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Il monachesimo femminile in Toscana tra il Cinquecento e il Seicento, Tesine universitarie di Storia Moderna

Il monachesimo femminile in Toscana tra il Cinquecento e il Seicento

Tipologia: Tesine universitarie

2019/2020

Caricato il 02/07/2020

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Utente sconosciuto 🇮🇹

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Scarica Il monachesimo femminile in Toscana tra il Cinquecento e il Seicento e più Tesine universitarie in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Il monachesimo femminile in Toscana tra il Cinquecento e il Seicento Nella penisola italiana, a partire dalla metà del XV secolo fino al secolo successivo, si riscontra una consistente fiorituradi monasteri femminili e un aumento massiccio delle donne consacrate a Dio. Vi fu sia per gli ordini maschili che per quelli femminili, un notevole sviluppo istituzionale1, dovuto a svariati motivi economico-sociali, politici e religiosi2. Il flusso delle nuove fondazioni femminili iniziò intorno alla metà del Quattrocento in area padana, per poi interessare tutte le regioni centro-settentrionali e il resto dell’Italia. Alla base della grande espansione dell’universo monastico femminile in questo periodo vi fu lo slancio propulsore operato dal movimento delle Osservanze3, che aveva come obiettivo il ritorno alla rigida osservanza della regola e la realizzazione del modello di perfezione della vita religiosa. Le altre componenti storiche, che indussero tale sviluppo, furonoil forte incremento demografico e la strettissima connessione, che si instaurò tra “vocazione religiosa” e strategie familiari: quest’ultima una peculiarità del monachesimo femminile italiano. Se per i conventi maschili è possibile quantificare questa crescita, è più difficile farlo per i conventi femminili, a causa della molteplicità delle giurisdizioni e i frequenti mutamenti di osservanza. Per quanto riguarda la Toscana, ambito in oggetto in questo caso, i pochi dati che abbiamo sono comunque significativi: a Firenze nel 1470 i monasteri femminili erano 30 e nel 1574 erano 63, e la popolazione monastica passò da circa 32 unità nel 1478 a circa 72 nel 1552 in ogni comunità4. Tra il XVI e il XVIII secolo sempre a Firenze, su un campione di ventun famiglie, il 46% delle figlie dell’élite, prese i voti5, cifre che aumentavano in periodi molto brevi: nel 1550 in una popolazione di 59.179 abitanti si contavano 4403 monache, nel 1561, su 59.023, 4347 erano monache6. Si deve anche tener presenteche a favorire questa esplosione di istituzioni vi fuuna concezione della religione civica, secondo cuil’aumento di monasteri era motivo di vanto per le città7. I monasteri,dal Medio Evo fino alla fine dell’età moderna, acquisirono una funzione sociale, comeconseguenza della pianificazione familiare nobiliare e dopo la nascita dei monasteri mendicanti, anche di quella delle famiglie cittadine. Divennero i contenitori dell’eccedenza demografica, poiché se il maschio destinato a restar celibe aveva due scelte, tra la carriera ecclesiastica e quella militare, la donna non aveva alternative alla vita monastica. Nei monasteri, inoltre,trovavano rifugio donne sole, colpite da qualche difficoltà familiare: orfane, vedove, donne in discordia con il marito o in pericolo per il proprio onore8. 1 Fenomeno che riguardò tutta l’Europa del Quattrocento, Gabriella Zarri, Recinti. Donne, clausura, matrimonio nella prima età moderna. Bologna, 2000, p. 50. 2 Ivi, p. 43. 3 Il movimento delle Osservanze ebbe, all’inizio del Quattrocento, l’intento di riformare gli antichi conventi, a questo seguirono fondazioni di nuove case religiose, moltiplicando così a dismisura il numero dei monasteri nei maggiori centri rurali e nelle città, dando luogo anche alla formazione di nuovi ordini e diverse Osservanze. L’Osservanza francescana ha il primato di riforme e fondazione di conventi anche in campo femminile: l’espansione delle Clarisse, dalla prima fondazione mantovana del 1420, si irradiò nelle città dell’Italia settentrionale e centrale. Anche i terzi ordini regolari (come le oblate olivetane e le carmelitane) in questo periodo ricevettero grande impulso. Un’altra espressione di aggregazione religiosa, senza alcuna fondazione conventuale, fu il bizzoccaggio: vedove e zitelle, per lo più, che offrivano la loro assistenza in ospizi e ospedali. cfr. G. Zarri, Recinti, pp. 48-50; G. Greco, Congregazioni religiose femminili; cfr. Adriano Prosperi, Riforma cattolica, Controriforma, disciplinamento sociale, in Storia dell’Italia religiosa, 2. L’età moderna, Roma-Bari, 1994, p. 26. 4 Ibidem; Lucetta Scaraffia e Gabriella Zarri, Donne e fede, Roma-Bari, 1994, p. 185. Silvia Evangelisti, Storia delle monache, Firenze, 2012. 5 S. Evangelisti, Storia delle monache, p. 11. 6 Eleonora Baldasseroni, Le cavaliere dell’ordine di Santo Stefano. I monasteri di Pisa e Firenze, in Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale a cura di Marcella Aglietti, Pisa, 2009, p. 139. 7 Adriano Prosperi, Il monastero benedettino di San Michele di Pescia nell’età Tridentina, Atti del convegno interdisciplinare, Pescia, 24 settembre 1994, pp. 15-16. 8 G. Zarri, Recinti, p. 51. 1 In diverse città italiane, con l’aumento demografico aumentarono anche le doti matrimoniali: la concezione patriarcale della famiglia, tipica delle grandi famiglie detentrici di beni fondiari tra l’XI e il XII secolo, secondo cui la trasmissione dei beni patrimoniali riguardava il primogenito ed escludeva le figlie dotate, divenne propria anche delle famiglie dedite ad attività commerciali e finanziarie. Pur avendo diritto alla dote e nonostante l’esistenza di istituzioni9, mirate a salvaguardare i loro diritti, in particolari circostanze economiche la donna diveniva vittima della politica familiare, per cui alcune donne erano destinate al matrimonio e altre al convento, più per necessità sociale ed economica, che per vocazione.Senza dubbio nei monasteri femminili avevano trovato fondamento alcuni pilastri del sistema sociale d’antico regime10. A Firenze, l’aumento delle doti è già in atto nel XV secolo: nonostante il Monte delle doti 11, il flusso delle fondazioni monastiche si intensificò dalla fine del Quattrocento e la quantità risulta strabiliante, se si pensa che nel XVI secolo nella sola via San Gallo si contavano novemonasteri12. A Lucca questo fenomeno si può rilevare intorno alla prima metà del XVI secolo, e infatti risale al febbraio del 1546 una legge che tenta di limitare le monacazioni, a cui ricorrevano i cittadini che non potevano dotare adeguatamente le figlie13. Il