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Il motore della mente - psicologia generale - Morabito, Sintesi del corso di Psicologia Generale

Riassunto Psicologia generale, libro il motore della mente

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 03/10/2022

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Scarica Il motore della mente - psicologia generale - Morabito e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! IL MOTORE DELLA MENTE Il modello motorio della mente Il paradigma motorio è un modello di mente che si contrappone alla concezione tradizionale della mente che ha caratterizzato la filosofia moderna e che è stata alla base delle scienze cognitive del Novecento. Un paradigma scientifico è considerato essenzialmente una concezione del mondo, un insieme di orientamenti teorici, assunzioni metafisiche e procedure sperimentali condivisi da una comunità scientifica in un dato momento. Dunque il paradigma può essere inteso come un quadro di riferimento condiviso dagli studiosi in un determinato momento storico per studiare e spiegare un dato o un insieme di fenomeni. Dunque parlare di paradigma motorio in relazione alla mente implica un modello teorico dello sviluppo e del funzionamento del nostro apparato cognitivo basato su una concezione della mente sostanzialmente radicata nella corporeità e nelle capacità di movimento di un organismo. Il paradigma motorio è la cornice teorica di riferimento, il contesto esplicativo, di quella che può essere definita una teoria motoria della mente, una teoria per la quale non c’è una separazione sostanziale tra percezione e azione, tra afferenze sensoriali ed efferenze motorie: il cervello non è un semplice recettore di informazioni e un produttore di risposte in un organismo staccato dall’ambiente. Radicandosi nell’intersezione teorica di discipline diverse, volte allo studio del comportamento, della mente e del sistema nervoso, il nuovo approccio basato sull’azione oggi attribuisce al movimento corporeo un ruolo fondamentale e basilare nello sviluppo della cognizione e della conoscenza. Le neuroscienze cognitive definiscono, di giorno in giorno, in modo sempre più solido, con strumenti sia sperimentali che clinici, una fisiologia dell’azione in base alla quale è col corpo e le sue capacità di movimento e di azione che noi pensiamo e conosciamo. Naturalmente è un corpo non più inteso come macchina automatica di derivazione cartesiana (corpo come sistema chiuso, privo della conoscenza di sé e del mondo, generatore di risposte motorie e stimoli sensoriali), bensì come macchina biologica, costitutivamente dotato di scopi e in attiva e costruttiva interazione col proprio ambiente. In questa prospettiva teorica l’azione, piuttosto che come semplice espressione motoria dell’elaborazione sensoriale, è concepita come melodia cinetica attiva e finalizzata, come insieme strutturato di movimenti coordinati in funzione di un fine specifico. Il movimento corporeo assume dunque un ruolo fondamentale e basilare nello sviluppo della cognizione e della conoscenza. La mente è formata dai e per i movimenti, il movimento non è solo la mera esecuzione di comandi dei centri cerebrali superiori ma l’attività mentale stessa è concepita in funzione della produzione dell’azione. Pensare equivale a decidere quale movimento realizzare successivamente. La mente è intrinsecamente un sistema motorio: il pensiero, la memoria, la conoscenza, percezione, coscienza, motivazione, significato, tutte le funzioni mentali nel loro complesso, affondano le loro radici in abilità motorie costruttive specie- specifiche. Contro la concezione tradizionale di derivazione cartesiana si rivendica la matrice biologica dei fenomeni mentali, si produce una trasformazione concettuale che radica le funzioni cognitive nella biologia e nella storia, nell’esperienza vissuta e condivisa nella cultura. Il cervello è sempre più concepito come uno strumento appositamente progettato per creare relazioni sociali, per favorire i rapporti umani e la socialità, se si trova nella solitudine e nell’isolamento sociale si ammala. Il Sé non è isolato, ognuno di noi è in costante contatto con altre persone, altri sé. L’attività neurale stessa è sociale, non c’è una distinzione netta tra i livelli neurali e i livelli sociali, la dicotomia neurale o sociale è errata. Si superano così le limitazioni del meccanicismo e lo spartiacque metafisico che ha diviso per secoli il corpo dalla mente. E se l’incarnazione della mente (embodiment), basata su una concezione corporea e non proposizionale della rappresentazione, emerge dalle acquisizioni più recenti delle neuroscienze cognitive, fondamentalmente dallo studio del movimento, in questo senso oggi nel modello motorio si può forse individuare una via teorica al superamento della contrapposizione dicotomica fra meccanismo corporeo e rappresentazione mentale, fra soggetto e oggetto, fra mente e mondo. Il presupposto essenziale è una visione sistemica dell’organismo, si considera fondamentale il rapporto tra l’organismo e l’ambiente per comprendere le funzioni cognitive. Non ci sono fattori genetici che possano essere studiati indipendentemente dall’ambiente e non ci sono fattori ambientali che funzionino indipendentemente dal genoma. Dunque secondo la nuova concezione della mente e del rapporto mente-corpo, che va emergendo in modo sempre più chiaro dagli sviluppi della filosofia della mente e dai suoi raccordi teorici con le neuroscienze cognitive contemporanee, nel rapporto tra organismo e ambiente, la mente non produce solo le uscite ma anche le entrate. Il corpo non si limita ad attuare comandi motori ma contribuisce al momento stesso della pianificazione del comportamento tramite la presenza costitutiva ed essenziale delle possibilità specie- specifiche di movimento e di azione nel momento stesso della percezione. La mente viene considerata come un sistema motorio: la percezione, memoria, linguaggio, coscienza, motivazione e così via, vengono ritenute un prodotto di abilità motorie costruttive, capacità motorie attraverso le quali l’individuo costruisce sé stesso e il suo rapporto con il mondo che lo circonda, costituendo così il proprio ambiente di riferimento. Il movimento, la percezione, l’azione Alla base della concezione filosofica che si contrappone alla tradizionale c’è una prospettiva fortemente connotata in senso biologico e non meccanicistico. Mettere l’accento sull’azione vuol dire partire dall’idea che l’organismo è un essere vivente in un rapporto reciprocamente costruttivo con l’ambiente all’interno del quale nasce, si sviluppa, vive e si trova a operare, un ambiente che costantemente modifica essendone costantemente modificato. L’organismo e il cervello sono considerati macchine biologiche, in contrapposizione con l’idea di macchina classica o automatica che è stata alla base di tutto lo sviluppo della filosofia moderna col meccanicismo seicentesco. Nel tempo cambiano le metafore e le direzioni di ricerca: così, come macchina biologica, alla luce del paradigma motorio della mente, il cervello viene ad essere considerato come una sorta di anticipatore, un previsore delle possibilità motorie di un organismo nell’ambiente: la capacità e possibilità di prevedere è una funzione principale del cervello. Esso è una macchina che anticipa creando una serie di probabilità, che simula la realtà prima di agire nell’intervallo di tempo brevissimo che precede l’azione. Il cervello non è un generatore di risposte a stimoli che