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"Il motore della mente" (C. Morabito) - Riassunto completo, Sintesi del corso di Psicologia Generale

Riassunto completo e approfondito del testo di Carmela Morabito "Il motore della mente" (Laterza, 2020)

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 20/01/2022

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Scarica "Il motore della mente" (C. Morabito) - Riassunto completo e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! 1. Il modello motorio della mente Recentemente si è affermato il cosiddetto “paradigma motorio”: un modello di mente che è andato definendosi dagli ultimi decenni del secolo scorso in contrapposizione con quello che ha dominato la filosofia moderna e che è stato alla base delle scienze cognitive novecentesche. Nell’accezione di Thomas Kuhn (1962), il paradigma è una concezione del mondo, cioè un insieme di orientamenti teorici, assunzioni metafisiche e procedure sperimentali condivisi da una comunità scientifica in un dato momento (ovvero: un quadro di riferimento per spiegare fenomeni). Il paradigma motorio della mente implica un modello teorico che considera la mente sostanzialmente radicata nella corporeità e nel movimento, ed è innovativo rispetto alla concezione tradizionale, che presupponeva una sequenza tra sensazione, percezione, produzione di rappresentazioni mentali e poi movimento o comportamento in senso lato. Per la teoria motoria della mente, non c’è separazione tra percezione e azione, tra afferenze sensoriali ed efferenze motorie. Il cervello umano è oggi oggetto di uno studio multidisciplinare da parte di tutte quelle scienze che fanno parte delle scienze cognitive e delle neuroscienze sistemiche o olistiche, che ricercano le radici genetiche dell’uomo ben “al di sotto” e ben “prima” della coscienza e della volontà (nelle pulsioni vitali, nel movimento, nell’interazione con l’ambiente). Il nuovo approccio, esteso su discipline diverse, attribuisce al movimento corporeo un ruolo fondamentale nello sviluppo della cognizione e della conoscenza (“fisiologia dell’azione”). Ovviamente, il corpo non è più inteso come la macchina automatica cartesiana, ma come una macchina biologica dotata di scopi e in interazione costruttiva con l’ambiente (preseleziona le informazioni sensoriali in funzione dell’azione). L’azione diventa così una “melodia cinetica”, un insieme di movimenti coordinati in vista di un fine. Il movimento non è solo esecuzione dei comandi dei centri cerebrali, ma è l’attività mentale stessa che è concepita in funzione dell’azione (pensare=decidere quale movimento realizzare successivamente). Le funzioni cognitive si scoprono quindi radicate nella biologia e nella storia (esperienza vissuta, cultura), e il cervello è considerato sempre di più uno strumento progettato per creare relazioni sociali. Il presupposto per risolvere la dicotomia tra meccanismo corporeo e rappresentazione mentale, tra oggetto e soggetto, tra mondo e mente, è una visione sistemica dell’organismo, che considera essenziale la relazione tra organismo e ambiente: non esistono fattori genetici che possano essere studiati indipendentemente dall’ambiente. La concezione classica della mente ha sempre dato per scontata una priorità della percezione rispetto all’azione, per cui quest’ultima è subordinata sia ai vincoli biologici, sia alle risorse cognitive che l’apparato sensoriale-percettivo gli rende disponibili. Nella nuova concezione (filosofia della mente+neuroscienze cognitive), invece, la mente non produce solo gli “output”, ma anche gli “input”, così come il corpo non si limita ad attuare comandi, ma contribuisce alla pianificazione del comportamento dettando le possibilità specie-specifiche di movimento nel momento stesso della percezione. 