, così come avverrà nelle tragedie di Francesco Bozza e di Jean Racine. In tutti gli altri autori, invece, come già avveniva in Euripide e Seneca, Ippolito è accusato di aver effettivamente abusato della matrigna. Le maggiori differenze tra la vicenda di Ippolito e quella di Giuseppe consistono invece nel fatto che non c'è traccia d'incesto nella passione della moglie di Potifar; inoltre quest'ultima incontra più volte il giovane, e più volte gli dichiara il suo amore. Giuseppe verrà condannato alla prigionia, ma a differenza di Ippolito che muore a causa della maledizione di Teseo, si salverà Il motivo della calunnia contro un innocente che non ha ceduto alla passione altrui, compare anche in un'altra storia biblica, che ha come protagonista la giovane e virtuosa Susanna24. Questa fanciulla rifiuta le profferte amorose di 24 La storia di Susanna è narrata in Daniele, 13,1-64. 33 asayamientos de las mujeras. La più importante e recente delle redazioni italiane è intitolata Il libro dei sette savi. L'opera è particolarmente interessante perché trasporta la scena in Roma antica, cristianizzando l'ambiente, le sentenze e i racconti; il figlio del re sarebbe in questa versione il figlio di un imperatore romano. Questo motivo si diffuse anche in Germania e fu ripreso nel poemetto Vita di Diocleziano [Diocletians Leben], composto nel 1412. Il giovane principe Diocleziano, educato in un luogo solitario da sette saggi maestri, suscita a corte un'incestuosa passione nella matrigna, la quale, di fronte alle sue tenaci resistenze, si vendica accusandolo presso il marito di averla insidiata. Il divieto di rompere il silenzio fino ad un determinato giorno, che gli è stato imposto dai sette saggi maestri in conseguenza di una particolare congiunzione degli astri, gl'impedisce di difendersi, cosicché viene condannato a morte. I sette maestri tuttavia con una serie di racconti intrattengono il re così da indurlo di giorno in giorno a sospendere l'esecuzione. Passano in tal modo sette giorni finché il principe, riavuta finalmente la libertà di parlare, rivela al padre la verità e la matrigna è condannata a morte. Nel Cinquecento la leggenda avrà particolare fortuna in Spagna: si attestano infatti due versioni, la prima dovuta a Marco Pérez del 1530, la seconda a Pedro Hurtado de la Vera del 1573. Nel nucleo essenziale di tutte queste redazioni si individuano molte somiglianze con la storia di Fedra e 36 Ippolito: la presenza di una matrigna che si invaghisce del privigno, l'ambiente in cui la vicenda si svolge è una corte reale, il rifiuto del figliastro e l'accusa di violenza contro quest'ultimo scagliata dall'innamorata respinta. Nuova è invece la presenza dei sette savi che cercano di salvare il giovane e l'obbligo per quest'ultimo di non parlare per sette giorni a causa di nefaste congiunzioni astrali. Diverso infine anche l'epilogo della vicenda: quando finalmente il principe può parlare, egli rivela subito la perfidia della matrigna e viene creduto dal padre: non così accadeva ad Ippolito che, al contrario, non era creduto da Teseo e veniva cacciato in esilio. Capitolo II Il deus ex machina 37 1- La vendetta di Venere. Nel mito l'amore incestuoso per il figliastro veniva ispirato in Fedra da Venere ed era il mezzo con cui la dea si vendicava del disprezzo mostratole dalla condotta di Ippolito. Fedra, pur essendo innocente, si trovava così ad essere coinvolta in una situazione in cui avrebbe alla fine 38 Venere è la causa scatenante di sciagure anche in altre tragedie: si pensi, ad esempio, alla Canace di Speroni o, due secoli oltre, alla Mirra di Alfieri. Venere provoca sventure nella casa di Eolo nella Canace di Sperone Speroni, tragedia in cui, tuttavia, la dea non compare mai sulla scena, come avviene invece nella Thesida. Apprendiamo infatti indirettamente, da alcune battute dei personaggi, che l'incesto dei fratelli protagonisti della vicenda è stato da lei scatenato per vendetta. Già nel Prologo, l'ombra del bambino che dovrà nascere dall'incesto di Canace e Macareo si lamenta di Venere, [...] l'empia Citerea, Che vuol che la vendetta dell'offese Che Eolo fece ad Enea, Si rinnovi ne' nomi E nell'ombre meschine di coloro Che già mille anni e mille S'anciser disperati, Portando pene degli altrui peccati.(vv.22 sgg.) Nella catastrofe, poi, Deiopea confessa ad Eolo di essere la causa della sciagura abbattutasi sulla loro casa; essa spiega che i gemelli sono stati spinti al peccato da Venere, la quale ha voluto così vendicarsi delle offese fatte dal dio dei venti al figlio Enea: Signor, degna d'udirmi e saperai Che l'error de' tuoi figli E' mio proprio peccato (vv.1433-35). Ricorditi, Signor, che l'odio antico Dell'alma dea Giunone Verso il sangue troiano Mosse l'altezza sua a supplicarti Che col furor de' tuoi rabbiosi venti Dispergessi e affogassi quella armata 41 Che per l'onde tirrene conducea Agli italici liti Il pietoso figliuol di Citerea. Tu l'ubidisti, et io Sola ne fui cagion con le mie nozze, Premio delle fatiche Da te sofferte in quello indegno assalto Che tu desti ad Enea. Per conseguente io sola Vegno ad esser cagion dell'odio immenso Che la dea dell'amore Porta alla nostra casa (vv.1449 sgg). Deiopea continua sottolinendo come già altre volte Venere si sia vendicata delle offese subite e ricorda il triste caso della stirpe del Sole: Or come ella si soglia Vendicar delle offese Che le son fatte a torto et a dirirtto Da' maggior dei del cielo, Testimoni ne sono I figliuoli e i nipoti Del Sole, arsi da lei sempre e feriti D'inusitato amore. Però Circe e Medea Furno amanti terribili e maligne; Per questo entrò Pasife nella vacca di legno, E Bibli amò il fratello Come a lui parve, assai più che a sorella Forse non si convenne, Onde fonte divenne27. Simile alle passate è la vendetta Che ella ha fatto al presente Ne' miei cari gemelli (vv.1467 sgg.). Canace, come Fedra (da annoverare quest'ultima fra i discendenti del Sole che, secondo le parole di Deiopea, furono colpiti dalla vendetta di Venere), è dunque una vittima 27 Circe e Pasife erano figlie del Sole e della ninfa Persa; Biblide e Medea, rispettivamente nipote e pronipote del Sole, identificato con Apollo. Nella vicenda di Biblide, suo fratello Cauno, di cui ella si era invaghita, abbandonò la casa paterna; la fanciulla, seguendone invano le tracce, tanto pianse da essere trasformata in fonte (cfr. OVIDIO, Metamorfosi, IX, vv.453 sgg.). 42 innocente che paga le colpe commesse da altri. Speroni, infatti, contamina la vicenda di Canace e Macareo, desunta dall'eroide ovidiana, con il primo libro dell'Eneide, così da giustificare in qualche modo l'incesto tra i due fratelli 28. Ovidio nell'eroide non parla di una vendetta di Venere, che è innovazione di Speroni, il quale come accennato attinge all'Eneide. Secondo il racconto di Virgilio Giunone, antagonista di Venere, promettendogli in sposa la ninfa Deiopea (che viene definita di "forma pulcherrima"), aveva ottenuto che Eolo liberasse i venti, provocando il naufragio di Enea e della flotta troiana in viaggio verso l'Italia 29. Eolo aveva ubbidito per avere l'amore della ninfa, che ora, per questo motivo, si considera cagione dell'odio immenso che Venere porta alla loro casa. Per inciso si può ricordare come i detrattori della Canace rimproverarono allo Speroni di aver liberamente contaminato la fabula ovidiana di Canace e Macareo con quella delle nozze di Eolo e Deiopea, tramandata da Virgilio. E' interessante ricordare che Renzo Cremante riporta in appendice alla sua edizione della Canace un Prologo30, 28 Riguardo ai gemelli, l'autore "finse [...] che Venere li perseguitasse e fosse causa dell'incesto, in quella guisa che la stessa Dea fomenta presso Euripide in Fedra il violento ardore che verso Ippolito la trascina". (Ragionamento premesso al IV tomo del Teatro italiano antico, Milano, Società Tipografica de' Classici Italiani, 1808- 1812, p. VIII). 