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Il mondo in questione di Jedlowski, Sintesi del corso di Sociologia

Riassunto dettagliato dell’intero libro “il mondo in questione” per esame di Storia della Sociologia di Oreste Ventrone, Università degli studi di Napoli, Federico II

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 31/01/2020

RoxyRoxy.
RoxyRoxy. 🇮🇹

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Scarica Il mondo in questione di Jedlowski e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! STORIA DELLA SOCIOLOGIA IL MONDO IN QUESTIONE: introduzione alla storia del pensiero sociologico -Paolo Jedlowski PREMESSA La sociologia è un insieme di discorsi e pratiche di ricerca che hanno come oggetto le relazioni e istituzioni umane. In altre parole, è una disciplina che si occupa della dimensione sociale della vita umana. Affermazioni come queste hanno un senso limitato perché i diversi autori che hanno praticato questa disciplina nel tempo l’hanno intesa in modi molto diversi tra loro. Queste diversità rappresentano la storia della sociologia e la sociologia non ne può prescindere. Essa non è un sistema di conoscenze codificato ma un insieme di problemi, di forme di indagine, teorie e concetti che condividono il fine di rinnovare costantemente la comprensione della società. La sociologia è unificata dalla sua tradizione. Un elemento che accomuna gli autori che si riconoscono in questa tradizione è una forma specifica di curiosità. È quella curiosità che fa si che il nostro mondo sociale ci appaia come qualcosa che non possiamo dare per scontato ma lo mettiamo in questione, iniziamo a chiederci come mai sia proprio così e non altrimenti. La sociologia quindi corrisponde a una serie di tentativi di rispondere a queste domande. Nel tentativo di rispondere a queste domande, la sociologia ha elaborato una serie di strategie di conoscenza. Gli autori che oggi consideriamo “classici” nella disciplina, sono tali perché hanno fornito i modelli principali di queste strategie. Questo libro è dedicato principalmente alle opere di Marx, Durkheim, Simmel e Weber. Opere che hanno fornito alla sociologia gran parte dei suoi temi, linguaggio, metodi di ricerca e teorie che ancora oggi ci serviamo per la spiegazione e comprensione dei fenomeni sociali. CAPITOLO 1 Le origini del pensiero sociologico Da che esiste il linguaggio, gli uomini hanno potuto parlare della l’ora vita in comune, ma la sociologia in quanto disciplina dotata di una propria autonomia, è una costruzione intellettuale del mondo moderno. Nei libri di storia delle scuole medie, l’età moderna si fa iniziare di solito, dalla scoperta dell’America, nel 1492. Quella data può essere considerata come lo spartiacque, almeno per la storia europea, tra una fase in cui il mondo era percepito come chiuso è statico ed una in cui il mondo apparve illimitato, in cui si aprirono nuovi orizzonti, ed ebbe inizio un’era di conquiste, commerci, sviluppi economici e scoperte scientifiche senza precedenti. Nella prospettiva dei sociologi, 2 grandi rivoluzioni segnano l’inizio della modernità vera e propria: - La prima Rivoluzione industriale, una rivoluzione economica e tecnologica che si sviluppò in Inghilterra a partire della seconda metà del 1700 - La Rivoluzione francese, una rivoluzione politica e istituzionale che ebbe luogo sul finire dello stesso secolo. Esse rappresentano un’accelerazione della storia, inaugurarono una serie di trasformazioni sociali e materiali di una velocità inaudita. Si comincia a studiare la società quando essa non può essere data più per scontata. Essa cambia in modo rapido e pone così il problema di comprendere le ragioni di questo mutamento per controllarlo, criticarlo e dirigerlo. Un altro processo fondamentale per comprendere l’epoca moderna è lo sviluppo del concetto di scienza. La scienza è un insieme di strategie conoscitive in cui l’osservazione metodica, unita all’applicazione di procedimenti logici di tipo razionale, mira alla scoperta di regolarità universali che riguardano i fenomeni studiati. In tutte le concezioni del sapere che conosciamo prima dell’avvento della modernità, da Platone fino all’ultimo medioevo, il regno dell’esperienza e dell’osservazione si distingueva da quello del vero sapere. Il sapere del vero era assoluto ed eterno, è posseduto solo da Dio: poteva derivare solo da riflessioni filosofiche o da quelle religiose, non dall’osservazione del mondo. Quando uomini come Bacone e Galilei proposero alla comunità una visione della scienza come un sapere del vero basato sull’esperienza, mutarono le carte in tavola. Secondo Galileo Galilei, non è in dubbio che il sapere vero sia di Dio, ma visto che è la natura il suo libro più grande, leggendo quest’ultimo gli uomini possono accedere al suo stesso sapere, anche se non raggiungeranno mai l’ampiezza infinita del sapere divino. Poco più tardi Newton propone l’obiettivo di applicare lo stesso metodo conoscitivo basato sull’osservazione applicato con successo ai fenomeni naturali, anche ai fenomeni sociali. Diciamo che il pensiero sociologico ha origine soprattutto dal mutamento sociale e dall’idea moderna di scienza. - Parlare di “rivoluzione industriale” significa alludere all’avvio del processo di industrializzazione che ebbe luogo in Inghilterra nella seconda metà del 700. L’avvio di questo processo ha molti presupposti. Fra questi: la disponibilità di materie prime a buon prezzo, il controllo delle vie commerciali, dei mercati coloniali, la disponibilità per il lavoro di fabbrica di masse di lavoratori espulsi dalle campagne, e la disponibilità di nuove tecnologie. L’industria è un sistema di produzione che associa al lavoro degli uomini l’utilizzo di macchine e fonti di energia. È presente anche una certa tendenza alla meccanizzazione delle attività produttive a partire dal 16esimo secolo. Dall’Inghilterra il nuovo modo di produrre si diffuse rapidamente nel continente. Dall’Europa, questo modo di produrre si è poi diffuso in tutto il mondo. Il modo di produrre inaugurato dalla rivoluzione industriale ha una specificità che lo distingue da ogni altro tipo che lo ha preseduto: la capacità di fare crescere la produzione. Esso si riproduce espandendosi. Le società sono capaci non solo di produrre e riprodurre i propri mezzi di sussistenza un anno dopo l’altro, ma di accrescere il proprio prodotto, cioè di crescere economicamente. L’idea di progresso ha qui le sue basi materiali, da quando la rivoluzione industriale ha avuto inizio, gli uomini si sono abituati all’idea che il mondo sociale e materiale di domani sarà di norma diverso da quello di oggi. - La rivoluzione francese ha portato ad una rivoluzione politica che ha trasformato l’Europa e America del Nord a partire dal 18esimo secolo. La rivoluzione francese è il momento culminante di un insieme di processi che conducono alla delegittimazione del potere feudale e allo stabilirsi di un nuovo tipo di legittimità del potere, fondato sul consenso della società civile a leggi razionalmente stabilite e sull’obbedienza a governanti liberamente eletti. Alle spalle della Rivoluzione francese sta la pressione di una nuova classe costituita dai banchieri, commercianti, elité delle professioni tecniche e dai proprietari delle manifatture che mira a rimuovere il potere delle aristocrazie. Nella lotta contro le aristocrazie ed i loro privilegi, questa classe sviluppò una propria ideologia che tendeva a presentare le proprie aspirazioni come le aspirazioni della società tutta. La visione politica della società che ne derivò è alla base del mondo occidentale e del suo sistema di valori. Essa intende che tutti gli uomini godono di uguali diritti, che in quanto cittadini di uno Stato hanno il diritto di partecipare al governo attraverso l’elezione di propri rappresentanti. L’idea che tutti gli uomini siano uguali è un idea opposta al mondo feudale, è un’idea moderna. Nel mondo feudale i diritti del signore e quelli di un servo erano determinati dalla nascita. Le rivoluzioni che si ispirano alla rivoluzione francese: se le leggi non sono più stabilite dal sovrano, e se il potere non riposa più nelle mani di coloro che per nascita lo hanno ricevuto, allora gli uomini riuniti insieme hanno la facoltà di definire e ridefinire continuamente le proprie leggi sulle basi di un confronto razionale. Le leggi sono ora stabilite dagli uomini e quindi non sono immutabili. la sua carriera come segretario di Saint-Simon. Quella di Saint-Simon è una figura notevole: segna il passaggio dalle istanze dell’illuminismo a quelle del positivismo. Ebbe una vita movimentata: Fece parte del corpo di spedizione francese che portò aiuto a George Washington, studiò ingegneria, durante la rivoluzione rinunciò al titolo nobiliare, durante il periodo napoleonico e durante i primi anni della restaurazione maturò progetti scientifici impegnativi ed elaborò un programma sociale che mirava ad un nuovo cristianesimo. Saint-Simon fu tra i primi intellettuali del tempo a riconoscere che la società andava prendendo forma sulle rovine del mondo feudale, era una società fondata sulla produzione industriale e sul sapere ad esso collegato. Il progresso è un processo che deve comportare una riorganizzazione della società. La direzione di questo processo non è scontata: il futuro sarà dell’industria, ma nel disegnare gli scenari di questo futuro Saint-Simon lascia ampio spazio all’immaginario. In ciò il suo pensiero si accosta a quello di altri eretici del tempo come Owen e Fourier. Marx chiamerà Owen, Fourier e Saint- Simon socialisti utopisti, intendendo che nel loro caso si trattava di aspirazioni ideali non fondate su un’analisi dei conflitti sociali reali. Comte invece, anche se riprende molto elementi dal pensiero di Saint-Simon, ha un atteggiamento diverso. Si pone come l’annunciatore di un’epoca che gli sembra affermarsi ineluttabilmente. L’importanza storica di Comte é notevolissima soprattutto per la storia della nostra disciplina, in particolare per l’influenza che esercitò su Durkheim e su diversi altri sociologi. L’idea di fondo di Comte è che la conoscenza umana si svolga attraverso 3 stadi: 1) TEOLOGICO: la spiegazione dei fenomeni è perseguita dagli uomini attraverso il ricorso a nozioni magiche e poi religiose. 2) METAFISICO: le spiegazioni sono ricercate mediante l’uso di concetti astratti, cioè mediante la speculazione filosofica. 3) POSITIVO: la conoscenza viene a delinearsi come sapere scientifico, basato sulla ricerca dei fatti. Nel Corso di filosofia positiva Comte delinea i contorni di quella che a suo parere deve essere la sociologia: una scienza modellata sui tratti delle scienze naturali, intesa a rilevare i fatti e riconoscere leggi. Questa scienza è la più complessa fra tutte le scienze. Comte inoltre distingue una statica sociale, cioè quella branca della sociologia che si occupa del modo in cui le società si autoregolano e una dinamica sociale, intesa come quella branca che studia il mutamento. L’età del positivismo, sarà l’epoca della sottomissione razionale degli uomini alle leggi della propria natura: gli scienziati ed i tecnici ne saranno l’élite dominante. Nella fase finale del suo pensiero, Comte ritorna sulla questione della religione, non trattandola più come un elemento di uno stadio primitivo dell’umanità, ma come un elemento fondamentale dell’integrazione della società. Egli si proporrà come il sacerdote di una religione positiva: una religione fondata sul culto dell’umanità. Comte si scontra qui con un problema di grande rilevanza: il problema che la scienza in se stessa non consente una fondazione dei valori nei quali gli uomini credono, e non garantisce una legittimazione adeguata del nostro mondo sociale che essa contribuisce a generare. Una società non possa reggersi senza l’esistenza di una religione. Questa questione fu intravista da Comte, e questo problema resterà fondamentale per tutto il pensiero sociologico successivo. In forme diverse, lo vedremo affrontare in particolare da Durkheim e Weber. Il mutamento non è necessariamente progresso. I critici della Rivoluzione francese, ad esempio, ne leggevano i mutamenti prodotti come tutt’altro che “progressivi”: piuttosto come il segno di una decadenza. Alexis de Tocqueville non fu né difensore del progresso né un suo denigratore. Fu capace di cogliere la molteplicità di significati che i mutamenti sociali e politici nella prima metà del 19esimo secolo potevano assumere. Tocqueville non si è mai definito un “sociologo” ma è uno dei grandi personaggi a cui la sociologia è debitrice. Tocqueville non era un positivista, lo possiamo definire come un osservatore dell’epoca che sta tra la fine del 700 e l’800: per lui si tratta di un’epoca di grandi cambiamenti, un mutamento che porta dei vantaggi in una direzione e dei svantaggi in un’altra. Egli è innanzitutto interessato alla novità della democrazia, che gli appare come un processo storico che tende all uguaglianza delle opportunità. Nella democrazia, gli uomini sono inseriti in un sistema in cui di diritti sono definiti in modo tale da permettere una mobilità sociale: tutti possono avere accesso a qualsiasi rango o qualsiasi posto di lavoro. In ciò sta la sua fondamentale differenza con il regime feudale. Diversi decenni dopo, Weber dirà che la modernità corrisponde al passaggio da un mondo del destino a un mondo della scelta. Tocqueville anticipa qualcosa di analogo dicendo che gli individui nella modernità diventano sempre più liberi di forgiare autonomamente la propria sorte, all’interno di un sistema di leggi che garantisce uguaglianza per tutti. In la democrazia in America Tocqueville riconosce negli Stati Uniti il luogo dove questo processo si è finora più sviluppato. Ma ciò che si acquista da un lato lo si può perdere dall’altro: fra i pezzi del dell’uguaglianza vi sono il declino del concetto di onore e un eccessivo individualismo. Tra i rischi della democrazia va quella della dittatura della maggioranza: la subordinazione di tutte le minoranze. Oltre alla democrazia in America, egli scrisse anche l’antico regime e la rivoluzione: uno studio sulla Francia di prima e dopo la rivoluzione accompagnato da frequenti confronti tra questa e i paesi vicini. Se Comte è stato il primo ad usare il termine “sociologia”, l’inglese Spencer è colui che ne ha contribuito a diffondere l’uso presso il pubblico. Come Comte, Spencer pensa alla società come una sorta di organismo, ma a differenza del primo, utilizza per le sue speculazioni un apparato concettuale evoluzionista, in parte appreso da Darwin. I Trattato di Charles Darwin l’origine delle specie, ebbe una grande influenza sul pensiero ottocentesco. L’idea fondamentale di Darwin era quella di un processo di trasformazione e differenziazione evolutiva delle specie animali attraverso un meccanismo di adattamento all’ambiente. Spencer prova ad applicare quest’idea anche allo studio delle formazioni sociali. È ciò che poi si chiamerà “darwinismo sociale”. La storia gli appare come una traccia di un cammino evolutivo nel corso del quale gli uomini adatterebbero le forme della loro convivenza a quello dell’ambiente, passando da forme di organizzazione semplice fino a quelle più complesse. In realtà Darwin cercava di capire le leggi che riguardava le specie diverse non le società diverse, ma Spencer riformulò le idee di Darwin, alla fine del secolo le opere di Spencer avevano una notorietà straordinaria. La sua sociologia si basa su una raccolta di informazioni su diversi tipi di società. Queste informazioni sono ordinate secondo una doppia tipologia: la prima è quella che distingue la società in base al grado di complessità della loro differenziazione interna, la seconda è quella tra società “militari” e società “industriali”. Il concetto di differenziazione avrà un posto molto importante nella storia delle scienze sociali. L’idea di Spencer è che la storia della società umana comporti una serie di passaggi lineari dal più semplice al più complesso: crescendo di dimensioni, le società sviluppano una rete di organi e di funzioni sempre più specializzati e differenziati. Quanto alla distinzione tra società militari e industriali, l’idea è quella di rendere conto dei modi diversi nei quali una società integrata nel suo interno: nelle società militari l’ordine sarebbe garantito in un modo coercitivo, in quelle industriali deriverebbe dalla libera scelta degli individui. In autori come Comte e Spencer la sociologia trovò le sue prime formulazioni teoriche. Ma la sociologia non è fatta solo di teoria: è anche un insieme di pratiche di ricerca. In questo senso, le prime origini affondano anche nelle raccolte di dati statistici e nell’inchiesta promosse dai governi ed altre istituzioni che si diffusero nel corso dell’800 in quasi tutti gli stati europei. Lo sviluppo della statistica ha a che fare con le esigenze amministrative degli Stati nazionali: nel corso dell’800 erano sempre più frequenti la domanda di informazioni precise e complete su aspetti diversi della vita sociale. Non si tratta solo di dati demografici o relativi al commercio e all’industria, si tratta anche di quella che si chiamerà la statistica morale: raccolte di dati riguardanti la criminalità,l’istruzione, le abitazioni, le condizioni di salute, l’alimentazione o la povertà delle popolazioni. La statistica pare uno strumento necessario conoscere l’esatto e condizioni delle nazioni. L’Inghilterra, Francia e poco dopo la Germania dono tra i paesi dove queste ricerche si sviluppano prima. CAPITOLO 3 Karl Marx Karl Marx per quanto non abbia inventato la parola comunismo, l’idea di una società comunista, intesa come una futura società senza classi, è nell’orientamento del suo pensiero. Egli nacque a Treviri, in Germania nel 1818. Dopo aver studiato filosofia a Berlino, esordì come giornalista di Colonia con una serie di articoli sulle condizioni dei lavoratori in Renania. Dopo che la rivista fu soppressa per il suo atteggiamento radicale, Marx si trasferì a Parigi, dove ebbe inizio la sua amicizia con Engels, destinata a durare tutta la vita. Espulso da Parigi per la sua attività intellettuale e politica andò a Bruxelles dove entrò in contatto con diverse associazioni operaie e dove scrisse il Manifesto di fondazione del Partito comunista. Dopo la fine dei moti rivoluzionari de 1848, si trasferì a Londra, dove visse con la moglie ed i figli in condizioni di estrema miseria, sostenuto da Engels. In questi anni lavorò alle sue opere restando testimone e partecipe dei conflitti sociali contemporanee. Per le sue attività politiche e intellettuali Marx fu dunque espulso da numerosi paesi, ma il suo lavoro è fra quelli che hanno più segnato la storia moderna. L’opera principale di Marx è Il Capitale. Prima del capitale Marx scrisse molte altre opere: il manifesto del partito comunista (scritto in collaborazione con Engels), le lotte di classe in Francia e per la critica dell’economia politica. All’inizio della sua vita intellettuale, Marx fu essenzialmente un filosofo hegeliano. L’influenza di Hegel è avvertibile nella sua opera ed è ciò che fa sì che egli sia in una certa misura estraneo al clima positivista del suo tempo. Il proseguimento della sua opera è inteso da Marx come un superamento della filosofia. Nonostante la sua opera abbia influenzato molto profondamente la sociologia, Marx non si sarebbe mai definito un sociologo. Il suo principale oggetto di riflessione è il movimento generale della società sorta con la rivoluzione industriale, ed egli riteneva che al cuore di questo movimento stesse nella critica dell’economia politica. Come abbiamo detto prima Marx, nella sua formazione filosofica, dipende da Hegel. Il termine dialettica, che nelle frasi di Marx ricorre costantemente, è un termine hegeliano. La dialettica, che originariamente significa “dialogo”, “discorso fra diversi soggetti”, è un movimento, quel movimento del pensiero o della realtà che attraverso la negazione di una precedente affermazione, conduce a una sintesi che è il superamento di entrambe. È importante capire cosa significhi “superamento”. In tedesco, il termine superare è un verbo che intende un processo che comporta l’insieme di 3 momenti: “conservare”, “far scomparire”, e “portare a un livello superiore”. Quando Marx, parlerà di un superamento della società capitalistica, intenderà che essa produce al suo interno delle contraddizioni che conducono a un livello superiore. Il comunismo rappresenta quindi, per Marx, il “superamento” del capitalismo. Le idee di dialettica e superamento provengono da Hegel. Ma da lui viene anche un altro concetto, quello dell’alienazione. Per Hegel l’alienazione è un aspetto dell’oggettivazione. Quando gli uomini esercitano un’attività pratica essi producono degli oggetti: l’oggetto è il risultato dell’azione del soggetto. L’oggetto è una “negazione” del soggetto, è il suo contrario: tale negazione può essere superata. Il momento di tale superamento è l’autocoscienza dell’uomo, che riconosce l’oggetto come proprio prodotto è in questo modo ne provoca una riappropriazione. Marx sopravvivenza degli operai, nulla di più. Se immaginiamo di rappresentare una giornata lavorativa di un operaio con un segmento A-C: A __________B__________C Dove A-B corrisponde al tempo in cui l’operaio produce merci il cui valore di scambio corrisponde a quello del suo salario, e la parte B-C è in più, è quella in cui viene prodotto del plusvalore. Il plusvalore ha dunque origine in un pluslavoro: un lavoro che svolge l’operaio in aggiunta a quanto sarebbe bastevole a pareggiare i conti con quello che il capitalista ha speso. Il plusvalore diviene profitto, cioè qualcosa che è proprietà del capitalista. Il profitto nasce dunque per Marx dallo sfruttamento dell’operaio: dal fatto che egli è pagato con un salario che corrisponde al costo dei beni necessari alla sua sopravvivenza, mentre il lavoro che egli realizza per il capitalista genera in realtà un valore superiore al salario. Ciò che rende il “lavoro accumulato” di cui parlano gli economisti precisamente capitale è dunque lo sfruttamento. Potremmo riassumere quindi dicendo che il modo di produzione capitalistico è per Marx un modo di produzione dove uomini liberi vendono la propria forza-lavoro a dei capitalisti in cambio di un salario, i capitalisti utilizzano questa forza-lavoro per la produzione di mezzi al fine di ottenere un profitto, che resta di loro proprietà. Possiamo ora definire che cosa Marx intende con la parola classe. Questa definizione ha avuto un enorme influenza del pensiero sociologico. Una classe è un insieme di individui che si trovano nella stessa posizione all’interno dei rapporti di produzione tipica di un modo di produzione dato. Ogni società nella storia è caratterizzata secondo Marx dalla presenza di classi, cioè da insiemi di individui collocati diversamente nei rapporti di produzione. In base a queste loro diverse collocazioni essi entrano in conflitto per la definizione del potere all’interno della società. La lotta fra classi è quindi per Marx un dato ricorrente nella storia umana. Anche nella società dominata dal modo di produzione capitalistico esistono classi. Possiamo affermare che all’interno del modo di produzione capitalistico Marx individua principalmente 2 classi: quella della borghesia e quella del proletariato. Il nucleo della borghesia è composta dai capitalisti, cioè dai proprietari dei mezzi di produzione. Il proletariato è invece composto dai lavoratori salariati, che non posseggono i mezzi di produzione ma vendono la propria forza-lavoro sul mercato del lavoro. Gli interessi di questi due classi sono antagonistici: interessi dei capitalisti è quello di sfruttare il più possibile la forza lavoro degli operai, quello invece degli operai è di liberarsi dallo sfruttamento. Gli interessi della borghesia vengono rappresentati come interessi universali dell’umanità: un sistema di produzione capace di generare un progresso i cui benefici valgono per tutti. Gli interessi del proletariato sono raramente chiari alla stessa classe operaia. Il passaggio dalla classe operaia da uno Stato in cui è incapace di riconoscere i propri interessi ad uno in cui riconosce, è il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé: è il passaggio in cui la classe operaia acquisisce una propria coscienza di classe. Questo passaggio non si genera automaticamente: si produce nel corso delle lotte che gli operai intraprendono contro i capitalisti, e attraverso lo sviluppo di organizzazioni in cui gli operai hanno la possibilità di elaborare una propria visione che si oppone a quell’ideologia della borghesia. La definizione di classe va dunque integrata con l’idea di una classe composta da un soggetto collettivo capace di intraprendere azioni congruenti con i propri interessi. L’interesse di Marx è volto a stabilire le condizioni di movimento delle società capitalistiche che vanno nella direzione del suo superamento, cioè del passaggio da un’altra formazione sociale, a causa delle contraddizioni che si generano dal suo interno. La teoria marxiana non è solo il materialismo storico, ne una teoria del capitalismo, o una teoria sociologica delle classi: tutti questi motivi si fondano in una teoria che mira a cercare le ragioni del mutamento della società sorta con la rivoluzione industriale. La storia è per Marx dialettica: in ogni formazione sociale si generano delle contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione che portano verso il suo superamento. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale che stravolge tutta la sovrastruttura. Marx era dell’idea che i rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonista del progresso sociale e con questa formazione sociale si chiuderebbe la preistoria della società umana. Il modo di produzione capitalistico è il più potente generatore di mutamento sociale mai apparso nella storia. La società moderna è una società dove il mutamento diviene “normale”, dove la produzione genera cambiamenti nella vita materiale. Ciò che rende un uomo un capitalista è che egli disponga di un certo ammontare di denaro che investe nella produzione di merci, dalla cui vendita sul mercato si attende un profitto, cioè un valore maggiore di quello corrispondente al suo investimento iniziale. Se il suo interesse è avere il massimo profitto possibile, può ottenere questo obiettivo in due modi: allungando la giornata lavorativa dei lavoratori salariati oppure rendere il loro lavoro più produttivo. La prima strada è quella seguita nelle prime fasi della rivoluzione industriale. Essa poi si è scontrata non solo contro limiti fisiologici ma anche della resistenza umana, l’opposizione degli operai stessi che hanno lottato per la riduzione delle ore impiegate per il lavoro. La seconda strada è quella che ha dato i maggiori frutti, essa consiste nel rendere più produttivo il lavoro degli operai attraverso l’organizzazione del lavoro di fabbrica più efficiente e attraverso l’introduzione di macchine. Introduzione di macchine fa sì che a parità di tempo l’operaio produca un numero maggiore di merci. L’introduzione di macchine che aumentino la produzione del lavoro degli operai appare una strada estremamente redditizia. Essa consente infatti di battere la concorrenza producendo un numero maggiore di merci o producendo merci di qualità superiore. Producendo più merci il capitalista può abbassare il prezzo o invadere i nuovi mercati. Per conseguire il profitto, il capitalista è alla costante ricerca di innovazioni tecnologiche, egli desidera macchine sempre più sofisticate per rendere economicamente produttivi i propri investimenti. L’introduzione costante di nuove innovazioni tecnologiche nei settori produttivi vieni a modificare le condizioni della vita delle persone. Essa cambia innanzitutto i modi di lavorare ma anche ciò che la gente può consumare. Per Marx il capitalismo ha una forza rivoluzionaria senza precedenti. Ciò che secondo Marx determinerà il superamento del capitalismo è il continua crescere proprio del capitale, dove i capitalisti accrescono il proprio potere. Al tempo stesso però questo provoca una crescita parallela della classe operaia, questa diviene sempre più consapevole della propria forza e del proprio ruolo nella produzione. Di fronte a ciò la classe operaia può organizzarsi per rivoluzionare i rapporti sociali esistenti. In questa rivoluzione, la classe operaia si pone come obiettivo quello di edificare una società senza più classi e proprietà privata, una società fondata sull’uguaglianza e la giustizia. La risoluzione a tutto ciò è possibile solo nel passaggio ad un’altra forma di rapporti sociali che elimini lo sfruttamento: il comunismo. Una società comunista è una società nella quale i produttori, liberamente associati, si approprieranno collettivamente del frutto del proprio lavoro. Marx non definisce mai la “società” in astratto: parla di diverse società caratterizzate da diverse strutture. Ciò che è fondamentale nel suo pensiero è che l’uomo è un essere sociale. Il suo punto di partenza è costituito dagli uomini concreti in quanto producono insieme le condizioni de,la propria sopravvivenza, in altre parole è immediata l’unione di individuo e società. Il fatto è che gli esseri umani non esistono se non in società. L’individuo isolato per Marx non è pensabile. All’inizio della storia ci sono individui collegati tra loro. Del resto si nasce da una donna, e si generano figli: il rapporto fra i sessi è l’aspetto elementare del rapporto dell’essere umano con un altro essere umano. Senza di questo l’umanità non è possibile. Non è neppure pensabile senza un rapporto degli essere umani con la natura. In questo rapporto gli uomini entrano in relazione tra loro, in tutto questo quindi consiste la società. L’uomo dunque é sociale: cioè vive con altri uomini. La base della coscienza è il linguaggio, e il linguaggio è evidentemente sociale. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica e il linguaggio come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, della necessità di rapporti con gli altri uomini. La coscienza e dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che esistono uomini. L’idea che l’individuo sia qualcosa di diverso, di opposto alla società, è in realtà un’idea molto recente nella storia. Paradossalmente essa si sviluppa quando i rapporti sociali si fanno più complessi. La società moderna è una società dove la divisione del lavoro sociale è molto sviluppata, la forma in cui i prodotti di questo lavoro diviso Si ricongiungono è il mercato. Il mercato però è un sistema di rapporti astratti, cioè un sistema dove gli individui non scambiano i propri prodotti fra di loro in base ai rapporti personali ma in base a leggi impersonali, quindi ciascuno è effettivamente isolato. In questa situazione diviene possibile agli uomini immaginarsi come essere isolati. É contro questa immaginazione che assume significato l’enfasi con cui Marx sottolinea che l’uomo è un essere sociale. La divisione del lavoro sviluppatosi con il modo di produzione capitalista determina una forte alienazione: l’uomo si allontana cioè dalla possibilità di estrinsecare pienamente tutte le proprie risorse. Da questa analisi si vede la visione utopica di Marx. Per quanto il suo pensiero sia orientato verso il futuro, Marx parla molto raramente della società che spera di voler sorgere dal superamento della società capitalista. Nei paesi industrializzati la rivoluzione che ha previsto Marx non si è realizzata. Ciò non toglie tuttavia che il conflitto tra la classe operaia e i proprietari dei mezzi di produzione sia stata una delle grandi mole dei mutamenti politici e sociali che hanno fino ad oggi caratterizzato la nostra epoca. Il suo pensiero ha dato ai lavoratori di molti paesi una bandiera in cui credere e contemporaneamente una teoria su cui fondare le radici della propria lotta. Secondo la maggior parte degli economisti del 20esimo secolo, il difetto principale della teoria di Marx sta nella sua teoria del valore. Se il valore non nasce dal lavoro incorporato in una merce, o se addirittura il valore non è un concetto utilizzabile nella teoria economica, la teoria dello sfruttamento scompare. Ci sono stati e ci sono gli economisti fedeli all’idea marxiana che hanno tentato di adeguare il marxismo gli sviluppi successivi dell’economia, resta vero però che le premesse di Marx e quelle della scienza economica contemporanea dominante restano molto difficilmente da conciliare. Un primo elemento da sottolineare riguarda il problema delle classi intermedie. Per Marx atto nella società capitalistica esistono solo due classi. Ciò non è del tutto esatto. Intanto Marx parla sempre anche di una terza classe, quella collegata alla rendita, cioè i proprietari terrieri. A causa della sua teoria del valore Marx attribuisce a questa classe un’importanza relativa: è una classe parassitaria, che vive in una parte dei proventi derivanti dallo sfruttamento della classe operaia. Contemporaneamente Marx sa bene che la borghesia è divisa al suo interno, e soprattutto sa bene che esistono nelle società capitalistiche molte altre classi: i contadini, gli artigiani, i commercianti, i tecnici, impiegati. Nella sua prospettiva tuttavia, il futuro avrebbe visto una crescente proletarizzazione di tutti questi stadi e l’accorpamento di tutti i gruppi in due grandi schieramenti. Lo sviluppo del capitalismo effettivamente ha ridotto numericamente contadini e ridotto a operai la maggior parte degli artigiani e commercianti. Tutta via però ha anche portato ad un enorme crescita di tecnici, impiegati, funzionari pubblici, addetti al commercio. Contrariamente alle previsioni di Marx, questi strati hanno sviluppato forme di conoscenze particolari e non si sono mai fusi con la classe operaia. La seconda osservazione su cui dobbiamo richiamare l’attenzione è la coscienza di classe soprattutto la questione della falsa coscienza. Una delle cose più evidenti nella storia delle società occidentali del 900 è la sparizione della volontà rivoluzionaria tra i membri della classe operaia, è evidente che l’adesione della maggior parte dei lavoratori alla logica del sistema capitalistico è andato davvero ben oltre ciò che Marx si aspettava. violenta, in altri meno, ma non cessa di esistere. Essi quindi consistono in modi di agire, pensare e sentire esterni dall’individuo ma dotati di un potere del quale si impongono su di lui. Ad essi viene riservata la qualificazione di sociali. È chiaro infatti che il loro substrato può essere soltanto la società. I fatti sociali sono dunque fenomeni che non si possono spiegare ricorrendo alla sola analisi delle azioni di singoli ma essi sono qualcosa che si presentano all’interno di una società. Si impongono ai singoli come qualcosa che proviene dal di fuori, e contemporaneamente li attraversano nei loro modi di sentire, di pensare e di comportarsi. I fatti sociali esistono nella misura in cui esistono gli uomini ma contemporaneamente hanno una sorta di esistenza indipendente e autonoma. Poiché i fatti sociali si presentano ai singoli come indipendenti, Durkheim propone di trattarli come fossero cose. I fatti sociali sono l’espressione della vita della società e nascono dall’interazione degli uomini fra loro. Essi sono come cose nel senso che hanno un’esistenza che non si spiega a partire dalla coscienza e dall’azione degli individui. Esempio: il linguaggio non è creato da nessun singolo preso isolatamente, ciascun individuo lo trova in qualche modo già dato, esso é trascendente rispetto alla sua volontà. È una realizzazione collettiva ma è anche qualcosa che attraversa ogni singolo uomo. Indubbiamente si può usare un linguaggio scorretto non aderendo alle regole, con ciò si può scontrare a delle sanzioni, o non ci si fa a capire, oppure ci si espone in ridicolo e a correzioni da parte degli altri. Tutto ciò rende il linguaggio un fatto sociale. Non lo si può spiegare a partire dal comportamento dei singoli ma solo a partire della società. La società é quindi per Durkheim una realtà superiore alla vita dei suoi membri. Così come il corpo di un uomo non è la semplice somma dei suoi organi, ma è qualcosa di più, cioè l’insieme funzionale di questi organi come unità, allo stesso modo la società è per Durkheim più della somma degli individui che la compongono, è un’unità di livello superiore. Poiché la società si esprime in fatti sociali, la sociologia è la scienza che studia l’insieme di fatti sociali. La società viene descritta come un organismo dotato di una serie di organi che si integrano e cooperano fra loro. Ogni elemento di una società svolge una funzione particolare: quella della religione è di codificare e sacralizzare le norme morali, la funzione del diritto è reagire alle infrazioni di tali norme, la funzione dell’economia è provvedere al sostentamento della vita materiale dei membri della società, ecc. Una spiegazione funzionalista è una spiegazione di un fenomeno sociale sulla base dell’individuazione della funzione che esso adempie nella società. Durkheim ritiene che la funzione non corrisponde a nessun fine prestabilito ma è piuttosto un risultato non intenzionale di una pratica sociale. Se prendiamo in esame ad esempio la “Devianza”, è un termine sociologico che indica comportamenti che si discostano dalla norma: è deviante in questo senso il crimine, ma è deviante in senso generale anche qualunque comportamento che sia percepito come anormale. Il crimine appare come qualcosa di ben poco funzionale: è un’infrazione delle norme del vivere comune. Tuttavia anche esso svolge una funzione: nel momento in cui, infatti, il crimine viene punito, attraverso la messa in opera di riti adeguati, esso svolge la funzione di riscaldare la “coscienza collettiva”, la società riafferma le sue regole che non sono mai così visibili e chiare alla collettività come quando viene punito chi non ci si conforma. La devianza può essere percepita anche con la funzione attraverso cui le società possono sperimentare nuove forme morali. Per Durkheim non esiste la società in generale ma diversi tipi di società. In La divisione del lavoro Durkheim sviluppa un discorso sull’evoluzione delle società umane: 1) Il primo tipo di società, che corrisponde storicamente alla forma delle tribù primitive, è la società semplice o segmentaria, cioè basata su una bassa divisione del lavoro. In una società semplice gli individui svolgono attività poco differenziate tra loro. 2) Il secondo tipo di società è quello delle società complesse, storicamente corrisponde alle nazioni moderne. Qui la società è fondata e articolata sulla divisione del lavoro, le attività dei suoi membri sono molto differenziate fra loro ed esistono numerose istituzioni intermedie. L’evoluzione delle società è collegata da Durkheim alla crescita della divisione del lavoro, ma questa a sua volta dipende sia dall’ampliarsi della società nello spazio sia soprattutto dall’aumento del numero e della densità dei loro membri. Ciò che interessa soprattutto Durkheim è che nelle società semplici e complesse si presenti in modi differenti la solidarietà che tiene insieme i membri della società. - Le società semplici sono caratterizzate da una Solidarietà meccanica. Essa é la solidarietà che si presenta tra individui strettamente uniti gli uni agli altri da vincoli quotidiani e attività che si diversificano molto poco. - Le società complesse invece sono caratterizzate da una solidarietà organica. Qui la solidarietà assomiglia alla solidarietà che unisce gli organi di un organismo complesso. Questa forma di solidarietà stabilisce legami tra gli individui che hanno tra loro grandi differenze, ma che devono cooperare per la vita dell’insieme sociale da cui tutti dipendono. Nelle società complesse c’è il rischio di anomia. L’anomia é l’assenza di norme morali condivise. È una deficienza nella capacità della società di vincolare a sé i suoi membri, di garantire la loro adesione ad un medesimo e condiviso ordine di valori, di credenze, di aspettative. Il problema dell’anomia ha occupato a lungo il pensiero di Durkheim, esso compare come il rischio delle società moderne. I conflitti tra la classe operaia e quella borghese appaiono come manifestazione di anomia. Essi corrispondono cioè al mancato sviluppo di una capacità dei singoli di cooperare nelle nuove condizioni create dal modo di produzione industriale. Mentre per Marx i conflitti tra le classi sono un motore della