nesso tra questi eventi deve esser analizzatoalla luce di due processi di carattere generale: da un lato la crisi economica e sociale dopo le guerre in Italia14, che ridusse i patrimoni e le fila dei poveri si allargarono, dall’altro il processo di nobilitazione del patriziato cittadino. Nel primo caso la società intervenne per dare una dimora alle figlie di chi era caduto in disgrazia, preservandone l’onore, e nel secondo caso fu sempre più comune nella politica familiare, destinare figli e figlie alla carriera ecclesiastica o al monastero 15.Infatti non era insolito aspirare ad occupare un posto nelle più importanti abbazie o nei più ricchi monasteri, e come nelle contese per ottenere l’elezione all’abbaziato o al priorato, i motivi erano sia economici che di potere. Non solo era importante assicurare una sistemazione dignitosa ad una giovane, ma era fondamentaleper le famiglie delle monache poter sfruttare una buona parte della rendita ecclesiastica e l’offerta dotale, grazie al particolare regime giuridico a cui sottostava la proprietà ecclesiastica. Inoltre, in certi monasteri l’ingente dote richiesta al momento dell’ingresso, fungeva da filtro selettivo, in quanto escludeva buona parte della popolazione16.L’iter per giungere alla pronuncia dei voti, talvolta, prevedeva che le fanciulle si sottoponessero alle provanze di nobiltà, per potersi aggiudicare un posto al loro interno: come nel monastero della Santissima Concezione, voluto da Eleonora da Toledo17 a Firenze. L’entrata delle fanciulle in questo monastero, così come l’ingresso nell’Ordine equestre fondato da Cosimo I, dava ancor più risalto alla loro nobiltà. Oltre a ciò, non bisogna dimenticare che l’entità delle doti coniugali era di gran lunga superiore a quella monastica, per una famiglia il matrimonio di una figlia comportava un costo economico in beni immobili, in denaro e in corredo personale, equivalente alla monacazione di più figlie18. A Firenze la dote monastica 9 Gli statuti comunali dell’Italia centro-settentrionale avevano codificato un sistema dotale per proteggere i diritti delle donne, ivi, p. 52. 10 Cfr. Carlo Fantappiè, Il monachesimo moderno tra ragion di chiesa e ragion di stato. Il caso toscano (XVI-XIX sec.), Firenze, 1993, p. 218. 11 Nel 1425 i fiorentini avevano istituto il Monte delle doti. Il tutore di una nubile poteva depositare, per un determinato lasso di tempo, una certa somma di denaro presso l’ufficio addetto dell’amministrazione dl debito pubblico, ottenendo un certo interesse, se la ragazza fosse sopravvissuta oltre la scadenza del deposito. Se la giovane si fosse sposata, il Monte si impegnava a pagare al marito una somma da due a cinque volte quella originariamente versta, se avesse preso i voti, il capotale originario sarebbe stato versato al monastero. Cfr. E. Baldasseroni, Le cavaliere, p. 309. 12 Enrica Viviani della Robbia, Nei monasteri fiorentini, Firenze, 1946, p.7. 13 E. Zarri, Recinti, pp. 51-54. 14 (1494-1516). 15 G. Zarri, Recinti, pp. 53 e ss. 16 Cfr. E. Baldasseroni, Le cavaliere, p. 309, G. Greco, La chiesa in Italia nell’età moderna, Bari, 1999, pp. 124. 17 Anche detto “il monastero nuovo di via della Scala”, fu fondato nel 1588, sotto la regola di San Benedetto ed era destinato alle figlie dell’aristocrazia del Granducato. E. Baldasseroni, Le cavaliere, p. 306. 18 Cfr. Gaetano Greco, Monasteri ed esperienze religiose femminili nella Toscana moderna problemi ed ipotesi di ricerca, in Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale a cura di Marcella Aglietti, Pisa, 2009, p. 139. 2 elemosine che raccoglievano33;le monache di Santa Chiara, a Firenze non ebbero mai la minima entrata fino al 1600 e per campare si affidarono unicamente alla Divina Provvidenza. La debolezza economica di molti monasteri femminili era nota, e la carità verso le claustrali era sentita nella coscienza collettiva quasi come un dovere morale. Tuttavia non si devono dimenticare le doti, i lasciti e le donazioni di cui ogni monastero poteva usufruire e questo spiegacome nepotessero esistere tanti, tutti insieme e alcuni privi di mezzi34. Si deve poi tener presente che, l’apertura dei monasteri verso il proprio contesto sociale, sottostavaalla volontà di mantenere vive le relazioni tra le monache e le famiglie di provenienza: nei monasteri si festeggiavano matrimoni e battesimi; spesso le parenti delle monache si rifugiavano nelle loro celle, quando necessitavano di una pausa dalla loro routine familiare o matrimoniale, a volte burrascosa. Non era insolito che vedove e prostitute si ritirassero tra quelle mura accoglienti, per godersi la dote coniugale o i risparmi della professione. Maria Salviati, moglie di Giovanni de’ Medici, sotto il peso di chissà quali amarezze, scriveva al marito: “Se voi farete altrimenti, io mi farò monaca…me ne vado tutta piena di lacrime in un monastero per non uscirne”, e anche se per un periodo limitato, scelse come rifugio il convento di Sant’Orsola a Firenze. Giulia de’ Medici, figlia illegittima del duca Alessandro de’ Medici, spadroneggiava dispotica nel convento di Chiarito, in via San Gallo a Firenze, che considerava la sua seconda casa, soprattutto nei periodi in cui era in conflitto con il marito: alle povere monache il suo attaccamento al monastero costò caro, a tal punto che furono costrette, per mantenerla come era abituata, a spogliarsi delle proprie entrate e dei propri guadagni. Suor Francesca Serafini da Castiglione, eletta badessa nel 1556, se ne lamentava esplicitamente nel libro che comecamarlinga teneva per annotarvi tutte le spese fatte: “E da dì P° di Maggio sino a dì ultimo di d.° la S.ra à desinato ogni mattina in nostro Monasterio, quando con una e quando con due dame, et molte volte ci à albergato, et per suo conto à speso in camangiari L. quaranta cinque s. sedici d. otto”. Le annotazioni si succedono dal 1558 al 1566, quando Donna Giulia lasciò Firenze, ricompensando infine le monache soltanto con l’onore della sua presenza. Nel convento di Chiarito trovavano asilo anche le malmaritate e tutte quelle anime bisognose di pace e che per trovarla andavano a guastare quella degli altri, influendo sensibilmente sui buoni costumi e la tranquillità del monastero35. In alcuni monasteri aveva preso il sopravvento una vita assai “rilassata”, realtà comune nei conventi più ricchi, in cui la maggioranza delle monache apparteneva alla nobiltà e quindi caratterialmente più inclini alla superbia e all’alterigia, e il cui ozio era interrotto dalle pratiche di culto fatte senza convinzione. Per queste giovani donne non venivano certamente scelti i conventi più austeri e osservanti, ma quelli