29 Cfr. VERGILIUS, Aen., I, vv. 50-80, ed in particolare le parole di Giunone ad Enea: "Gens inimica mihi Thyrrenum navigat aequor, / Ilium in Italiam portans victosque penatis: / Incute vim ventis summersasque obrue puppis, / Aut age diversos et disice corpora ponto" (vv. 67-70). 30 Il Prologo, recitato da Venere nella Canace speroniana, è posto in appendice al Teatro del Cinquecento, cit., pp. 981-982. La lezione accolta da Renzo Cremante è quella che è stata accertata da C. ROAF in Sperone speroni, Canace e scritti in sua difesa. G. Giraldi cinzio, Scritti contro la Canace. Giudizio ed Epistola latina, Bologna, 1982, Commissione per i Testi 43 penetrare l'essenza del grave turbamento della figlia; e Cecri, come Deiopea, si sente colpevole per la sciagura che si è abbattuta sulla sua casa: Mirra come Canace e come Fedra è una vittima innocente dell'ira divina. Nell'atto primo, rimasta sola, la donna, rivolta a Venere, riconosce che la dea è sdegnata e offesa : Era pur meglio il non darcela, o Numi. Venere, o tu, sublime Dea di questa a te devota isola sacra, a sdegno la sua troppa beltà forse ti muove? Forse quindi al par d'essa in fero stato me pur riduci? ah! La mia troppa e stolta di madre amante baldanzosa gioia, tu vuoi ch'io sconti in lacrime di sangue... (vv.172 - 185) Ma solamente più avanti veniamo a conoscenza delle ragioni di questa vendetta. Nell'atto terzo Cecri riconosce che Venere si è voluta vendicare di lei, perché aveva superbamente vantato la bellezza della figlia osando proclamarla superiore a quella della stessa dea: [...] Ah! ben conosco, cruda implacabil Venere, le atroci tue vendette. Scontare, ecco, a me fai, in questa guisa, il mio parlar superbo. Ma, la mia figlia era innocente; io sola, l'audace io fui; la iniqua, io sola... (vv.230 - 235); e nel confessare la sua colpa al marito ribadisce la propria privilegiata ed eccezionale condizione di sposa e madre felice: [...] Me lassa!... Odi il mio fallo, o Ciniro. -In vedermi moglie adorata del più amabil sposo, del più avvenente infra i mortali, e madre 46 per lui d'unica figlia (unica al mondo per leggiadria, beltà, modestia, e senno) ebra, il confesso, di mia sorte, osava negar io sola a Venere gl'incensi. Vuoi più ? folle, orgogliosa, a insania tanta (ahi! sconsigliata!) io giunsi, che dal labro io sfuggir mi lasciava; che più gente tratta è di Grecia e d'Oriente omai dalla famosa alta beltà di Mirra, che non mai tratta per l'addietro in Cipro dal sacro culto della Dea ne fosse (vv.237 - 250). Anche nell'HIppolito di Vincenzo Giacobilli, pubblicato a Roma nel 160133, compare Venere a recitare il Prologo e a profetizzare la sua vendetta contro Ippolito. Come nella Thesida, la dea viene accompagnata da Megera, la Furia infernale. Questa apparizione è ricalcata sull'Ippolito di Euripide, con il quale possiamo rilevare anche alcune somiglianze testuali. La dea appare presentandosi come "la più pregiata, e cara figlia del sommo e onnipotente Giove", sottolineando così come le sue prerogative e la sua potenza servano ad affermare che mai potrà sopportare che un giovane mortale si permetta di disprezzarla. A questo punto vengono mosse le accuse ad Ippolito: A me... Vanterassi d'haver mai fatto ingiuria Giovane semplicetto, e rozo, e folle? E ancora: A me... 33Tale tragedia si legge nella seguente edizione: HIPPOLITO | TRAGEDIA | DI | VINCENZO IACOBILLI. | All'illustriss. e Reverendiss. Sig. | IL SIGNOR PIETRO | CARD. ALDOBRANDINO. | IN ROMA | Appresso Guglielmo Facciotto. 1601 | Con licenza de Superiori. | (Le pagine delle relative citazioni saranno segnalate al termine della citazione stessa). 47 Terrena, vile e fragil creatura Potrà narrar d'haver mai fatta offesa? Come in Euripide la dea dichiara di essere venerata da tutti i mortali: Chiunque alberga tra i confin d'Atlante, E tra le sponde del famoso Gange; Chiunque bee la fredda Tana, e 'l Tigre, Il Nilo, il tago, il gran Danubio, e 'l Tebro, Alza la gloria mia sino a le stelle, E le mie invitte forze honora, e teme, Chinando humile al mio sovrano Impero E la fronte, e la mente in un momento (Prologo, p.15). Soltanto Ippolito non la onora, anzi la abborrisce e fugge i legami d'amore. Inoltre il disprezzo di Ippolito qui non è rivolto soltanto a Venere ma si estende anche al figlio Cupido, un atteggiamento che irrita ulteriormente la dea. Ippolito onora Diana, il cui pianeta, a detta di Venere, è il più "vil", "il più basso, / Che sia tra gli altri ne' celesti moti". Oggi essa vuole che la sua vendetta serva da ammonimento per tutti i mortali, e proclama: Lascierò tra Mortali eterno essempio Quanto sia grave, e periglioso, ad ira Muover peccando i sempiterni Numi (Prologo, p.16). Dichiara infine che accenderà d'amore Fedra per il figliastro e che questo amore non corrisposto si tramuterà in sdegno: Fedra accuserà Ippolito di fronte a Teseo, il quale con l'intervento di Nettuno ne provocherà la morte, e conclude: [...] Haverà ciascun superbo essempio Che chi contra 'l voler de gli Dei Temerario resiste, audace pugna, Compra degno castigo (Prologo, p.17). 48 soprannaturali. Antiope porta come esempio, a sostegno della sua tesi, la propria esperienza personale. Era vissuta per molti anni in Amazzonia, come regina felice, finché non era giunto Teseo a rapirla. Sdegnate le altre amazzoni avevano mosso guerra all'eroe, ma erano state debellate. Molte erano morte, molte erano fuggite. Un regno forte come quello delle Amazzoni e che sembrava invincibile, cadde dunque ad opera di un uomo solo35. Concluso il discorso sui beni terreni, Antiope, afferma di aver saputo che qualcosa di terribile sta per abbattersi sul figlio a causa della matrigna, per il continuo rifiuto di Ippolito ai piaceri amorosi. Antiope mostra così di non sapere che tutto ciò è stato ordito da Venere e rivolge il suo rancore soltanto contro Fedra, profetizzandole una adeguata punizione, perché "Si come del bene oprar mercede / S'aspetta; così al mal la pena sempre segue 36." Di nuovo una dichiarazione moralistica consona al gusto controriformistico: il male non può restare impunito. Antiope sente di dover tornare negli inferi perché è scaduto il tempo concessole da Plutone e, sebbene sappia 35 Antiope prosegue il discorso ricordando che la vita trascorsa con Teseo fu lieta e piena di felicità, e precisa di essere vissuta finché "piacque agli Dei". Secondo Trapolini, dunque, Antiope morì di morte naturale, diversamente dalla tradizione accolta da Ovidio e da Seneca. Nella quarta eroide, Fedra, cercando delle colpe di Teseo da rivelare ad Ippolito per rendergli più odioso il padre, afferma che sia lei che il figliastro sono stati offesi da Teseo negli affetti familiari: dopo aver accennato alla morte del Minotauro e all'abbandono di Arianna, ricorda che anche Antiope venne da Teseo trafitta con la spada, non giovandole nemmeno l'avergli generato un figlio. In Seneca, invece, Teseo