giungerebbero all’organismo dall’esterno, come se ci fosse una netta separazione e un rapporto fondamentalmente statico fra il soggetto e il suo mondo per cui l’ambiente invia stimolazioni al soggetto che le recepisce e poi reagisce in risposta a esse. Concepire il cervello come una macchina biologica presuppone l’idea che esso sia il frutto dell’evoluzione: l’evoluzione biologica. Ma nel caso dell’uomo anche l’evoluzione storica e culturale, in uno stretto intreccio costitutivo co-evolutivo. Con lo scopo fondamentale di predire le conseguenze dell’azione, ovvero le conseguenze dei movimenti nello spazio e delle interazioni con l’ambiente. Il cervello umano è una macchina per produrre modelli. Abbiamo bisogno di costruire utili simulazioni virtuali del mondo per usarle come strumento e abbiamo bisogno, all’interno delle simulazioni, di costruire modelli della mente altrui, perché noi primati siamo creature molto sociali. Elaborare modelli per prevedere il comportamento del prossimo è una necessità. Le neuroscienze cognitive sono quelle discipline che sostanzialmente insieme tentano di capire quali siano le basi biologiche, neurobiologiche, dei processi mentali e del comportamento, cercando di individuare i circuiti neuronali, cioè i percorsi che si definiscono nel sistema nervoso di un individuo a partire dal modo, dal tempo e dal luogo in cui nasce, e in funzione del suo concreto esperire giorno per giorno l’interazione con l’ambiente. Oggetto di studio delle neuroscienze cognitive è proprio la base neurale e celebrale del comportamento dell’individuo inteso come insieme di funzioni legate all’elaborazione dell’informazione. Il paradigma motorio, dall’interno dei diversi ambiti di ricerca che ad esso in qualche modo afferiscono, lavora dunque alla definizione di una nuova immagine dell’organismo, per lo sviluppo della quale l’oggetto di studio cruciale è rappresentato dall’azione, e contemporaneamente produce una nuova immagine dell’uomo la cui specie-specificità non va più cercata solo nella ragione, nella coscienza e nella volontà, come è generalmente avvenuto da Cartesio in poi ma va individuata prima che altrove nelle pulsioni vitali dell’organismo, nella propriocezione e nella cinestesia, nella grande e plastica capacità di muoversi in esempio sé stesso e non impara dall’esperienza. Questo concetto è stato ben presto superato, già nel Settecento, da quello di organismo. Soprattutto nello studio della mente su basi filosofiche e psicologiche, sviluppato nella cultura anglosassone già a partire dal Seicento, si rivela l’insufficienza dell’approccio cartesiano. In Gran Bretagna, la filosofia della mente ha tradizionalmente assunto le vesti dell’empirismo, a partire da Hobbes e Locke. Lo studio del modo in cui la mente opera e conosce, la logica, è infatti visto da Locke non solo come una parte essenziale del sapere, ma soprattutto come un prerequisito, una condizione preliminare allo sviluppo di qualsiasi disciplina specifica, qualsiasi scienza empiricamente fondata. La mente è concepita nel suo stato iniziale come una tabula rasa, informe, priva di qualsiasi caratteristica o contenuto, e solo successivamente essa acquista una identità individuale, a seguito dell’esperienze compiute dall’organismo nella sua interazione con l’ambiente esterno. L’esperienza dunque fornisce alla mente le idee, prima semplici e poi gradualmente sempre più complesse, aggregati di elementi semplici che Locke chiama associazione di idee. In tale ottica il contenuto mentale è ridotto ad unità discrete, semplici e acquisite dall’esterno, corrispondenti alle presunte unità elementari della sensazione. Nella formulazione lockiana abbiamo dunque un atomismo psicologico basato sul modello della fisica di Newton, in cui si suppone una relazione costante fra azione e reazione, e il meccanismo dell’associazione di idee è paragonato all’attrazione gravitazionale. Locke evita intenzionalmente di occuparsi della dimensione metafisica della mente, per indagarne esclusivamente la genesi e il funzionamento. La relazione mente/corpo viene studiata presupponendo che l’obiettivo primario dei nostri sforzi conoscitivi, o forse l’unico oggetto effettivamente intelligibile, sulla base di un approccio funzionale sia il modo in cui la conoscenza nasce e si organizza nel tempo. Nel sistema teorico di Locke la mente è solo il punto di partenza teorico, e l’attenzione è centrata sulla conoscenza, sul modo in cui questa viene progressivamente costruita dall’individuo a partire dall’esperienza e dall’educazione. Lo studio della mente va condotto nell’unico modo possibile per le nostre capacità conoscitive, ovvero in relazione alla sua funzione: l’acquisizione della conoscenza e gli elementi centrali di un simile studio sono l’organismo e le sue capacità percettive in relazione all’ambiente esterno con cui si trova a dover interagire durante la vita. Nel corso del Settecento tale teoria viene ripresa e sviluppata da Hume nel tentativo di individuare le leggi che regolano le operazioni della mente umana così come Newton le aveva progressivamente individuate per i corpi pesanti. Successivamente con Hartley, l’associazionismo si trasforma da teoria dell’intelletto e della conoscenza in teoria di tutta l’esperienza umana, diventando quasi una teoria psicologica generale. Hartley pubblica la prima opera in inglese nella quale viene usato il termine psicologia in senso moderno e in cui si espone per la prima volta una teoria psicologica che, pur mantenendo un orientamento di carattere epistemologico (=conoscenza scientifica) ed esprimendo forti preoccupazioni di tipo etico, vuole tuttavia dar conto del comportamento dell’uomo nel suo complesso. L’associazione diventa così un principio esplicativo applicabile a tutta l’esperienza umana, non più solo alla conoscenza, e l’associazionismo si trasforma da una teoria sulle condizioni di possibilità della conoscenza in una tesi centrale per spiegare il comportamento in generale. Ma la caratteristica forse più importante della teoria psicologica di Hartley è il suo essere integrata con una serie di postulati di carattere neurofisiologico: l’associazione è possibile attraverso il funzionamento del sistema nervoso. Il contatto con gli oggetti del mondo esterno provoca delle vibrazioni di piccole parti della sostanza nervosa, vibrazioni che a partire dagli organi di senso si diffondono lungo i nervi e il midollo spinale fino a giungere al cervello. Come le sensazioni associandosi generano le idee, così le vibrazioni che accompagnano le sensazioni generano qualcosa di analogo, le vibratiuncles, che accompagnano le idee. Le vibratiuncles sono una sorta di equivalente fisico delle idee, e si associano secondo una legge fisica. Hartley assume come presupposto il parallelismo psicofisico (Spinoza sostiene che fisico e psichico sono manifestazioni reciprocamente corrispondenti di una unica sostanza trascendentale) che resterà una costante di tutta la psicologia associazionistica e di tutti i maggiori sviluppi delle neuroscienze del secondo Ottocento. Il modello della mente elaborato da Hartley pone le basi di una psicologia fisiologica. Erasmus Darwin elabora la sua teoria speculativa dell’evoluzione assumendo e generalizzando il pensiero di Hartley: in primo luogo rispetto al meccanismo dell’associazione come base per il formarsi sia di idee e di abitudini comportamentali, sia, parallelamente, di modifiche strutturali e fisiologiche nel sistema nervoso correlate all’esperienza individuale; in