dove trovavano altre vittime delle medesime pressioni, come nel sontuosissimo convento di San Vincenzo d’Annalena, a Porta Romana36, dove ogni cosa era doppia, come i due chiostri, uno enorme e l’altro piccolo e lussuoso, edificato da alcuni uomini per il conforto delle proprie parenti monache. Qui, inoltre, al posto di celle e dormitori, le suore avevano dei comodi appartamenti, che alla loro morte rimanevano di proprietà delle famiglie37: era opinione comune che se avessero mantenuto un certo decoro personale, avrebbero sentito meno il bisogno di assecondare gli istinti e le tentazioni, che le assediavano dall’esterno38. Da molto tempo, le monache più facoltose non vivevano più “a vita comune”, non consumavano i pasti nei refettori comuni, non riposavano nei dormitori, né lavoravano negli spazi adibiti a tal fine: monache di diverse generazioni, solitamente appartenenti alla stessa famiglia o legate a vincoli di patronage (quindi con ruoli ben precisi tra di loro), vivevano in celle, veri e propri nuclei abitativi e giuridici di tipo domestico- clientelare. In questi “appartamenti” svolgevano anche dei lavori, i cui prodotti venivano venduti e i benefici 33 Rosalia Amico, Le monache dell’Ordine di San Giovanni, in Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale a cura di Marcella Aglietti, Pisa, 2009, p. 330 34 E. Viviani della Robbia, Nei monasteri, p. 37. 35 E. Viviani della Robbia, Nei monasteri, pp. 28, 237 e ss.. 36 Fondato a Firenze dalla vedova di Baldaccio dell’Anguillara alla fine del XV secolo. 37 E. Viviani della Robbia, Nei monasteri, pp. 41-42. 38 Cfr. P. Paschini, I monasteri, p. 37. 5 ricavati andavano a costituire il patrimonio esclusivo della cella, separato da quello comune e costituito dalle doti delle monache che formavano questa specie di micro-comunità39. L’organizzazione economica in questi casi era mista, poiché vi era una massa patrimoniale comune, amministrata dalla Badessa e tantipiccoli patrimoni di proprietà delle singole unità. Vi furono casi in cui si giunse a vincolarela monacazione delle proprie figlie all’appartenenza a una precisa cella, piuttosto che a un’altra: per esempio un mercante di lana in Lucca, mastro Bertone di Giovanni da Genova, volle che la figlia vivesse nella cella di suor Luisa da Foligno40.Bambine e fanciulle venivano poste in “serbanza” nei monasteri con lo scopo di indurle alla monacazione, in attesa del compimento dei quindici anni, che era l’età prevista per prendere il velo. A volte venivano accolti addirittura gruppi di sorelle, come il caso di tre giovani fiorentine, Tommasa, Lucrezia e Camilla Martini: nel 1542 i familiari misero la prima, nel monastero di San Giovanni di Pisa,come monaca e le due sorelle in serbanza. Raggiunta l’età richiesta si monacarono tutte. La serbanza, comunque, talvolta era intesa come semplice periodo formativo per le giovani, e offriva al monastero la possibilità di incrementare le entrate, grazie alle rette pagate dalle famiglie41. Si perpetuava così nel chiostro la comunità familiare e in questo modo le strategie familiari risultavano sopportabili per le interessate, poiché non erano costrette a recidere i propri legami affettivi,e l’assenza di clausura consentiva loro di ricevere visite. Nelle celle inoltre potevano usufruire del proprio corredo e conservare gioielli e denari. La circolarità di rapporti, che si realizzò all’interno dei chiostri, da un lato condizionò gli aspetti della vita monastica e le istanze religiose, dall’altrocontentò le esigenze materiali e i bisogni culturali delle donne, che vi appartenevano. Questa realtà non riguardò soltanto le nuove fondazioni o i vecchi monasteri di origine nobiliare, ma anche quelli sorti sulla spinta del movimento regolare dei Mendicanti, forzandone le originali aspirazioni alla povertà e alla vita comune, in quanto era impensabile che le donne, obbligate nella scelta della monacazione, praticassero la carità cristiana. Occorre tener presente che tra i vari monasteri delle singole città vi erano comunque delle differenze, determinate dalle condizioni economiche, dalla regola e dall’osservanza, che definivano la compagine sociale all’interno di un monastero. Nel secondo Quattrocento i monasteri delle clarisse osservanti erano caratterizzati da una forte presenza aristocratica; i conventi di terziarie domenicane tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, si aprirono al ceto degli artigiani; i monasteri benedettini di più antica fondazione, che si sottraevano alle maglie dell’Osservanza, erano privilegiati dalle nobili famiglie cittadine. Soltanto l’impossibilità di mettere le proprie figlie in istituti di solida condizione, poteva spingere un notabile a scegliere un monastero, le cui professe erano costrette a fare la questua42. La connessione tra famiglie dominati e monasteri appare ben chiara: l’uso strumentale della religione al servizio del potere politico e della tranquillità sociale, portò i monasteri a divenire appannaggio delle famiglie che governavano le città. Tale situazione è riscontrabile a Pescia, dove dal XVI secolo e per i tre secoli successivi, nei monasteri benedettini di San Michele e Santa Maria Nuova43e in quello di Santa Chiara44, appartenente all’ordine delle Clarisse, le monache chiaramente non vi entrarono per libera scelta, e se anche qualche giovane fanciulla lo avesse voluto, non sarebbe stato possibile, poiché tutti e tre i monasteri erano riservati alle famiglie dominanti. Dai libri di ricordi e da altri documenti, si ricava che i casati delle monache corali45 di questi monasteri erano gli stessi delle famiglie nobili o delle più ricche della città, mentre 39 Cfr. G. Greco, La chiesa, p.123 e G. Greco, Monasteri, p. 142. 40 G. Greco, Monasteri femminili, p. 316. 41 Cfr. R. Amico, Le monache, p. 332. 42 Gabriella Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII) in Storia d’Italia, Annali 9, Torino, 1986, pp. 368-369. 43 Fondato nel 1559. 44 Fondato nel 1492. 