2. Il movimento, la percezione, l’azione Considerare l’azione il requisito fondamentale perché si sviluppino le funzioni cognitive vuol dire partire dall’idea che l’organismo è un essere vivente in un rapporto reciprocamente costruttivo con l’ambiente (si modificano costantemente a vicenda). L’organismo e il cervello sono considerati “macchine biologiche”, e non automatiche, come nel meccanicismo seicentesco. Il cervello diventa una macchina che prevede le possibilità motorie dell’organismo nell’ambiente, che simula la realtà ancora prima di agire, e non un semplice generatore di risposte agli stimoli. Questo, infatti, richiederebbe troppo tempo in certe situazioni: deve avere già un ventaglio di risposte tra cui scegliere. Tra i modelli che crea ci sono anche quelli della mente altrui, essendo noi primati creature molto sociali. Le neuroscienze cognitive sono quelle discipline che insieme tentato di capire quali siano le basi biologiche dei processi mentali e quindi del comportamento, cercando di individuare i circuiti neuronali che si definiscono nel sistema nervoso di un individuo in base alla sua interazione con l’ambiente. Kandel, uno dei massimi neurobiologi, le ha definite “neuroscienze sistemiche o olistiche” (approccio molare e top-down). Il paradigma motorio produce una nuova immagine dell’uomo la cui speciespecificità non sta più solo nelle cosiddette “funzioni cognitive superiori”, come si è pensato da Cartesio in poi, ma innanzitutto nelle pulsioni vitali dell’organismo, nella propriocezione, nella cinestesia e nella grande e plastica capacità di muoversi in maniera efficace nell’ambiente. L’azione si differenzia dal semplice movimento perché è sempre finalizzata, è una “configurazione di movimenti” orientati a uno scopo, ed è quindi sempre causata da bisogni, desideri o intenzioni. Lo scopo primario di tutti gli esseri viventi è continuare a vivere. Per agire con efficacia, il soggetto deve conoscere la propria posizione all’interno dello spazio, quindi quella di tutte le parti che lo compongono, e per questo è fondamentale la cinestesia (percezione del movimento). L’armonia tra le parti e tra i movimenti è ben espressa dall’espressione “melodia cinetica” (Lurija, anni ’70). L’azione è più che una risposta a uno stimolo: ha una fondamentale componente anticipatoria dello stimolo. 3. Il movimento come fattore cognitivo in una prospettiva storica La convergenza teorica nel riconoscere la necessità di un approccio dinamico e integrato al vivente e il ruolo fondamentale dell’attività motoria nella costruzione della mente, ha una lunga, seppur frammentata, gestazione storica. Il modello della mente come computer (quindi movimento come semplice risposta a uno stimolo) ha dominato le scienze cognitive del secondo Novecento, ma la sua base meccanicistica risale a Cartesio (1596- 1650), con la sua concezione sequenziale del comportamento della mente (il nuovo approccio presuppone invece un funzionamento in parallelo) e la sua netta separazione tra mente, corpo e ambiente. Secondo Cartesio, l’uomo è l’unico dei viventi a essere composto di due sostanze ontologicamente diverse: la res extensa (il corpo, cioè materia organizzata) e la res cogitans (la mente, l’anima pensante). Il corpo funziona come le macchine idrauliche dell’epoca, con i nervi come tubi in cui scorrono gli spiriti animali (verso l’interno se si tratta di afferenze sensoriali; verso l’esterno si tratta di comandi motori). La mente (il cogito), dalla sua sede nel cervello, è il fontaniere che gestisce il flusso. Essa però è ontologicamente diversa dal corpo (c’è un “fossato metafisico” che la separa), non può essere misurata o conosciuta scientificamente, dunque rimane oggetto solo della filosofia. L’unico mezzo con cui possiamo conoscerla è infatti il pensiero. Il collegamento tra mente e corpo è collocato da Cartesio nella ghiandola pineale. Qui è collocata la mente, qui prende atto delle afferenze sensoriali e da qui impartisce i comandi motori. Nel suo meccanicismo, Cartesio ritiene che il comportamento possa essere studiato interamente sulla base dei riflessi, tranne per quanto riguarda le “funzioni mentali superiori”, che sono qualcosa di completamente altro. Ritrarre la mano dal fuoco è un riflesso e non coinvolge componenti cognitive (la res cogitans). Queste entrano in gioco solo nei movimenti volontari e nelle funzioni superiori. comunque la distinzione cartesiana, ma questa teoria era destinata a crollare