dialettica della storia per Durkheim essi sono delle patologie, dei disturbi che andranno curati. La cura dell’anomia che Durkheim intravede per il futuro delle società complesse è il corporativismo. Cioè lo sviluppo di associazioni intermedie tra i singoli e la società basate sull’associazione professionale. Più in generale la vera risposta ai problemi posti dal rischio dell’anomia consiste in un potenziamento dei processi educativi. Il tema della questione sociale e dell’integrazione è decisivo nel celebre studio di Durkheim sul suicidio del 1897. In un primo sguardo il suicidio può essere percepito come qualcosa che riguarda un singolo individuo. Esso è la scelta deliberata di sottrarsi alla vita. Tuttavia proprio questo fatto così personale è scelto da Durkheim per la prima dimostrazione empirica della sua impostazione della sociologia. Durkheim dimostra che l’individuo isolato non esiste e che gran parte di ciò che di solito pensiamo a come caratteristica dell’essere individuale è riconoscibile dall’influenza della società. Durkheim concentra il suo studio sul tasso di suicidi che si riscontrano nelle società in diversi periodi. Ciò che egli vuole dimostrare che la regolarità di questi tassi di suicidio ha la sua ragione d’essere di un insieme di spiegazioni di ordine sociale. Cioè quindi il numero di suicidi presenti in una data società è connesso ai fatti sociali. Nel spiegare questo fenomeno Durkheim ha fornito alla sociologia il primo esempio di ricerca sociologica basata su un metodo empirico. Metodo basato sull’uso di dati statistici. Durkheim ha dimostranto come le diversa religione possano influenzare al suicidio. Infatti la religione protestante fornisce ai sui membri un grado di integrazione sociale minore rispetto alle altre religioni. Diversamente da quanto accade per il cattolicesimo, il singolo protestante è solo e libero di fronte al testo sacro e alla propria coscienza ed é meno vincolato del cattolico si dettami di una tradizione e non dipende da insegnamenti impartiti da un’autorità ecclesiastica. Il tipo di suicidio che appare correlato all’influenza delle condizioni religiose è denominato da Durkheim come suicidio egoistico, “egoistico” non significa qui che le persone che si tolgono la vita sono egoiste ma un tipo di suicidio che appare correlato con l’appartenenza religiosa protestante che ha a che fare con un forte sviluppo dell’ego, cioè con l’ enfasi della cultura protestante sulla libertà e la solitudine del singolo soggetto di fronte alle proprie scelte di fondo. Altre osservazioni consolidano questa correlazione: il fatto che il suicidio sia più frequente tra le persone non sposate che tra quelle sposate confermerebbe che la tendenza al suicidio è legata a situazioni di indebolamento delle relazioni che legano il singolo a una rete di relazioni con gli altri. Il numero di suicidi varia anche dall’andamento dell’economia. Il numero di suicidi nei paesi europei è più alto negli anni in cui l’economia appare in fasi di crisi: negli anni in cui rapide ricchezze si affiancano a rapide rovine ecc. Durkheim inoltre dimostra che il numero di suicidi non cresce soltanto quando una crisi economica comporta miseria, ma anche quando la crisi è di tipo positivo, cioè quando comporta bruschi rialzi di benessere, connesse a rapide variazioni nello status e modi di vivere delle persone. Tale incertezza corrisponde al senso che Durkheim dà al termine anomia: mancanza di norme morali chiare e condivise. Il tipo di suicidio connesso a queste cause è detto da Durkheim suicidio anomico. Esso è un tipo di suicidio che è spiegabile da un allentamento della morale collettiva, da un aumento dell’incertezza rispetto alle norme cui conformarsi. Il terzo ed ultimo tipo di suicidio analizzato da Durkheim è il suicidio altruistico, questo tipo di suicidio é espressione di una forte coesione sociale ( a differenza dei due tipi analizzati in precedenza), esso è il tipo di suicidio che si esprime nel sacrificio di un milite per la patria. Il metodo seguito da Durkheim è quello del confronto tra differenti dati. L’analisi del suicidio svolta da Durkheim ha un grande rilievo nella storia del pensiero sociologico perché rappresenta uno dei primi esempi di ricerca che si prova verificare dalle ipotesi teoriche sulla base di un esame di dati empirici. Il risultati di Durkheim sono stati oggetto di alcune critiche in particolare ricordiamo almeno 3 critiche: 1) Riguarda il controllo delle fonti dei dati. Durkheim si basa su fonti statistiche che riguardano il numero di suicidi registrati dalle autorità civili: queste a loro volta dipendono dalle registrazioni dei medici. È plausibile ipotizzare che in certe circostanze e in certi contesti culturali vi sono pressioni sui medici e sulle autorità per non registrare come tale alcuni suicidi ma registrarli ad esempio come morti accidentali ecc. In questo caso i numeri su cui Durkheim si basa sarebbero in parte inattendibili. 2) Riguarda alcune spiegazioni riconosciute da Durkheim come significative. Il suo allievo Halbwachs ha mostrato come nei paesi studiati da Durkheim la popolazione protestante tenda a concentrarsi in città e quella cattolica in campagne: sarebbe dunque possibile ipotizzare che non sia l’appartenenza confessionale ma il tipo di resistenza ad essere influente sul tasso dei suicidi. 3) Infine, l’analisi quantitativa di Durkheim lascia in ombra le motivazioni soggettive di coloro che si spingono al suicidio. Durkheim è consapevole che le società moderne tendono a essere sempre più secolarizzate. La secolarizzazione è il processo della progressiva perdita di rilevanza che le istituzione, le pratiche e le credenze religiose attraversano nella modernità. La progressiva emancipazione della sfera della vita politica e civile dai dettami religiosi è uno dei fattori della secolarizzazione. Infatti le istituzioni politiche sono definite come istituzioni laiche, esse devono definire regole e diritti che valgono per tutti i cittadini a prescindere dalle differenze confessionali. Il processo della secolarizzazione comporta per Durkheim problemi di non poco conto. Per Durkheim lo sviluppo originario delle norme morali si ha all’interno della sfera religiosa. Le sue tesi principali sulla religione sono le seguenti: - L’elemento fondamentale della vita religiosa é la distinzione tra sacro e profano. Questa distinzione è elementare nel senso che la si ritrova in ogni espressione di l’ampliamento del diritto di voto, i partiti politici sono diventati sempre più rilevanti e hanno fatto la loro comparsa anche i partiti della classe operaia. Tra la fine delle guerre napoleoniche e la guerra mondiale del 1914 - 1918 non vi sono stati conflitti armati di grande rilievo in Europa. Però la situazione è diversa se si guarda ai rapporti tra l’Europa e il resto del mondo. Gli storici chiamano il periodo tra il 1870 e il 1914 l’età dell’imperialismo, ( periodo del maggiore espansionismo coloniale europeo). Nella seconda metà del 19esimo secolo, i paesi europei non avevano più il controllo diretto delle due Americhe, ma stavano imponendo il proprio potere con le armi in Africa, in Asia e nell’Oceania. La Germania e l’Italia si mossero in ritardo ma con determinazione: la Germania si interessò dell’Africa e del Pacifico, l’Italia invase l’Africa settentrionale e orientale. Le colonie fornirono all’Europa materie prime, mercati, manodopera e armate. Molti sostennero la colonizzazione come una missione civilizzatrice. È sorprendente che i sociologi di questo periodo abbiano prestato poca attenzione a ciò. Gli studiosi che nei decenni a cavallo del secolo contribuiranno a sviluppare e a istituzionalizzare la sociologia sono i primi a tentare di concettualizzare la modernità. Sembra che il termine “modernità” sia stato usato per la prima volta dal poeta francese Charles Baudelaire. L’aggettivo significa “nuovo”, “recente”, ed evidentemente ciò che è nuovo ad un dato momento sarà meno nuovo più tardi. Il termine ebbe fortuna, venne a significare l’epoca del nuovo, l’epoca in cui il nuovo è la norma. “Modernità” è così il nome che ha assunto la costellazione economica, politica e sociale del mondo occidentale alla fine dell’800; un’epoca che riconosce di essere dominata dal mutamento. La cultura europea visse la seconda metà dell’800 eil primo decennio del 900 in un’euforia. A questa euforia si accompagnava l’idea di essere parte di una civiltà superiore e di essere immersi in un progresso che non avrebbe più potuto essere arrestato. La parola “civiltà” divenne sinonimo di Europa e di Occidente. La prima guerra mondiale rappresenterà un trauma difficile da elaborare. Friedrich Nietzsche La sociologia tedesca accademica tedesca maturò nel neokantismo e dello storicismo, ma sullo sfondo vi era anche l’eco di altre posizioni. Tra queste ci vi è quella di Nietzsche. Per quanto Nietzsche non sia un sociologo è opportuno fare qualche richiamo ad alcuni aspetti della sua opera: si tratta di una critica della civilizzazione occidentale che avrà eco a lungo nelle scienze sociali. Il pensiero di Nietzsche è fortemente critico nei confronti dell’insieme della civiltà occidentale. Potremmo dire che al centro della sua opera c’è la nozione di volontà. La volontà qui non è da intendersi come l’espressione di un progetto deliberato mirante a ottenere qualcosa, ma come un’energia vitale elementare, come volontà di potenza, tensione all’affermazione della vita in se stessa e senza freni di sorta. La critica della civiltà occidentale è una critica relativa al mascheramento che essa compie di tale volontà primigenia. La morale cristiana sarebbe per Nietzsche la responsabile della diffusione di una cultura di schiavi che privilegia umiltà e obbedienza, imprigiona gli slanci creativi degli individui, nega la vita e promuove un ipocrita camuffamento della realtà dei conflitti e della volontà di potenza. La denuncia dell’ipocrisia è un elemento costante di tutto il pensiero di Nietzsche, così come lo è l’individuazione del risentimento, cioè dell’odio che chi reprime se stesso prova verso tutto ciò che gli ricorda la liberazione possibile, come fondamento della morale. Nell’opera di Nietzsche la “morte di Dio” coincide con la fine dell’idea che vi sia un fondamento trascendente per i valori a cui gli uomini possono ispirarsi. Riconoscere che questo fondamento non esiste corrisponde ad un’immensa assunzione di responsabilità: la responsabilità di affermare i valori in assenza di criteri oggettivi, sulla base soltanto della volontà e della capacità di crearli. L’uomo che si assumerà questa responsabilità non è ancora noto: e l’ultra uomo, a volte tradotto come superuomo. A questo uomo del futuro, questa umanità capace di definire il proprio destino senza ipocrisie senza falsi fondamenti ideologici Nietzsche intende riparare la strada. Nella cultura del suo tempo le opere di Nietzsche furono uno scandalo. Abbastanza presto conobbero una diffusione grandissima. Egli sarà arruolato nelle file dei precursori del nazismo critico della Germania diverrà un autore caro si nazisti tedeschi più accesi. Il pensiero di Nietzsche è complesso, spesso si esprime nella forma di aforismi. Quanto alla sociologia, Nietzsche sarà presente sullo sfondo del pensiero di Weber soprattutto nella sua trattazione del disincanto e del politeismo dei valori, ma anche nelle trattazioni del potere e della politica. Ferdinand Tönnies La Germania degli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è diversa da quella dei tempi di Marx. Se Marx a metà 800 aveva descritto lo sviluppo del mondo capitalistico come qualcosa che in Germania stava solo iniziando a svilupparsi, ora il modo di produzione industriale basato sui rapporti capitalistici è in pieno dispiegamento. La Germania si costituisce come uno Stato unitario nel 1871, in larga misura grazie alla politica espansionistica e alla forza militare della Prussia. Dall’unificazione in poi, l’industrializzazione avanza in modo accelerato. Cambia la disposizione degli uomini, la popolazione si sposta verso i centri più grandi, come Berlino. La velocità dei mutamenti generò diverse reazioni. Tra queste, una critica della modernità e del capitalismo. Nella sociologia questo atteggiamento è riconducibile a Ferdinand Tönnies. La sua opera é ricca; inoltre egli insieme a Simmel, Weber e Sombart fondarono l’Associazione tedesca di Sociologia e ne fu a lungo il presidente. Il suo posto nella storia del pensiero sociologico è legato soprattutto alla sua opera, Comunità e Società. “Comunità” e “società” sono per Tönnies modelli di organizzazione sociale. La comunità è un gruppo stabile nello spazio e tempo, radicato in un territorio, all’interno del quale gli individui hanno fra loro rapporti personali e diretti. Essa presenta un elevato grado di chiusura verso l’esterno e di staticità delle norme. La comunità è una forma associativa entro la quale gli uomini orientano le proprie azioni e comportamenti sulla base di tradizioni radicate a cui sono legati da sentimenti di appartenenza. La partecipazione di ciascun membro della comunità alla vita comune é basata sui sentimenti molto più che sulla ragione, è quasi istintiva. La famiglia è la comunità per eccellenza. La società é una forma di associazione più vasta della comunità, all’interno della quale gli individui godono di ampie possibilità di movimento, essi non hanno fra loro rapporti diretti, ma rapporti impersonali mediati dall’adesione razionale e delle regole statuite ed istituzioni regolamentate. C’è l’utilizzo di mezzi di scambio astratto come il denaro. Il pensiero di Tönnies è marcato da una certa nostalgia per le forme associative di tipo comunitario. Lo sviluppo della società si realizza a attraverso una distruzione progressiva delle forme di vita comunitarie. Georg Simmel I sociologi a cavallo tra l’800 e il 900 si occuparono si occuparono alla descrizione di ciò che i mutamenti recenti avevano prodotto, cioè le caratteristiche distintive di questa nuova epoca. Questa osservazione è valida per Simmel. George Simmel nacque a Berlino nel 1858 e morì nel 1919 a Strasburgo, al termine della Prima Guerra Mondiale. Simmel ebbe una carriera molto controversa nell’Università tedesca anche per le sue origini ebraiche. Tra i suoi allievi vi sono alcune figure più importanti della cultura del Novecento, come: Bloch, Lukács e Park. Diversamente da altri Simmel non ha fondato nessuna scuola. Egli si ritenne essenzialmente un filosofo ma per un lungo periodo della sua vita si dedico al progetto di fondare la sociologia come branca autonoma del sapere. Oggi Simmel è forse considerato il più contemporaneo degli autori classici. La sua sociologia ha al suo centro l’interazione sociale. La sociologia Simmeliana viene percepita come uno sguardo di uno straniero perpetuo: di qualcuno che pur vivendo nel mondo ha la capacità di non appartenervi mai interamente e di guardarlo ogni volta come se fosse la prima. Se si intende fondare la sociologia come una branca autonoma del sapere, il primo passo da fare è quello di definire l’oggetto. L’oggetto della sociologia è la società. Simmel definisce che per certi versi la società non esiste. Se ci guardiamo attorno, ciò che vediamo sono solo delle persone, degli individui concreti. Simmel osserva che il pensiero umano opera sempre per astrazioni che corrisponde a un certo punto di vista o ad una certa distanza dall’oggetto su cui riflette. Noi assumiamo che l’individuo rappresenti un’unità il che è corretto da un punto di vista ma non lo sarebbe se lo osservassimo da una distanza diversa da quella usuale. La società è un oggetto del pensiero che emerge considerando insiemi di individui a una certa distanza. Ma ciò non significa che la società non esiste, al contrario, proprio la prospettiva che c’è la rende visibile permette di osservare una realtà fondamentale e cioè che gli uomini stanno fra loro in relazioni di reciprocità, agiscono cioè gli uni sugli altri. Il concetto di effetto di reciprocità è il concetto fondamentale del pensiero di Simmel. Oggetto della sociologia sono dunque le forme delle relazioni di influenza reciproca che sussistono tra gli uomini. Questo oggetto, cioè la società, emerge solo e nella misura in cui più individui entrano in azione reciproca. Simmel definisce la società il nome con cui si indica una cerchia di individui legati l’un l’altro da varie forme dì reciprocità. La società è interazione. Ma non solo, alla nozione di reciprocità va affiancato quello di sociazione. La “sociazione” è il processo attraverso cui una forma una forma di azioni reciproche di consolida nel tempo. Vi sono infinite azioni reciproche: scambiarsi uno sguardo, salutarsi, pranzare insieme, giocare, sposarsi ecc. In ognuna di queste relazioni ciò che ciascuno fa ha influenza sull’altro e viceversa. Ma una società è il risultato di una certa sedimentazione del tempo di alcune forme di azione reciproca. Non è semplice intendere in che senso Simmel pensi a una sociologia formale. A volte si spiega con un’analogia con la geometria: così come il triangolo in sè non esiste ma esistono oggetti a forma di triangolo, allo stesso modo non esistono in sé cose come il potere, l’amicizia o il conflitto, ma esistono relazioni concrete la cui forma astratta può venire chiamata così. Affianco a queste analisi ci sono altre parti dei testi di Simmel che non sembrano riguardare le forme dell’interazione in generale ma sembrano riguardare le forme che le interazioni assumono all’interno di costellazioni storiche e culturali determinate. In questi casi è difficile separare i contenuti della forma. La nozione di forma ha un ruolo molto complesso nel pensiero di Simmel. La vita è vista come un fluire incessante, una produzione di forme in cui questo fluire si fissa. Si tratta di forme di relazione, istituzione, simboli, idee, i prodotti della vita economica e opere artistiche: insomma si tratta della cultura. La vita scavalca le forme, eppure solo in forme la vita può essere colta. Da questa contraddizione emerge il dinamismo della storia della cultura. Ma emerge anche quella che Simmel chiama la sua tragedia. Questa tragedia sta nel fatto che la vita stessa non può essere compresa che sulla base di simboli, categorie o raffigurazioni. Simmel non ha mai proposto una teoria del mutamento paragonabile a quella di Marx o Weber. Della modernità in quanto tale egli è tra i classici della sociologia, forse l’interprete più acuto e più attento ai dettagli. È stato sottolineato come Simmel quando descrive la modernità ne intende anche la crisi. La modernità è infatti essenzialmente crisi permanente, non solo perché si radica in processi che sconvolgono tutti gli ordini sociali tradizionali, ma perché il mutamento in se stesso è il suo principio. La modernità è flusso le scienze sociali e la politica sociale” e alla fondazione dell’Associazione tedesca di sociologia: in questi anni il suo interesse si concentrò sulla definizione dei compiti e del metodo delle scienze sociali, ed è in questo periodo che cominciano ad essere pubblicate le sue opere più celebri come l’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Tra il 1906 e 1917 Weber pubblicò i monumentali studi della sua Sociologia delle religioni. La sua opera più nota, Economia e società non fu invece mai pubblicata durante la sua vita. Max Weber è una personalità complessa. Nella sua biografia un elemento importante è costituito dall’esaurimento nervoso che lo costrinse ad abbandonare ogni attività intellettuale. Durante gli anni della guerra svolse le funzioni di ufficiale di un gruppo di ospedali, più tardi partecipò a diverse missioni diplomatiche. La vastità della cultura personale di Weber fu enorme: gran parte del suo pensiero non è comprensibile se non come uno sforzo teso a riprendere i problemi formulati da Marx sulla genesi e le caratteristiche del modo di produzione capitalistico è a proporne soluzioni differenti. Weber si é occupato essenzialmente di 3 questioni: 1. Il problema del metodo delle scienze sociali e dei rapporti tra sapere scientifico e giudizi di valore. 2. Il problema della genesi, della specificità e del destino della civiltà occidentale moderna. 