quando accusa Ippolito di aver insidiato Fedra, ringrazia il cielo di aver ucciso di propria mano Antiope, evitandole di incorrere nella malvagità del figlio. Cfr. OVIDIO, op. cit.,vv. 113 sgg.; SENECA, Fedra, cit, vv 926 sgg. 36G. P. TRAPOLINI, Thesida, cit., A. I, c. 9v. 51 che il figlio non resterà invendicato, è triste e si duole di non poter far nulla per lui: può promettere soltanto di celebrare le sue esequie con le lacrime. Ci sono nella letteratura coeva anche altre figure di ombre assai simili ad Antiope. Si pensi almeno a Selina nell'Orbecche di Giraldi Cinzio, o alle ombre di Nino e Mennone nella Semiramide di Muzio Manfredi. Caratteristica di tutte è il poco tempo a loro concesso da Plutone, con il conseguente rammarico di dover andarsene prima di vedere attuata una vendetta, il cui pensiero resta tuttavia l'unico possibile conforto. Antiope pensando a Fedra dichiara: [...] Hora dapoi Che mi chiama Pluton da l'onde stigge, Da i regno oscuri, e da l'eterno pianto, A sostener l'usate pene; questo Questo contento al men meco ne porto:. Che... non resterai in tutto impunita (A.I, c. 9v); e Selina: Ma perché non poss'io tanto di spazio Aver da le mie pene che presente Esser possa a veder questa ruina? A che mi ricchiamate, ombre, tra voi Al fuoco eterno et a l'eterno danno? (vv. 300 sgg.). E ancora: Ma poi che 'l mio destin questo mi vieta, Ne porto almen questo contento meco, Che pria ch'oggi s'attuffi il sol ne l'onde, Verranno anch'essi a le tartaree rive A sostener con me tormenti eterni (vv. 311 sgg.). Così l'ombra di Nino: E impetrato avess'io di star qui tanto, 52 Ch'io fossi a parte de le mie vendette... ...Ma finisce il tempo A l'ira dato, a le mie pene tolto. Spirti, non m'affannate: ecco, me n'entro Al fiero, e giusto, e volontario effetto (A.I, p.232). Proprio la vendetta è un elemento che Antiope, Selina, Nino e Mennone hanno in comune: contro Fedra nel caso di Antiope, verso Sulmone nel caso di Selina e, infine, contro Semiramide per Nino e Mennone. Selina è uscita dall'inferno per attuare la sua vendetta contro il marito che l'aveva uccisa insieme al figlio, dopo averli sorpresi in incestuoso adulterio, e contro la figlia Orbecche che, ancora bambina, aveva permesso al padre di scoprirli con le sue ingenue rivelazioni. Selina predice che nulla potrà salvare Sulmone: Orbecche gli taglierà il capo, poi si darà la morte. Le ombre di Nino e Mennone appaiono nella prima scena del primo atto: ad una attenta analisi si può notare che esse sono dipinte con tratti che nella mitologia appartengono solitamente alle Furie. Nino e Mennone, entrambi sposi di Semiramide, si propongono come scopo, quello di vendicarsi della malvagità della donna. La prima ad apparire è l'ombra di Nino che dichiara subito: Dal regno de la notte, e de la morte Qua m'è concesso di venir da Pluto, A riveder cruccioso i vivi, e 'l sole (A.I, p. 231). Il ricordo dell'inferno nelle ombre appena ritornate sulla terra diventa un vero e proprio topos letterario. Selina, nell'Orbecche, afferma: Uscita i' son da le tartaree rive Onde si son partite or le tre dee Che de' dannati ne gli oscuri regni 53 distintivo dell'ombra vendicatrice. Anche Selina, quando compare sulla scena, porta in mano una fiaccola accesa per compiere la sua vendetta. Questa coinciderà con la scoperta del matrimonio segreto tra Oronte e Orbecche. Rivelazione che, suscitando l'ira di Sulmone, provocherà la morte di tutti i personaggi. Selina porta però soltanto un contributo alla vendetta contro Sulmone, in quanto questa è già stata preparata dalle Furie, a differenza di Nino, che può dar compimento al suo proposito. Perciò essa lamenta: Ma dimmi, ch'uopo t'era da l'inferno, Nemesi, trar le scelerate Furie Per accender furor in questa casa? Che Furia più potente aver potevi Di me ? ...esse hanno avuto Ufficio ch'a ragion mi si devea... (vv. 244 sgg.). Mentre Nino può con soddisfazione affermare: E questo è ministerio a me dovuto, Più che a le furie. Io son l'offeso, io sono Cui contra il tutto si commette... (A.I, p.231). Ben presto però Nino dovrà cedere quello che lui riteneva il diritto di vendicarsi a Mennone. Anche quest'ombra compare con una fiaccola in mano e, rivolta a Nino, dichiara di essere salita dall'inferno per dar sfogo alla sua ira rivendicando a sé il diritto di vendetta, perché, quand'era in vita, ha subito torti non solo dalla moglie ma anche da Nino: Io di tutti mi doglio: tu a ragione Soffristi, e soffri tradimenti, et io Da te soffersi violenza a torto (A.I, p.233). 56 Nino dunque sfoghi la sua rabbia contro sé stesso, perché si procurò da sé le sventure. Mennone invece non fece mai del male a nessuno, al contrario ne ricevette molto; e così rimasto solo preannuncia che con la fiaccola che ha in mano distruggerà per sempre la discendenza di Nino. La presenza di ombre sulla scena ha un preciso antecedente: Seneca ed in particolare il Thyestes. In questa tragedia infatti compaiono all'inizio l'ombra di Tantalo e una Furia. L'ombra si lamenta di essere stata trascinata fuori dall'inferno a vedere la reggia in cui è vissuta ed è cosciente di essere capostipite di una stirpe crudele che si abbandonerà a mostruose scelleratezze38. Tantalo viene praticamente costretto, pur controvoglia, dalla Furia a seminare odio, rancore e delitti nella reggia; e poiché esita e cerca invece di ammonire i suoi discendenti a non macchiarsi le mani di sangue, la Furia lo minaccia, riuscendo alla fine ad ottenere che egli scateni il male, cosicché la sua stirpe farà a gara nei delitti e non vi sarà freno all'ira e alla rabbia39. Nel suo delirio diabolico, la Furia vede già il fuoco 38 Su Atreo e Tieste, protagonisti dell'omonima tragedia di Seneca, grava la persecuzione del destino per colpa del capostipite Tantalo, nato da Giove e padre di Pelope e Niobe. Egli fu gettato nel Tartaro, condannato al supplizio della fame e della sete eterne, per aver rubato alla mensa degli dei il nettare e l'ambrosia e averli dati agli uomini. L'acqua in cui era immerso si ritraeva quando si chinava per bere, quando cercava di cogliere i frutti da un ramo, questo si allontanava. Secondo un'altra tradizione, accolta da Pindaro, la punizione gli era stata inflitta per aver imbandito agli dei le carni del figlio Pelope, fatto a pezzi; gli dei però ne ricomposero il corpo. Da Pelope nacquero Atreo e Tieste. 39La Furia impone che si rinnovi il delitto di Procne, ma con un maggior numero di vittime; e proprio alla sventura di questa fanciulla si avvicina infatti la vicenda di Tieste. Procne, figlia del re attico Pandione, sdegnata contro il marito Tereo, re di Tracia, per la violenza da lui usata alla sorella Filomena, d'accordo con questa, gli imbandì in un macabro pasto le carni del figlio Iti. Secondo la leggenda, Procne fu poi mutata in rondine, Filomena 57 acceso sotto la caldaia, ove Tieste farà morire i figli di Atreo, la schiuma salire, le membra umane distaccarsi a brandelli, il sangue profanare il focolare....40 Quando Giraldi scrive l'Orbecche tiene presente la tragedia di Seneca e a questa attinge vari motivi, come quello dell'ombra. Giraldi infatti è considerato l'iniziatore della tragedia di imitazione senecana. Come il Thyestes anche l'Orbecche si apre con la comparsa di una Furia e di un'ombra. Ettore Paratore ha sottolineato la somiglianza delle due tragedie proprio a partire dalla comparsa di ombre e Furie sulla scena. A questo proposito scrive: L'Orbecche appare non tanto un generico concentrato della drammaturgia senecana, quanto una trasposizione in veste moderna e volgare dei modi specifici del Thyestes. [...] lo prova innanzi tutto l'apparizione iniziale di Nemesi e delle Furie, che è reduplicata dall'apparizione dell'ombra di Selina, sì da corrispondere alla prima scena del Thyestes, in cui alla Furia infernale si affianca l'ombra di un defunto membro della famiglia destinata ad essere aquassata dai nuovi orrori41. Il critico poi nota come tra le due tragedie si costituisca una congerie di riscontri, anche se alla rovescia, perché in Seneca a Tantalo ripugna insufflare la peste dell'ereditaria in usignolo e Tereo in upupa. 