sotto il peso di nuove scoperte sul sistema nervoso. Luigi Rolando e Marie-Jeanne-Pierre Flourens inclusero infatti nelle vie motorie anche il cervelletto (equilibrio e coordinazione), mentre Robert B. Todd e William Bowman, negli anni Trenta, individuarono nel cervello un centro motorio nei corpi striati di Magendie. Il paradigma sensomotorio si rafforzava quindi sempre di più e la soglia oltre la quale non era legittimo leggere l’attività nervosa in questo senso si alzava. Mancava solo la trasformazione concettuale dall’arco riflesso spinale all’arco riflesso cerebrale per interpretare l’intero comportamento umano come catena di riflessi, senza la distinzione tra movimenti volontari e involontari, ma soprattutto tra una parte del sistema nervoso sensomotoria e un’altra legata esclusivamente alle facoltà psichiche “superiori”. Questa trasformazione fu opera di Ivan M. Secenov, che nel 1863 pubblicò I riflessi del cervello un’opera rivoluzionaria che conduceva tutti i processi comportamentali alla dinamica dell’arco riflesso. Per lungo tempo, però, la trasformazione fu attribuita a Ivan P. Pavlov, a Charles S. Sherrington e alla scuola riflessologica russa. Secenov, a sua volta, era stato preceduto da un medico anglosassone che nel 1845 parlò di “funzioni riflesse del cervello”. 7. Il riflesso come chiave interpretativa unitaria Il medico era Thomas Laycock. Formandosi a Gottinga, aveva appreso dalla Naturphilosophie una concezione dinamica e unitaria della natura (sia del mondo organico che inorganico), basata sull’unità di struttura e funzione. L’idea di base del suo sistema teorico è che l’intero sistema nervoso funzioni sulla base dello schema del riflesso (On the Reflex Function of the Brain, 1845). Laycock ritiene l’encefalo una sorta di continuazione del midollo spinale e quindi accomunato ad esso per struttura e funzione. In Mind and Brain (1859) Laycock espone la sua concezione delle leggi generali della vita, che regolano, tra le varie cose, anche il cervello. L’assunto di base è evolutivo: processi naturali e processi mentali sono omologhi, in quanto generati dalla stessa legge dello sviluppo continuo che accomuna tutto il mondo naturale, organico e non. Questo è importante dal punto di vista euristico (interpretazione dei fenomeni). Per Laycock, l’azione riflessa media ogni interazione fra organismo e ambiente ed è quindi vitale per l’autoconservazione. Se essa è il paradigma del funzionamento di tutto il sistema nervoso, il modello esplicativo è a tutti gli effetti sensomotorio. Tra gli allievi di Laycock c’è David Ferrier il quale si basava sull’idea di omogeneità del sistema nervoso sia al suo interno (parti “inferiori” e “superiori” funzionano secondo le stesse dinamiche, solo in gradi diversi), sia tra specie animali diverse (anatomia comparata). Egli è famoso soprattutto per aver dimostrato sperimentalmente la localizzazione di alcune funzioni cerebrali nella corteccia e per aver tracciato una mappa di esse. Nel cervello, secondo Ferrier, tutte le regioni sono sensoriali e motorie: intelligenza, memoria, volontà ecc. non hanno una sede distinta rispetto ai substrati motori e sensoriali della corteccia, che stanno quindi alla base di tutte le operazioni mentali. 8. Fra Ottocento e Novecento: Sherrington, Luciani e Tamburini Agli inizi del ‘900, Sherrington porta avanti l’ipotesi di Ferrier sulle basi neurobiologiche delle funzioni cognitive, riflettendo sulla connessione tra dotazione sensomotoria e capacità di adattamento “intelligente”. Il riflesso non è la semplice reazione stimolata da un organo specifico, ma la reazione di un tutto organico a una modifica del suo rapporto con l’ambiente. Ciò che rende l’essere umano l’animale di maggior successo evolutivo è la capacità di aggiustamento rispetto all’ambiente: questo aggiustamento è legato in primo luogo al cervello, con la sua attività di anticipazione, anche se il processo che porta dall’esperienza sensomotoria porta all’acquisizione di nuove coordinazioni motorie non è razionale. Anche le nascenti neuroscienze italiane, tra ‘800 e ‘900, contribuirono a studiare il rapporto