45 All’interno dei conventi vivevano tre “categorie” di religiose: le novizie erano giovani ragazze che si preparavano a diventare monache velate; le monache corali, chiamate anche velate o professe, monache a pieno titolo che avevano il diritto di partecipare al coro e al capitolo; le monache converse o servigiali, che pur avendo pronunciato i voti, svolgevano mansioni di servizio. Le corali solitamente appartenevano a famiglie patrizie e nobili, che potevano permettersi di pagare l’intera dote al monastero. A loro venivano affidati ruoli di prestigio: badessa, vicaria, sacrestana, 6 le converse, destinate al servizio delle corali e ai lavori più umili, erano di estrazione popolare. Nei Verbali del Consiglio della Comunità, il legame tra famiglie dominanti e il monastero di San Michele è ben chiaro, poiché fu esentato da certe tasse e si avvalse dei denari ricavati da operazioni finanziarie condotte dal Governo della Comunità. Gli stessi amministratori del Comune si occupavano di proteggere gli interessi economici di quelle monache, e badavano alla loro sicurezza materiale e spirituale46. Un altro esempio ci è fornito dal monastero di S. Giovanni di Pisa, i cui Statuti seicenteschi contengono le disposizioni, fatte risalire al XIII secolo, sui requisiti richiesti per l’ammissione delle donne nell’Ordine: “donne d’onesta vita, di legittimo matrimonio e di nobili padri nati”, in grado di pagare la dote prevista per la monacazione47. Tra monache che non potevano rispettare la clausura perché obbligate alla questua, professe che non ricevevano un’adeguata formazione per la mancanza di predicatori e confessori, donne che prendevano i voti forzate dalla famiglia e restie ad adattarsi a una rigida disciplina, la realtà monastica tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, risulta disorganica e priva di disciplina 48. Le professe uscivano a loro piacimento dal monastero, mancando un opportuno controllo e l’applicazione delle punizioni necessarie. La loro scarsa devozione era altresì il risultato del sistema di organizzazione interno al monastero: entrate in convento da bambine, di rado ricevevano un’istruzione religiosa e incontravano il sacerdote unicamente come celebrante e confessore49. Alla decadenza della vita claustrale, nondimeno contribuì la saltuaria ospitalità concessa alle donne illustri dei ceti più alti, che si portavano al seguito le cameriere e non si astenevano dalricevere visite di persone secolari.Oltretutto per i monasteri giravano, senza alcuna distinzione, persone di ambo i sessi: basti pensare che il duca Alessandro de’ Medici aveva fatto del convento di San Domenico al Maglio il ritrovo delle sue “conversazioni”50. Il malcostume e la dissolutezza di certi monasteri spesso era a malapena celata, tanto da aver fama pubblica di luoghi corrotti. Sicuramente non tutte le claustrali furono costrette a prendere il velo, numerose fanciulle e gentildonne chiesero spontaneamente di farlo e fondarono persino dei monasteri, e in questo fervore di vita monastica si distinsero soprattutto le vedove. Nonostante che in molti monasteri del XVI secolo fosse indiscutibile la decadenza spirituale, in molti altri vi era un ardente fervore di vita spirituale e chi desiderava veramente consacrarsi a Dio, sceglieva monasteri di austera osservanza. Non si deve dimenticare che, agli inizi dell’età moderna nei chiostri femminili si verificò il fenomeno delle “sante vive”, che ebbe la massima fioritura nell’età rinascimentale, e fu il prodotto dei fermenti rinnovatori che avevano attraversato il mondo dei regolari tra la fine del XV secolo e gli inizi del secolo successivo e che coinvolsero anche i chiostri femminili. Gabriella Zarri ne ha delineato le caratteristiche fondamentali: “ il carattere cittadino …del culto di queste sante e il ruolo politico da esse giocato in funzione del consolidamento del potere e di trasferimento al principe del potere sacrale da esse goduto; il fiorire di questi culti particolarmente nel periodo delle guerre d’Italia…specialmente nell’area delle corti padane e in alcune città dello stato della Chiesa; il tentativo dei promotori del culto, in alcuni casi riuscito…di presentare la santa devota al principe come una nuova patrona della città da affiancarsi ai più antichi e sempre onorati patroni cittadini; il ruolo di promozione della riforma procuratrice, tesoriera. Le converse invece, erano quasi sempre di umili origini e di provenienza rurale, e all’interno del convento avevano incarichi di servizio: lavoravano nelle cucine, pulivano, facevano il bucato, si curavano degli animali domestici. Le converse costituivano nelle comunità conventuali una percentuale consistente, fino al 30% della popolazione qui rinchiusa. Un dato in linea con il fatto che sicuramente le figlie dell’élite urbana e benestante all’interno del convento, continuassero a usufruire di personale di servizio, per mantenere un tenore di vita comparabile a quello goduto in famiglia. Cfr. Silvia Evangelisti, Storia delle monache, Firenze, 2012, pp. 36-37, Cfr. Gaetano Greco, Storia della chiesa, p. 6. 46 A. Prosperi, Il monastero benedettino, pp. 39-41. 47 R. Amico, Le monache, p. 334. 48 Ivi, p. 16. 49 G. Zarri, Recinti, p. 99. 50 E. Viviani della Robbia, Nei monasteri, p. 40. 7 fondo per il governo mediceo, monasteri femminili e benefici ecclesiastici erano collegati. In entrambi i casi le famiglie o le comunità “investivano” cospicue somme di denaro, per garantire una sistemazione sicura ai figli non destinati al matrimonio: per questo motivo i rappresentanti delle comunità dello Stato potevano compilare le liste da cui scegliere gli Operai, ed erano esortati a privilegiare proprio i congiunti delle monache. In sostanza la riforma monastica, gestita dai laici a livello locale, mirava a stabilire la vita comune ed estromettere i Regolari dal governo di monasteri, con l’intento di consolidarne l’economia e favorirne l’ “occupazione” da parte di membri del patriziato e della cittadinanza locale: attraverso il rafforzamento della disciplina e la prosperità economica, avrebbero assicurato le condizioni per un ordinato progresso spirituale59. Tali uffici permanenti contraddistinsero soprattutto le repubbliche e i principati, come Firenze, con forti tradizioni repubblicane. A Firenze furono una manifestazione concreta dell’ideologia cittadina, che si estese anche all’ambito giurisdizionale60. In realtà furono le monache a mostrare disappunto per il provvedimento, probabilmente per timore di perdere quelle piccole libertà che avevano sotto il controllo dei Regolari: infatti gli scontri che si verificarono furono soprattutto tra Operai e monasteri dipendenti dai Regolari. Per quanto riguarda la città di Pisa, alcuni documenti ci illustrano le ragioni abituali di questi conflitti: gli Operai in determinati casi invasero la sfera spirituale e i Deputati furono obbligati a redarguirli, come in S. Domenico dove concessero alle monache di mangiare sempre la carne; mentre agli Operai di San Martino fu necessario ricordare che l’elezione della badessa era di competenza dei frati francescani61. Questi provvedimenti riguardarono anche le città soggette a Firenze e ricevettero l’appoggio sia delle autorità spirituali diocesane, che il favore delle nobiltà cittadine, rivelandosi una tappa fondamentale nella fidelizzazione