40 Come accennato si tratta di una chiara allusione alla vicenda. Atreo istigato proprio ora da Tantalo, si vendica del fratello Tieste. Questi, tratto in inganno dalle profferte di pace di Atreo, cade nella trappola tesagli e, inconsapevolmente, si ciba delle carni dei propri figli, che Atreo gli ha imbandito e beve vino misto al loro sangue. Quando, poi, preso da un'angoscia repentina, chiede di vedere i suoi figli, Atreo, con spietata ferocia, gli rivela l'atroce verità. 41 Cfr. E. PARATORE, Nuove prospettive sull'influsso del teatro classico nel Cinquecento, in AA.VV., Atti del convegno sul tema: il teatro classico italiano nel Cinquecento, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1971, pp. 51-52. 58 l'isola di Eolia, dove è re il suo avo Eolo; il carcere dei venti; il tempio di Giunone; il palazzo di Eolo; ma vede anche la cesta futura in cui il suo corpo di bambino verrà nascosto e poi scoperto; legata a quello della cesta è l'immagine delle tenere membra, che verranno abbandonate nella selva, dove saranno sbranate dai cani. Le piante e gli arbusti, su cui l'ombra posa il suo sguardo, sono ancora bagnati dal suo sangue, ma l'ancora dovrebbe essere piuttosto un già anticipatore. Ci troviamo in presenza di una memoria letteraria e possiamo riandare all'Inferno dantesco. Quest'immagine infatti richiama quella di Giacomo di Sant'Andrea, nel XIII canto, dove il ricordo nostalgico del passato viene interrotto da uno strazio violento. Nella prima parte del canto, Pier delle Vigne, aveva rievocato la sua vita alla corte di Federico II, la sua lealtà e la sua fedeltà nel servire il sovrano. Questo dialogo è bruscamente interrotto dall'arrivo dell'anima di Giacomo di Sant'Andrea inseguito da "nere cagne bramose e correnti"; esso viene subito raggiunto e sbranato dalle cagne, che in lui "miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano". La crudeltà della scena non può non richiamare alla nostra mente la tragica fine del bimbo di Canace e Macareo43. 43 Renzo Cremante nel commento all'edizione della Canace confronta proprio i vv. 80-81 con quelli danteschi. Così l'ombra: "Del vero corpo mio che a brano a brano / Dilaceraro i cani"; mentre Giacomo di Sant'Andrea è sbranato dalle " nere cagne bramose e correnti", che " quel dilaceraro a brano a brano" (Inf., XIII, 128). Ma cfr. anche Inf., VII, 114 "troncandosi co' denti a brano a brano" (a proposito dei dannati nel girone degli iracondi). Lo studioso estende la comparazione anche all'Ariosto: Orlando Furioso, XV, 82, 4: "e quando il va troncando a brano a brano"; e XXII, 52, 8 " coi denti la 61 Riguardo alla già menzionata presenza di Furie sulla scena, va notato che nella Thesida, come più tardi nell'Ippolito di Giacobilli, accanto a Venere compare la Furia Megera. Quest'ultima, quando appare, dichiara subito che è giunto il momento di operare la giusta punizione contro Teseo per i suoi passati errori. Non sarà punito con la morte perché sarebbe un castigo troppo lieve, ma verrà obbligato a vivere in modo tale da odiare la vita e desiderare continuamente una morte che non gli sarà concessa. E' una innovazione di Trapolini presentare la vicenda dell'amore incestuoso di Fedra per Ippolito non soltanto come una vendetta di Venere, ma anche una punizione per Teseo. Megera mostra i mezzi di cui si servirà per mettere in atto la sua vendetta: le sue mani, sempre pronte ad operare il male; la sua testa coperta di serpenti, e, soprattutto, la fiaccola ardente con cui può seminare odio e discordia. Adempiuto al suo compito, Megera se ne torna lieta nell'inferno, in attesa che Nemesi le dia un altro incarico. Anche nel primo atto dell'Orbecche, le Furie sono considerate ministre di Nemesi, dea della vendetta: infatti quest'ultima per operare la giusta punizione contro Sulmone si serve del loro aiuto: Uscite dunque co le faci accese, figliuole de la Notte e d'Acheronte ad essequir quello che 'l sommo Giove a strazio di Sulmon per me v'impone (vv.195 sgg.). stracciava a brano a brano". S. SPERONI, Canace, in Teatro del Cinquecento. a cura di R. Cremante, cit., p. 470, nota ai vv. 80-81. 62 L'opera delle Furie viene, dunque, a farsi esecutrice, attraverso la mediazione di Nemesi, dello stesso volere di Giove. Ad esse tocca il compito di spargere ira negli animi di Sulmone e Orbecche, così da provocare male e generare morte. Giacobilli presenta invece Megera non come ministra di Nemesi, ma come esecutrice del volere di Venere. Siamo avvisati dell'arrivo della Furia, nel Prologo, quando Venere afferma ironicamente di sentirne già l'"odore" e di vedere il fumo infernale che ad essa si accompagna, andandosene poi commentando che gli dei non sopportano la vista dei mostri infernali, perché abituati alla visione celestiale del "paradiso"44. Quando appare, Megera dice di giungere dall'inferno, ripetendo una formula che già abbiamo visto usata da altre ombre45: Da le Tartaree, spaventose stanze Del tenebroso, maledetto inferno Ov'albergan sol pianti , horrori e stridi Hor ne vengo... (Prologo, c.17v). Essa ci informa del compito che le è stato affidato e per il quale si è procurata ben due fiaccole ardenti: per obbedire a Venere, a cui sono soggetti tutti gli dei, essa entrerà nel palazzo e con la fiaccola che porta nella mano sinistra renderà più forte l'amore di Fedra per Ippolito; con quella 44 Si noti come l'autore attribuisca termini cristiani a divinità pagane. Anche F. Della Valle ripeterà un uso quasi simile ponendo in bocca a Iudit la definizione del Dio trino e uno, un concetto ancora sconosciuto agli ebrei. 45 Sul motivo del ricordo dell'inferno nell'ombra appena tornata sulla terra, cfr. supra, pp. 54. 