corpo-mente e il ruolo del movimento. Ricordiamo il “modello dell’ingranaggio” di Augusto Tamburini, presentato in via teorica negli anni ’60 e supportato poi dagli esperimenti di Luigi Luciani negli anni ’70. Questo modello riconduce l’intero comportamento umano a circuiti cerebrali ben definiti e al tempo stesso interconnessi (anticipa l’idea di “sistema funzionale” formulata da Lurija un secolo dopo). Tamburini lo sviluppa grazie all’intersezione tra le sue competenze cliniche, neurologiche e psichiatriche, e l’approccio sperimentale (frenocomio San Lazzaro di Reggio Emilia, dal prestigio internazionale). Luciani e Tamburini (1876-79) compiono una serie di esperimenti sulle localizzazioni cerebrali delle funzioni cognitive, prima fra tutte il linguaggio, che le ricerche di Broca (1861) avevano messo al centro dell’attenzione. Nel 1876 (l’anno della mappa di Ferrier) Tamburini afferma che esso è controllato da luoghi corticali diversi, in base ai momenti funzionali che lo costituiscono. Dalle ricerche emerge come l’organo cerebrale sia un sistema funzionale integrato di cui fanno parte anche le masse sottocorticali (possono produrre compensazione), ma anche come centri sensoriali e centri motori siano intrecciati anatomicamente e funzionalmente. Nel 1885 Luciani e Seppilli propongono la versione “matura” del modello dell’ingranaggio, con una ricca casistica comparata volta a dimostrare la concomitanza tra fenomeni sensoriali e motori a seguito di disturbo o lesione alla “sfera sensorio-motrice” (lobo frontale e metà anteriore del parietale). 9. Théodule Ribot: “ci sono elementi di natura motoria in tutte le manifestazioni della coscienza” Nel 1914 Theodule Ribot riconosce che il più grande progresso della psicologia coeva stava nel valore attribuito al movimento per spiegare i processi mentali. Riorganizza quindi Bain con il darwinismo e con le ultime scoperte. La “tendenza intellettualistica” nello studio della mente ha fatto pensare che tutto ciò che è conoscenza sia “cognitivo”, mentre in realtà tutti gli stati di coscienza sono un complesso che ha gli elementi cinestetici come base permanente, più ancora che quelli sensoriali. Il fattore motorio diventa quindi lo “scheletro” dell’intero sistema cognitivo (nella visione, nella memoria, nei ricordi…). Ribot parla di rappresentazioni motorie e affettive. Con “affettivo”, egli si spinge “più in basso” della tradizionale contrapposizione piacere/dolore. Questi due sono infatti stati di coscienza, che hanno però le loro radici nei movimenti (soddisfazione o scacco). 10. Pierre Janet: il pensiero è un “duplicato interiore” dell’azione Il successore di Ribot è Pierre Janet, il quale ne riprende le linee teoriche e soprattutto la critica alla “tendenza intellettualistica”, identificando nell’azione il vero soggetto psicologico, in contrasto col dualismo cartesiano (giusto separare all’inizio per comprendere, ma poi bisogna riunificare: “una teoria dell’intelligenza pura, indipendente dall’organismo e dal movimento, non è oggi più possibile”). Occorre sostituire la psicologia introspettiva con una psicologia dell’azione (cfr. Bain) che unisca psicologia e fisiologia, perché pensiero e attività non sono due facoltà, ma uno stesso fenomeno che si manifesta in due modi differenti. Riflettendo sulla genesi delle funzioni cognitive, Janet ipotizza che nell’infanzia cominciamo tutti con l’essere dei motori che agiscono e pensano tramite immagini motorie (ogni idea è una rappresentazione di un atto). Queste riflessioni sono in sintonia teorica con quelle contemporanee degli psicologi funzionalisti statunitensi. Anche questi, infatti, intendevano superare le rappresentazioni intellettualistiche della mente, ricercando invece i fondamenti biologici. Tra gli esponenti più importanti ricordiamo John Dewey, il quale propone una “circolarità” tra sensazione e movimento. Il pensiero di Dewey si interseca con idee e modelli presenti fin dal secondo ‘800 su scala transnazionale, che gli sviluppi successivi della psicologia hanno trascurato. Si possono confrontare quindi le sue idee con la psicologia del movimento di Ribot, la psicologia dell’azione di Janet e la psicologia e fisiologia dell’attività sviluppate in Russia nella prima metà del ‘900. 