dei sudditi. A Pescia, come altrove, fu immediata l’applicazione della legge, vennero nominati i quattro Operai per amministrare il monastero di San Michele e naturalmente tutti e quattro appartenevano alle più antiche e illustri famiglie pesciatine. Come già evidenziato in precedenza, talvolta in accordo o in contrasto con il potere ecclesiastico,gli amministratori cittadini oltrepassarono i propri compiti, fino al punto di intromettersi nella gestione della sfera spirituale, esortando le monache, loro parenti, a porre fine ai rapporti con i regolari, per passare sotto la giurisdizione del vescovo e del suo vicario generale. Indirizzo programmatico seguito da tutti i patriziati cittadini, consapevoli che l’autorità vescovile sarebbe stata gestitanella partica, da membri dei capitoli delle chiese cattedrali, cioè i cadetti “in sacris”, appartenenti all’aristocrazia cittadina. Successivamente tale risultato fu raggiunto pienamente grazie all’intervento dei pontefici.Questa riforma permise inoltre agli esponenti dei ceti dirigenziali di pilotare le monacazioni a favore delle fanciulle locali.Una testimonianza palese di questo stretto connubio tra stato e istituzioni ecclesiastiche ce lo offre la cittadina di Pescia, in cui tra il XVI secolo e il XVIII, si alternarono periodicamente come funzionari ecclesiastici, esponenti delle famiglie dei Turini e dei Cecchi, che erano soliti sistemare in convento anche due, tre o quattro figlie per volta62. La magistratura cosimiana restò operativa per tre secoli e fu il perno del giurisdizionalismo ecclesiastico mediceo e lorenese63. In certi casi, in questi provvedimenti politici venne persino abbozzato un ripristino della disciplina monastica veicolandola verso un concetto di clausura con intenti carcerari. Di fatto, i provvedimenti che cambiarono profondamente la vita monastica femminile vennero presi soltanto dopo il Concilio di Trento. Il Concilio di Trento accennò brevemente alla disciplina monastica femminile, nella XXV sessione, Decretum de regularibus et monialibus(c. 5), dedicata alla riforma dei regolari: l’assise tridentina si limitò a 59 A. D’addario, Aspetti, pp. 133-135. 60 G. Zarri, Recinti, p. 75. 61G. Greco, Monasteri femminili, pp. 316-318. 62 A. Prosperi, Il monastero, p. 45. 63 G. Greco, Monasteri, p. 146. 10 rispolverare la Periculoso et detestabile di papa Bonifacio VIII, per lo più rimasta inapplicata, con lo scopo principale di rafforzare il controllo del vescovo locale.In seguito, l’8 maggio 1565, la Congregazione del Concilio, su intimazione di alcuni vescovi, estese la clausura a tutti monasteri di monache professe e di terziarie, sebbene gli ordini regolari avessero tentato di mediare per la moderata disciplina tradizionale, anche perchè non vi erano norme simili a governare i religiosi degli ordini maschili. Ma la Santa Sede promosse fortemente l’introduzione di un nuovo stile di vita nei monasteri: il 29 maggio 1566 con la costituzione Circa Pastoralisofficiie due anni dopo con la Lubricun Vitae genus, papa Pio V, impose il regime di stretta clausura a tutti i monasteri femminili compresi quelli “aperti”. Successivamente, il 30 dicembre 1572, il pontefice Gregorio XIII si mosse nello stesso senso con la bolla Deo sacrisvirginibus. Decreti che vennero interpretati e rinforzati dai successori, da Paolo V fino a Benedetto XIV. I pontefici in questo modo imposero a tutto l’universo monastico femminile di seguire un rigoroso modello claustrale,ridussero il mandato dell’ufficio di madre superiora, generalmente rinnovabile ogni tre anni, a pochi anni e svincolarono l’elezione da qualsiasi ingerenza di eventuali patroni, che avrebbero potuto d’ora in avanti presenziare unicamente all’insediamento della nuova badessa; ristabilirono l’obbligo della vita comune con refettori e dormitori comuni al posto delle celle familiari. In sostanza, alle comunità che non si fossero adeguate a questi principi, non sarebbe stato riconosciuto il carattere religioso, con il conseguente divieto di accettare nuove consorelle, condannandole all’estinzione64, come realmente successe a Siena e in Val d’Orcia65. Papa Pio V e successivamente Gregorio XIII, poiché l’applicazione della riforma procedeva lentamente, infersero una decisiva accelerazione inviando in molte diocesi i “Visitatori Apostolici”, ispettori con ampi poteri, che dopo un’accurata indagine su ogni monastero femminile, stilarono tutta una serie di provvedimenti specifici, al fine di realizzare una perfetta clausura monastica, garantendo anche la sopravvivenza economica degli istituti, fissando il numero delle monache per ogni casa in proporzione alle rendite66. Quelli che giunsero in Toscana trovarono nel granduca Cosimo I un convinto coadiutore: la signoria prima e i granduchi medicei poi, furono sempre molto propensi a proteggere i monasteri, a onorare le loro chiese e donare terreni ed elemosine per la loro edificazione e sussistenza, riconoscendone l’importanza sociale e umanitaria. Per la città di Firenze sono ancora ben visibili i bandi degli Otto di Guardia a Balìa 67: lapidi di pietra arenosa, risalenti soprattutto al Seicento e al Settecento, affisse ai muri nei pressi di chiese e monasteri, a tutela del decoro dei luoghi pii, con il divieto di cantare e giocare, di scaricare immondizie, vendere ortaggi. Sotto il campanile della chiesa di S. Ambrogio, a quel tempo monastero di benedettine si legge: “Gli spettabili SS Otto di Guardia e Balia della città di Firenze fanno notificare che niuna meretrice- o donna di cattiva vita o fama possa stare et abitare- nella via de’ Pilastri p. quanto tiene il monro delle- Monache di s. Ambrogio al monro delle monache di Candeli- sotto qualsivoglia pretesto come P. Benigno rescritto- di S.A. e loro decreto del di 6 Nobre 1622…”68. L’estremo rigore della clausura comportò una vera e propria separazione materiale dei monasteri dal resto del mondo e un cambiamento perentorio di comportamenti e costumi: alte mura avrebbero dovuto circondare il monastero e isolarlo, qualsiasi apertura verso l’esterno avrebbe dovuto essere protetta da doppie grate a maglia fitta e sfalsate tra di loro per impedire la vista diretta e qualsiasi contatto; i parenti, ammessi ai colloqui, avrebbero potuto incontrare le monache in appositi parlatori, alla presenza di suore anziane,libere dalla tentazione della carne; gli oggetti destinati alle monachesarebbero entrati soltanto attraverso una particolare “ruota”, la corrispondenza filtrata e controllata dalla madre superiora. Le monache inoltre avrebbero dovuto accettare la vita in comune, alloggiando non più nelle celle, ma in dormitori divisi per classe (velate, novizie e professe),usare un corredo comune, consumare lo stesso vitto tutte insieme, lavorare in laboratori comuni, senza poter più ricavare alcun profitto dal proprio operato. Le monache così si videro 64 Minaccia proferita da Gregorio XIII 65 G. Greco, Monasteri, p. 149. 