3. Il problema di una definizione sistematica e coerente dei concetti della sociologia. Per cominciare vediamo Weber che cosa intenda per sociologia. La sociologia deve designare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti. Quindi la sociologia è dunque innanzitutto una scienza che interpreta l’agire sociale. La sociologia per Weber è dunque una scienza comprendente, una scienza il cui primo obiettivo è comprendere l’agire sociale. Comprendere non è sinonimo di spiegare. La spiegazione infatti viene dopo l’applicazione del procedimento interpretativo. Comprendere un’azione vuol dire per Weber intenderne il senso, cioè interpretare il significato che quell’azione ha agli occhi della persona che la compie. Il concetto di senso è centrale in Weber. L’agire sociale che é oggetto della sociologia è infatti un agire dotato di senso. Egli per “agire” intende un atteggiamento umano, se e in quanto l’individuo che agisce o gli individui che agiscono ad esso un senso soggettivo. Un agire è tale dunque se è in quanto vi è connesso un senso. Da Montesquieu a Comte e fino a Durkheim, il modello scientifico per eccellenza é quello delle scienze naturali, e le scienze dell’uomo devono progressivamente adeguarsi a questo modello. Per Weber questa impostazione è errata per il fatto che nelle scienze naturali i fenomeni non sono agiti da soggetti che danno loro un significato, mentre, nelle scienze dell’uomo lo scienziato ha a che fare con fenomeni che sono agiti da soggetti i quali attribuiscono loro un significato. Se la pietra cade io posso descrivere il moto e spiegarlo riconducendolo a delle ipotetiche leggi generali che lo governano, ma non devo interrogarmi nel senso che ha il cadere per la pietra stessa in quanto la pietra è una coscienza. Se invece è l’uomo a lanciare la pietra devo comprendere il senso di quel gesto ( per svago, rabbia ecc.) C’è quindi una bella differenza tra scienze naturali e scienze dell’uomo. Weber intende tutte le scienze sociali come scienze comprendenti, scienze che hanno per oggetto l’agire in quanto comportamento dotato di significato. La storia si occupa della singolarità degli eventi: essa intende comprendere fatti che si sono verificati una sola volta e non si interessa alla regolarità con cui si manifestano i fenomeni. La sociologia al contrario è una scienza orientata alla generalità: essa intende studiare le azioni sociali degli uomini in quello che esse hanno di tipico, cioè di ricorrente in più casi. A causa di questo orientamento, la sociologia deve astrarre da infinite azioni singolari certe caratteristiche comuni, e produrre delle tipologie di fenomeni. La costruzione di tipi ideali, è lo strumento principale della sociologia in questa direzione. La sociologia si propone quindi innanzitutto di comprendere l’agire. In secondo luogo, essa si preoccupa di spiegare causalmente l’agire. Significa cioè individuare una causa: un fenomeno che per quanto siamo ragionevolmente in grado di capire ha prodotto quello che vogliamo spiegare. Una volta che il sociologo abbia preceduto a comprendere il senso dei fenomeni che osserva, i suoi passi successivi sono simili a quelli dello scienziato naturale. L’idea di Weber è che una spiegazione causale perfettamente esaustiva per i fenomeni umani non sia mai rintracciabile, la molteplicità dei fattori che si combinano nel produrre ogni fenomeno del mondo umano e sociale è tale che una definizione causale è impossibile: non si può mai stabilire che un dato fenomeno sia causato da quest’alto è solo da quest’altro. Quindi spiegare causalmente significa cercare parzialmente di rintracciare per i fenomeni che si intende spiegare, le condizioni che sono sempre presenti quando essi si manifestano. La sociologia è dunque una scienza che si occupa del l’agire degli uomini. Essa non si occupa però di tutto l’agire ma solo e specificamente dell’agire sociale. Weber per agire sociale intende un agire che sia riferito all’atteggiamento di altri individui e orientato nel suo corso in base a questo. Non ogni forma di agire, secondo lui è sociale, dunque non tutto l’agire umano rientra nell’oggetto della sociologia. È sociale quell’agire che è orientato all’atteggiamento di altri. Ad es. se piove ed io apro l’ombrello, l’agire che consiste nel mio aprire l’ombrello non è un agire sociale perché non è orientato ad atteggiamenti altrui ma è orientato solo al fine di ripararmi dalla pioggia. L’agire sociale può essere di diversi tipi. Weber parla di idealtipi o tipi ideali, cioè di tipi costruiti idealmente. Il tipo ideale è una costruzione del pensiero. È uno strumento conoscitivo di cui lo scienziato sociale si dota per comprendere il senso delle azioni. Il senso che ciascun soggetto attribuisce alle proprie azioni è differente caso per caso ma la sociologia tende a generalizzare. Il “tipo ideale” è lo strumento di questo processo di generalizzazione, esso è una sintesi, un’estrazione che é utile per ridurre l’infinita varietà dei fenomeni a un insieme di categorie maneggevole. Il concetto di tipo ideale ricorre in tutta l’opera di Weber. Alcuni autori hanno osservato che ci sono diverse specie di tipi ideali in Weber. Ad un primo livello sono tipi ideali determinate formazioni storiche colte nella loro individualità. Ad un secondo livello sono tipi ideali concetti come quelli di burocrazia, oppure potere carismatico, tradizionale è legale-razionale. Infine vi sono tipi ideali come i tipi di azione sociale. Questa ultima tipologia distingue 4 tipi di agire sociale: 1) Agire razionale rispetto allo scopo 2) Agire razionale rispetto al valore 3) Agire affettivo 4) Agire tradizionale Ognuno di questi tipi di agire corrisponde a un diverso tipo di senso che l’azione ha per il soggetto che la compie. L’agire razionale rispetto allo scopo è il tipo di agire nel quale il soggetto agisce in vista di un fine determinato e calcola i suoi sforzi in modo razionale per raggiungere tale fine. L’agire razionale rispetto al valore è un tipo di agire che é orientato dalla credenza nell’incondizionato valore in sé di un comportamento in quanto tale. Qui il senso dell’agire non rimanda ad uno scopo da raggiungere ma risiede nel valore in sé dell’agire stesso. L’agire affettivo è un agire il cui senso è legato ad un particolare affetto o stato d’animo del soggetto. Sono di questo tipo le azioni di un innamorato, di chi è adirato o intimorito: azioni dettate non da un fine né dal riferimento ad un valore, ma dalle emozioni o dai sentimenti. L’agire tradizionale è l’agire dettato da un’abitudine acquisita. In questo caso, il soggetto non compie l’azione in modo riflessivo né segue un impulso momentaneo ma agisce sulla base di una consuetudine. Si tratta quindi di tipi ideali di agire: una schematizzazione, un’astrazione rispetto alle infinite azioni possibili. Nel mondo moderno secondo Weber si assiste ad un predominio dell’agire razionale rispetto allo scopo. Le azioni degli uomini tendono ad essere sempre più strumentali. Le azioni orientati a valori o a passioni o quelli tradizionali decrescono. Un atto economico capitalistico è per Weber un atto che si basa sull’aspettativa di guadagno derivante dallo sfruttare le congiunture dello scambio, dunque da probabilità di guadagno formalmente pacifiche. Esso quindi non è un semplice desiderio di accumulare denaro o una rapina ma si basa su aspettative di guadagno pacifiche. L’agire economico che chiamiamo “capitalistico” è un agire orientato all’aumento costante del capitale. Il capitalismo è dunque un sistema economico al cui interno i soggetti agiscono al fine di conseguire un guadagno in modo formalmente pacifico utilizzando le congiunture dello scambio. Il tipico soggetto di questo sistema è il proprietario dell’impresa capitalistica che dispone di un capitale è mira ad accrescerlo reinvestendo i profitti per procurare un nuovo profitto. Ciò non è ancora sufficiente a definire il capitalismo occidentale moderno. È necessario introdurre un’altra caratteristica per definire il capitalismo occidentale moderno: questa è l’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero, cioè L’utilizzo di lavoratori salariati giudicaremente liberi per lo svolgimento dell’attività dell’impresa. Il capitalismo occidentale moderno è un sistema di imprese collegate tra loro attraverso il mercato, in cui ogni impresa agisce per conseguire il profitto e organizza le proprie attività in modo razionale utilizzando lavoro formalmente libero. In molti punti la definizione weberiana del capitalismo richiama quella di Marx ma rispetto a lui, Weber non tratta del tema dello sfruttamento. È assente perché la definizione di Weber non si basa sulle caratteristiche dei rapporti di produzione ma da un lato riporta la formazione del profitto alla sfera di scambio e dall’altro definisce il capitalismo sulla base di un insieme di caratteristiche che riguardano il senso dell’agire e le condizioni storiche in cui tale agire si dispiega. Infatti per Weber lo sfruttamento dei lavoratori salariati è una critica morale al capitalismo che non ha nulla a che vedere con la definizione del capitalismo stesso. Ma in Weber é presente qualcosa che invece non c’è nel pensiero di Marx, il riferimento al carattere razionale dell’agire capitalistico, cioè alla razionalità formale del calcolo economico che vi é alla base e all’organizzazione razionale del lavoro. La razionalità cui Weber fa riferimento è quella dell’agire razionale rispetto ad uno scopo. Purché il capitalismo potesse svilupparsi sono stati necessari numerosi fattori storici: - La disponibilità di lavoro formalmente libero - Lo sviluppo di mercati aperti - La separazione tra famiglia ed impresa - Lo sviluppo di un diritto formalmente statuito Questi fattori sono stati prodotti nell’Occidente moderno Il saggio l’etica protestante e lo spirito del capitalismo è una disposizione culturale la cui origine andrà cercata per Weber all’interno delle forme specifiche della cultura europea nei secoli che stanno all’inizio dell’età moderna, cioè in forme religiose. Il protestantesimo si pone più di altre confessioni l’accento sull’individuo come interprete diretto della parola di Dio. Weber osserva che il protestantesimo si differenzia dal cattolicesimo per un’enfasi particolare sulla vita mondana. È sul terreno di questa rivalutazione dei compiti mondani che si instaura il concetto di Beruf. Il termine Beruf non ha una traduzione univoca in italiano: significa “professione” e “vocazione”. Nel concetto di Beruf i protestanti hanno indicato il carattere sacro dei compiti professionali di ciascuno, la dimensione religiosa dell’occuparsi di compiti connessi alla propria posizione nel mondo. C’è un’altra caratteristica della dottrina protestante che ha grande rilevanza, cioè la concezione dell’assoluta imperscrutabilità del volere divino e la sua totale determinati soggetti in possesso di certi requisiti. Un insieme di relazioni sociali chiuse corrisponde all’esistente di un raggruppamento sociale. Per rendere legittima la violenza lo si può fare solo con la validità dell’autorità che lo impone. L’autorità è l’espressione di un potere legittimo. Nel senso più generico il termine potere corrisponde alla capacità di un soggetto di produrre degli effetti, cioè di intervenire con efficacia sulla realtà. Quando il potere di qualcuno ha direttamente per oggetto altri essere umani possiamo parlare di potere sociale: questa è la capacità di un soggetto di produrre effetti su altri. E all’interno del potere sociale che si situa il tipo di potere a cui Weber è interessato: il potere politico. Quest’ultimo è un sottoinsieme del potere sociale, coincide con il potere di governo all’interno di un dato raggruppamento politico. Questo potere può basarsi sulla forza, oppure su qualche principio di legittimità. Weber distingue due concetti Macht (potenza) e Herrschaft (potere): - Il concetto di Macht (potenza), designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale anche di fronte a una posizione la propria volontà. - Il concetto di Herrschaft (potere), intende invece la possibilità che un comando che abbia determinati contenuti, trovi obbedienza presso certe persone. La differenza quindi tra potere e potenza e che nel caso della potenza chi la subisce si trova costretto a seguire la volontà dell’altro mentre nel caso del potere la situazione e quella di qualcuno che obbedisce ad un comando perché ritiene legittimo il potere da cui il comando emana. Weber distingue 3 tipi di legittimazione del potere: 1) La legittimazione del potere può essere di carattere tradizionale. Secondo le parole di Weber il potere legittimo è di carattere tradizionale quando poggia sulla cadenza nel carattere sacro di tradizioni ritenute valide da sempre. È questo il caso in cui chi obbedisce lo fa sulla base del sentimento che così è sempre stato o che così si è sempre fatto. Il potere di chi comanda riceve la sua legittimità dal fatto di provenire dal passato. È di questo tipo di obbedienza che si presta a coloro che rappresentano una tradizione (re o padre nelle famiglie patriarcali) 2) La legittimazione del potere può essere di tipo carismatico. Per carisma si intende un senso di elezione che compete come una qualità personale a un individuo particolare. Il potere carismatico poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro e alla forza eroica o al valore esemplare di una persona e degli ordinamenti rilevati o creati da essa. È questo il tipo di legittimità che spiega l’obbedienza che ottengono i profeti o i grandi condottieri. Il potere che si fonda su una legittimazione carismatica è una grande potenzialità di produrre mutamento. 3) La legittimità del potere può essere infine di carattere razionale. In questo caso essa poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti e nel diritto di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere in base ad essi. Quando la legittimità del potere avviene in senso razionale, l’obbedienza non è prestata ad una persona in particolare ma alle leggi che sono impersonali cioè regole astratte che valgono per tutti in modo uguale. Queste leggi non derivano la loro legittimità di provenire dal passato ma la traggono dal fatto di essere razionalmente statuite cioè prodotte in modo razionale sulla base di una discussione formalmente pacifica. Questa è la forma di legittimazione del potere più tipica delle società moderne. Ad ogni forma di potere legittimo corrispondono forme tipiche di apparati amministrativi. La forma tipica di apparato amministrativo connessa al potere “razionale-legale” è quella della burocrazia. Per burocrazia si intende l’organizzazione permanente della cooperazione tra un grande numero di individui, ciascuno dei quali svolge una funzione specializzata. Più in particolare in rapporto allo Stato moderno la burocrazia consiste in un apparato di individui organizzati per l’espletazione di compiti amministrativi: questi individui sono detti funzionari ed esercitano le funzioni connesse alla propria carica sulla base di procedure standardizzate obbedendo ad un’autorità impersonale. La burocrazia dello Stato moderno si fonda sui seguenti principi: 1) L’esistenza di servizi e competenze definiti da leggi o regolamenti. 2) Una gerarchia delle funzioni. 3) La separazione tra funzione è l’uomo che la svolge, cioè il criterio della non-proprietà personale della carica. 4) Il reclutamento dei funzionari sulla base del possesso di una formazione specifica e sulla base di esami. 5) La retribuzione del funzionamento mediante un salario erogato dallo Stato. Quando la burocrazia si presenta nella forma pura, le funzioni che l’apparato deve svolgere sono stabilite con i criteri della razionalità strumentale, l’accesso di individui determinati alle funzioni amministrative avviene in base a procedure regolate per legge che definiscono la loro competenza a svolgere le mansioni richieste. Inoltre l’individualità concreta del funzionario è irrilevante: le stesse funzioni vanno eseguite a prescindere dalla persona che è chiamata a svolgere. La burocrazia in quanto sistema di amministrazione, è più efficiente di altri sistemi quando si tratta di amministrare società ampie e complesse. Ciò è particolarmente evidente nei confronti del sistema amministrativo tipico delle società basate sulla forma di legittimazione del potere tradizionale, cioè il patrimonialismo (es. nell’Europa feudale, le funzioni amministrative erano affidate a funzionari ricompensati dal signore che aveva un certo patrimonio, essi non rispondevano a un potere impersonale ma personale del signore. Per stratificazione sociale si intende in sociologia il modo in cui in una società gli individui e i raggruppamenti di individui sono differenziati e ordinati gerarchicamente. Il concetto allude dunque a certe disuguaglianze che riguardano le risorse cui ciascuno può accedere. Per Marx la nozione di classe è cruciale per l’analisi della stratificazione sociale. Ogni società è per Marx divisa in classi. La visione di Weber è più complessa. Per Weber in ogni società umana coesistono diversi ordinamenti che corrispondono a diversi punti di vista da cui la società può essere considerata: in particolare, esistono un ordinamento economico, uno culturale e uno politico. All’interno di ognuno di questi ordinamenti la stratificazione si presenta secondo criteri differenti. La nozione di classe è la nozione centrale dal punto di vista economico. In generale una classe è per Weber un insieme di individui che condivide possibilità analoghe di procurarsi dei beni economici, cioè beni e servizi finalizzati alla soddisfazione di bisogni relativi a prestazioni di utilità. Nella società occidentale moderna la classe si definisce in relazione al mercato. Appartengono alla stessa classe individui che hanno possibilità simili di situarsi nel mercato in base al possesso o non di beni e delle capacità che vengono scambiati al suo interno. Per Weber la nozione di classe non è sufficiente a coprire la gamma delle diverse possibilità di stratificazione internet alle società umane. La nozione di ceto è uno dei contributi più originali e importanti di Weber alla teoria sociologica della stratificazione. Egli definisce situazione di ceto un effettivo privilegio positivo o negativo nella considerazione sociale. Questo privilegio può essere fondato sul modo della condotta della vita, sulla specie di educazione ricevuta, sul prestigio derivante dalla nascita o derivante dalla professione o al gruppo d’appartenenza. Un ceto si definisce in altre parole come un insieme di individui che condividono un certo “status” riconosciuto socialmente. Quanto alla stratificazione politica, si realizza nelle forme degli apparati politici e amministrativi di un gruppo sociale cioè nelle cariche che vi si possono ricoprire. Ma si realizza anche nella possibilità che i membri di un determinato partito o di una determinata fazione politica prevalgono su altri nell’allocazione delle risorse del gruppo. Weber si é occupato dei concetti fondamentali della sociologia, di sociologia economica, politica e giuridica, di sociologia delle religioni e persino di sociologia della musica. Il processo di razionalizzazione è un concetto complesso, questo concetto viene usato in una chiave è molto ampia per indicare lo sviluppo delle immagini del mondo proposte dalle religioni monoteiste che risponderebbe all’esigenza di una coerenza logica sempre maggiore. In economia e società lo stesso concetto è connesso alla burocratizzazione e allo sviluppo delle forme legar razionali di legittimazione del potere. Nella conferenza sulla scienza come professione infine il processo di razionalizzazione inteso come elemento essenziale della vita moderna e corrisponde alla conquista di una specifica efficienza e produttività delle procedure che sono applicate per dominare tecnicamente diversi aspetti dell’esistenza. Ma corrisponde anche al creare predominio della fiducia. Lo sviluppo di questa fiducia comporta un disincanto del mondo, nel senso che viene espulso dall’atteggiamento formale degli uomini ogni riferimento a spiegazioni e a comportamenti magici, animalisti o religiosi. Il tipico soggetto moderno si aspetta che tutto possa essere spiegato razionalmente. CAPITOLO 7: LE ORIGINI DELLA SCUOLA