11. Dewey, tra pragmatismo, funzionalismo e biologia darwiniana Sia il pragmatismo che il funzionalismo enfatizzano una concezione attiva e costruttiva della mente, che vede nei pensieri delle “regole per l’azione”. William James si basa su Darwin (mutua interdipendenza tra organismo e ambiente) per sottolineare la natura dinamica della mente, come frutto della natura dinamica dell’evoluzione stessa: mente e mondo si sono evoluti insieme e sono elementi funzionali del continuo cambiamento che caratterizza il dominio biologico e il vivente. Il concetto di “flusso” temporale e storico dei fenomeni che era centrale in Darwin diventa, a inizio ‘900, il concetto di Umwelt: l’integrazione organismo-ambiente è la chiave interpretativa per comprendere la specificità dei fenomeni naturali. Nel 1896 Dewey riflette sul meccanismo neurobiologico dell’adattamento e sul concetto di arco riflesso, sottolineando la cruciale differenza fisiologica e psicologica tra una macchina e un organismo: la risposta non è solo una reazione allo stimolo, è dentro di esso; l’idea dell’arco riflesso è quindi sbagliata, perché considera stimolo sensoriale e risposta motoria come distinte, mentre in realtà sono parte di un circolo, o “anello riflesso” (la natura è dinamica). La distinzione esiste solo sotto l’aspetto funzionale, teleologico, non sotto quello ontologico. Dewey sviluppa quindi un approccio al vivente che oggi definiremmo “situato” o “embodied”: il soggetto vivente è dentro e della natura, anzi, è la natura tout court. È una posizione teorica condivisa da altri filoni di ricerca dello stesso periodo. bisognerebbe fare per raggiungerlo. Agire nell’ambiente produce dunque conoscenza e al tempo stesso la presuppone (anticipazione). 15. Il cervello come “macchina proattiva” Percezione e cognizione sono dunque funzioni fondamentalmente predittive: lo dimostrano i dati sulla capacità di “riempire i vuoti” e le scoperte dei teorici della Gestalt. Essi opponevano all’orientamento strutturalista di Wundt una psicologia come sintesi tra filosofia ed empirismo. Si concentrano sulla dimensione fenomenica e ricorrono a un approccio olistico per superare il dualismo mente/natura, vissuto/realtà esterna. Criticano l’idea di alterità dell’ambiente rispetto alla mente: ogni organismo ha un ambiente comportamentale (Umwelt), insieme di elementi agenti e reagenti che ne orientano il comportamento. Noi selezioniamo le informazioni salienti dell’ambiente sulla base di caratteristiche specie-specifiche del sistema nervoso, ma partiamo anche da percezioni attivamente generate. Sulla psicologia della Gestalt si innesta la “prospettiva ecologica” di James Gibson: il mondo che percepiamo non è quello della fisica o della geometria, in cui lo spazio è un’astrazione; il nostro ambiente è in una relazione dialettica di complementarità con l’organismo. Su questa base, dagli anni ’60 Gibson critica la teoria classica della percezione (i dati sensibili sono diversi dal significato che gli dà un atto intellettivo): l’atto percettivo raccoglie direttamente informazioni, senza implicare la coscienza. Un’affordance (??) ci fa comprendere come sia inadeguato concepire un’interfaccia tra noi e il mondo, tra il soggettivo e l’oggettivo. Anche James Bruner segue questo filone nella “battaglia per la percezione” e contribuisce alla nascita del movimento “New Look on Perception” che si opponeva alla concezione del significato come rivestimento di un nucleo sensoriale: l’organismo non coglie tutti gli aspetti della realtà in modo passivo, ma seleziona costantemente quali aspetti fare propri, in base ai propri scopi o bisogni. 