66 G. Greco, La chiesa, p. 133. 67 Antica magistratura fiorentina. 68 E. Viviani della Robbia, pp. 52-53. 11 negare la possibilità di avereuna vita privata, di conservare i propri legami affettivi, i propri oggetti e i propri denari: la dote, i guadagni del lavoro manuale e le donazioni dei parenti divennero patrimonio comune, gestito dalla madre superiora. Al fine di creare un’unitarietà di indirizzo spirituale vennero imposte letture e autori ben precisi.L’aspetto censorio è palese nelle indicazioni date a riguardo dal cardinale di Firenze Alessandro de’ Medici: “Si deve haver cura che libri legghino, sì per conto della fede come ancora dell’honestà. Lodo bene che habbino libri, ma proportionati a donne e religiose, però si levino le bibbie tradotte e tutti i libri dogmatici perché non l’intendono. Similmente tutti i libri vani, come romanzi, sonetti et historie profane. Non si concedino ancora tutti quelli che trattano della vita de’ santi, perché molti non sono a proposito loro.”69 Il monastero femminile della Controriforma divenne un’istituzione totalizzante, dove le recluse avrebbero vissuto fino alla morte senza alcun contatto con l’esterno.La Controriforma riconobbe alle monache il diritto di libera scelta nel prendere il velo, ma fu un’autonomia apparente, in quanto i parenti delle fanciulle continuarono a sottrarsi alle rigide prescrizioni canoniche, atte a punire chi violava la libertà delle fanciulle: approfittandosi della loro inesperienza, le costringevano allo stato religioso, talvolta con soprusi inauditi70. Concretamente, la controriforma papale andò a intaccare enormemente le finanze dei monasteri, mettendo a rischio la sopravvivenza di numerose monache, poiché soprattutto nelle piccole realtà,le monache integravano le poche entrate che avevano con la ricerca di elemosine tra parenti o addirittura per strada. Furono interrotti anche i rapporti con artigiani, mercanti e professionisti indispensabili al mantenimento e al benessere di molti monasteri.A Firenze, come scrisse Jacopo Riguccio Galluzzi 71, vi erano monasteri poverissimi, tra cui ventotto definiti miserabili, in cui le monache si mantenevano esclusivamente con il proprio lavoro. Levando loro ogni possibilità di comunicare con l’esterno e procurarsi il sostentamento si trovarono in una situazione disgraziata: privi di aiuti, ordinazioni e lavoro, le elemosine della corte e dei parenti non erano sufficienti a sfamarle. Il granduca cercò di intervenire presso il visitatore apostolico per moderare il suo intervento, ma Gregorio XIII, nonostante le preghiere di Cosimo I, temendo il ritorno della passata confusione, non concesse deroghe all’applicazione delle riforme72. Inoltre, una norma dispose anche la soppressione dei conventi femminili extra-moenia, soprattutto in conseguenza della violenza di cui erano state oggetto nel periodo delle guerre d’Italia, ma anche per la minore vigilanza a cui erano sottoposti quelli ubicati in campagna:“la ricostruzione del monastero come spazio sacro, come hortusconclusus…e il definitivo processo di urbanizzazione dei monasteri”73 sono creazioni tridentine.Si concluse così il secolare processo di inurbamento delle istituzioni monastiche femminili: aPisa questo processo, iniziato nel XIV secolo, giunse a compimento soltanto agli inizi del XVI secolo74. Sul piano sociale, da un lato l’imposizione della clausura espulse dalle comunità religiose vedove, donne e fanciulle in situazioni incerte e di pericolo, tradizionalmente accolte; dall’altro l’inasprimento della vita claustrale spinse le dirette interessate a sollevarsi in gran numero protestando e talvolta cercando di resistere, in special modo nei monasteri di fondazione aristocratica o patrizia, poiché ritennero questi provvedimenti offensivi per la propria dignità personale. L’indignazione si protrasseovunque fino alla fine del Cinquecento,e l’edificio conventuale non venne in alcun modo recepito come spazio sacro, che favoriva il raccoglimento e la preghiera, ma come “carcere”. Non mancarono però monache che accolsero con entusiasmo il rigore disciplinare controriformistico e 69 G. Zarri, Recinti, p. 128. 70 P.Paschini, I monasteri, p. 37. 71 Nella sua Storia del Granducato di Toscana del 1781. 72 E. Viviani della Robbia, Nei monasteri, pp. 77-78. 73 Gabriella Zarri, Recinti sacri. Sito e forma dei monasteri femminili a Bologna tra '500 e '600”, in Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di BoeschGajano, S. Scaraffia, Torino, 1990, p. 384. 74 G. Greco, Monasteri, p. 313. 12 La sua eccessiva severità generò ribellioni a Volterra, a Pisa e a Barga: sacerdoti, frati, monache, le autorità delle comunità e quelle giuridiche manifestarono il loro disaccordo a tal punto che Francesco I dovette appellarsi a Roma. Il Papa richiamò il Castelli e la questione fu risolta. A Pescia, in verità, non si registrarono disordini: badesse e superiore furono elette ogni tre anni, vennero innalzati muri e messe grate, ma gli altri decreti restarono inattuati. Fino al 1610 i Pesciatini seguitarono a ignorare le norme contro il sovraffollamento dei monasteri, dichiarando di non averne avuto notizia. Con la complicità dei proposti, i decreti della Congregazione romana dei Regolari continuarono a essere elusi anche dopo il 1610 nel monastero di San Michele, basti pensare all’entrata in monastero di Maddalena, figlia di Cristofano Galeffi nel 1649. Nel Libro delle Professioni et Ingressi, in data 20 gennaio 1650 si legge: “Ricordo come l’Ill.mo Mons. Sig.re Proposto à ordinato alla nostra Rev.da Madre Badessa Suor Francesca Benevieni che in tutte maniere si veli e si dia l’abito monastico alla sopra detta Lisabetta Anna Galeffi per certo avviso venutoli da Roma sospettando, che senza licentia la Sacra Congregazione non si contentava si introducesse fanciulle et esso per bene del nostro monasterio volse che subito pigliasse il Santo Abito della Religione et lei lo prese volentieri”85. Con l’appoggio dei Medici, quindi la Sacra Congregazione accettò che si facessero gli interessi dei potenti, e Paolo V ordinò che a Pescia si continuasse con l’antica abitudine di metter giovani in convento forzatamente, per molti anni ancora. Non c’è quindi da meravigliarsi che nel monastero benedettino di San Michele, le fanciulle nel 1575 fossero 57 e nel 1682, 89 e le singole celle fossero tutte di proprietà delle