AMERICANA A partire dall’ultimo decennio del 19esimo secolo la sociologia è insegnata nelle Università degli Stati Uniti. Tra i primi esponenti della sociologia americana ricordiamo: Ward, Small, Sumner, Cooley, Veblen. La sociologia di questi autori è dipendente da quella britannica e soprattutto dalla figura di Spencer e del suo evoluzionismo. Ma non mancano però teorizzazioni originali, come Sumner che fornisce la prima definizione del concetto di etnocentrismo: il privilegiamento da parte di un gruppo dei propri costumi e valori con la svalutazione di quelli degli altri. Veblen invece introduce il concetto di consumo vistoso: il consumo non finalizzato tanto al soddisfacimento di bisogni materiali, quanto all’ostentazione di ricchezza. Infine Cooley elabora la nozione del sé specchio e propone anche una distinzione tra gruppo primario è gruppo secondario che permette di studiare i processi fondamentali mediante i quali l’individuo acquista un’immagine di se stesso. La società nordamericana a cavallo del secolo è caratterizzata da mutamenti molto intensi. Ci sono grandi flussi migratori e le differenze di lingua, tradizioni e costumi danno forti problemi di integrazione. L’industrializzazione si sviluppa a ritmi elevati e contribuisce a un’espansione straordinaria delle aree urbane. Questi problemi dell’immigrazione, della disuguaglianza sociale e devianza si imponevano con forza all’attenzione degli scienziati sociali ed è proprio a questi problemi che si dedicarono particolarmente gli autori della prima grande scuola di sociologia americana, la “scuola di Chicago”. La scuola di Chicago Le prime cattedre di sociologia viene istituita in America nelle università dell’est. Ma il primo Dipartimento dedicato agli studi sociologici viene istituito all’Università di Chicago fondata nel 1892. Il primo direttore del dipartimento fu Small, che fu anche il fondatore della prima rivista americana di sociologia. Gli autori che contribuirono al suo sviluppo furono Thomas e Park. L’opera fondamentale di Thomas è il contadino polacco in Europa e in America, si tratta di una lavoro che riguarda le condizioni degli immigrati polacchi a Chicago: la sua principale caratteristica è l’assunto che il comportamento degli immigrati non è comprensibile senza far riferimento alla loro storia, al loro paese e alle motivazioni che stanno dietro l’emigrazione. Con il contadino polacco Thomas the the inizio a quelli che saranno poi chiamati i metodi qualitativi della ricerca sociologica. Le ragioni di questa fascismo, dall’altro era ostile alla sociologia stessa, che la considerava una pseudo scienza. Vilfredo Pareto Vilfredo Parero nacque nel 1848 a Parigi, la famiglia apparteneva alla nobiltà italiana. Egli visse a Torino, Roma, Firenze e infine Svizzera e Losanna, dove morì nel 1923. Le sue prime opere sono di economia. Tuttavia nel 1912 smette di insegnare questa materia e inizia ad occuparsi di sociologia. Nel 1922 accetta un incarico ufficiale presso la Società delle Nazioni come rappresentante del governo italiano ed entra in rapporto così con il fascismo di Mussolini. La prima chiave per comprendere il pensiero di Pareto sta proprio nel suo passaggio dall’interesse per l’economia a quello per la sociologia. L’economia si occupa di azioni logiche ma la vita degli uomini è ricca di azioni che non sono logiche affatto: è dominata da passioni, sentimenti, abitudini, paure ecc. La sociologia è la scienza che dovrà spiegare ciò che l’economia non riesce ad afferrare. Pareto non realizzò nessuna ricerca empirica, si basava sulla sua conoscenza del mondo. Più nota è la sua idea dei residui e delle derivazioni: - Residuo significa ciò che rimane una volta che si sia scomposto il comportamento degli uomini nelle sue componenti elementari. Pareto riconosce 6 tipi di residui: l’istinto alla combinazione, la socialità, l’integrità delle persone è il residuo della sessualità. I residui rappresentano il fondamento non-logico del comportamento. - Gli uomini tendono ad autoingannarsi, hanno una tendenza a dare una vernice logica alle proprie azioni. Questa vernice consiste nella produzione di giustificazioni dei comportamenti. Queste giustificazioni sono ciò che Pareto chiama derivazioni. Una derivazione è un sistema di rappresentazioni mentali che occulta gli impulsi fondamentali e propone una legittimazione del comportamento in termini che appaiono logici ( ideologia, religione ecc.). Élite è un termine francese che designa una cerchia sociale ristretta e influente. In sociologia il termine è utilizzato per indicare un gruppo o più gruppi in grado di esercitare un controllo o un’influenza sulla società nel suo insieme. La riflessione sui caratteri e sul ruolo sociale delle élite è tipica del pensiero sociologico italiano dei primi anni del secolo. Potremmo dire che la teoria delle élite è una critica del funzionamento reale delle democrazie. La democrazia è una forma di governo tipicamente moderna. La forma concreta. La forma che assume gli stati moderni è quella della democrazie rappresentativa: il popolo governa tramite dei rappresentanti eletti periodicamente. Le teorie degli élitisti non si oppongono alla democrazia in nome dei principi tradizionali dell’aristocrazia: piuttosto intendono demistificare il funzionamento concreto delle democrazie rappresentative mostrando come a governare siano sempre delle piccole minoranze. Mosca definisce che una minoranza organizzata trionfa sempre sopra una maggioranza disorganizzata. Per gli élitisti la soluzione é apparentemente tautologica: le minoranze di governo sono costituite da coloro che nella situazione storica data sono più atti a governare. Ma il problema consiste nell’individuazione degli elementi di cui questa attitudine è fatta. Nei modi di risolvere questo problema risiedono le principali differenze tra gli autori in questione. Ciò che tutti mettono bene a fuoco è il problema del ricambio dell’Elite: data l’importanza delle élite per una società è cruciale che questa sia in grado di mettere ai posti di comando, di volta in volta e dei diversi settori, gli individui o gruppi più adatti a governare, e i cui interessi siano più consoni a sviluppare il benessere di tutta la società. La società che non sia in grado di esercitare regolarmente questo ricambio condanna se stessa alla stagnazione e al rischio di movimenti rivoluzionari. Il fascismo La critica della democrazia proposta dagli élitisti va collocata sullo sfondo delle diverse trasformazioni che caratterizzano le società europee tra l’800 e il 900, in particolare va messa in relazione con i problemi suscitati dall’emergere delle masse sulla scena sociale e politica. Piuttosto che di masse, i primi sociologi parlano di folle. Verso la fine del secolo il tema della folla diventa ricorrente nella sociologia e psicologia sociale. (Le Bon con la Psicologia delle folle). Ciò che colpisce gli intellettuali è il carattere irrazionale che sembrano assumere gli uomini quando si radunano in folle. La perdita da parte loro dei segni di personalità autonoma, la violenza di cui diventano capaci. Abbiamo quindi nelle città l’agglomerarsi di una folla di persone relativamente anonime le une rispetto alle altre, dall’altro la possibilità che queste folle si organizzano in manifestazioni collettive imponenti. A manifestare però non sono esattamente folle indifferenziate: sono piuttosto lavoratori che riunendosi in sindacati e spesso sotto la guida di partiti premono per la soddisfazione di nuovi diritti. Se per coloro che si ispirarono a Marx o altre correnti di pensiero rivoluzionario il problema era quello di organizzare queste masse in una forza compatta, per i riformisti si tratta di promuovere una completa partecipazione dei lavoratori ai meccanismi della democrazia e alla condivisione di vantaggi che derivano dallo sviluppo industriale. Per entrambi in ogni caso il richiamo alle masse ha una valenza positiva. È vero anche quando è usato una valenza positiva, il termine massa conserva connotati problematici della folla. La parola massa infatti rimanda sempre all’idea di insieme di persone confuse indifferenziate, dove i singoli appaiono privi di legami comunitari, di tradizioni proprie e in fin dei conti di capacità di giudizio. Tra 800 e il 900 farà la sua comparsa il fascismo. Nato come movimento di stampo nazionalista all’indomani della fine della Prima Guerra mondiale, il fascismo in Italia giunse al potere nel 1922, nel 1925 diede luogo a un regime che abrogò la democrazia, vietando la libertà di stampa e di associazione e concentrando il potere legislativo nelle mani dell’apparato esecutivo. Tra il 1925 e il 1943 il fascismo di costituì in Italia come una dittatura: la caratteristica delle dittature moderne è quella di non fondarsi unicamente sulla violenza ma anche sulla ricerca di un consenso popolare. Questo consenso viene ricercato soprattutto attraverso l’istaurazione di un rapporto privilegiato tra il leader e le masse. Si tratta di un rapporto di tipo emotivo, che presuppone da un lato l’utilizzo di rituali e di mezzi di propaganda, ma dall’altro anche la disponibilità dei soggetti a proiettare sul leader una forte carica affettiva. È questa disponibilità che mette in gioco il concetto di massa: tutte le istituzioni e le associazioni della società, ai leader si propone ciascuno dei suoi sottoposti come referente unico, unico incarnazione dell’autorità. Ma ciò è possibile solo se gli individui rinunciano effettivamente alla propria individualità concreta quanto al valore dei propri legami con gli altri: il che corrisponde per l’appunto alla loro riduzione a membri di una massa. Per quanto il termine fascismo sia stato coniato da Mussolini, l’esperienza fascista non è confinata all’Italia. Nel periodo tra la prima e seconda guerra mondiale movimenti e partiti di stampo fascista sono stati attivi in molti paesi europei tra cui Austria, Ungheria, Spagna e naturalmente la Germania dove il fascismo assunse con Hitler le sue forme più radicali. Antonio Gramsci Opposta alle teorie conservatrici di Pareto o di Mosca, ma opposta soprattutto al fascismo di Mussolini è la posizione di Antonio Gramsci. Membri del Partito comunista italiano, fu l’ispirazione è teorico della più grande insurrezione operaia in Italia, quella dei consigli operai di Torino nel 1920. Nel 1926 quando il fascismo mise fuori legge l’opposizione venne arrestato e passò il resto della sua vita in carcere. Fu qui che scrisse i suoi quaderni del carcere: una serie di appunti. Per quanto Gramsci non fosse un sociologo, la sua opera oggi è considerata come una delle più significative nella storia della sociologia. In particolare si fa risalire a Gramsci la definizione di alcuni concetti oggi particolarmente usati, come “fordismo”, “società civile” ed “egemonia”. Il termine fordismo fa riferimento alle trasformazioni del modo di produzione capitalistico avviate dalle innovazioni di Henry Ford nelle sue fabbriche di automobili negli Stati Uniti fra il 1910 e il 1920. È un termine che Gramsci mutuò dalla letteratura industriale americana: nelle sue mani diventa una nozione utile a descrivere gli sviluppi del capitalismo aggiornando le analisi di Marx. Questi sviluppi riguardano 2 aspetti dell’organizzazione del lavoro: 1) Legato alla produzione: utilizzando i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro, Ford aveva modificato il lavoro dei suoi operai scomponendo l’attività in minuscoli compiti specifici: i materiali da lavorare venivano collocati su una catena di montaggio e ciascun lavoratore doveva ripetere il proprio compito nei tempi stabiliti dalla macchina. Si trattava di una razionalizzazione della produzione 2) Con la trasformazione introdotta da Ford era necessario alzare anche il livello dei salari. Ciò aveva una doppia ragione: da un lato si trattava di ricompensare i lavoratori per la disciplina cui si sottoponevano e di incentivarne la fedeltà all’azienda, dall’altro si trattava di assicurare un ampio mercato per i beni prodotti favorendo lo sviluppo di uno strato di piccoli consumatori. Tutto ciò comporta per Gramsci delle modificazioni nel modo di produzione: il processo lavorativo è controllato più strettamente e il lavoro stesso diventa più produttivo e contemporaneamente la produzione delle merci si accresce e si rivolge ad un nuovo pubblico di consumatori. Dal punto di vista di chi si ponga in un’ottica rivoluzionaria, lo sviluppo di una coscienza di classe deve spostarsi così sul piano di una lotta ideologica complessa, in cui diventa decisiva la capacità delle avanguardie operaie di proporre una cultura complessiva alternativa a quella del capitalismo. La capacità di diffondere nella società una cultura con i propri valori ed i propri interessi è la capacità di esercitare un’egemonia sulla società. Il concetto di egemonia si situa nel quadro teorico che tende a rivalutare l’importanza e la relativa autonomia della sfera della cultura. Nella società capitalistica le classi dominanti non esercitano il proprio potere soltanto con la coercizione, ma imponendo i propri valori e le proprie logiche come elementi della cultura diffusa. Rovesciare questo significa dunque sostituire questa egemonia un’egemonia alternativa , un altro senso comune: la lotta sul terreno della cultura diventa cruciale. Il luogo dov’è questa lotta si dispiega è la società civile. Si tratta di un concetto che Gramsci riprende da Hegel. Hegel aveva definito la società civile come la sfera della vita sociale che si situa tra la famiglia e lo Stato. Riprendendo il concetto, Marx lo aveva ristretto riducendolo a sinonimo della sfera della proprietà privata e delle relazioni economiche. Pur conservando un orientamento generale marxista, Gramsci torna a Hegel adattando il concetto alle necessità della situazione contemporanea. La società civile da chiesa, scuole, associazioni: è l’insieme delle organizzazioni a cui l’individuo partecipa in quanto cittadino. Attraverso queste istituzioni le classi dominanti esercitano la propria egemonia sulla società intera: ma è nelle stesse istituzioni che questa egemonia può venire contrastata. Come molti marxisti Gramsci era ostile alla sociologia in senso stretto: chiamava la propria teoria della società una filosofia della prassi. Ciò che Gramsci contrappone alla sociologia positivistica è una scienza della società che appare molto vicina ad una sociologia dell’azione quale la intendiamo oggi, cioè ad una sociologia nella quale è riconosciuto un ruolo cruciale al soggetto storico. movimento psicoanalitico internazionale, si consolidò come una delle principali acquisizioni del pensiero del 900 o quanto meno come una teoria con cui non è stato più possibile non misurarsi. Nella sociologia i primi autori a servirsene furono in Europa i membri della scuola di Francoforte e in America Parsons. Gli autori di Francoforte integrandolo con il marxismo ulitizzeranno il pensiero di Freud per studiare la personalità autoritaria. Ludwing Wittgenstein e la filosofia del linguaggio Wittgenstein nacque a Vienna nel 1889. Apparteneva ad una famiglia dell’alta borghesia, ma rinunciò la sua parte di eredità per dedicarsi alla propria vocazione intellettuale. Ufficiale dell’esercito austroungarico scrisse nelle trincee sul confine dell’Italia la sua prima opera. Più avanti si trasferì in Inghilterra dove morì nel 1951. La sua prima opera Tractatus logico-philosophicus, è un trattato di logica. Il progetto é quello di fornire un impianto logico al linguaggio ordinario tale per cui sia possibile individuarvi e successivamente escludere tutte le posizioni che non sono suscettibili di verificazione né deducibili da altre proposizioni verificate e sono qui di prive di un significato accertabile. Si tratta di un progetto parzialmente coincidente con lo svilupparsi del Circolo di Vienna. Questo progetto presupponeva la possibilità di una corrispondenza univoca tra ogni espressione linguistica e il suo referente nella realtà: le espressioni sarebbero delle raffigurazioni di questa. È proprio questo presupposto che entra in crisi del pensiero di Wittgenstein, nel linguaggio odierno infatti, le parole hanno significati diversi che dipendono dal contesto in cui di volta in volta sono usate. Il tentativo di ridurre ogni parola ad 1 solo significato può avere sensi nei linguaggio scientifico artificiale ma si tratterebbe di un procedimento convenzionale, inapplicabile nella lingua corrente. In quest’ultimo il significato delle parole è definito dal loro uso in situazioni e cerchie sociali concrete. Visto che sono molte e diverse le situazioni e le cerchie in cui possiamo trovare, i significati delle parole sono molteplici. L’insieme delle attività in cui ciascuno è immerso, come membro di una determinata società è una forma di vita: il linguaggio è parte di una forma di vita, vi è indissolubilmente connesso. Il termine gioco linguistico è particolarmente importante: quando parliamo, noi seguiamo delle regole allo stesso modo in cui le seguiamo quando ci impegniamo in un gioco. Il tradizionale problema che si pone a chiunque si provi a tradurre un pensiero da una lingua ad un’altra diventa qui molto più radicale. Il punto è che anche all’interno della stessa comunità linguistica le parole possono essere usati in giochi linguistici diversi ma anche relativamente impermeabili uno all’altro. Ad esempio ciò che dice un critico d’arte parlando della sua disciplina può essere incomprensibile a un chimico nonostante il vocabolario che usano entrambi sia grosso modo lo stesso. Quando a confrontarsi sono prodotti in lingue radicalmente diverse, all’interno di culture dissimili il problema è lo stesso ma più grande. Poiché ogni lingua è legata a un insieme di forme di vita di determinate e interpreta il mondo secondo le loro necessità e la loro sensibilità. Il ruolo del linguaggio nella società avviene in primo piano. La lingua è lo strumento di cui gli uomini si servono per intendersi fra loro in relazione alle attività in cui gli uomini si servono per intendersi fra loro in relazione alle attività in cui sono coinvolti: nello stesso momento in cui esprime la loro forma di vita, è il mezzo attraverso cui la interpretano. Dopo la metà del 900, la rivalutazione del ruolo del linguaggio operata da Wittgenstein e la sua concezione del significato come uso delle parole si combineranno con l’influenza di altre correnti del pensiero sociale dando luogo a quella che alcuni chiameranno una vera e propria svolta linguistica nelle scienze sociali. La seconda conseguenza del pensiero di Wittgenstein è che alcune cose che sociologi e antropologi fanno usualmente come la comparazione fra società dotate di culture diverse diventeranno assai problematiche. Non è scontato che gli stessi concetti che hanno un senso all’interno di una cultura siano adeguati a comprenderne un’altra. L’esito cui conduce questa conseguenza del pensiero di Wittgenstein può consistere in un relativismo radicale secondo cui ogni gioco linguistico e a maggior ragione ogni cultura è incomparabile con ogni altro. Mannheim è il problema del relativismo Con Karl Mannheim lasciamo di nuovo la filosofia e torniamo alla storia della sociologia in senso stretto. Ci allontaniamo anche da Vienna ma rimaniamo nella orbita. Mannheim nacque a Budapest nel 1893. Nel 1919 prese parte dell’insurrezione che portò alla breve Repubblica dei consigli ungherese. Dopo il fallimento di questa esperienza riparò in Germania. Nel 1933 emigrò a Londra dove morì nel 1947. Nella sua formazione sono decisivi i rapporti con il pensiero di Marx e con la tradizione dello storicismo tedesco. Più decisiva è la pertinenza alla generazione che visse la prima guerra mondiale e i violenti conflitti ideologici che le fecero seguito. Il posto di Mannheim nella storia della sociologia è legato alla sua formulazione di una sociologia della conoscenza. Il termine sociologia della conoscenza era stato introdotto da Scheler per intendere un’analisi dei rapporti che sussistono tra i vari tipi di conoscenza e i fattori sociali che determinano la situazione esistenziale degli uomini. Il problema cruciale di Mannheim è quello del relativismo. Esso non è un problema originale. Montaigne poteva notare già che nel 