63 Il personaggio della vecchia nutrice, confidente e complice della protagonista, è una figura consueta nella letteratura antica dal teatro euripideo in poi. Si tratta di un personaggio-chiave nel mito di Fedra perché è ad essa che la protagonista confessa l'amore che nutre per Ippolito, con essa lamenta le pene amorose e da essa riceve consigli su come comportarsi per rivelare all'amato la sua passione. E' nel primo grande discorso alla nutrice che, nella tradizione tragica, Fedra rintraccia la storia "mitica" e gli antecedenti della sua passione. Lo stesso avviene negli imitatori cinquecenteschi. Nella Thesida, lamentandosi, Fedra si mostra consapevole di essere oggetto della vendetta di Venere 47, a differenza di quanto avveniva ad esempio nell'Ippolito 47 Questo amore è causato dalla vendetta di Venere contro la discendenza del Sole, a cui Fedra, Pasife e Arianna appartengono. Il Sole aveva sorpreso Marte e Venere in adulterio e rivelato tutto a Vulcano, marito della dea. Quest'ultimo, dopo aver sorpreso i due amanti, li aveva racchiusi in una rete ed esposti al ludibrio degli dei. 66 euripideo in cui essa ignorava le cause che avevano scatenato il suo amore48. Dopo aver ricollegato questa vendetta all'affronto fatto dal Sole alla dea Venere, Fedra ricorda come tutte le donne della sua famiglia siano state costrette ad amare secondo schemi che escono dalle normali consuetudini. La prima fu Europa, che partorì Minosse, dopo che Giove si trasformò in toro. Poi Pasife, che fu presa da amore per un toro e da questo ebbe come figlio il Minotauro49. E in questa memoria si inserisce anche Arianna che aiutò Teseo ad uccidere il mostro, ma fu poi da lui abbandonata. Infine, lei, Fedra, ultima della stirpe, è costretta ad amare il proprio figliastro. Anche in Seneca, Fedra aveva questa consapevolezza circa la vendetta di Venere e riconosceva in sé il destino della madre; inoltre lamentava che, a differenza di Pasife, aiutata da Dedalo, il quale le aveva costruito una mucca di legno cosicché ella entrandovi aveva potuto consumare la 48Il lamento inizia, come nella Phaedra di Seneca, con un'apostrofe a Creta. Così infatti nella Thesida: "O tu Creta del mar regina, poi / Che di Saturno il gran figlio ti serbi; / Cotanto amico a le tue sponde; / Come va l'infelice casa nostra..." (A.II, c.14v); e in Seneca: "O magna vasti Creta dominatrix freti, / cuius per omne litus innumerae rates / tenuere pontum, quidquid Assyria tenus / tellure Nereus pervium rostris secat, / cur me in Penates obsidem invisos datam / hostique nuptam degere aetatem in malis / lacrimisque cogis...?" (L. A. SENECA, Fedra, a cura di G. Biondi, Milano, Rizzoli, 1989, vv. 85 sgg.; tutti i rimandi alla Phaedra di Seneca sono tratti dalla suddetta edizione, per cui d'ora in poi saranno citati i relativi versi al termine della citazione stessa). Come si può notare, a parte l'iniziale apostrofe, il seguito del discorso cambia: in Seneca l'interrogativo a Creta serviva all'eroina ad introdurre il suo lamento sulle infedeltà di Teseo. In Trapolini, invece, proprio a Creta Fedra si confida: ella riflette sulla sua stirpe, rievocando così il destino che si è abbattuto sulle donne della sua casa. 49 Venere aveva acceso d'amore Pasife, sposa di Minosse, re di Creta, per un toro bianco che Nettuno aveva fatto uscire dal mare. Per favorirne l'amore Dedalo aveva costruito una mucca di legno. Si ricordino, a questo proposito, i noti versi danteschi: Purg., XXVI,41-2 " Ne la vacca entra Pasife, / perché 'l torello a sua lussuria corra". 67 sua passione, per lei non c'è alcun rimedio e nessuno che possa soccorrerla. Pur biasimando come "infando malo" l'amplesso mostruoso di sua madre Pasife col toro, da cui era nato il Minotauro, la Fedra senecana sottolineava paradossalmente e disperatamente la corresponsione di quell'amante. Il motivo dell'amore considerato da Fedra come un tributo da pagare alla vendetta di Venere dalla sua stirpe, Trapolini lo trovava, come già si è detto, anche nelle Heroides di Ovidio, opera che soltanto per la Thesida, si pone come terza fonte diretta, accanto a Seneca ed Euripide 50. Quando si apre la tragedia, la Nutrice (a cui Trapolini da il nome di Ismenia) è già a conoscenza del male di cui soffre Fedra. Essa svolge un ruolo importante nel consigliare la regina a cacciare e superare la passione, sostenendo che se ci si oppone subito alla forza d'amore, poi si resta vincitori. A Ismenia è posta in bocca una lunga digressione sulla fenomenologia delle pene d'amore, finalizzata al tentativo di far desistere Fedra dal suo proposito. Essa spiega come l'amore non sia nient'altro che il desiderio di fruire della bellezza amata: ma quando questo sentimento non è giusto e onesto, nasce allora in noi il "timore", che combatte col desiderio causando nell'anima "inevitabil pene". 50 Infatti anche nella quarta eroide si è già avuto modo di notare come Fedra, ricordando l'amore mostruoso di Pasife e il tradimento di Arianna, affermasse:"Forsitan hunc generis fato reddamus amorem, / Et Venus ex tota gente tributa petat" (vv. 53-54). 68 Fedra. Il lamento amoroso posto in bocca alla protagonista al suo primo apparire sulla scena e rivolto alla confidente propone motivi presenti anche nella Thesida e in Seneca. Fedra è cosciente della mostruosità del suo sentimento e tuttavia non sa in qual modo fermare il male che la consuma. Pensa alla madre Pasife e riconosce che almeno lei ottenne l'amore che desiderava. Constata infine come sulla sua stirpe si sia abbattuta l'ira di Venere per vendicarsi delle offese fattele dal Sole. Doristella si comporta in modo molto diverso da Ismenia, e propone come soluzione quella di rendere subito noto a Ippolito il desiderio di Fedra: la regina dovrà però dichiararsi personalmente54. Vengono dunque ribaltate le parole di Ismenia: la nutrice considerava come soffocando e tacendo la sua passione, Fedra avrebbe almeno salvato il proprio onore. La regina tuttavia non osa e prova molta vergogna perché è consapevole dell'incesto di cui si macchierebbe; per questo Doristella la rassicura portandole l'esempio di Teseo che pur di avere Fedra non temette e, tanto meno si vergognò, di abbandonare Arianna che lo aveva aiutato. Zara, nello strutturare il rapporto con la confidente, si avvicina piuttosto ad Euripide che a Seneca. Anche in Euripide infatti era la nutrice (a cui era affidata anche la funzione di confidente) a cercare di convincere Fedra a rivelare il proprio amore ad Ippolito, sperando così di vederla guarire dal suo male; era però diverso il modo di reagire di 54 Cfr. le parole di Doristella, in O. ZARA, Hippolito, cit., A I, vv.75 sgg. 71 Fedra a questa proposta: nella tragedia di Euripide essa si opponeva e non voleva saperne, in quella di Zara invece accondiscende quasi subito. Anche nella Fedra di Francesco Bozza, come nelle due precedenti, la nutrice è già a conoscenza delle cause del male che affligge la regina. Per di più, qui, le due donne ricordano di aver provato ad avvicinare Ippolito e di avergli anche inviato alcune lettere, sul cui contenuto e modalità non siamo però informati55. Il lamento amoroso di Fedra, rivolto alla nutrice, viene inserito dopo l'incontro con Ippolito, e prima della vendetta. L'incontro non è avvenuto sulla scena, e Fedra, prima di informare del suo esito la nutrice, rievoca la sua disperata passione dolendosi della fortuna che sempre si è mostrata ostile ai suoi progetti, distruggendo le sue speranze56. Non è Venere dunque ad essere considerata causa dello sventurato amore. Nessuna vendetta si è abbattuta su Fedra, ma è la fortuna, il fato, che contrasta con le sue aspirazioni e con i suoi desideri, e oltre a farla soffrire, non le concede neppure la morte57. 55 La lettera è un topos letterario per eccellenza sia nella tragedia, sia nella commedia e tragicommedia. L'espediente della lettera viene ereditato dalla tragedia erudita fino al Torrismondo di Tasso. Esso è presente, solo per citare alcuni esempi, anche in altre opere tragiche del Cinquecento come la Virginia dell'Accolti, la Conversione di Maria Maddalena dell'Ala- manni, la Panfilia del Pistoia, la Canace nella versione di Falugi, in cui la l lettera ha l'identica funzione di svelare il tormento amoroso della protagonista. 