secondo luogo rispetto alla ereditarietà di queste modifiche. Da tali presupposti, egli sviluppa una teoria generale del cambiamento dell’individuo e, per ereditarietà, della specie. Le modifiche sistema nervoso, che nel modello di Hartley erano legate esclusivamente all’apprendimento individuale, diventano così una forma esplicita di ereditarietà, e l’associazionismo diventa una delle premesse concettuali della teoria dell’evoluzione (come ipotesi sul cambiamento progressivo e ordinato della specie attraverso l’esperienza cumulativa dell’individuo). Mill parte dal presupposto teorico secondo il quale tutte le esperienze dell’individuo si risolvono in sensazioni e idee, ma a differenza di Hartley, circoscrive la propria analisi alle capacità mentali: non si occupa del comportamento in senso lato ma ricerca le leggi psicologiche che governano l’operato della mente umana. Egli evita qualsiasi considerazione di carattere fisiologico e qualsiasi estensione speculativa all’intero regno animale. Il suo concetto di associazione è alla base di una psicologia astratta e descrittiva puramente meccanicistica, che non è in grado di spiegare il nuovo, la capacità mentale di produrre, con le idee complesse, qualcosa che non è direttamente riconducibile esclusivamente agli elementi semplici di cui è composto. A metà Ottocento Stuart Mill proporrà una versione più articolata delle dinamiche associative alla luce del concetto di chimica mentale, ma soprattutto Bain produrrà un modello completo della mente e del comportamento umano, un modello che reintroduce nell’ambito psicologico la necessità di considerare il corrispettivo fisico dei processi mentali, il sistema nervoso e soprattutto la sua capacità di movimento. Con Bain l’associazionismo diventa infatti sensomotorio, i sensi e il movimento sono i due termini ultimi ai quali ricondurre l’intera attività mentale, la gestione del comportamento umano e animale nel suo complesso. Alexander Bain e la valenza propulsiva del movimento per lo sviluppo della mente La sua teoria psicologica rappresenta in qualche modo il massimo risultato teorico e nello stesso tempo l’inizio del superamento del paradigma associazionistico, dello slittamento delle indagini sul cervello e sulla mente dalla filosofia allo spazio di azione di altre discipline: dalla psicologia come scienza autonoma alla neurofisiologia sperimentale, alla biologia e ai primi studi comparati del comportamento animale. L’associazionismo di Bain diventa anzi la cornice teorica di riferimento, il paradigma, di queste discipline nuove o in fase di rinnovamento, proprio grazie alla sistematizzazione rigorosa e ai molteplici collegamenti teorici e interdisciplinari che Bain opera nella sua analisi. L’assunto di base del suo concetto è la convinzione di derivazione frenologica (=organologia, dottrina secondo la quale il cervello è l’organo della mente e in esso le diverse funzioni psichiche hanno una ben definita localizzazione), che il cervello sia l’organo della mente, o meglio sia fra gli organi fisici correlati ai processi mentali, quello ad essi più intimamente connesso. Dalla ferma supposizione del collegamento essenziale tra cervello e mente nella vita dell’uomo, Bain deduce la necessità epistemologica di impostare lo studio in modo interdisciplinare, in un luogo teorico di intersezione fra la psicologia e la fisiologia. Bain, come Hartley, assume una posizione parallelistica ed evita di considerare cartesianamente corpo e mente come due sostanze. Gli argomenti in favore delle due sostanze hanno perso qualsiasi validità; una unica sostanza, con due insiemi di proprietà, quelle fisiche e quelle mentali, una unità a due facce, basterebbe a soddisfare tutte le esigenze del caso. Bain limitandosi alla constatazione della stretta connessione fra fisico e psichico, preferisce dirigere la propria analisi direttamente sulle singole componenti del binomio cervello-mente. Dunque l’uomo è una totalità integrata, una sola sostanza con due ordini diversi di proprietà, che occorre studiare con scienze diverse, con criteri e metodi diversi ma per quanto possibili coerenti ed omogenei sul piano epistemologico. Per Bain non è la sensazione il primum movens della genesi della conoscenza e di tutto il funzionamento psichico: prima di essa, Bain ritiene vi sia il movimento. La componente motoria del sistema nervoso è prioritaria rispetto a qualsiasi forma di sviluppo psichico e comportamentale. L’organismo opera istintivamente una serie di movimenti causali per tentativi ed errori che lo pongono in interazione col suo ambiente e dunque gli consentono di esperire sensazioni diverse. Poi fra movimenti casuali e sensazioni di piacere/dolore si sviluppa una serie di connessioni acquisite che sono alla base della conoscenza, dell’esperienza integrata dell’individuo, del comportamento volontario. È dunque il movimento l’elemento esplicativo primario del comportamento, le vie efferenti e afferenti del sistema nervoso sono il corrispettivo fisico dell’attività psichica. Bain fa riferimento in modo esplicito e pervasivo agli sviluppi delle conoscenze biologiche, li elabora e li dilata e adatta all’interno di un modello psicologico e filosofico della mente umana e dello sviluppo della conoscenza. Movimenti casuali di esplorazione dell’ambiente e sensazioni piacevoli o spiacevoli, positive o negative sul piano adattivo, sono dunque gli elementi di base del comportamento umano, sono i mattoni a partire dai quali si sviluppano la conoscenza, la volontà e fenomeni comportamentali sempre più complessi, che hanno origine dallo stesso meccanismo di base, fino alla morale e ai rapporti sociali. Si individua quindi un meccanismo unitario per la spiegazione dell’uomo come totalità psico-fisica, come unità funzionale nella quale i processi fisici e quelli psichici si integrano in funzione adattiva. Il sistema teorico di Bain è costruito attorno ad una nozione centrale, quella di una mente attiva e dinamica vista come il corrispettivo psichico del funzionamento armonioso, adattivo, di un sistema nervoso dalle componenti motorie, sensoriali e associative. La dimensione biologica, adattiva, è di importanza fondamentale per la comprensione scientifica del vivente in generale, e, nello specifico, dell’uomo. La nostra intelligenza può essere considerata come un’enorme espansione della gamma di operazioni che hanno luogo secondo l’autoconservazione. Nella capacità di associazione è la chiave della dimensione biologica della psiche. Nel sistema teorico di Bain confluiscono istanze diverse provenienti da ambiti disciplinari eterogenei. L’associazione è il paradigma, una associazione intesa come principio operativo di base della mente, come essenza stessa di una mente concepita in chiave dinamica e adattiva. Dunque per studiare l’uomo scientificamente, occorre una scienza altamente integrata, frutto di un approccio interdisciplinare. Corpo e mente vanno indagati in funzione dello sviluppo delle conoscenze fisiologiche e psicologiche. Dunque l’unica supposizione sostenibile è che mentale e fisico procedano insieme, come gemelli indivisi. Quando parliamo di una causa mentale, abbiamo sempre una causa duplice, l’effetto prodotto non è l’effetto della sola mente ma della mente in compagnia del corpo. Non è la mente che agisce sul corpo o il corpo che agisce sulla mente ma bensì mente-corpo che dà origine alle manifestazioni di mente-corpo. Va sottolineato che il rapporto tra fisico e mentale, nell’opinione di Bain non può essere ridotto e