16. Embodiment e scienze cognitive post-classiche La visione computazionale della mente, che la considera un programma e quindi disincorporata, ha avuto un dominio incontrastato nella scienza cognitiva del secondo ‘900. In contrapposizione a questa, a partire dagli anni ’80, si è affermato il paradigma dell’embodiment, poi articolatosi negli approcci della 4E Cognition (embodied, embedded, enacted, extended). Secondo quest’ottica, alcuni processi cognitivi sono stati “disegnati” per funzionare solo “in tandem” con certe strutture ambientali. Inoltre, le menti riflettono profondamente le peculiarità dei corpi nei quali sono incarnati. Cervello corpo e mondo sono quindi connessi in un sistema. Tutti gli approcci dell’embodiment ovviamente naturalizzano la mente in una teoria neurobiologicamente fondata, affidandosi tra l’altro alle tecniche di imaging che permettono di studiare l’attività del cervello vivo. L’apertura verso il corpo (espansione verticale) e verso il mondo (espansione orizzontale) fa parlare di scienze cognitive di seconda generazione. Varela, Thompson e Rosch, negli anni ’90, formulano i fondamenti dell’approccio embodied, partendo da Marleau-Ponty e Gibson (percezione) e dal funzionalismo e pragmatismo americani (movimento). La mente è generata dal corpo nella sua interazione con l’ambiente: corpo e ambiente ne sono gli elementi costitutivi. Enfatizzando la specificazione reciproca tra mondo e percipiente, vogliono proporre un compromesso tra il realism (cognizione come scoperta di un mondo esterno già dato) e l’idealism (cognizione come proiezione di un mondo interno preesistente). Schapiro suggerisce che l’elaborazione dell’informazione inizia effettivamente nel corpo, il quale quindi può influenzare il pensiero. Questa concezione risente della robotica situata di Brooks (mobots senza pianificazione centrale, ma distribuita dimostrano come l’ambiente veicoli il comportamento). Gli elementi fondamentali dell’embodiment: • rifiuto dei principi del cognitivismo classico e della dualità mente-corpo (mente incarnata nelle strutture corporee e immersa nell’ambiente • confutazione della sequenza input sensoriale-elaborazione cognitiva-output comportamentale in favore del circolo percezione-azione • concezione distribuita della cognizione (no al cervello come elaboratore centrale) La mente umana è “ritagliata” sul corpo umano: c’è uno shift dell’enfasi teorica dalla percezione che guida l’azione a una circolarità. È l’approccio enattivo, basato su due punti: • la percezione consiste di azione guidata percettivamente • le strutture cognitive emergono da schemi sensomotori ricorrenti che consentono all’azione di essere percettivamente guidata L’enfasi sul corpo in movimento incontra quindi il paradigma sensomotorio legando percezione, cognizione e azione. Percepire è già una forma di agire, è comprendere, implicitamente, gli effetti del movimento sulla stimolazione sensoriale. Tra percezione e azione c’è quindi una relazione dinamica: l’azione modula la discriminazione percettiva e seleziona le affordances ambientali funzionali al comportamento (flusso continuo di influenze top-down e bottom-up). “Quando percepiamo, percepiamo in termini di possibilità di movimento”. Anche organismo e ambiente sono parte di un unico sistema e si influenzano reciprocamente: il cervello si modifica in base agli input provenienti dall’attività nell’ambiente, e a sua volta attraverso l’attività produce modifiche nell’ambiente (che influenzano ciò che sentiremo in futuro). Longo e Montévil: il singolo neurone non pensa, e neppure l’insieme dei neuroni lo fa, ma a pensare è il complesso formato dai neuroni, dal cervello, dal corpo e dal mondo in cui essi vivono e interagiscono (la mente non risiede nel cervello, è incorporata). Clark e Chalmers sono stati i primi a parlare di mente estesa, per indicare il ruolo dell’ambiente nel veicolare specifici compiti cognitivi (esperimento di Otto che aveva tutte le sue conoscenze su un taccuino). Come interpretare la relazione? Wilson parla di “wide realization” (realizzazione diffusa), cioè la realizzazione globale di una proprietà le cui parti non sono tutte localizzate all’interno dell’individuo che la possiede. Il mondo esterno non è un puro oggetto conoscitivo (dicotomia tradizionale), è sempre una parte costitutiva del soggetto attivo. Nel corso della vita c’è un progressivo plasmarsi del cervello in funzione dell’esperienza (“scultura”). Spesso gli strumenti di uso ricorrente diventano parte