56Più che di una accusa alla fortuna si tratta di un'apostrofe disperata: "Ah Fortuna, mai sempre a miei disegni / Fiera nemica, com'hai tosto rotto / Fuor d'ogni merto mio le mie speranze. / Come sottraggi, dispietata, i giorni / A la mia stanca vita, e mi procuri / Aspro penoso fin, crudo e infame". (A. II, c. 16r). 57 L'amara consapevolezza a cui Fedra giunge è che: "Onde non nascer mai fora ben meglio, / Che sol si nasce a sopportar ogn'hora / Pene, 72 Bozza è l'unico a descrivere la fenomenologia amorosa della protagonista, attingendo in parte a motivi già presenti in Seneca ed Euripide. Come nella tragedia euripidea, Fedra dice di aver cercato in tutti i modi di liberarsi da questa passione e di essersi rivolta anche agli dei, sperando di venir aiutata. Però quanto teneva più celato il suo male, tanto più soffriva, ingigantendosi la piaga impressa nella sua anima. Fedra perde la quiete, la pace, il sonno, e passa le giornate piangendo; le forze l'abbandonano, il volto diventa pallido... Fedra ricorda di aver cercato di nascondere anche alla nutrice le ragioni del suo soffrire, e di aver risposto alle domande che quest'ultima, accortasi che qualcosa in lei non andava, le poneva, dicendosi addolorata per il triste caso della sorella Arianna, abbandonata da Teseo. In Fedra era infatti ancora forte il timore di infrangere la morale, rivelando la propria passione; ma alla fine, sentendo che sarebbe morta per il dolore, divenne "ardita" più del solito e palesò tutto alla nutrice. Questa da parte sua cercò subito di aiutarla preparandole un incontro col figliastro. Anche la Fedra euripidea rievocava la sua vita dal momento in cui era stata colpita dall'amore per Ippolito. All'inizio della tragedia ella raccontava di aver cercato il miglior modo per sopportarlo: dapprima aveva cominciato col tacere e nascondere la sua "infermità"; poi si era proposta di far fronte nobilmente alla sua passione, tentando di vincerla con la saggezza; infine, poiché non era riuscita in angoscie, sospir, affanni, e guai" (A. II, c. 16v). 73 Lo schema è presente in Racine, anche se Phèdre si comporta diversamente. Ponendo attenzione allo svolgimento della vicenda vediamo che la protagonista si mostra restia a rivelare il suo amore alla nutrice, vorrebbe piuttosto morire, talché la nutrice spaventata la rimprovera: Quoi? Vous ne perdrez point cette cruelle envie? Vous verrai-je toujours, renonçant à la vie, faire de votre mort les funestes apprets?59 Ma Phèdre ribatte: Je meurs, pour ne point faire un aveu si funeste. (A.I,v.226) ammettendo infine: Quand tu sauras mon crime, et le sort qui m'accable, je n'en mourrai pas moins, j'en mourrai plus coupable. (A.I, vv.241-2) Ella ritiene insomma già colpevole e disonorevole il solo fatto di dovere confessare il suo amore. Nell'atto terzo, dopo aver ordito la vendetta, quando viene a sapere dell'imminente arrivo di Teseo, Phèdre resta sgomenta e accusa la nutrice di non averla lasciata morire: Je te l'ai prédit; mais tu n'as pas voulu. Sur mes justes remords tes pleurs ont prèvalu. Je mourais ce matin digne d'etre pleurées; j'ai suivi tes conseils, je meurs deshonorée. (A.III,vv.835 sgg.) Questo dibattuto dialogo mancava tra le due donne in Trapolini, in Bozza, in Baroncini e in Zara, dove Fedra rivela 59 J.RACINE, Fedra, trad. di G. UNGARETTI, introd. e note di L. Sozzi, Milano, Garzanti, 1989, A.I, sc. 3, vv. 173 sgg. Tutti i rimandi alla Phèdre di Racine sono tratti dalla suddetta edizione, per cui d'ora in poi citerò atti e relativi versi al termine della citazione stessa. 76 di propria iniziativa le cause del suo male per poter avere un aiuto. L'ostinata volontà di Phèdre a non voler rivelare a nessuno la sua abominevole passione, e a considerare la stessa rivelazione, qualora fosse fatta, già una colpa, pare anticipare il comportamento di un'altra infelice eroina: la Mirra alfieriana. In questa tragedia il dramma si svolge interamente nell'animo della fanciulla e si sviluppa inesorabile in un crescendo di situazioni dolorose e tragiche e in un'atmosfera di solitudine. Mirra è infatti sola; e sola sostanzialmente vive, perché non può comunicare con nessuno, non può e non vuole confidare ad alcuno il suo tormento interiore e non può quindi essere né capita, né consolata. La stessa vicinanza della persone care di famiglia, le loro affettuose richieste di spiegazioni del suo atteggiamento, la loro volontà di aiutarla le sembrano un tentativo di penetrare in un mistero di cui lei sola è, e deve essere, l'esclusiva depositaria: un tentativo che ai suoi occhi ha quasi l'aspetto sacrilego della profanazione. Di qui i suoi silenzi, le sue reticenze e le frasi ambigue. Mirra è dunque una vittima, ma una vittima, come chiarisce lo stesso Alfieri, innocente. La colpa di Mirra consiste tutta non nell'essere condannata ad amare il padre, ma nella forzata rivelazione ai familiari di questo amore, e nell'orrore che desterà in essi60. 60 Cfr. Introduzione di B. Maier a V. ALFIERI, Tragedie, cit., pp. XLV-XLVI; e Introduzione di M. Fubini a V. ALFIERI, Opere-Tomo I, Introduzione e 77 Come sola vive, Mirra muore infine sola, poiché il padre, la madre, la nutrice rimangono sgomenti allorché apprendono il tremendo segreto della giovinetta; e soltanto per ciò, per l'inevitabile rivelazione, Mirra si considera "empia", mentre sarebbe rimasta "innocente" se qualcuno l'avesse uccisa prima, o le avesse offerto la possibilità di darsi la morte. A questo punto cadono a proposito le osservazioni di Franco Fido. Il critico, analizzando il problema della presenza del fato nelle tragedie moderne, quando affronta l'Alfieri, e in particolare la Mirra, scrive pagine illuminanti sul rapporto che intercorre tra Mirra e Phèdre61. Fido inizia col notare come le fonti di Mirra, la più ammirata delle tragedie "greche" dell'Alfieri, non siano greche affatto; perché Alfieri attinge alle Metamorfosi di Ovidio. Ma la Mirra di Ovidio è una donna lucida, eloquente, capace di affrontare il conflitto tra l'amore che sente per il padre e l'orrore che l'incesto le ispira. Un'altra più ovvia differenza sta poi nel fatto che la Mirra ovidiana si confida fin quasi dall'inizio alla sua nutrice, e con la complicità di questa diventa realmente l'amante del padre, tanto che dopo nove mesi, prima della sua metamorfosi nell'albero che porterà il suo nome, la giovane partorirà un bimbo chiamato Adone. scelta di M. Fubini, Testo e commento a cura di A. di Benedetto, Milano- Napoli, Ricciardi, 1977. 61 Cfr. F. FIDO, Le Muse perdute e ritrovate, Firenze, Vallecchi, 1989, pp. 29-32. Una lettura in chiave psicoanalitica viene offerta da N. MINEO, I significati della Mirra, in AA.VV., Istituzioni culturalii e sceniche nell'età delle riforme, a cura di G. Nicastro, Milano, Angeli, 1986. 78 Capitolo IV L'INCONTRO CON IPPOLITO 81 L'incontro con Ippolito è uno dei momenti-chiave del mito di Fedra. Nelle tragedie del Cinquecento da noi analizzate finora, esso è svolto con modalità diverse poiché i rispettivi autori si sono ispirati ora ad Euripide, ora a Seneca. Mentre in Euripide Fedra non incontrava mai Ippolito, ma era la nutrice a rivelare al giovane la passione della regina, in Seneca Fedra dichiarava personalmente al figliastro di amarlo. La dinamica dell'incontro nella Tragedia di Baroncini è modellata su Seneca. La regina si trova con Flamminio nell'ultima scena del secondo atto e gli rivela il suo amore. Essa, potremmo dire, punta, come già faceva la Fedra senecana, sulla pietà e compassione che il giovane dovrebbe sentire per lei. Nuovo è invece il forte appello agli dei, che la donna chiama in difesa del suo amore, giungendo anche a minacciare Flamminio: egli verrà punito dal cielo se non la ricambierà, lasciandola in preda al dolore che l'ha colpita. Flamminio reagisce rovesciando il discorso della matrigna e sostenendo che i desideri che offendono le sante leggi celesti non possono assolutamente destare pietà e compassione; inoltre considera blasfemo il richiamo agli dei fatto dalla regina, considerandone l'empietà della passione. 