limitato al cervello. Bain colloca il corpo e le sue capacità di movimento al cuore dell’indagine sulla mente. Piacere e dolore sono senza alcun dubbio stati psichici e possono essere studiati o osservati puramente in questo senso. Ma se desideriamo formularne una teoria, molto presto ci troviamo costretti a rivolgere la nostra attenzione alle loro cause o condizioni fisiche. Con Bain lo studio delle funzioni mentali va impostato all’interno di un theorethical frame sostanzialmente sensomotorio. I limiti della macchina, la specificità dell’organismo L’elemento propulsivo del grande sviluppo nel corso del XIX secolo fu essenzialmente la scoperta della differenziazione funzionale fra elementi del sistema nervoso motori e sensoriali. Già Cartesio nel Seicento aveva in qualche modo teorizzato il concetto di riflesso, ipotizzando un percorso nervoso in tre tappe: -elemento iniziale o afferente -elaborazione centrale ad opera della sostanza nervosa -elemento finale o efferente Il contatto del fuoco con la pelle, dà l’avvio ad un processo di elaborazione nervosa, la sensazione dolorosa e la necessità di porvi fine fa produrre all’organismo una risposta motoria immediata, la ritrazione dalla fiamma. Secondo Cartesio questo meccanismo collegava un elemento sensoriale in entrata e un elemento motorio in uscita, caratterizzando in modo meccanicistico il comportamento. Tale ipotesi venne formulata per la prima volta nel De Homine (1662) e nei decenni successivi fu esplorata e sviluppata al fine di spiegare organico a una modifica del suo rapporto con l’ambiente. Più un organismo è complesso, più modi di interazione esso ha con l’ambiente, più frequentemente avrà bisogno di riadattare le sue relazioni dinamiche ambientali. La capacità di aggiustamento delle reazioni dell’individuo in funzione dell’ambiente fanno dell’essere umano l’animale di maggior successo evolutivo sulla superficie della Terra consentendogli di prevedere il futuro sulla base della sua memoria passata. Il cervello, basato sui recettori della distanza e impegnato in una attività anticipatoria e di previsione, è dunque l’organo per eccellenza del riaggiustamento e del perfezionamento delle reazioni nervose dell’animale nel suo complesso con la funzione di estendere e potenziare i suoi vantaggi nell’interazione con l’ambiente. Le nascenti neuroscienze italiane contribuiscono al rapido sviluppo delle conoscenze sul nesso tra comportamento e sistema nervoso, entrando a pieno titolo nel dibattito internazionale sulla natura localizzata o distribuita delle funzioni cerebrali e sulle relative ipotesi di localizzazione cerebrale delle funzioni psichiche e della loro natura. Tamburini ha proposto il modello dell’ingranaggio, dapprima in via teoria e successivamente ancorato alle indagini sperimentali di Luciani. Nel 1885 Luciani e Seppilli propongono un modello che riconduce le funzioni psichiche e più in generale l’intero comportamento umano a circuiti cerebrali ben definiti e al tempo stesso strettamente interconnessi tra loro. Luciani e Tamburini fra il 1876 e il 1879 compiono una complessa serie di ricerche sperimentali sulle localizzazioni cerebrali delle funzioni cognitive, prima fra tutte il linguaggio. Tamburini considera impossibile ipotizzare un organo centrale unico del linguaggio: luoghi corticali diversi vi presiedono, in corrispondenza con i diversi momenti funzionali che lo costituiscono in quanto funzione complessa. È questa la base teorica del cosiddetto modello dell’ingranaggio. Il presupposto teorico di una organizzazione funzionale della mente strettamente legata alla natura e al funzionamento del sistema nervoso, per cui la sensazione e il movimento sono le due funzioni di base e per associazione di unità minime di carattere sensoriale e/o motorio si producono tutte le funzioni comportamentali e cognitive trova nel lavoro sperimentale di Tamburini e Luciani un elemento nuovo che integra il modo di guardare alle funzioni sensoriali e motorie del cervello modificandolo. Tamburini parlando di localizzazione e di metodologie di stimolazione elettrica della corteccia o di ablazione corticale sul cervello di cani e scimmie si riferisce a “The functions of the brain” di Ferrier, la prima cartografia del cervello sistematica, coerente e sperimentalmente fondata. Da queste ricerche emerge la concezione dell’organo cerebrale come un complesso sistema funzionale integrato di cui fanno parte anche le masse sottocorticali. Il cervello appare anche peculiarmente integrato rispetto alla tradizionale netta differenziazione funzionale fra centri sensoriali e motori. In seguito all’estirpazione totale o parziale della zona eccitabile, infatti, si rilevano costantemente effetti paralitici, non solo di moto ma anche di senso cutaneo e muscolare, e all’ablazione di una data area corticale, per esempio quella che stimolata elettricamente produce reazioni circoscritte ad un arto, non seguono fenomeni di deficienza altrettanto circoscritti ma effetti paralitici sensorio-motori diffusi anche ad altre parti dello stesso emilato del corpo, sebbene meno intensi e accentuati che nell’arto direttamente controllato dell’area corticale asportata. Esiste una sorta di ingranaggio, una irradiazione dei diversi centri verso quelli limitrofi e una parziale sovrapposizione di essi. Ma soprattutto si rileva che la cosiddetta zona eccitabile più che un’area motoria debba essere considerata sfera-sensorio-motrice, poiché centri specifici collegati alla sensibilità cutanea e muscolare si trovano frammisti a centri specificamente motori e con essi sono strettamente connessi sia anatomicamente che funzionalmente. Nel 1885 Luciani e Seppilli propongono la versione matura del modello dell’ingranaggio presentando una ricca casistica comparata di concomitanza costante tra fenomeni sensoriali e motori a seguito di disturbi o lesioni della sfera sensorio-motrice, la quale, nel suo complesso, comprende il lobo frontale fino al solco crociato e la metà anteriore del lobo parietale, con irradiazioni che giungono fino alla porzione posteriore dei lobi parietali e ingranaggi con i centri dei sensi specifici. Si riflette dunque sulla necessità di riconsiderare la concezione classica della percezione e del movimento in funzione di un modello integrato che superi l’idea che l’elemento sensoriale semplicemente sia seguito da quello motorio. Théodule Ribot: ci sono elementi di natura motoria in tutte le manifestazioni della coscienza Nel 1914 Ribot introduce le sue riflessioni sul tema del riconoscimento del fatto che fino a tempi recenti, lo studio dei movimenti e del loro ruolo nella vita della mente, pur non essendo completamente ignorato, non è stato oggetto di grande attenzione. Egli tuttavia riconosce che il più importante progresso in tutta la psicologia degli ultimi anni è il valore crescente che si attribuisce al movimento per la spiegazione dei processi mentali. Nella sua analisi dello sviluppo delle funzioni mentali, l’elemento motorio è presupposto e implicato già in qualsiasi tipo di sensazione. Riprendendo e sviluppando il ragionamento di Bain, Ribot organizza le articolazioni teoriche della sua analisi in un contesto profondamente darwiniano e arricchito delle più recenti acquisizioni fisiologiche, filosofiche e psicologiche. Alla base c’è la cinestesia nella sua complessità e il suo elemento fondante, l’immagine motoria intesa in un duplice senso: psicologico e fisiologico. Dal primo punto di vista essa è la reviviscenza provocata di sensazioni