monache nobili o più ricche: erano così tante da superare l’altezza del campanile, che dovette essere rialzato più volte (nel 1600 e nel 1745), come riporta un libro di ricordi86. Ma nel cuore della Controriforma vi furono anche fenomeni che si discostarono dal modello misogino, che governava il contesto sociale dell’epoca, subordinato alla religione cattolica. Nel principato di Piombino87, in Toscana si verificò un caso molto particolare, in cui una realtà, che sembrava esser priva di alternativa e di spazi di manovra, fu scalzata dalla politica locale. Alla fine del Cinquecento, la principessa Isabella Mendoza Appiani aveva iniziato a far costruire a Populonia un nuovo monastero femminile: le autorità politiche e comunali, la principessa e il figlio Iacopo VII e la comunità di Piombino assicurarono una cospicua dotazione al monastero ancora in costruzione. Nel 1607 il vescovo Alessandro Petrucci, durante una visita pastorale, ritenne inadeguata la scelta del luogo, in quanto fuori da una città e gli accorgimenti post-tridentini intimavano una maggior attenzione per la clausura: la principessa così fu convinta a erigere il nuovo cenobio dentro le mura di Piombino. Il monastero sarebbe stato intitolato a Santa Anastasia e gli Anziani del Comune misero a disposizione un congruo spazio adiacente alla chiesa pievania di S. Antimo, dopo esser stati convinti che l’istituto avrebbe fornito alla cittadina: “molti altri benefitij come del custodirvi, et educarvi nella vita, e costumi christiani le fanciulle, et altri infiniti, che continuamente da simili luoghi si sogliono trarre”. Venne poi incrementato il patrimonio monastico iniziale e nel 1610 l’edificio conventuale fu terminato, quindi affinché la clausura fosse assicurata da una retta disciplina, il vescovo Petrucci e il governatore 85 A Prosperi, Il Monastero, pp. 46-47. 86 Ivi, p. 51. 87 Il principato di Piombino all’inizio dell’età moderna era un piccolo stato tirrenico. Nel 1399 il signore Gherardo di Iacopo Appiani vendette Pisa ai Visconti di Milano, conservando per sé Piombino, Suvereto, Buriano e Scarlino, lungo le coste meridionali della Toscana e le isole dell’Elba, di Pianosa, di Montecristo, di Cerboli e di Palmaiola. Nel corso del Cinquecento il principato visse vicende alterne: nel 1501 venne conquistato dalle truppe del Valentino, che lo annesse al Patrimonio di San Pietro, nel 1553 una flotta franco-turca si impossessò di quasi tutta l’isola d’Elba, nel 1589 Alessandro Appiani fu ucciso da un gruppo di congiurati, protetti dalla moglie Isabella Mendoza e dal governatore spagnolo, don Felix d’Aragona. Non ebbe maggior fortuna con il figlio Iacopo VII, che morì senza lasciar eredi nel 1603 a Genova. Il principato, pur essendo riuscito a mantenere la propria indipendenza, uscì molto provato da queste vicende e la sua autonomia non era più tale. Tra il 1603 e il 1611 fu dominato direttamente dagli spagnoli e successivamente nel 1634 fu venduto a Niccolò Ludovisi, per passare poi alla famiglia Boncompagni nel XVIII secolo. Crf. Gaetano Greco, “Quella Regola, et Capitoli più comodi, larghi…”. Monache a Piombino nell’età moderna, in Religione, cultura e politica nell’Europa moderna. Studi offerti a Mario rosa dagli amici, a cura di C. Ossola, M. Verga e M.A. Visceglia, Firenze, 2013, pp. 103-123. 15 spagnolo Giuseppe de Pons chiamarono a Piombino la “santa viva” PassiteaCrogi: presumibilmente con l’intenzione, tramite la santa senese, di fondare una comunità religiosa di Cappuccine. I Piombinesi però non desideravano una presenza così importante nella loro cittadina e cercarono di limitarne l’incarico: “instruire, et ammaestrare le verginelle con tanti buoni esempli e disciplina, e dar principio a tanta, e così santa opera, dal che non ne può sperare se non effetti e successo degno di così gran devota”. Ma le cose andarono diversamente: nel momento in cuii cittadini si resero conto che sarebbe nata una comunità regolare con norme rigorose, soprattutto in tema di clausura, si scontrarono con la pia senese. Angosciati dall’ipotesi che tale disciplina avrebbe reciso ogni legame affettivo e avrebbe impedito qualsiasi tipo di comunicazione tra le monache e i loro familiari, si opposero fermamente. Le pressioni della principessa Isabella e gli interventi di Passitea non li convinsero ad accettare il progetto e alla luce di questa situazione, neanche il vescovo Petrucci poté far qualcosa. Il conflitto si protrasse fino all’estate del 1613, quando gli Anziani si rifiutarono perfino di incontrare Passitea, abituata a tutt’altri onori nelle corti di Parigi o Firenze. La principessa Appiani e il vescovo, dinanzi al fronte unito e compatto della comunità, dovettero promettere che il nuovo monastero avrebbe adottato la regola di Santa Chiara, ritenuta meno dura. La morte di Isabella Appiani, alla fine del 1613, sicuramente andò a vantaggio delle richieste dei Piombinesi, in ugual modo furono determinanti il quadro politico e i mutamenti che avvennero all’interno della città: infatti da un lato Carlo Appiani cercò di impadronirsi del principato e i Medici si offrirono come acquirenti del feudo imperiale, dall’altro nel 1613 Isabella Appiani Mendoza88 lasciò Piombino per trasferirsi a Genova. L’assenza del principe rafforzò e dette autonomia al ceto dirigente, che ebbe più spazio per gestire le questione locali, incluse quelle ecclesiastiche. PassiteaCrogi abbandonò i propri intenti e per riconciliarsi con la comunità, accompagnò suor Battista Trimba di Piombino, monaca del convento francescano di S. Chiara di Massa, in quella comunità, dove “a lei subito fu dato il carico di spendere per il convento et con questa occasione poi si vestirno le fanciulle con grandissimo contento di tutta questa Terra”. Nel 1614 durante la festa del Corpus Domini si tenne la vestizione delle prime dieci novizie del monastero di S. Anastasia. Nel 1616 fu compilata la “Regola e forma di vita dell’ordine delle povere donne che il Beato Francesco instituì, et ordinò”, una regola più “larga”, dettata direttamente dai padri delle monache, che venne poi approvata dal vescovo Piccolomini89. Questo compromesso tra città e vescovo dette alle monache il diritto di parlare senza le due ascoltatrici, quando alle grate si fossero presentati i familiari stetti e consentì loro di usufruire del proprio corredo personale: varianti significative ai regolamenti dell’epoca. Nelle costituzioni piombinesi, in sostanza si mirò ad attenuare la sofferenza delle recluse, garantendo quiete e ordine all’interno del monastero. Inoltre il vescovo dovette accettare che l’amministrazione economica del monastero fosse affidata a due