82 A differenza di Baroncini, nelle tragedie di Bozza e Zara l'incontro non avviene sulla scena. In Zara ne veniamo a conoscenza attraverso le parole di Ippolito, poiché il giovane nell'atto secondo si precipita fuori dal palazzo, in preda alla disperazione, adirato contro la matrigna che ha cercato di spingerlo ad un'azione disonorevole nei confronti del padre. Dalle parole di Fedra è prospettato al giovane un triangolo terribile, in cui necessariamente egli verrebbe a ricoprire un ruolo vergognoso e offensivo soprattutto nei confronti di Teseo. Proprio questo irrita Ippolito e lo spinge a scegliere l'esilio volontario abbandonando per sempre la reggia, così da non veder più la matrigna. Anche Bozza non pone l'incontro sulla scena. Da Ippolito prima e da Fedra dopo ne apprendiamo la dinamica. Ippolito confessa al coro di essere stato ingannato dalla nutrice, che lo aveva invitato a recarsi nelle stanze reali dove Teseo lo attendeva, e di avervi trovato invece la matrigna. Nell'atto secondo poi Fedra narra di essere stata respinta da Ippolito. Bozza arricchisce questo motivo sia con elementi di derivazione senecana, sia con elementi nuovi. Come in Seneca, prima di Fedra, è la nutrice ad incontrare Ippolito, invitandolo a non rifiutare le gioie amorose. Questo colloquio avviene sulla scena. E' una novità invece l'accenno al fatto, di cui già si è detto, che Fedra abbia in precedenza scritto delle lettere al figliastro. 83 abbiamo avuto modo di notare, ad una terza fonte, le Heroides ovidiane. Dopo la confessione amorosa Fedra si rivolge ad Ippolito e giura che sarebbe pronta ad anteporre l'amato allo stesso Giove, nel caso in cui la dea Giunone decidesse di concederle il suo immortale marito. Questo riferimento si ritrova anche nell'eroide ovidiana: Si mihi concedat Iuno fratremque virumque, Hippolytum videor praepositura Iovi (vv.35-36). E' un motivo topico, la preferenza accordata all'amato rispetto allo stesso Giove nella poesia d'amore, ma nell'eroide è reso funzionale (mediante la definizione del dio come fratello e sposo di Giunone) alla strategia persuasiva di Fedra, in quanto anticipa fin d'ora l'argomento dell'assenza del tabù dell'incesto fra gli dei. Fedra poi lamenta che è ascritto al destino della sua infelice casata essere condannati ad amori mostruosi: Che tutte quelle cose, le qual noi Doveremmo fuggir (lassa) seguimo (A.III, c. 23v) A due sorelle, dice, è piaciuta una stessa casa: ...Già la mia sorella Presa fu de l'amor del padre vostro, Che li fu poi del beneficio ingrato; Et io son data a' bei vostr'occhi in preda, Che sete il più crudel, com'il più bello; E così il padre, e il figliuol rapirno Due sorelle innocenti... (A.III, c. 23v) Anche nell'eroide c'è il riferimento alla stirpe di Fedra: Iuppiter Europen prima est ea gentis origo Dilexit, tauro dissimulante deum; Pasiphae mater, decepto subdita tauro, 86 Enixa est utero crimen onusque suo Perfido Aegides, ducentia fila secutus, Curva meae fugit tecta sororis ope. En ego nunc, ne forte parum minoia credar, In socias leges ultima gentis eo. Hoc quoque fatale est: placuit domus una duabus: Me tua forma capit, capta parente soror, Thesides Theseusque duas rapuere sorores: Ponite de nostra bina tropaea domo (vv.55 sgg.) Anche la Fedra ovidiana era dunque cosciente come il suo amore fosse un debito da pagare al fato da parte della sua stirpe: da essa Venere esigeva un tributo mediante la condanna ad amori mostruosi o infelici. Fedra cercava qui i segni della continuità nel destino proprio e della sua famiglia: Giove aveva amato Europa (da cui era nato Minosse) tramutandosi in toro; e dall'accoppiamneto di sua madre Pasife col toro, grazie allo stratagemma della mucca di legno, era stato generato il mostruoso Minotauro. Il successivo episodio di questa storia della stirpe consisteva nell'uccisione del Minotauro nel labirinto, da parte di Teseo aiutato da Arianna: ma Teseo si era rivelato "perfidus" abbandonando la donna sull'isola deserta di Nasso. Si noti come i versi 63, 64, 65 siano ripresi con una certa fedeltà dal Trapolini, quando sottolinea come i componenti di una stessa famiglia abbiano fatto innamorare due sorelle: per Teseo e Ippolito si sono accese d'amore Arianna e Fedra. Trapolini, infine, definisce "ingrato" Teseo per aver abbandonato Arianna; Ovidio lo dice, abbiamo visto, "perfidus". Una ulteriore innovazione della Thesida è l'aver introdotto, durante l'incontro tra i due, l'apologia che Fedra fa del suo 87 amore. Anche in questo caso è Ovidio ad essere seguito con estrema fedeltà. Deponi homai tanto rigor; deponi Tanta durezza, Hippolito; e ne l'alte Selve la lascia, oimè; in che ti giova Seguir de la non cinta Dea gli studi, E a Venere levare i numeri suoi? Non è durabil ciò che de l'alterno Riposo manca: perch'egli le forze Riduce; e le affannate membra leva. L'arco, e le altr'armi de la tua Diana, Che tu hai preso a imitar, se tu non cessi Di mai tenderlo, al fin resterà vano. Famoso anchor fu Cefalo; e per l'herba Di sua mano cadettero infinite Fiere selvagge; e pur ei si rendeva Amabile a l'Aurora; la qual spesso L'andava a ritrovare; abbandonando Il suo vecchio Titon freddo nel letto: E spesse volte anchor sotto li allori L'herba sostenne i due felici amanti Vener e Adone: e per amor d'Atlanta Arse anchor Meleagro: e anchor noi Forse siam numerati in questa turba: E se ne levi Vener, certamente Rustica in tutto fia la selva tua: Io medesma verrò in tua compagnia; E teco habiterò li pithei regni Di Trezene; o d'ovunque a te più aggrada: (A.III, c. 24v). Così Fedra nell'eroide: Tu modo duritiam silvis depone iugosis: Non sum materia digna perire tua. Quid iuvat incinctae studia exercere Dianae Et Veneri numeros eripuisse suos? Quod caret alterna requie, durabile non est: Haec reparat vires fessaque membra novat. Arcus -et arma tuae tibi sunt imitanda Dianae- Si numquam cesses tendere, mollis erit. Clarus erat silvis Cephalus, multaeque per herbam Conciderant illo percutiente ferae, Nec tamen Aurorae male se praebebat amandum: Ibat ad hunc sapiens a sene diva viro. Saepe sub illicibus Venerem Cinyraque creatum 88 Macareo e Canace sono stati costretti a compiere ciò che alcune divinità hanno liberamente scelto e ricorda che Giove ha sposato la sorella Giunone; nell'età dell'oro, lo stesso han fatto Saturno ed Opi, e così pure Oceano e Teti66. Disperatamente ella poi conclude che se Eolo non accetterà quanto è successo mostrerà di disprezzare ciò che al contrario divinità potenti hanno favorito. Soltanto nella Thesida -tra le tragedie del cinquecento su Fedra- viene dato spazio, anche se brevemente, al motivo del delirio in cui la protagonista vorrebbe farsi cacciatrice per seguire Ippolito. Questo motivo invece era ampiamente svolto in Euripide, in Seneca e anche nell'eroide ovidiana. In Euripide, Fedra non appena compariva sulla scena cadeva in uno stato di delirio e pregava la nutrice di scioglierle i capelli; desiderava bere limpide acque di sorgenti, stendersi su folti prati all'ombra di pioppi. Chiedeva con insistenza di essere portata sui monti per braccare cervi, impugnare dardi e lanciare giavellotti67. Seneca presentava il delirio di Fedra in due momenti: prima del dialogo con la nutrice e dopo il dialogo tra la nutrice e il coro. Nella prima parte Fedra confessava di non desiderare più di onorare i templi, e neanche di rivolgere atti 66 Probabilmente Speroni deriva queste parole di Deiopea non dall'eroide, ma dal monologo di Biblide, che nelle Metamorfosi di Ovidio (IX, 497-500) giustifica l'incesto al fratello: " Di melius! -Di nempe suas habuere sorores. / Sic Saturnus Opem iunctam sibi sanguine duxit, / Oceanus Tethyn, Iunonem rector Olympi. / Sunt superis sua iura! ". Secondo la testimonianza di Ovidio, infatti, da Opi, sua sorella e sua sposa, Saturno aveva avuto tre figli (Plutone, Nettuno e Giove) e tre figlie (Vesta, Cerere e Giunone); ed Oceano era divenuto sposo della sorella Teti (entrambi erano figli di Urano e della Terra). 