cinestetiche semplici o complesse provate in precedenza. Dal punto di vista fisiologico è l’eccitazione delle zone corticali alle quali afferiscono le sensazioni del movimento. Ribot va contro quella che egli definisce l’illusione cognitiva della tendenza intellettualistica nello studio della mente, secondo la quale tutto ciò che è conoscenza sarebbe cognitivo. Secondo Ribot ogni stato intellettuale (percezioni, immagini, concetti) contiene elementi cinestetici più stabili dei semplici elementi sensoriali. Ribot concepisce il fattore motorio come lo scheletro dell’intero sistema cognitivo. È infatti evidente la componente motoria in qualsiasi analisi della sensazione. In tutte le nostre percezioni vi è uno scheletro motorio. In questo modo i movimenti diventano il tessuto di sostegno della vita psichica nel suo complesso, l’analogo del tessuto connettivo nella costituzione degli organi. E anche nell’analisi della memoria e dei ricordi, le rappresentazioni motorie hanno un evidente ruolo fondamentale nel loro costitutivo legarsi ad esperienze emozionali. È inevitabile entrare in una psicologia dei movimenti. Pierre Janet: il pensiero è un duplicato interiore dell’azione Janet sviluppando le linee teoriche della riflessione di Ribot approda ad una concezione dei rapporti mente corpo che echeggia la critica alla tendenza intellettualistica formulata dal suo predecessore e la approfondisce con straordinaria chiarezza, identificando nell’azione il vero soggetto psicologico sulla base di una sorta di ribaltamento del dualismo ontologico ed epistemologico cartesiano. Janet teorizza dunque la necessità di sostituire alla psicologia introspettiva una psicologia dell’azione, concordando col pensiero di Bain, secondo il quale l’organica connessione tra cervello e mente si riferisce ad un unico fenomeno complesso, che visto dall’esterno è il cervello, considerato dall’interno è la mente. Ciò richiede una riconsiderazione dei rapporti tra discipline scientifiche. Psicologia e fisiologia sono legate da rapporti particolari, collocandosi in prospettive diverse, fanno descrizioni parallele di una sola e identica cosa. Il corpo tutto, nelle sue capacità sensomotorie, genera i complessi fenomeni del comportamento intelligente e qualsiasi capacità cognitiva, è necessario un approccio alla conoscenza e ai fenomeni mentali nel loro complesso che spinga progressivamente l’analisi, a partire dal giudizio, verso la percezione, verso la sensazione, all’affezione (sentire senza sapere di sentire) e alla cinestesia. Per le sensazioni cinestetiche è corretto dire, come forse per ogni altro fenomeno mentale, che la sensazione e il movimento non sono altro che una unica e identica cosa che si presenta sotto aspetti differenti. Ogni eccitazione dei sensi porta una disposizione al movimento che a volte si traduce in movimento effettivo. Queste riflessioni sono in perfetta sintonia teorica con l’analisi degli psicologi funzionalisti. Il movimento funzionalistico mira ad andare oltre le classiche rappresentazioni intellettualistiche della mente, alla ricerca dei suoi fondamenti biologici. Tra gli esponenti più rilevanti del movimento abbiamo Dewey che riflette sulla necessità di riconoscere una sorta di circolarità fra sensazione e movimento. Il suo pensiero psicologico si sviluppa in stretto riferimento a idee e modelli teorici proposti per la spiegazione della mente e del comportamento nel primo Novecento. Idee e modelli che spesso sono stati trascurati. Il suo modello della mente individua le radici profonde nell’interazione dell’organismo col suo ambiente, nella capacità di compiere azioni coronate da successo in modo dinamico e plastico in un ambiente che è a sua volta in continuo cambiamento. Dewey, tra pragmatismo, funzionalismo e biologia darwiniana Sia il pragmatismo che la psicologia dei funzionalisti statunitensi a cavallo tra ‘800 e ‘900 enfatizzano una concezione attiva e costruttiva della mente che guarda ai pensieri come regole per l’azione. James, basandosi sul pensiero di Darwin sottolinea la natura dinamica della mente come ovvia ricaduta della natura dinamica del meccanismo dell’evoluzione intesa come prodotto della selezione ambientale su un succedersi senza sosta di variazioni casuali: mente e mondo si sono evoluti insieme. Mente e natura, organismo e ambiente si pongono come elementi funzionali dell’interazione costitutiva e dinamica e del continuo cambiamento che caratterizzano il dominio biologico, il vivente e le sue condizioni di possibilità. Nel pensiero di Darwin uno dei presupposti teorici fondanti è la relazioni di reciprocità tra organismo e ambiente: entrambi visti in chiave dinamica come processi caratterizzati da bidirezionalità e da una dimensione essenzialmente temporale: storica e contingente (Darwin nei suoi studi sui lombrichi ha mostrato brillantemente l’altro lato della medaglia: l’influenza degli organismi sul loro ambiente, cioè la dipendenza dell’ambiente dalla loro attività). Dewey afferma che l’idea di ambiente è una necessità per l’idea dell’organismo, e con la concezione dell’ambiente nasce l’impossibilità di considerare la vita psichica come una cosa individuale, isolata che si sviluppa nel vuoto. In questo stile di pensiero sono chiaramente individuabili i forti influssi di una tradizione filosofica che ha profondamente riflettuto sui concetti di essere vivente e di natura, organismo e ambiente: è la linea di pensiero romantica, quel ramo che assume l’idea si natura come sistema dinamico e integrato. Il concetto di flusso temporale e storico dei fenomeni, centrale nel pensiero di Darwin, nei primi anni del ‘900 approda significativamente al concetto di Umwelt: l’integrazione organismo-ambiente è la chiave interpretativa attraverso la quale guardare ai fenomeni naturali per comprendere la specificità. In questa ottica, il dato primario è il processo in sé stesso, l’interazione dinamica e adattiva, che l’organismo è in grado di intrattenere con un ambiente che anch’esso è in continuo cambiamento. Una interazione che parte dal riflesso e conduce tramite un processo di articolazione all’azione e al movimento finalizzato che esprime intelligenza e funzioni mentali in senso lato. Dewey sul meccanismo neurobiologico del comportamento adattivo riflette sul concetto di arco riflesso, di stampo originariamente cartesiano e dunque cartesianamente limitato al dominio del corpo, della res extensa che meccanicamente risponde alle sollecitazioni ambientali, fino a metterne in luce una profonda complessità fisiologicamente e psicologicamente fondata: il tratto distintivo che differenzia una macchina da un organismo. Assumendo come presupposto teorico il concetto meccanicistico e cartesiano di riflesso occorrerà rilevare i limiti epistemologici invalicabili che non consentono un utile uso esplicativo per la comprensione di tutte le capacità comportamentali degli organismi: abbiamo un circuito, non un arco o segmento spezzato, tale circuito è meglio definito come organico che riflesso, perché la risposta motoria determina lo stimolo, proprio come lo stimolo sensoriale determina il movimento. È proprio la dimensione psicologica del comportamento che porta con sé la necessità di superare la classica distinzione/contrapposizione tra fisico e psichico, fra corpo-materia che riceve stimoli e anima-mente che produce risposte. In natura non si dà alcuna drastica distinzione tra organismo e ambiente, mente e corpo, stimolo e risposta, sensazione e movimento. La concezione ordinaria della