deputati, eletti annualmente dal Consiglio della comunità, tra gli appartenenti al Consiglio degli Anziani, togliendone agli ordinari diocesani la gestione. Così gli affetti familiari vinsero, le preoccupazioni dei padri di famiglia allontanate90. Entro i confini granducali vi furono casi analoghi: il monastero di S. Chiara di Volterra, al cui esempio si rifecero i piombinesi, e nel distretto della Val di Nievole, dove nei primi decenni del Settecento, soltanto in cinque monasteri (tre case domenicane e due recenti comunità salesiane), sui quattordici esistenti, entrò in vigore la “vita comune”. La stessa situazione è riscontrabile nel Nuovo stato di Siena. Le manifestazioni di vita religiosa comunitaria femminile in Toscana, non si esaurirono all’interno dei monasteri, poiché per tutta l’età moderna perdurarono le “monache in casa”91, come nell’Isola d’Elba. Continuarono a esistere anche comunità femminili, in cui le religiose, non riconosciute monache dalla gerarchia ecclesiastica, operavano al di fuori della stretta clausura, in strutture monastiche nuove e derivanti da esperienze medievali. 88 Figlia di Isabella Appiani e moglie di Giorgio Mendoza. 89 Fabio Piccolomini, vescovo di Massa e Populonia (1615-1629). 90 G. Greco, “Quella Regola, et Capitoli più comodi, larghi…”, pp. 103-123. 91 Fenomeno dell’Italia meridionale e insulare, erano donne che dimoravano nelle proprie case e vivevano da sole o con i parenti, sotto la direzione spirituale di sacerdoti diocesani o di regolari. Cfr. G. Greco, Congregazioni. 16 Al Medioevo risalgonole Oblate92 Ospedaliere di Santa Maria Nuova di Firenze a cui furono unite nel XVIII secolo le Oblate dell’Ospedale di S. Maria del Ceppo di Pistoia e le oblate dell’Ospedale di S. Chiara di Pisa, che si occupavano degli infermi negli ospedali; le terziarie delle case esistenti sull’Appennino Pistoiese, dedite all’educazione delle fanciulle, che entravano e uscivano dal chiostro, nonostante le diposizioni della Curia Romana.Tra gli istituti di nuova fondazione, a Firenze dagli anni Trenta del XVII secolo si annoverano le Ancelle della Santissima Vergine della Divina Incarnazione, fondate da Eleonora RamírezMontalvo, che si occuparono dell’educazione delle fanciulle indigenti; le Minime Ancelle della SS. Trinità, che a metà del medesimo secolo si dedicarono all’istruzione delle giovani nobili. Non mancarono conservatori per fanciulle povere a Livorno e case-scuola in maremma nel secolo successivo. Nel Settecento, oltre alle congregazioni nate con questi scopi, numerosi monasteri femminili assunsero l’impegno assistenziale ed educativo femminile, modificando la propria funzione sociale all’interno della comunità locale e accogliendo fanciulle in “serbanza”, anche non destinate alla monacazione93. Infine, facendo qualche passo indietro, non bisogna dimenticare il ritorno di esperienze mistiche: in Toscana come altrove si registrarono focolai di inquietudine all’interno della Controriforma devozionale: nei chiostri si diffuse il quietismo94 e contemporaneamente riemerse il fenomeno delle “sante vive”. Al di fuori del controllo dei vescovi e dei sostenitori della disciplina, queste monache, proiettate verso un impegno costante alla preghiera e alle pratiche di devozione, suscitarono non poche preoccupazioni nella gerarchia ecclesiastica e nello stesso potere civile. Le monache Francesca Fabbroni, nata a Livorno nel 1619 e morta a San Gimignano nel 1681, e la sarzanese Maria Caterina Brondi, vissute tra le mura di monasteri pisani nella seconda metà del Seicento,ebbero grazie alle proprie doti di consigliere e profetesse grande successo alla corte medicea, tra il ceto dirigente pisano e il popolo minuto. Ma la gerarchia ecclesiastica si accanì contro di loro: la Fabbroni, vissuta nel monastero di san Benedetto, fu accusata di eresia e affettata santità, il suo cadavere fu disseppellito, per essere processato e bruciato, condannandola alla damnatio memoriae post mortem; la Brondi fu vivisezionata dai medici anatomisti dello Studio Pisano, su ordine dell’arcivescovo, che durante uno degli episodi di estasi della donna, ne dichiarò la morte e ordinò ai chirurghi di cercare con il bisturi sul suo corpo i segni fisici della supposta santità95. Analogamente, i monasteri fiorentini furono una vera e propria fucina di sante, beate e di venerabili. Il problema della santità vera e santità simulata nei chiostri femminili, si protrasse per tutto il XVII secolo. La situazione del monachesimo in Italia iniziò a mutare nella seconda metà del Seicento: due eventi di grande portata sociale e culturale influenzarono la vita claustrale e il regime carcerario iniziò a vacillare. Le gravissime pestilenze che imperversarono nell’Italia settentrionale e in Toscana tra 1630-1631 e il conseguente calo demografico, unitamente alla politica adottata dai ceti dirigenti che permetteva a solamente due figli di sposarsi, comportarono la diminuzione della natalità e a volte l’estinzione di numerose antiche famiglie. 92 “Ospedaliere”, “oblate”, “pinzochere”, “beghine” e altre: religiose che sceglievano una vita a carattere comunitario. Oblate e ospedaliere prestavano assistenza negli ospizi e negli ospedali, erano soprattutto vedove e zitelle che si offrivano per servire in questi luoghi, a cui donavano i propri averi in cambio del mantenimento a vita. Alcune di esse si organizzarono in comunità istituzionalizzate che perdurarono nel tempo, come le Oblate Ospedaliere Terziarie Francescane di Santa Chiara, al servizio nell’Ospedale di Santa Chiara a Pisa ancora oggi e le Oblate Ospedaliere di Santa Maria Nuova, sorte a Firenze tra il 1284 e il 1288. Cfr. G. Greco, Congregazioni. 93 G. Greco, La chiesa, p. 150. 94Complesso di dottrine a sfondo mistico diffuse nel 17° sec., incentrate sull’affermazione della necessità della preghiera di quiete, di un atteggiamento di totale e puro abbandono contemplativo, in cui deve porsi il fedele di fronte a Dio, per adorarlo, amarlo e servirlo, senza alcuna produzione di atti. Il quietismo si connette con le concezioni sulla preghiera, che cominciarono a divulgarsi durante la Controriforma per svilupparsi nell’età barocca (prevalenza della preghiera privata e mistica sulla liturgica), Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/quietismo. 95 Cfr. G. Greco, La chiesa, p. 143, G. Greco, Monasteri, pp. 154-155 e Maria Pia Paoli, La dama, il cavaliere, lo sposo celeste. Modelli e pratiche di vita femminile nella Toscana moderna, in Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale, a cura di Marcella Aglietti, Pisa, 2009, pp. 178-179. 17
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