14esimo secolo ognuno chiamava barbarie quello che non è nei suoi usi. Inoltre sappiamo come la consapevolezza della varietà delle visioni del mondo tipiche di cultura diverse sia all’origine dell’idea della sociologia. Ma i primi anni del 20esimo secolo sono un periodo in cui questo tema si fa manifesto come mai prima. Già lo storicismo tedesco aveva sviluppato una sensibilità per il tema: se epoche differenti sono caratterizzate da una rappresentazione del mondo diversa, la conoscenza storica è una conoscenza che deve affrontare la relatività di queste diverse rappresentazioni senza negarla ma rinunciando anche ad ogni pretesa assoluta di verità. Sul piano pratico, gli intensi processi di riorganizzazione sociale, di urbanizzazione e mobilità che caratterizzarono la fine dell’800 e l’inizio del 900 costrinsero ciascuno a rendersi conto della varietà di usi, costumi, lingue, religioni ecc. Il primo oggetto della riflessione di Mannheim è proprio la compresenza nella stessa società di visioni politiche concorrenti tra loro. Marx aveva già collegato queste visioni agli interessi delle classi in conflitto: aveva mostrato come le classi dominanti tendevano a descrivere il mondo occultandone le contraddizioni e legittimando i privilegi acquisiti. Mannheim al concetto marxiano di ideologia affianca quello di utopia: con questo intende la visione del mondo tipico di coloro che impegnati nella lotta per rovesciare i rapporti esistenti non riescono a scorgere nella realtà se non gli elementi che vogliono negare. Come l’ideologia, l’utopia è anch’essa una parziale deformazione della realtà. Successivamente, abbandonando la nozione marxista, Mannheim propone di usare il termine ideologia per intendere che ogni individuo, in quanto appartenente a un gruppo sociale determinato tende a concepire la realtà secondo un punto di vista che esprime interessi, cultura ecc., di quel gruppo. Non si tratta solo della collocazione di classe: l’appartenenza a una nazione, a un gruppo etnico o a una generazione può essere determinante. Il modo in cui ciascuno di noi vede la realtà è connesso alla nostra situazione esistenziale. Dal problema del relativismo Mannheim arriva così alla proposta teorica di un relazionismo: un concetto che indica la relazione originaria che lega ogni prodotto della cultura all’esistenza concreta e determinata in cui sono posti i soggetti. Affermare il relazionismo non significa affermare che non esiste più alcuna verità. Quest’ultima diventa però più che una certezza che si può possedere, un limite a cui si può solo tendere. Nelle società moderne secondo Mannheim, gli intellettuali costituiscono un gruppo svincolato dalle appartenenze sociali: la formazione e l’orientamento avalutativo degli intellettuali favorirebbero il loro impegno per un confronto disinteressato fra le diverse prospettive dal cui seni emergono idee concorrenti. Questa valutazione del ruolo degli intellettuali è probabilmente un po’ troppo enfatica. Attraverso la sua sociologia della conoscenza Mannheim è il primo sociologo a prendere atto della crisi dei fondamenti epistemologici sui quali le scienze sociali sono sorte e cresciute. Con la sociologia della conoscenza di Mannheim la sociologia si avvia a diventare una scienza autoriflessiva. CAPITOLO 10: LA SCUOLA DI FRANCOFORTE La scuola di Francoforte costituisce una delle imprese collettive più rilevanti del pensiero del 20esimo secolo. Essa prende il nome dall’istituto per la Ricerca sociale che venne fondato a Francoforte, L’istituto nacque grazie un finanziamento privato che garantì a lungo l’indipendenza dall’università. Il suo primo direttore fu Grünberg ma chi contribuì al suo sviluppo fu Horkheimer. I membri più noti della scuola furono Adorno, Marcuse, Fromm e Benjamin. La formazione di questo gruppo di studiosi non è omogenea. Il riferimento al Marxismo è almeno all’inizio, un tratto comune. Nella formazione di Marcuse ad es. fu importante l’influenza della fenomenologia di Husserl. Adorno era prima di tutto un filosofo interessato alla musica. Fromm era uno psicoanalista. Il marxismo a cui la scuola di Francoforte si riferiva era antidogmatico e non determinista: quella che Marx chiamava la sovrastruttura è intesa come tutt’altro che una mera derivazione della struttura. L’istituto intraprese una revisione del marxismo rivalutandone le origini nel pensiero hegeliano e integrandovi elementi della psicoanalisi freudiana: l’approccio che ne derivò fu una teoria critica della società dai tratti originali. Dopo la presa del potere in Germania da parte dei nazionalsocialisti, l’istituto venne chiuso per tendenze ostili allo Stato, in previsione di ciò, i suoi membri avevano trasferito già all’estero i propri fondi e aperto una sede a Ginevra. Benjamin che non aveva voluto lasciare l’Europa morì suicida nel 1940 durante il tentativo di varcare il confine tra la Francia occupata dalla Spagna. Negli Stati Uniti Horkheimer e i suoi collaboratori allargarono i loro interessi allo studio della società di massa e dell’industria. Horkheimer e Adorno si spinsero fino ad elaborare una critica della modernità occidentale. In America viene poi realizzata un’altra grande ricerca collettiva dell’Istituto: uno studio sul pregiudizio nelle società contemporanee. Nel 1950 l’Istituto venne riaperto a Francoforte. Horkheimer e Adorno lasciarono gli Stati Uniti. Nella Germania nazista i testi dell’istituto non potevano circolare e quanto all’America la loro circolazione era stata ostacolata dal fatto che quasi tutti erano scritti in tedesco. Più avanti l’insegnamento dei membri dell’istituto fu una delle fonti di ispirazione dei movimenti studenteschi. Adorno definisce che nella società posta in essere dal modo di produzione capitalistico, il fine dell’esistenza degli uomini diventa produrre: la vita si riduce all’erogazione di forza- lavoro e al consumo dei beni prodotti, il cui scopo è quello di permettere di continuare a produrre. Prendere in considerazione questa idea significa conservare il nucleo del pensiero di Marx ed è anche il nucleo della teoria critica della società. Marx è il primo dei grandi riferimenti della scuola di Francoforte. Il centro del discorso è la relazione tra lo sviluppo delle forze produttive e e i rapporti sociali: si tratta di rendere esplicite le possibilità rivoluzionarie che si aprono nella fase contemporanea del capitalismo. Scoprire perché la rivoluzione non avvenga è un compito che un pensiero marxista non può fare a meno di affrontare ma necessariamente comporta un rinnovamento della teoria. Rinnovamento che sarà compiuto in parte facendo ricorso alla psicoanalisi di Freud. conservandovi una posizione piuttosto marginale. Il suo lavoro si interruppe tragicamente all’inizio della seconda guerra mondiale, e gli fu più di ogni altra cosa un critico letterario. Nel testo sull’opera d’arte Benjamin promuove quella che sarebbe diventata una delle sue tesi più note: la perdita di quell’aura di unicità dell’opera d’arte che consegue la possibilità della sua riproduzione. La fotografia e il magnetofono permettono di ammirare un dipinto o di ascoltare una sinfonia senza spostarsi da casa: la fruizione dell’opera si trasforma radicalmente. Recarsi davanti ha una statua o ascoltare una sinfonia in un teatro pongono il soggetto di fronte a sensazioni che rappresentano qualcosa di unico, mentre vedere la statua di una fotografia o ascoltare il concerto sul registratore è fruire di eventi riprodotti e riproducibili all’infinito e innumerevoli persone possono fruire nello stesso momento delle innumerevoli copie che esistono. Benjamin non era del tutto ostile di queste trasformazioni. Quanto alla cultura nel suo complesso, la crisi dell’esperienza corrisponde a una preferenza crescente per le informazioni a scapito di forme di comunicazione più antiche come la narrazione. L’arte di narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado di incontrare persone che non sappiano raccontare qualcosa come si deve e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando in una compagnia c’è chi vorrebbe sentirsi raccontare una storia. Il motivo del tramonto della capacità di narrare non sta solo nel carattere frettoloso della vita moderna che sottrae tempo necessario per raccontare ed ascoltare. Ma sta piuttosto nella difficoltà di porsi di fronte alla vita come qualcosa che abbia una trama, così quello che vogliamo sapere non sono più storia informazioni: frammenti di sapere isolati gli uni dagli altri. Vogliamo essere al corrente di ciò che accade nel mondo ma ciò di cui siamo al corrente sono solo frammenti che non ricomponiamo. Negli anni 50 Adorno ritornerà su questo tema parlando della cultura contemporanea come una semicultura. La semicultura é la cultura degradata, è una cultura che ha perduto le sue funzioni. E come se la vita scorresse senza essere compresa, senza che la cultura vi servisse agli uomini a rendersi conto di ciò che attraversano, chiedersi il senso del proprio essere storico del proprio posto nel mondo. Il sospetto della scuola di Francoforte nei confronti della sociologia accademica è soprattutto un sospetto nei confronti della sociologia positivistica: della sociologia che assume la realtà come un insieme di dati che si tratterebbe di osservare e registrare. Il positivismo sociologico tende a risolversi in un’apologia dell’esistente. La scienza sociale a cui pensano i miei membri della scuola di Francoforte è un tipo di ricerca che da un lato si sforza di penetrare le mediazioni che collegano ogni singolo fenomeno al processo storico e alle tendenze della società nel suo insieme, ma dall’altro considera ogni suo oggetto non solo per quello che è nel momento attuale ma per la carica di possibilità cui fa segno. Che i lavori della scuola di Francoforte abbiano suscitato reazioni feroci non dovrebbe sorprendere. Di fatto sono stati sottoposti a molte critiche. Le più comuni riguardano l’atteggiamento elitario e il soggettivismo che li caratterizzerebbe. La prima critica è stata fatta propria soprattutto dai membri della seconda generazione della scuola, guidati da Habermas. La seconda critica proviene soprattutto dagli studiosi delle comunicazioni di massa. Qua si può notare come il grado in cui la propaganda o la pubblicità hanno successo per la coscienza delle persone dipende dal contesto in cui le persone stesse siano situate: chi è molto isolato è probabilmente influenzato in modo maggiore dei contenuti trasmessi dei mezzi di comunicazione di massa, ma chi inserito in reti comunitarie media questi contenuti con le convinzioni che elabora nel loro ambiente e ne è dunque meno direttamente dipendente. Il limite dei discorsi dei francofortesi è che le loro analisi spesso impediscono di vedere la ricchezza e le potenzialità della cultura popolare, che non è sempre e solo riducibile alla nozione di una cultura di massa colonizzata dall’industria dell’intrattenimento: gli esempi più di questo limite sono l’incomprensione di Adorno per il jazz e la sua svalutazione del cinema. Diciamo che fino ad ora abbiamo richiamato la nostra attenzione principalmente per gli autori che appartengono al primo periodo della scuola di Francoforte. Ma è necessario prendere in considerazione anche le opere di un autore della seconda generazione della scuola: Habermas. Egli giuse a Francoforte nel 1956. La notorietà arriva con Storia e critica dell’opinione pubblica. Il libro riguarda il concetto di “sfera pubblica” dalla sua nascita fino all’età sue trasformazioni recenti. La sfera pubblica è uno spazio di discorsi e di pratiche discorsive pubblicamente accessibili. Non si riferisce a ciò che è pubblico in senso istituzionale bensì a uno spazio in cui i cittadini discutono di politica liberamente e razionalmente ed è qui che si affermano le argomentazioni migliori. La sfera pubblica è dunque il luogo in cui si forma l’opinione pubblica è in quanto tale è cruciale per il funziona,entro di una società democratica. Si tratta di uno spazio sorto grazie alla borghesia nei circoli e nei caffè del settecento. Successivamente però lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa lo ha trasformato: invasa da interessi economici e politici, secondo a Habermas la sfera pubblica ne viene colonizzata e perde le sue caratteristiche. Molti aspetti del ragionamento di Habermas sono stati sottoposti ad alcune critiche, parte di queste critiche sono state accolte da Habermas. Egli riconosce che gli uomini sono sempre legati gli uni agli altri dalla ricerca di una comprensione reciproca che si realizza mediante la lingua: quest’ultima è un prerequisito ineliminabile dalla riproduzione della vita sociale. Se la forma di vita caratteristica dell’essere umano è caratterizzata dalla presenza del linguaggio e dalla ricerca di una comprensione reciproca, la società non può essere analizzata basandosi esclusivamente sulla dimensione del lavoro, affianco delle attività produttive vanno considerate le pratiche di interazione con l’uso del linguaggio. La modernità è per Habermas un progetto incompiuto. Elias non appartiene affatto alla scuola di Francoforte anche se studiò anche a Francoforte. La sua opera più importante è il processo di civilizzazione anche se la sua fama si consolida solo negli anni 70 con la riedizione del processo di civilizzazione e con la pubblicazione di numerosi altri studi. Ispirandosi a Weber, Simmel e Freud, egli intende ricostruire i processi di lunga durata che hanno dato luogo alla formazione della configurazione sociale costituita dal mondo moderno. Il nucleo fondamentale del pensiero di Elias riguarda soprattutto i rapporti tra civilizzazione e violenza. La creazione di spazi pacificati, il processo di civilizzazione riguarda sia il mondo esterno, la formazione degli Stati e sia il mondo interno, la costruzione psichica degli individui. Si tratta di un processo che ha molte facce. In quanto esseri civilizzati noi siamo capaci oggi di identificarci con gli altri molto più chiaramente dei nostri antenati ma contemporaneamente tendiamo ad allontanare dalla coscienza molti dei tratti più naturali della nostra esistenza. La morte stessa è socialmente rimossa. La rimozione della rappresentazione della morte corrisponde a un isolamento del moribondo: nello stesso momento in cui allungano la durata della vita grazie ai progressi della scienza e della medicina, le società moderne relegano l’esperienza dell’invecchiare e morire ai propri margini lasciando i singoli soli in uno dei momenti in cui esserlo é più penoso. Elias é un sociologo che non concepisce la sociologia separata dalla storia, dallo studio attento del passato e dei processi che da questo hanno portato al presente. CAPITOLO 11: LA SOCIOLOGIA AMERICANA NEGLI ANNI DELLO STRUTTURAL- FUNZIONALISMO La sociologia americana dopo Chicago Negli anni 20 e 30 la sociologia americana era stata caratterizzata dall’impronta della scuola di Chicago. Tra il 1930/1960 la figura dominante é quella di Parsons. Diciamo che il panorama della sociologia americana in quegli anni è molto ricco. Sul piano della ricerca empirica la sociologia americana ha prodotto innanzitutto alcuni studi di comunità di grande rilievo, il più celebre è Middletown, si tratta di uno studio che si concentra su una cittadina americana di medie dimensioni analizzando stratificazione sociale, stili di vita e comportamenti sociali con vari metodi d’indagine. Lo studio del lavoro e delle organizzazioni fu uno dei campi in cui, grazie anche ai finanziamenti di diverse imprese, la ricerca empirica su sviluppò particolarmente. Contemporaneamente le tecniche di ricerca quantitative conobbero sviluppi notevolissimi. Il tema dell’opinione pubblica venne affrontato abbastanza precocemente negli Stati Uniti da Lippmann. La grande attenzione rivolta dagli uomini politici e dalle imprese commerciali alla pubblicità ha fornito alla ricerca stimoli importati: gli scienziati sociali americani sono stato e sono tuttora all’avanguardia in questo tipo di studi. Negli Stati Uniti si è realizzato un intreccio fecondo tra le scienze sociali e le istituzioni politiche, economiche e anche militari. Su un versante diverso si collocano le ricerche di Mills, uno degli esponenti di quella che poi sarebbe chiamata la sociologia critica americana degli anni 50. Il suo Colletti Bianchi fu uno dei primi studi sui nuovi ceti medi in America. Un’altra opera importante é l’élite del potere é uno studio inteso a mostrare come la società americana sia sostanzialmente dominata da una élite ristretta di persone. Talcott Parsons Parsons esercitò ad Harvard per trent’anni un’influenza enorme sulla sociologia americana e su gran parte di quella europea successiva alla seconda guerra mondiale. Tradizionalmente l’approccio di Parsons viene chiamato “struttural-funzionalità”. Il riferimento alla struttura non va inteso nel senso della struttura marxiana, si tratta piuttosto dell’idea di struttura proposta dalla linguistica strutturale e mutuata dell’antropologia di Radcliffe-Brown e Malinowski: la struttura di una società è l’insieme delle relazioni che collegano tra loro i diversi elementi della società in modo tale che il significato di ciascuno di questi elementi non è comprensibile isolatamente poiché é determinato dai rapporti che intrattiene con gli altri e dalla funzione che svolge per l’insieme. Il problema da cui Parsons prende le mosse è quello di integrare l prospettive di Weber e di Durkheim. In la struttura dell’azione sociale Parsons propone di considerare l’azione, come L’Unità elementare di cui si occupa la sociologia. La descrizione di ogni azione richiede che si individuino un attore, in fine, una situazione e un orientamento normativo. Le norme sono il nesso che collega la personalità di ogni individuo all’insieme sociale di cui è parte. Ognuno di noi non agisce come se fosse solo a decidere ma in base a un insieme di regole di origine sociale che a loro volta sono solidali con un insieme di valori e di credenze, cioè con una cultura. Perché un sistema sociale funzioni in modo coerente é necessario che i suoi membri siano dotati di personalità che abbiano fatto proprie le norme in cui si esprime una cultura comune. Parsons osserva che ogni sistema deve essere in grado di svolgere almeno 4 funzioni: quelle di adattarsi all’ambiente, di definire i propri obiettivi, di conservare la propria organizzazione e di garantire l’integrazione delle proprie parti. Nel caso del sistema sociale ognuna di queste funzioni è svolta da un sviluppo di questi ultimi universali evolutivi corrisponde alla formazione della società moderna. La sociologia di Parsons è stata sottoposta a notevoli critiche. Le critiche principali riguardano i limiti del suo funzionalismo: concentrandosi su ciò che è funzionale al sistema, Parsons si vieta di comprendere i conflitti sociali. Parsons inoltre ha in mente la famiglia nordamericana, bianca, anglosassone e di ceto medio: questa famiglia é per lui paradigmatica. Ma non descrive nemmeno la realtà di questa famiglia bensì la sue immagine ideale, quello che i suoi membri vorrebbero che essa fosse. In ogni caso nonostante le critiche, Parsons è un autore da studiare e dalle critiche a Parsons sono nati molti degli orientamenti più interessanti della sociologia contemporanea. La distinzione parsoniana tra culture moderne e tradizionali ha ispirato le teorie della modernizzazione, un insieme di studi americani che negli anni 50 e 60 si sono occupati dei processi di mutamento in corso nei paesi extra occidentali. L’espressione teorie della modernizzazione entra in circolazione soltanto nel secondo dopoguerra, queste teorie si caratterizzano per l’abbandono degli aspetti della nozione di modernità riguardanti la sua intrinseca ambivalenza: la modernità viene assunta come un modello normativo, come lo stato più avanzato dell’evoluzione sociale. Lo sfondo di queste teorie è costituito dai processi di decolonizzazione in atto in Africa e Asia, con la contemporanea competizione tra USA e URSS. È in questo contesto che nasce l’espressione “Terzo Mondo” per intendere l’insieme dei paesi che non appartengono all’area dei paesi occidentali economicamente avanzati (il primo mondo) ma che non appartengo neppure all’area