teoria dell’arco riflesso, invece di essere un caso di pura scienza, è una sopravvivenza del dualismo metafisico, formulato per la prima volta da Platone, secondo cui la sensazione è un abitante ambiguo sulla terra di confine dell’anima e del corpo, l’idea è puramente psichica e l’atto puramente fisico. Guardare al vivente in chiave biologica e adattiva, comporta un’enfasi particolare sulla funzione, sui complessi modi in cui struttura e funzione si implicano per la produzione di un comportamento intelligente, ovvero un insieme integrato e coerente di azioni finalizzate, tramite il gioco dialettico di ciò che tradizionalmente chiamiamo stimolo e risposta. Lo snodo teorico fondamentale per comprendere il comportamento e la mente è dunque proprio il concetto di atto o azione in una prospettiva di analisi che lega intimamente percezione e azione. L’arco riflesso dunque non esiste in natura, non soggiace ad alcun comportamento adattivo, quindi finalizzato e in senso lato intelligente, è appropriato riconoscere invece un della fisiologia tradizionale, secondo i due, è nella concezione dell’attività riflessa come un insieme di archi riflessi aperti, privi del loro risultato finale conseguito tramite un processo circolare di autocorrezione sensomotoria. In questo senso la fisiologia dell’attività di Anochin e Bernstein si sviluppa in direzione di una sintesi fra neurofisiologia, neuropsicologia e cibernetica. Bernstein oggi considerato una delle figure più importanti delle neuroscienze del movimento ma generalmente trascurato dalla scienza occidentale e deliberatamente oscurato dalla scienza sovietica di regime (venne espulso dall’accademia delle scienze russa per le sue posizioni critiche nei confronti di Pavlov) giunge ad un vero e proprio superamento del concetto di riflesso così come esso è stato classicamente definito nella psicofisiologia pavloviana. Dedicandosi allo studio clinico e sperimentale del nesso tra movimento, cervello e mente, fin dagli anni Venti Bernstein studia il movimento per capire il cervello e la mente, mentre al contempo usa la sua comprensione del cervello per sviluppare la conoscenza del movimento nei meccanismi più intimi. È proprio l’enfasi sull’interazione del cervello (più specificatamente il sistema motorio) con l’ambiente naturale e culturale ad essere la caratteristica più evidente del suo lavoro. Analizzando l’organizzazione di atti motori orientati ad uno scopo Bernstein giunge alla conclusione che la coordinazione motoria, l’organizzazione stessa dell’apparato motorio e della capacità di controllarlo da parte dei sistemi biologici, richiedano il necessario riconoscimento del fatto che l’arco riflesso non può esistere e l’organizzazione del movimento richiede anelli riflessi. L’organizzazione del controllo degli apparati motori, tipica dei sistemi biologici, implica afferenza, efferenza, percezione e azione. Nell’azione un’intera sequenza di movimenti che insieme risolvono il problema motorio, tutti i movimenti sono collegati tra loro dal significato del problema. Dalla combinazione teorica di evoluzionismo darwiniano e psicologia dell’attività, biomeccanica e neuroscienze cognitive, si delinea in Bernstein fin dalla fine degli anni Venti una concezione del rapporto tra organismo e ambiente secondo la quale l’attività biologica implica la conoscenza del mondo circostante attraverso l’azione e la regolazione dell’azione al suo interno. Ciò conduce alla conoscenza attraverso l’azione e la revisione attraverso la pratica. In funzione del fatto che i movimenti non devono essere visti come catene di dettagli, piuttosto come strutturati in dettagli; sono insiemi strutturali, caratterizzati allo stesso tempo da un alto grado di differenziazione degli elementi e da differenze nelle relazioni tra le parti, Bernstein definisce i termini fondamentali di una critica a Pavlov e al suo concetto di riflesso: Pavlov non ha compreso il cervello perché non ne ha capito la funzione più importante, ovvero l’organizzazione del movimento. E la comprensione profonda della struttura del movimento va di pari passo con la scoperta dei complessi meccanismi del cervello, per i quali uno stesso scopo è raggiungibile per molte vie diverse. Nel controllo motorio si dà un flusso circolare di informazione allo scopo di gestire la coordinazione complessiva degli organi di movimento. I movimenti hanno una struttura funzionale, non si ripetono mai identici ma si ripete lo schema in funzione dell’obbiettivo. Partendo dal riflesso e superandolo in nome della complessità e dell’integrazione, assumendo il movimento, anzi l’azione, come nuova pietra angolare per guardare alla mente in termini naturalistici ed evolutivi, Bernstein invoca la necessità di andare oltre la fisiologia della reazione (di stampo pavloviano) per sviluppare una fisiologia e una psicologia dell’azione: i movimenti sono il mezzo con cui l’organismo agisce attivamente con l’ambiente in qualsiasi modo sia necessario. La natura plastica del comportamento nelle sue valenze adattive poggia sulla capacità dell’organismo di monitorare l’ambiente nel suo continuo cambiare e di regolare di conseguenza la propria interazione con esso: ciò rende inadeguato un presupposto teorico meramente associazionistico per la spiegazione di comportamenti plastici e funzioni psichiche superiori. Il movimento volontario è un processo complesso: esso parte da una percezione dell’ambiente che fin dall’inizio si pone nei termini di un problema motorio e approda alla produzione di un movimento specifico, integrato e finalizzato, volontario e individuale, basato tanto sulla componente cognitiva ed esperienziale quanto sulla complessità del sistema nervoso e la relativa plasticità del suo funzionamento. Azione e conoscenza: un cervello privo di funzioni motorie non potrebbe pensare Lo stretto intreccio tra motricità e pensiero è dunque chiaro dal punto di vista del modo in cui la mente funziona e organizza il comportamento. La psicologia dello sviluppo fin da Piaget ha infatti chiaramente dimostrato come l’embrione sia innanzitutto un organismo motorio, prima ancora di essere un organismo sensoriale, nella fase embrionale, in quella fetale e in quella della prima infanzia l’azione precede la sensazione e non il contrario, vengono compiuti movimenti riflessi e poi se ne ha percezione. La motricità è un fattore fondamentale nello sviluppo infantile: è attraverso l’osservazione e l’azione motoria che il bambino compie una serie di apprendimenti concreti che, man mano, si trasformano in concetti astratti. La mente umana si sviluppa per tappe basate sulla concretezza delle azioni motorie e delle percezioni. Per Piaget la cognizione è fondata sull’attività concreta dell’intero organismo, nell’accoppiamento sensomotorio (assimilazione e accomodamento) fra mente, corpo e ambiente. Piaget sottolinea infatti con forza la necessitò che biologia ed evoluzione, costruttivismo e storia, guidino la ricerca sulla mente. Piaget dice che ogni tipi di conoscenza è legata ad una azione e conoscere un oggetto o avvenimento significa utilizzarli, assimilandoli a degli schemi d’azione. Le scienze del recupero funzionale che perseguono la riabilitazione neurocognitiva hanno parallelamente sviluppato le medesime tematiche. Feldenkrais che si autodefinisce educatore somatico teorizzando l’esistenza di tre forme di apprendimento: apprendimento di una abilità, apprendimento che espande conoscenza e comprensione, apprendimento che si sviluppa con la crescita fisica senza