del nostro schema corporeo (modificano l’homunculus), discontinue spazialmente ma “rese me” dal coinvolgimento nelle mie azioni. Come questo corpo è esteso, anche la mente può essere concepita come un sistema funzionale che include corpo, cervello, affordances ambientali e tutte le varie forme di esternalizzazione di compiti cognitivi che abbiamo tecnologicamente inventato e prodotto. Centrali in questo senso sono le azioni epistemiche, ovvero azioni che alterano il mondo in modo da semplificare i compiti cognitivi (es. calcoli con carta e penna). Questo concetto si collega a quello di “scaffolding” di Vygotskij e Bruner: le pratiche di manipolazione esterna del mondo (es. lasciare segni nell’ambiente per alleggerire il carico della memoria) diventano elementi fondamentali per l’ottimizzazione dei percorsi funzionali nel cervello (già Hume parla di “propensione della mente a espandersi sugli oggetti esterni”). 17. Plasticità La connessione delle teorie viste sopra con le scoperte scientifiche avviene con la “rivoluzione neoplastica”. La mente, si è visto, ha due caratteristiche fondamentali: è incarnata (processi neurofisiologici) e relazionale (esperienze interpersonali). Lo sviluppo delle strutture e funzioni cerebrali dipende dall’influenza delle esperienze, in particolare quelle legate a relazioni interpersonali (le connessioni umane plasmano le connessioni nervose: biologia relazionale). Altre caratteristiche di cervello e mente sono dunque la dimensione storica e la plasticità. Come fa il cervello a organizzare informazioni e azioni? L’assunto di base è la natura non meccanica del sistema nervoso: non è un sistema reattivo input-output, ma un sistema dinamico in cui le modifiche di una parte producono modifiche in tutte le altre. Gerald Edelman riconduce questa dinamicità alla plasticità del cervello e alla degeneracy della corteccia cerebrale. In termini funzionali, non esiste “un cervello”: un cervello è sempre in interazione con l’ambiente. Strutture o circuiti corticali diversi possono svolgere la stessa funzione e questa “degeneracy” è una proprietà fondamentale dell’evoluzione, un prerequisito della selezione naturale (per cui serve una diversità genetica). La variabilità della struttura e della funzione dei cervelli dei vertebrati dipende da cambiamenti a tutti i livelli, dalla biochimica alla morfologia macroscopica. Su questo si basa la “Brain Plasticity Revolution” (fine anni ’90): il cervello si rimodella costantemente sulla base dell’esperienza (“context-sensitive”), quindi di precisi compiti, di condizioni fisiche momentanee, delle nostre conoscenze, delle affordances ambientali e degli stati interni. In questo modo, si dota di enormi riserve di informazioni culturalmente specifiche. Alla nascita, il cervello è cablato dall’evoluzione in componenti e circuiti funzionali specifici, i quali sono però altamente capaci di modificarsi in base all’interazione di diverse regioni funzionali, in un continuo bilanciamento di influenze top-down e bottom-up. L’apprendimento è il rimodellamento continuo dei percorsi cerebrali e il loro “riciclaggio” in funzione di obiettivi diversi. Il cervello si modifica per tutta la vita dell’individuo (anche se c’è un “periodo critico”) con l’esperienza e l’apprendimento, ma anche per cause patologiche e i connessi fenomeni “riparativi” (es. vicarianza). Il cervello è un work-in-progress, è un organo dall’architettura aperta, fondata sulla causazione circolare tra percezione e azione, tra corpo e funzioni cognitive superiori. La condizione di base della conoscenza è la creatività, una capacità operativa non determinata da concetti, ma basata sulla connessione tra conoscere e “sentire col corpo”. 18. Dai neuroni mirror alla “conoscenza motoria” Come visto, a partire dagli anni ’80 la ricerca neurobiologica ha rifiutato la concezione della mente come “sandwich” (percezione-cognizione-azione). Il ruolo del movimento sulla cognizione viene confermato da solide basi scientifiche solo alla fine del secolo, quando Giacomo Rizzolati e i suoi collaboratori scoprono i
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