egemonizzata dal modello sovietico (secondo mondo). Si sono sviluppate delle teorie in cui si pensa che i rapporti fra i paesi tradizionali e quelli avanzati favoriranno la rimozione di questi ostacoli. Queste teorie hanno mostrato presto i loro limiti. Innanzitutto, nelle società del terzo mondo vi è un problema di tempi: più i processi di modernizzazione sono repentini più si manifestano tensioni e conflitti. In secondo luogo la contrapposizione tra società tradizionali e moderne è grossolana. Considerare quasi tutte le società extraoccidentali come tradizionali e statiche corrisponde a una disattenzione nei confronti delle diversità locali quanti nei confronti della storia. Del resto come le società tradizionali non sono esenti da storia, quelle moderne non sono prive di tradizioni. Elementi culturali tradizionali e moderno convivono ovunque, legami parentali e credenze religiose persistono anche nelle società moderne. Shils distinguerà tra tradizionalismo e tradizione: il primo corrisponde a un orientamento culturale che tende a caricare il passato di valenze positive e a legittimare norme e comportamenti sulla base del passato in se stesso, il secondo ha a che fare con il trasformarsi di certi elementi della cultura da una generazione all’altra. La modernità si può sviluppare in modo selettivo: può affermarsi nei campi dei mezzi di comunicazione o dei consumi e non riguardare le strutture produttive. Le teorie della modernizzazione implicano il presupposto che i rapporti fra i paesi sviluppati e quelli che si avviano oggi allo sviluppo siamo positivi e che i secondi abbiamo in linea di principio le stesse chance di quelli che si sono sviluppati per primi. Robert K. Merton Ricordando allo strutturali-funzionalismo, a gran parte delle critiche che abbiamo rivolto a Parsons sfugge il pensiero di Merton. Uomo di grande cultura e scrittore brillante, ha avuto nella sociologia americana una posizione di rilievo inferiore a quella di Parsons ma è un maestro da cui c’è molto da imparare. Importante è la sua teoria a medio raggio: una serie di concetti logicamente collegati fra loro ma che non pretendono di essere universali, limitandosi così a illuminare ricerche parziali e contribuendo a costruire dei ponti tra ricerche diverse. Il concerto di funzione resta centrale nell’idea di Merton. Rispetto a Parsons però ci sono delle differenze egli infatti più che il funzionalismo come approccio globale, sostiene un’analisi funzionale: il concetto di funzione è uno strumento utile alla ricerca ma non è la chiavetta di volta di una teoria onnicomprensiva della società. La critica del funzionamento come teoria onnicomprensiva comporta secondo Merton il rifiuto dell’unità funzionale della società cioè l’idea che ogni elemento del sistema sociale debba essere inteso come funzionale al sistema nel suo complesso. In realtà ciò che è funzionale per certi attori può non esserlo per altri. In secondo luogo Merton rifiuta sua l’idea che tutti gli elementi di un sistema sociale debbano essere una funzione, sia quella secondo cui ci sarebbero certe istituzioni che svolgono delle funzioni indispensabili. In realtà la società è ricca di fenomeni che hanno perso la propria funzione o funzioni che possono essere svolte nel corso della storia da istituzioni diverse. In terzo luogo Merton distingue tra funzioni manifeste e funzioni latenti di ogni fenomeno. Esempio: il consumo può assumere un significato diverso da quello apparente, lo scopo manifesto di comprare beni di consumo è la soddisfazione di bisogni. Il consumo può anche servire a scopi del tutto diversi; si può avere infatti a che fare con il prestigio sociale dove l’acquisto di beni porta ad un innalzamento o rafforzamento dello status sociale. Lo status si innalza attraverso l’ostentazione della capacità di acquistare merci costose. Quindi il fenomeno è lo stesso, il consumo, ma si tratta di funzioni diverse. Il punto è che gli uomini non sono sempre coscienti deflinscopi che stanno perseguendo e dunque delle funzioni che assolvono i loro comportamenti. Le funzioni Lete ti possono a volte contraddire quelle manifeste. Merton ha scritto molto. I suoi saggi più noti sono raccolti in Teoria e struttura sociale. Le innovazioni di Merton di rado sono di un’originalità assoluta, consapevole dell’importanza dell’eredità e della tradizione dello sviluppo del pensiero scientifico, Merton opera piuttosto estraendo da autori a lui precedenti concetti che poi amplia rendendone esplicita la produttività. Così è per esempio per il concetto di “deprivazione relativa” di Stouffer. In questa ricerca, la nozione di deprivazione relativa veniva introdotta per descrivere l’insoddisfazione provata dei confronti della propria carriera da parte dei militari che in realtà si trovavano in una posizione privilegiata. Il punto era che il sentimento di essere privati non ha a che fare con la realtà oggettiva ma con le percezioni soggettive: se ci si abitua a coltivare certe aspettative anche una realtà positiva può apparire frustante. Allargando la portata di questa scoperta, Merton mostra che ogni individuo si rapporta ad almeno due gruppi: da un lato vi è il gruppo di appartenenza, quello di cui egli fa parte nella sua vita, e l’altro il gruppo di riferimento, quello a cui aspira idealmente. Se il gruppo di riferimento possiede opportunità e suggerisce bisogni che l’individuo non può soddisfare nel gruppo in cui vive egli si sente soggettivamente frustato. Interessante è anche la rielaborazione di Merton sulla devianza e anomia. Egli osserva che la devianza può riferirsi a cose diverse: si può esser devianti rispetto agli scopri che ci si prefigge oppure rispetto ai mezzi che si scelgono per raggiungerli. Ci sono almeno 4 tipi di devianti diversi: - INNOVATORI: coloro che pur conformandosi agli scopri dominanti sono devianti rispetto ai mezzi che usano per raggiungerli. - RITUALISTI: coloro che rimangono fedeli ai mezzi ai mezzi consueti pur non condividendo gli scopi a cui questi dovrebbero servire. - RINUNCIATARI: quelli che rifiutano sia i valori e gli scopi comuni, sia le norme che riguardano i mezzi per raggiungere questi ultimi. - RIBELLI: coloro che mettondo in discussione obiettivi e mezzi comuni non si ritirano però dalla scena sociale ma lottano per affermare obiettivi e mezzi diversi. L’anomia viene invece riconcettualizzata in modo diverso rispetto a Durkheim. Piuttosto che un’incertezza o assenza di norme, L’anomia descrive una situazione in cui vi é una disgiunzione tra gli scopi dell’esistenza che la cultura propone e le possibilità concrete di raggiungerli attraverso comportamenti normali: quando una gran parte dei membri della società non ha i mezzi per raggiungere in modo lecito gli obiettivi che pur condivide, gli stessi obiettivi vengono perseguiti in modo non leciti. L’anomia tipica di molte società contemporanea sta dove il successo personale inteso come un obiettivo che ciascuno dovrebbe perseguire ma contemporaneamente la struttura sociale comporta barriere tali da mettere molti delle condizioni di non poter raggiungere questo obiettivo, avviene che si diffondono comportamenti intesi a raggiungere questo stesso successo attraverso atteggiamenti devianti e spesso illegali. Merton si è occupato di molti temi diversi fra loro. Fra gli interessi che lo hanno accompagnato per tutta la vita ce n’è uno in particolare che merita attenzione: si tratta della sociologia della scienza, un ramo della sociologia in cui egli può essere considerato l’iniziatore. Merton definisce la scienza come quel tipo di conoscenza che sviluppandosi dall’esperimento o dall’osservazione controllata ad essi si riconduce. L’oggetto della sociologia della scienza è l’interdipendenza dinamica tra la scienza intesa come un’attività sociale che da origine a prodotti culturali e di civiltà. Le reciproche relazioni tra scienza e società costituiscono l’oggetto di studio. L’aspetto più evidente della relazione tra la società e la scienza consiste nell’esistenza di un insieme di domande che la prima pone alla seconda. La scelta di temi di cui gli scienziati si occupano è solo in parte determinata dalle logiche interne della ricerca scientifica, in gran parte definita dagli interessi del mondo circostante. Essa è un idea sorta solo con l’epoca moderna. È un’intuizione che era già stata presentata nell’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber. La scienza è un’istituzione sociale e come ogni istituzione trae il proprio significato dalla cultura della società in cui è immerso. Ciò non vuol dire che non abbia una propria autonomia. Uno dei principali interessi di Merton riguarda le tensioni che possono manifestarsi in certe situazioni tra la logica propria della comunità scientifica e il resto della società. La logica della comunità scientifica da un lato si basa su una serie di procedure caratteristiche ma dall’altro si fonda anche su un ethos specifico. Questo ethos comporta un dubbio sistematico cioè ogni affermazione sia verificabile Intersoggettivamente e quindi impone un dialogo aperto tra gli scienziati. Nella misura in cui la comunità scientifica si conforma a questi principi può entrare in collisione con la società che la circonda: è ciò che avviene in tutte le dittature ma può succedere anche nelle società democratiche. La sociologia della scienza di Merton si articola in un programma di ricerca empirica: nelle diverse situazioni storiche e contesti sociali si tratta di verificare il tipo di richieste che i vari gruppi svolgono gli scienziati, le influenze politiche, l’organizzazione interna della comunità scientifica e così via. Questi programmi di ricerca sono stati successivamente al centro dell’attenzione di un gran numero di studiosi. Anche se la sociologia della scienza di Merton è stata anche discussa. Ad esempio egli é poco sensibile alle differenze fra scienze naturali e sociali. Negli anni 60 la sua idea è stata discussa radicalmente nel libro molto famoso di Kuhn egli nega la cumulabilità del sapere scientifico mostrando che la storia della scienza è fatta di passaggi da un paradigma all’altro e che questi paradigmi sono incommensurabili. Importante anche le idee di Foucault, egli definisce che il divenire della conoscenza gli appare il prodotto di una serie di fratture che impediscono di pensarlo come un’evoluzione lineare. Di fronte a queste posizioni, Merton ha conservato un atteggiamento scettico ed è restato ancorato al suo progetto di un pensiero. I due continuatori più noti dell’opera di Schutz sono Berger e Luckmann, entrambi emigrarono negli Stati Uniti e hanno collaborato con Schutz. Particolarmente entrambi interessati alla sociologia delle religioni, i due hanno per il resto una produzione differenziata: Luckmann si è interessato a questioni concernenti la comunicazione e l’intersoggettività, mentre Berger ha sviluppato col tempo una serie di ricerche sulla modernizzazione e sui rapporti tra cultura ed economia. Ma il libro che ha reso entrambi famosi è La realtà come costruzione sociale, uno dei libri più diffusi e citati dalla sociologia contemporanea. Il libro è uno sviluppo della prospettiva Schutziana. L’argomentazione che vi è contenuta prende avvio da 3 mosse. La prima è una lettura del pensiero di Schutz come una sociologia della conoscenza quotidiana. La seconda è l’affermazione che la sociologia della conoscenza quotidiana è la pietra fondante della sociologia. La terza è la tesi secondo cui questo approccio consente di combinare le due prospettive fondamentali della sociologia cioè quella di Durkheim riguardante l’apparente oggettività dei fatti sociali e quella weberiana riguardante la priorità del senso che gli individui attribuiscono soggettivamente all’agire. Dopo queste mosse d’apertura, l’argomentazione comporta due momenti distinti: da un lato si tratta di vedere come la realtà sia prodotta dagli individui in interazione tra loro come una realtà oggettiva, dall’altro come questa realtà sia interiorizzata soggettivamente dagli stessi individui. Si tratta dunque da un lato dell’analisi dei processi di oggettivazione e dall’altro di quella dei processi di socializzazione. Il processo di costruzione comune della realtà corrisponde a un processo di oggettivazione: la formazione successiva di abitudini, routine e istituzioni ne sono i passaggi fondamentali. Il risultato di questo processo è che le forme della vita sociale appaiono infine come realtà date, come fatti dotati di una sorta di esistenza propria. Hanno una propria esistenza nel senso che sono il prodotto dell’interazione di molti e non nel senso che abbiano origine diversa dall’interazione sociale. Per il processo di socializzazione possiamo dire che nel momento in cui veniamo al mondo la realtà è già stata codificata per noi, quindi si tratta di imparare come comportarsi a partire da un mondo già istituzionalizzato. La socializzazione primaria corrisponde alla prima acquisizione di ciò che è necessario sapere per muoverci in questo mondo. Ciò che impareremo lo assumeremo come “naturale”: il senso comune. I vari processi di socializzazione secondaria corrispondono a successivi passaggi della nostra vita e all’ingresso in mondi sociali specifici e circoscritti. Tenendo conto dei processi di oggettivazione e socializzazione è vero che quindi le prospettive di Durkheim e Weber sembrano integrarsi: la realtà è una costruzione sociale che appare effettivamente dotata di un’esistenza sua propria, ma si riproduce soltanto nella misura in cui ciascuno di noi impara distribuire lo stesso senso che le attribuiscono gli altri. La realtà è una costruzione sociale che noi usualmente diamo per scontata, ma è pur sempre una costruzione. In linea di principio ciò che è stato istituzionalizzato può sempre essere deistituzionalizzato. Ciò avviene quando si generano dei movimenti sociali, quando cioè alcuni membri della società avvertono il bisogno di interpretare il mondo in un modo diverso da quello fin li ritenuto ovvio. Naturalmente resta da chiedersi cosa è in grado di produrre dei movimenti sociali. In realtà i fattori possono essere molti: le tecnologie possono porre nuovi problemi o generare delle aspettative, certi gruppi possono avvertire una frustrazione che li spinge a mobilitarsi. Si tratta di situazioni in cui qualcuno per un motivo o per l’altro non dà più il mondo per scontato: la realtà viene decostruita e sottoposta a un’opera di ricostruzione. Ma vi è un’altra strada che conduce al mutamento. Il mondo moderno comporta l’intersecarsi di cerchie sociali molteplici e differenziate, comporta intensi fenomeni di mobilità e comporta il confronto e intreccio di tradizioni diverse. Nel corso delle molteplici socializzazioni secondarie cui è sottoposto, il soggetto moderno si trova così molto spesso a dover combinare elementi di sensi comuni diversi: ma ciò genera ogni volta un nuovo senso comune. La percezione del fatto che la definizione della realtà è una costruzione sociale finisce per indebolire la possibilità di dare davvero per scontato qualcosa: la naturalezza di ciò che abbiamo appreso nel corso della nostra socializzazione primaria tende a scomparire. La sensazione che niente possa essere dato per scontato è fonte di disorientamento: è come se non avessimo più la garanzia di una bussola chiara, di una dimora dello spirito stabile e certa. La perdita della “dimora” rappresenta la principale fonte di disagio della modernità. La consapevolezza che la realtà è una costruzione sociale può corrispondere alla diffusione di uno scettico relativismo, che a sua volta facilità il mutamento poiché rende evidente l’arbitrarietà di ogni ordinamento sociale. L’opera di Berger e Luckmann rappresenta lo sviluppo sociologico più coerente del pensiero di Schutz. Ma Schutz è anche una delle principali fonti di ispirazione dell’etnomerodologia, la corrente di pensiero sociologico che fa capo a Garfinkel. Il termine etnometodologia venne coniato da Garfinkel per intendere lo studio dei modi con o quali i soggetti danno senso alla propria esperienza e cooperano alla costruzione dell’universo sociale in cui interagiscono. L’etnometodologia è dunque lo studio dei modi nei quali si organizza la conoscenza che i soggetti adoperano nel corso delle proprie attività e soprattutto dei propri corsi di azione. Secondo Schutz il pensiero di senso comune è un pensiero che sospende ogni dubbio. Ma se il dubbio è sospeso significa che da qualche parte esso esiste: il pensiero quotidiano ne è costantemente minacciato. La riflessione di Garfinkel sta nel dimostrare da un lato come il dubbio sia costantemente in agguato e dall’altro, analizzare in quali modi esso è di volta in volta concretamente fugato. Per quanto riguarda il primo punto Garfinkel era solito proporre ai suoi studenti dell’Universita di California esercizi di questo genere: provate di andare in giro e parlare a tutti quelli che incontrate mettendovi a 5 metri dal loro naso o provate a interrompere il discorso di qualcuno chiedendogli ripetutamente di spiegarvi cosa intendono dire. I risultati che gli ottenevano erano fastidio, disagio o addirittura panico. Il secondo degli esercizi porta ad affrontare il secondo dei punti che Garfinkel stanno a cuore: come si fugano i dubbi? Come si stabilisce la credenza che quello che pensiamo e diciamo e dia sia condivisibile e certo? L’esercizio mostra che anche quando vogliamo spiegarci, una spiegazione esaustiva è fuori discussione: per spiegarci dobbiamo fare ricorso a delle parole o a dei segni. Certo possiamo affannarci a spiegare la spiegazione è a spiegare poi la spiegazione della spiegazione ma ci ritroviamo continuamente nello stesso dilemma: non c’è la sicurezza che il significato inteso sia certo. Le norme per Garfinkel non esistono. Allievo di Parsons, è qui radicalmente opposto al maestro. È la ricorrenza dei nostri accordi a generare l’apparenza di norme consolidate. Anche quando esistono norme esplicite la loro applicazione comporta sempre delle “istruzioni per l’uso” che variano a seconda dei diversi contesti. Negli anni 70, l’etnometodologia ha avuto un ruolo notevole: non ha solo contribuito alla messa in crisi del paradigma funzionalista ma ha rappresentato anche una sfida alla sociologia nel suo complesso. Nella sua prospettiva anche la sociologia non è che una costruzione fra le altre. In seguito questo filone di studi si è sempre più chiuso si se stesso. L’influenza di George Mead non ha mai cessato di essere presente nella sociologia americana, soprattutto attraverso gli sviluppi che ha conosciuto nel cosiddetto interazionismo simbolico. Il termine interazionismo simbolico è stato coniato da un sociologo di Chicago, Blumer, negli anni 30 ma si è diffuso in particolare negli anni 60 venendo a indicare un approccio teorico che si concentra sull’interazione e sul suo carattere simbolicamente mediato. L’approccio teorico e gli interessi di ricerca dell’interazionismo simbolico hanno una notevole affinità con quelli della sociologia fenomenologica e dell’etnometodologia. L’interazionismo simbolico sviluppa la prospettiva di enfatizzare il ruolo che le parole che usiamo quotidianamente hanno nel dar forma alla nostra realtà e nell’influenzare la percezione che abbiamo di noi stessi il nostro comportamento. L’interazionismo simbolico perviene a quella che è stata chiamata la teoria dell’etichettamento, una teoria utilizzata soprattutto negli studi sulla devianza. L’idea chiave di questa teoria è che la devianza sia un processo di interpretazione di determinati comportamenti. I gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa applicando queste norme a persone determinate e attribuendo loro l’etichetta di outsiders. Becker pensa ai devianti in un senso più ristretto di Merton, i devianti sono coloro che sono posti ai margini della società perché si ritiene che il loro comportamento offenda le regole basilari della vita in comune, (ladri, vagabondi, drogati...). In ogni società esistono istituzioni specifiche dotate del potere di attribuire etichette che trasformano la vita di 1 uomo. In generale, l’etichetta viene interiorizzata e a posteriori l’etichetta può diventare veritiera: come una profezia che si avvera da sola. La possibilità di produrre