ricevere istruzioni. Quest’ultimo orientato al cosa più che al come, non produce mai in pratica alcun insuccesso, crea ordine e auto-organizzazione, nella misura in cui la coerenza di una azione è riconosciuta dal bambino nella percezione totale di essa e nelle sinergie necessarie. Il senso cinestesico attraverso il quale si percepisce il movimento muscolare, il peso, la posizione nello spazio ecc., è dunque la base neurobiologica di un processo generale di apprendimento rapido, non dipendente da ripetizione meccanica ed efficace a molti livelli, senza istruzioni dirette e mediante un processo di auto-organizzazione. Ogni sensazione o percezione avviene su uno sfondo di attività motoria, non esistono impulsi sensoriali isolati e qualunque impressione, anche se prodotta artificialmente, è quanto meno mista a sensazioni cinestesiche: un cervello privo di funzioni motorie non potrebbe pensare. Poincaré scriveva che un essere immobile non avrebbe potuto acquisire la nozione di spazio perché non potendo correggere con i suoi movimenti gli effetti del cambiamento di posizione degli oggetti esterni, non avrebbe avuto alcuna ragione di distinguerli dai cambiamenti di stato. Senza il senso muscolare non basterebbero vista e tatto alla definizione dello spazio. Localizzare un oggetto vuol dire semplicemente rappresentarsi i movimenti che bisognerebbe fare per raggiungerlo. Agire nell’ambiente dunque produce conoscenza e al tempo stesso la presuppone; e l’incarnazione del cogito si radica nella capacità del corpo di anticipare, immaginare, simulare, prevedere il movimento corporeo effettivo e le sue conseguenze. L’assunto teorico di base è la natura costitutivamente temporale e materiale dell’esperienza, l’interazione reciprocamente formatrice fra organismo e ambiente. L’esperienza e la realtà stessa sono intese come costruzioni anticipative, e ciò in quanto portato adattivo della natura essenzialmente attiva di un soggetto che determina egli stesso gli oggetti di una conoscenza possibile. Il cervello come macchina proattiva Percezione e cognizione sono dunque funzioni fondamentalmente predittive in quanto consentono di anticipare le conseguenze di azioni effettive o potenziali. L’origine concettuale della psicologia della Gestalt era nel tentativo di opporre all’orientamento strutturalista elaborato da Wundt una concezione diversa della psicologia come scienza naturale; tutta l’elaborazione teorica dei gestaltisti fu infatti un vero e proprio tentativo di ripensare la disciplina tanto sotto il profilo metodologico quanto sotto quello dei presupposti teorici di fondo. Il loro ambizioso programma era quello di ricostruire la teoria psicologica, come disciplina tanto filosofica quanto empirica, in modo che essa potesse offrire una visione del mondo sintetica. Attenti a non correre il rischio di una regressione al pensiero magico-animistico, la condizione per cui all’uomo primitivo ogni oggetto rivela la propria essenza ed indica l’uso che egli deve farne: un frutto dice mangiami, l’acqua dice bevimi, essi infatti con una posizione teorica altamente sofisticata sul piano epistemologico, sottolineano la necessità di mantenere il valore fondante del metodo sperimentale pur sostenendo la priorità di una dimensione fenomenica e l’esigenza di un approccio olistico allo scopo di superare il dualismo mente/natura e di eliminare la distinzione fra sensazione e percezione, vissuto e realtà esterna. Ne deriva una nuova epistemologia mirata all’individuazione di un ordine non dietro, ma dentro il flusso dell’esperienza. Essi criticano proprio la nozione di alterità dell’ambiente rispetto alla mente: a ciascun organismo inerisce un ambiente comportamentale, e ciascuno è il centro del proprio ambiente, insieme di elementi agenti e reagenti che ne orientano il comportamento in varie direzioni: gli effetti non dipendono soltanto da date cause, ma anche dalle caratteristiche del sistema in cui hanno luogo. Sulla base della psicologia della Gestalt si innesta la prospettiva ecologica di Gibson, per il quale il mondo che percepiamo non è quello della fisica o della geometria, in cui lo spazio è una astrazione e la posizione di un oggetto è specificata dalle coordinate di assi scelti nello spazio isotropico; l’ambiente è l’ecosistema in cui l’organismo è immerso. A partire dagli anni ’60 del Novecento Gibson sviluppa una critica dell’analisi classica della percezione che distingue i dati sensibili dal significato che questi riceverebbero da un atto intellettivo: la percezione è invece un processo attivo che dipende dall’interazione organismo/ambiente ed è sempre realizzato fondamentalmente in relazione alla posizione del corpo del percipiente e alle sue attività. La teoria ecologica della percezione postula quindi che l’atto percettivo raccolga direttamente le informazioni, senza implicare un coinvolgimento della coscienza o dei meccanismi di elaborazione degli stimoli. Gibson propone di ripensare criticamente la percezione e l’intero edificio della cognizione nella prospettiva del realismo diretto e dell’affordance: un’affordance taglia trasversalmente la dicotomia del soggettivo e dell’oggettivo e anzi ci aiuta a comprenderne l’inadeguatezza. Un’affordance si indirizza in entrambe le direzioni, in quella dell’ambiente e in quella dell’osservatore. La concezione secondo cui esiste una interfaccia tra noi e il mondo è inutile e inintelligibile, in questa ottica non ha senso separare percezione e azione. Dunque in questa prospettiva il cervello non è un semplice dispositivo di produzione di risposte a stimoli e non si limita a combinare passivamente sensazioni e ad organizzare percezioni per trasformazioni successive; parte invece da quello che si potrebbe definire un vocabolario interno di azioni che ne fanno un simulatore capace di valutare le interazioni tra azioni finalizzate e loro conseguenze. Questa concezione proiettiva del sistema nervoso come generatore di ipotesi dalla complessità dinamica spiega il carattere plastico, flessibile e adattabile dei meccanismi biologici, nel contesto di un approccio ecologico alla mente e al comportamento. Su questa linea di pensiero si innesta anche il contributo di Bruner a quella che ha definito come una vera e propria battaglia per la percezione, contribuendo al formare il movimento New Look On Perception. Questo muove i passi proprio dall’ipotesi che l’organismo non percepisca la realtà cogliendone tutti gli aspetti, limitato unicamente dai propri vincoli specie-specifici in modo passivo, ma selezioni incessantemente quali aspetti fare propri, scartando quanto inutile al raggiungimento di uno scopo o al soddisfacimento di un bisogno. Non è solo l’ambiente che colpisce i sensi ed attiva una reazione ma è anche e soprattutto il soggetto che entra in una relazione attiva con l’ambiente scegliendo cosa accogliere e percepire di esso per elaborarlo a seconda di una determinata finalità, dunque in funzione dell’azione. È utile, a questo punto, tornare alla mente incorporata e attiva prendendo in considerazione il paradigma embodiment e i suoi sviluppi. Embodiment e scienze cognitive post-classiche A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si è affermato il paradigma dell’embodiment che nel tempo si è articolato negli approcci cosiddetti della 4E Cognition (embodied, embedded, enacted, extended). Nella concezione della embedded mind, la mente anche quando è vista come una sorta di Sistema computazionale è una entità essenzialmente inserita, lo è al punto