67 Cfr. EURIPIDE, Ippolito, cit., p.112, vv.198 sgg. 91 devoti ad Atena, la dea che proteggeva la sua terra. Al contrario avrebbe voluto stanare bestie selvatiche, inseguirle e colpirle col giavellotto: Iuvat excitatas consequi cursu feras et rigida molli gaesa iaculari manu. ( vv.110-111) Poi attonita si chiedeva fin dove il suo cuore sarebbe potuto arrivare e quale impulso la spingesse ad amare le selve. Dopo il lungo dialogo con la nutrice, Fedra ricadeva nel delirio. Ordinava alle ancelle di portare via le vesti intessute di porpora e di oro; non voleva ornarsi di nessun monile; non ricercava né perle, né profumi; soltanto desiderava indossare un abito succinto stretto da una piccola cintura. Cominciava così il desiderio di identificazione con Antiope, l'amazzone madre di Ippolito. Sotto questo inquietante aspetto Fedra sembrava cercare di sedurre Ippolito, quasi presentandosi come un'amante-madre per il figliastro, in preda a un delirio che le rendeva accettabile anche l'inconscia idea di un incesto. Removete, famulae, purpura atque auro inlitas vestes, ... brevis expeditos zona constringat sinus, cervix monili vacua, nec niveus lapis deducat aures... odore crinis sparsus Assyrio vacet. (vv. 387 sgg.) Voleva che i capelli cadessero liberi sulle spalle e che ondeggiassero al vento nella corsa. Avrebbe tenuto con la mano sinistra la faretra e con la destra il dardo. Alla fine Fedra dichiarava: Talis severi mater Hippolyti fuit ... 92 E così lei voleva diventare: ...talis in silvas ferar (v.403). Falugi nella sua versione della Canace68 attinge per la descrizione della fenomenologia amorosa della protagonista, sia nei monologhi che nella lettera rivelatrice, alle deliranti confessioni di Fedra, cosicché Canace appare come una derivazione dell'eroina senecana. Si vedano a titolo di esempio alcuni richiami testuali: Non me quies nocturna, non altus sopor solvere curis: alitur et crescit malum et ardet intus qualis Aetneo vapor exundat antro. Palladis telae vacant et inter ipsas pensa labuntur manus; non colere donis templa votivis libet. Non dolce sonno più el mio occhio vela, non più di fior mi piace ornar le tempie, non per selve vagar con arco e strale, 68 Falugi nel riproporre la vicenda di Canace e Macareo tiene presente l'intreccio della Phaedra di Seneca: ambedue le tragedie si aprono con una scena di caccia in cui viene introdotto il protagonista maschile come campione di forza fisica e virtù morale; Macareo è come Ippolito incurante d'amore e tutto dedito agli esercizi fisici e alla caccia. Pur senza precisi calchi testuali, la litania delle doti di Macareo, recitata da Eolo e in parte da Canace, è visibilmente ispirata alle lodi di Ippolito pronunciate da Fedra con allusioni mitologiche, fra le quali una identica sia in Falugi che in Seneca: "Se 'n freno el caval gira invidiar puollo / di Leda e figli domitor leggiadri" (Can. II, 197-8); "Si dorso libeat cornipedis vehi / freni Castorea mobilior manu / Spartanum poteris flectere Cyllaron" (Phaedra, vv. 809-11). Simili elementi, osserva Bruscagli nell'introduzione all'edizione della Canace, in Seneca servono a definire il particolare carattere dell'eroe casto, seguace di Diana e sprezzante le gioie amorose, mentre in Falugi essi vengono piegati al compito, abituale nel genere novellistico, di sottolineare le "doti" cortesi del personaggio, destinate a suscitare ammirazione e fatali passioni. (Cfr. Introduzione di R. Bruscagli a G. FALUGI, Canace, cit., p. XLV). Lo stesso finale della tragedia, in cui un sacerdote predispone i funerali della vittima insistendo sul motivo delle "reliquie", cioè del corpo dilaniato da ricomporre per le esequie, richiama il modello latino. Sulla Phaedra è esemplata anche la scena del tentato suicidio di Canace che ha la medesima funzione di impietosire la nutrice sino a farne la complice della protagonista. Anche il Pastor Fido di Battista Guarini si apre con una scena di caccia in cui viene esaltata la forza di Silvio, il protagonista. Proprio la caccia è la passione principale di Silvio, che, come Ippolito, non cura l'amore. 93 Vi seguirò, ben che tra l'onde, e 'l fuoco Lieve fuggissi, e l'animoso petto Mai sempre si farà scorta sicura De le sue fiamme, e non potrete in parte Volger le piante, ov'io non sia con voi; (A.II, sc.4). Tutti i quattro autori finora analizzati, alla fine dell'incontro danno rilievo al motivo del "ferro" che Ippolito abbandona fuggendo via. Questo "ferro" sarà esibito da Fedra al momento di vendicarsi come prova dell'oltraggio subito. Nel mito infatti Fedra, sdegnata di essere stata respinta, si vendicava gettando su Ippolito la falsa accusa di averla insidiata. Zara ci mostra la vendetta già in atto, mentre Baroncini, Bozza e Trapolini ci fanno assistere al maturare nell'animo della regina del proposito di vendicarsi. In Zara e Trapolini, come già in Seneca ed Euripide l'accusa è di violenza subita; in Bozza, come più tardi in Racine, invece è di tentata violenza: qui Ippolito è accusato di aver avuto solo l'intenzione di insidiare l'onore di Fedra. Nella Tragedia di Baroncini la vendetta della Regina consiste nella rivelazione al Re che il figliastro si è unito con nozze segrete con l'amata Panfilia. Una notizia che scatena l'ira del Re in quanto, pur avendo egli stesso deciso in precedenza69 questa unione, vede nella scelta dei due giovani un'offesa alla propria autorità: è il Re a dover 69 Veniamo a conoscenza di questa decisione del Re all'inizio della tragedia, quando la Regina cade nella disperazione sapendo che il marito vuol far sposare Flamminio, il figliastro di cui lei è da tempo innamorata, con Panfilia. 96 decidere come e quando debbano avvenire delle nozze, pur da lui volute. Va tenuto presente, infine, che in Baroncini e Bozza è la Regina-Fedra a decidere di vendicarsi, come già avveniva in Euripide, mentre la nutrice, da parte sua cerca di farla desistere; Trapolini segue invece Seneca: in entrambi è la nutrice che consiglia Fedra a scagliare su Ippolito la falsa accusa per salvare il proprio onore. A questo punto appare con chiarezza come le fonti classiche siano state manipolate con libertà nella ricostruzione dell'incontro tra Fedra e Ippolito. 97 Capitolo V LA FENOMENOLOGIA ONIRICA 98
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