etichette efficaci rimanda alla distribuzione del potere all’interno della società. Nel quadro che stiamo disegnando merita un posto particolare Goffman. Egli ha studiato sociologia all’università di Chicago e negli Stati Uniti ha passato quasi tutta la sua vita accademica. L’opera di Goffman è uno dei contributi più importanti della sociologia allo studio della vita quotidiana, il suo originale approccio è detto drammaturgico. La parola attore qui ha un doppio senso: attore è chi agisce ma lo è anche chi recita. Goffman ragiona come se questo doppio senso fosse tutt’altro che causale: il teatro è infatti per lui la metafora che permette di capire come ogn’uno di noi agisca nella vita quotidiana. Nel teatro ci sono la ribalta è il retroscena: sulla ribalta l’attore recita una parte e si sforza di produrre nel pubblico certe impressioni, nel retroscena abbandona il personaggio che recitava sul palco. Allo stesso modo accade nelle interazioni con gli altri, ciascuni di noi sforza di produrre certe impressioni, sostenere un ruolo, suscitare negli altri un atteggiamento favorevole mei suoi confronti. Vi è però un retroscena: la sfera privata, i momenti di abbandono, quelli in cui dimentichiamo lo sforzo di presentarci in pubblico o prepariamo le nostre nuove performance. Nella vita quotidiana accade qualcosa di simile. È la produzione di un frame (cornice) e l’analisi di Goffman è un’analisi di come quotidianamente siamo impegnati a incorniciare le situazioni in cui siamo coinvolti. I metamessaggi stanno nel contenuto di ciò che diciamo ma in qualche modo a lato , in qualche segnale implicito. Ad esempio se dico al mio amico come sei stupido e altro non si offende é perché comprende il metamessaggio sa che la frase é del tutto ironica. Non siamo molto lontani dall’etnometodologia: il mondo sociale è retto da un insieme di accordi che possono difficilmente essere esplicitati, ma che sono fondamentali per la vita in comune. Lo sforzo di accordare reciprocamente i nostri comportamenti può essere descritto con una certa ironia. Goffman suggerisce la consapevolezza che la normalità è una finzione. Il soggetto stesso per Goffman ha una maschera. Ogni persona è in grado di svolgere vari ruoli, quindi un insieme di personaggi che ciascuno in grado di mettere in scena, la distanza del ruolo e anche molto frequente e sano ma anche questa distanza non porta alla scoperta di un’entità riconoscibile in modo autonomo. Il centro dell’attenzione di Goffman è l’interazione sociale: in particolare, quella che si realizza negli incontri faccia a faccia tra due o più persone. Le interazioni hanno una logica propria. Questa logica implica una certa ripetitività e elementi di ritualità. I rituali sono forme di azioni che comportano la presenza di elementi ripetitivi e codificati, ma nell’uso goffmaniano di questa parola intende che si implicano anche una certa valenza simbolica. Sono rituale ad esempio i modi in cui ci salutiamo o quelli con cui apriamo una conversazione. Sono forme di azione standardizzate e diverse in ogni cultura. La metafora drammaturgia è presentata per la prima volta in la vita quotidiana come rappresentazione, è il libro di Goffman più semplice e di lettura molto gradevole. Negli anni successivi la ricerca sugli effetti delle comunicazioni di massa aveva posto l’accento soprattutto sul fatto che i mass media non sono onnipotenti in quanto i loro effetti sono limitati dal fatto che l’individuo è immerso in reti di relazioni familiari, amicali, professionali ecc. La più nota delle teorie in questi anni è quella dell’agenda-setting, questa teoria evidenzia come gli attori sociali tendano a considerare rilevanti le stesse cose che appaiono rilevanti nei discorsi dei media. I media forse non sanno dire alla gente cosa pensare ma sicuramente sanno dire su cosa pensare. Neumann aveva mostrato come spesso i sondaggi pre elettorali si rivelano sbagliati perché alcuni elettori modificano il proprio orientamento poco prima del voto. Queste modifiche sono comprensibili in riferimento all’azione dei media. Questi ultimi infatti possono influire sui comportamenti. CAPITOLO 13: VERSO LA SOCIOLOGIA CONTEMPORANEA Lungo gli anni 60 si sono susseguiti dei movimenti giovanili ma il culmine si colloca nel 1968. Importante ricordare del 68, l’anno del “maggio” di Parigi: una ribellione di studenti che grazie anche all’uso dei media contagiò mezzo mondo. Il 68 fu un movimento antiauroritario di studenti e giovanili. Negli Stati Uniti ci fu un movimento per i i diritti civili dei neri e con l’opposizione alla guerra del Vietnam in Europa si fuse con una stagione di lotte operaie e incorporò le teorie ispirare al marxismo. In Germania si attivò la memoria del nazismo e dell’Olocausto opponendosi alla sua rimozione. In Italia e Germania minuscole frange del movimento ispirare al marxismo-leninismo si avviarono negli anni settanta verso la lotta armata. In termini generali il 68 rappresentò contemporaneamente una spinta modernizzatrice e un’autocritica della modernità. Non rigettava l’idea del progresso ma la piegava a nuovi significati. Fu un movimento fortemente generale, animati dai figli di coloro che avevano gestito la ricostruzione post-bellica. Il 68 mise in diversi paesi capo a un’amplificazione dei diritti civili e un maggiore impegno democratico delle istituzioni. Cambia il costume promuovendo rapporti sessuali più liberi, una certa parità fra donne e uomini e nuove forme di convivenza e di lavoro. Si osserva spesso che il 68 non conseguì risultati politici di rilievo ma va ricordato che la sua influenza sull’opinione pubblica contribuì a far cadere le ultime dittature fasciste in Europa. Inoltre contribuì in tutti paesi occidentali alla crescita di servizi pubblici e ad un aumento dei salari dei lavoratori nella difesa dei loro diritti e uguaglianza di opportunità. La sociologia ne è stata influenzata. Fino ad allora l’emergere dei movimenti collettivi era stato spiegato come un’espressione di conflitti di classe o come il prodotto di disfunzioni del sistema sociale quindi come un fenomeno eccezionale. Ora appare invece come un elemento endemico di tutte le formazioni sociali moderne, uno dei fattori più potenti per il mutamento sociale. Alberoni propose un paradigma pendolare della vita sociale, secondo cui questa oscilla periodicamente fra fasi in cui prevalgono forme di vita istituzionalizzate e fasi di contestazione e di esplorazione. Moscovici sottolineava che la modernità comporta la costante presenza di minoranze che si impegna nel tentativo di mobilitare la società al cambiamento, criticandone e riformulandone il senso comune. Numerosi sociologi studiarono le forme organizzative dei movimenti, le loro differenti risorse e i diversi modi di mobilitare. In questo quadro hanno un ruolo importante i movimenti delle donne. Nato nei primi anni 70 e molto attivo per tutto il decennio successivo il neofemminismo si interseca con i movimenti finora citati. I successi del neofemminismo nella sfera politica sono stati differenti nei diversi paesi ma in generale queste hanno dato luogo a importanti modificazioni della condizione delle donne, dei loro diritti e hanno contribuito a trasformare i contesti in cui si sono trovate a vivere le generazioni successive. Nei paesi anglosassoni esistono da tempo corsi universitari the Women studies. Ma anche dove l’istituzionalizzazione stata così marcata come in Italia Le studiosi hanno conseguito risultati molto importanti. Come riconosciuto ha Scott in un suo saggio una volta introdotta la nozione di genere sono da ripensare molte categorie delle scienze sociali. Questi studi hanno rivoluzionato la sociologia della famiglia e hanno promosso un’attenzione per la quotidianità e hanno sviluppato metodi d’indagine. Le donne si ritrovano a dover ricoprire una “doppia presenza” cioè svolgere un ruolo sia nel lavoro retribuito che in quello domestico. Nel loro complesso gli studi delle donne hanno reso visibile per il pensiero sociale oggetti e problemi cui fin qui non si prestava attenzione. Uno dei modi per disegnare un profilo della sociologia più recente è indicare innanzitutto i due poli estremi fra i quali gli approcci correnti si situano: 1) Rinnovamento dell’individualismo metodologico. 2) Un progetto di sviluppo dell’approccio sistematico. Iniziando dall’individualismo metodologico, questa espressione richiama la prospettiva di Weber. Weber è quello cui gli autori più si riconoscono ma diciamo che le questioni di cui trattano sono abbastanza diverse, diciamo che le correnti che si ispirano oggi all’individualismo metodologico hanno almeno due versioni. La prima diffusa soprattutto negli Stati Uniti si presenta come teoria della scelta razionale. L’idea di questa teoria é che la realtà sociale sia composta dall’aggregazione di azioni individuali, che si intrecciano fra loro con esiti a volte imprevedibile e a volte non coincidenti con l’intenzione di nessuno ma che ad ogni caso sono dipendenti da decisioni che i soggetti compiono razionalmente per conseguire dei fini. Più che Weber queste idee rimandano a Skinner e Homas. Secondo Skinner l’essere umano come ogni altro organismo vivente è mosso dalla ricerca del proprio utile e reagisce a ogni stimolo dell’ambiente a seconda delle ricompense che incontra. Il comportamento confermato da ripetute ricompense positive tende a stabilizzarsi mentre uno in cui i costi affrontati per agire non corrispondono a un beneficio adeguato viene abbandonato. L’idea che Homans mutuava a sua volta da questa visione della natura umana è che ogni interazione sia riconducibile a uno scambio nel quale ciascuno cerca di massimizzare il proprio utile e minimizzare i suoi costi. Ma al di là dei riferimenti al comportamentismo americano, la teoria della scelta razionale è una ripresa dell’economia neoclassica: gli individui sono esseri razionali che agiscono in vista del proprio tornaconto, e il loro comportamento in linea di massima può essere inteso come il frutto di una scelta razionale tra le opzioni possibili. Ma il punto debole di questa teoria è che ammettendo che gli esseri umani di comportino come esseri razionali rispetto a fini dati non spiega come questi fini vengano scelti. La formazione delle preferenze non é spiegabile come effetto di una scelta razionale, si tratta di qualcosa che ha a che fare con le risorse culturali a disposizione del soggetto. La seconda visione in cui l’individualismo metodologico oggi si manifesta può essere esemplificata dalle posizioni del sociologo francese Boudon, egli ritiene che il presupposto della razionalità dell’attore si riduce a questo: all’idea che ciascuno ha delle “buoni ragioni” per fare quello che fa. Queste ragioni possono essere di tipo diversi: per uno si può trattare nell’intenzione di massimizzare un’utilità o di conseguire un certo risultato, l’altro si può trattare dell’adesione a una norma o per un altro ancora di essere fedele a un certo ideale così via. L’individualismo si riduce così a una questione di metodo tralasciando qualunque presupposto sulla natura umana. Ciò che si afferma é solo che il ragionamento sociologico deve partire dalla considerazione degli individui. Ciò non significa negare che esistano collettività, istituzioni, che influenzano e vincolano in vari modi gli individui ma tutto ciò è originato, ridotto e a volte modificato dalle azioni di individui concreti attraverso la composizione dei loro effetti. Questi effetti a loro volta si combinano fra loro generando altri effetti è producendo così l’apparenza di processi estranei a qualunque azione soggettiva. Le azioni di individui molteplici si compongono e a volte i risultati finali non corrispondono alle intenzioni di nessuno degli attori coinvolti. A volte si può parlare di veri e propri “effetti perversi” cioè effetti imprevisti o addirittura contrari alle intenzioni iniziali. Per quanto riguarda gli approcci sistemici, uno dei rappresentanti più noto per la sociologia è Luhmann. La sua teoria può essere considerata un raffinamento della prospettiva di Parsons. Anche se il suo oggetto proprio sono i sistemi specificamente sociali. Un sistema è un insieme di parti al cui interno ogni parte svolge certi compiti necessari alla riproduzione del sistema stesso. Il discorso di Luhmann è più articolato. Può essere introdotto presentando 3 nozioni: mondo, ambiente e sistema. Il mondo è l’insieme di tutto ciò che esiste. Esso offre una complessità illimitata dell’azione. Al suo interno la costruzione di un sistema consiste nella selezione di alcune di queste possibilità con l’esclusione di tutte le altre e ciò corrisponde alla costruzione di un “ambiente” cioè alla definizione di ciò che è esterno al sistema è a cui il sistema é in grado di rapportarsi. Poiché é esso stesso a definire che cosa è ambiente per lui, un sistema é sempre in una certa misura autoreferenziale: la sua capacità di rapportarsi con il mondo è limitata dalle sue proprietà. D’altro canto è anche autopoietico: i suoi sviluppi o la sua costruzione sono il risultato delle sue caratteristiche e delle sue capacità. Luhmann ritiene che la realtà in cui viviamo è secondo il suo approccio costituita da una molteplicità di sistemi. È dunque costituita da insiemi di relazioni. L’attenzione alle reti di interdipendenza che legano i diversi aspetti della vita è però diffusa nella sociologia più recente. In questo senso dalle sue opere molto possono trarre spunti. La maggior parte delle ricerche sociologiche sviluppate negli ultimi decenni non si richiamano alle teorie esposte in precedenza. Giddens é un sociologo inglese che ha influenzato gli ultimi decenni. Dopo i primi studi dedicati alla stratificazione sociale nelle società avanzate e alla discussione critica dei classici della sociologia, Giddens si impegna in una prospettiva teorica sulla costruzione della società. I lavori successivi sono dedicati alla chiarificazione delle caratteristiche della modernità è delle trasformazioni recenti. La costruzione della società è un libro di teoria sociale. Egli definisce che la teoria sociale non è la stessa cosa della sociologia: mentre quest’ultima è una disciplina specifica rivolta allo studio delle formazioni sociali moderne, la teoria sociale riguarda argomenti che toccano tutte le scienze sociali impegnandosi nella formulazione dei concetti riguardanti la natura dell’uomo e della società. Con la teoria della strutturazione l’idea chiave è che le forme della vita sociale sono sia qualcosa che si impone agli individui come un dato e sia qualcosa che gli individui stessi costituiscono agendo. Il punto di giunzione fra le strutture e l’azione sono le pratiche: forme di condotta parzialmente routinizzate attraverso cui gli esseri umani riproducono gli assetti instituzionali entro cui si trovano collocati. Questi assetti istituzionali sono da un lato dei veicoli all’azione ma dall’altro sono anche le risorse grazie a cui si dispiega l’agire. In ciò consiste quella che Giddens chiama la dualità della struttura. Per chiarire questo idea della dualità possiamo fare un esempio, se prendiamo in considerazione un muro, esso protegge dalle intemperie ma anche limita lo sguardo, impedisce il passaggio. Le strutture somigliano a tutto ciò, possono assumere le forme più varie. L’idea che Giddens ha delle strutture è quella di insiemi di istituzioni cioè forme organizzate di regole e ruoli, sono in un certo senso l’ossatura della società ma non sono del tutto rigide, perché dipendono dalla disponibilità degli uomini ad aderirvi. In ogni caso, il fatto che gli esseri umani siamo attori significa sia che sono in gradi di trasformare le cose, sia che possono astenersi dal darlo o farlo altrimenti da come ci si aspetta. La capacità di agire corrisponde sempre a una certa dose di potere. Gli uomini sono dotati di intelligenza: conoscono cioè la realtà entro cui operano e tale conoscenza non può essere bandita dalle considerazioni che i sociologi hanno in proposito. Giddens società contemporanea pare a Baudrillard caratterizzata da un crescente desiderio di desiderare. I lavori di Giddens e Bourdieu suggeriscono come si è visto che fra soggetti e strutture vi sia un rapporto circolare, di determinazione reciproca e di interdipendenza. Importante ricordare la corrente di studio: cultural studies. Con questa espressione si intende una corrente di studiosi sorta negli anni 60 ha fatto capo a lungo del del centro dell’università di Birmingham in Inghilterra. Ovviamente non si tratta della prima corrente di studiosi che si occupano della cultura. Le scienze sociali sono state sempre è complessivamente intese come scienze della cultura. La cultura non esiste se non come una forma di vita: studiarla é studiare come le persone danno senso alla realtà. La cultura si riproduce nella vita dei soggetti concreti e da questi viene costantemente riformulata e innovata. Così intesa la puntura e patrimonio di ogni gruppo sociale. Il center for contemporary cultura, studies È un gruppo di studiosi dove accomunarli è l’idea che la cultura sia il modo in cui diamo forma le nostre esperienze e alle nostre pratiche. La cultura è tale se socialmente condivisa. La cultura è anche un campo di tensioni, compromessi conflitti permanenti tra diversi gruppi sociali. Importanti sono anche le tue di Gramsci questi autori ritrovano in Gramsci la possibilità di appoggiarsi ad un marxismo non determinista e non economicista attento al ruolo di istituzioni popolari come la chiesa e a quello degli intellettuali capace di tematizzare la cultura come il campo di lotte per l’egemonia fra le classi. Gli studiosi di Birmingham sono innovativi nei propri metodi di ricerca. Riallacciandosi in questo alla scuola di Chicago, prediligendo strumenti come l’osservazione partecipante. Media e consumi sembrerebbero gli strumenti più efficaci in mano alle classi dominanti per imporre la propria egemonia sulla società. L’idea che quella attuale sia una società omogenea e di massa è contestata dei cultural studies: sia nel senso che le differenziazioni permangono, sia soprattutto nel senso che i destinatari della pubblicità, dell’informazione di ogni altro prodotto dell’industria culturale non costituiscono masse passive ma pubblici attivi capaci di interpretare in modi diversi i messaggi a cui sono esposti. Il pubblico può interpretare i messaggi di riceve in modo coerente con il significato che gli autori originalmente gli attribuivano ma può anche interpretarli criticamente, può interpretarli travisando nel senso applicandovi codice di lettura imprevisti o infine può non comprendereli a fatto. I media non sono onnipotenti: l’influenza che esercitano è filtrata dalle competenze e dai atteggiamenti interpretativi dei pubblici. Caratteristica dei cultural studies é anche l’attenzione per un’altra dimensione: quella dell’uso. Leggere, andare al cinema o guardare la televisione sono pratiche sociali che non si esauriscono nella fruizione di un testo. Il consumo dei media è un processo attraverso cui un individuo e i gruppi trasformano determinate offerte in risorse per la propria vita. È una parte della vita quotidiana. Se lo studio delle culture quotidiane ha caratterizzato le prime fasi del lavoro collettivo dei cultural studies, quello dei media ne rappresenta la prosecuzione naturale, in un mondo dove i consumi mediali sono sempre più pervasivi. In questo contesto la televisione e lo getto di studio privilegiato. Se da un lato la tv favorisce l’esperienza sempre più fluida, dall’altro essa si iscrive entro una modificazione generale della vita sociale sempre più orientata verso consumi privati, ma contemporaneamente aperta a tendente a sfumare le distinzione tra privato e pubblico. Tale modificazione é descritta da Williams nei termini di una tendenza di una privatizzazione mobile. L’espressione coglie il dispiegarsi solidale di due tendenze apparentemente contraddittori ma realtà strettamente intrecciati: quella alla formazione di unità domestica sempre più autosufficienti grazie allo sviluppo dei consumi privati da un lato, e quella alla crescente mobilità dell’individuo e alla loro sempre maggiore interconnessione dall’altro.
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