che analizzarla in isolamento dal contesto ambientale nel quale funziona sarebbe fondamentalmente fuorviante. La comprensione dell’intelligenza, del pensiero e dell’azione non può mettere tra parentesi la struttura dell’ambiente ma può realizzarsi ed essere compresa solo nell’interazione con esso. In questa ottica alcuni processi cognitivi dipendono dalle strutture ambientali nel senso che questi processi sono stati disegnati per funzionare solo in rapporto con queste strutture. In assenza delle strutture ambientali appropriate, un organismo può essere incapace di compiere il suo repertorio usuale di compiti cognitivi o può essere in grado di svolgerli, In questo modo si dà l’intersezione tra una sorta di estensione del corpo e quella della mente, che viene ad essere concepita come un sistema funzionale che include il corpo, il cervello, le affordances ambientali e tutte le numerose forme di esternalizzazione di compiti e carichi cognitivi che di fatto abbiamo tecnologicamente inventato e prodotto. Il modello della mente estesa radica dunque il funzionamento cognitivo e tutto il nostro comportamento in una dimensione pre-razionale, incarnata nelle nostre azioni e abitudini. Centrale in questo senso è il concetto di azioni epistemiche: azioni che alterano il mondo in modo da semplificare i compiti cognitivi (svolgere i calcoli complessi con carta e penna). Il cervello si sviluppa in un modo complementare alle strutture esterne e impara a svolgere il suo ruolo all’interno di un sistema unificato e densamente interconnesso. Il concetto di azione epistemica è collegato al pensiero di Vygotskij, per lui l’uomo ha sviluppato le proprie capacità cognitive grazie all’acquisizione dell’abilità di manipolare strumenti e di produrre e utilizzare segni. Infatti pratiche di manipolazione esterna del mondo, come lasciare segni nell’ambiente per alleggerire il carico di memoria personale, da mezzi culturalmente connotati diventano elementi fondamentali per la stabilizzazione e l’ottimizzazione di sempre nuovi percorsi funzionali nel cervello. In questo modo la nostra notevole plasticità cerebrale è alla base, già nelle parole di Hume, della grande propensione della mente a espandersi sugli oggetti esterni. Nel pensiero di Vygotskij con l’ipotesi dei circuiti extracorticali si teorizza la genesi dinamica delle funzioni del cervello impiegate in compiti psichici di origine culturale. Plasticità La mente è embodied ed embedded, enacted ed extended: incarnata in un contesto corporeo, interno e al tempo stesso costitutivamente inserita in un contesto relazione, esterno; incarnata e relazionale, queste le due caratteristiche fondamentali della mente. Dunque la plasticità, la variabilità, così come la dimensione storica e costitutivamente relazione, sono considerate caratteristiche essenziali del cervello e della mente, nel loro consentire all’organismo di interagire con l’ambiente nelle innumerevoli e imprevedibili circostanze che possono verificarsi (che lo sviluppo del cervello sia un processo esperienza-dipendente è dimostrato dal fenomeno del pruning: la morte di neuroni e sinapsi a seguito della mancanza di esperienza, che tramite una sorta di potatura favorisce l’eliminazione degli elementi che non vengono utilizzati). Come fa il cervello a organizzare, generalizzare e integrare informazioni e azioni, percorsi sinaptici e circuiti neurali? L’assunto di base è la natura non meccanica del sistema nervoso: piuttosto che un sistema reattivo basato sul meccanismo input- output, stimolo-risposta, come si è detto più volte esso è un sistema dinamico che si auto-organizza, un sistema in cui le alterazioni nel funzionamento di una singola parte possono causare una radicale riorganizzazione del tutto. Edelman individua la caratteristica essenziale del sistema nervoso, ai fini di questa dinamica complessità, nella plasticità del cervello in quanto organo storico e nella degeneracy della corteccia cerebrale. Ogni cervello è necessariamente unico quanto a struttura anatomica e dinamica poiché le mappe e le connessioni sono continuamente modificate non solo da ciò che percepiamo, ma anche da come ci muoviamo, dalla nostra esperienza quotidiana nel mondo e dalle nostre relazioni sociali. Un cervello è sempre in interazione con l’ambiente, nel bambino è potenzialmente racchiusa una quantità di future personalità, egli può diventare questo, o quest’altro o una terza opzione ancora. L’educazione produce una selezione sociale della personalità esplicitandola. Uno stesso comportamento, uno stesso evento di ordine mentale, possono essere innescati da schemi di attivazione neurale diversi. Strutture o circuiti corticali diversi possono svolgere la stessa funzione o produrre lo stesso output, e questa caratteristica dei sistemi complessi e dei sistemi selettivi spiega come le reti cerebrali straordinariamente complesse e degenerate siano incarnate in un modo che, tramite processi di carattere epigenetico, determina innumerevoli repertori di variabilità al livello delle strutture anatomiche e nei collegamenti fra gruppi di neuroni, variando di fatto da individuo a individuo. La degeneracy (concetto per indicare una caratteristica specifica di reti biologiche complesse) emerge come proprietà fondamentale dell’evoluzione stessa, ed è al tempo stesso una condizione di possibilità e un prodotto della selezione naturale. In tutti i sistemi selettivi esistono di regola molti modi differenti, non necessariamente identici in senso strutturale, mediante i quali si può manifestare un segnale in uscita. Molti modi diversi di operare, di muoversi nell’ambiente e di compiere azioni finalizzate. La Brain Plasticity Revolution ha come idea il rimodellamento del cervello, con cambiamenti plastici che modificano le dettagliate capacità di controllo operativo dei nostri cervelli individuali e che li dotano di enormi riserve di informazioni culturalmente specifiche. Il cervello è dunque un organo dinamico e attivo, fondamentalmente context-sensitive, la cui architettura, morfologica e funzionale, è costantemente riconfigurata da e per l’esperienza individuale, in relazione a fattori diversi: specifici compiti o scopi, le condizioni fisiche del momento, il background di conoscenze, le specifiche affordances ambientali e gli stati interni, propriocettivi e affettivi, dell’organismo. Alla nascita il nostro cervello è cablato in componenti/circuiti funzionali specifici, i quali sono però capaci di dinamiche di cambiamento tramite l’interazione reciproca di regioni funzionali diverse, in un continuo bilanciamento di influenze top-down e bottom-up che genera la costante rimodulazione di connettività e percorsi neurali. La Brain Plasticity Revolution avviata alla fine degli anni Novanta, su questa impressionante plasticità del nostro organo cerebrale fonda scientificamente l’ipotesi sulle basi neurobiologiche delle funzioni cognitive e sull’apprendimento come rimodellamento continuo dei percorsi cerebrali e loro riciclaggio in funzione di scopi e obiettivi diversi. Il cervello si modifica infatti durante l’intera vita dell’individuo, sia sul piano morfologico che su quello funzionale. È un organo dall’architettura aperta in una causazione multipla e circolare che lega la percezione all’azione, la sensazione al movimento, e dunque il corpo alle funzioni cognitive cosiddette superiori. Percezione e azione sono fenomeni in stretta interazione reciproca: il mondo si rende disponibile al percipiente attraverso il movimento fisico e l’interazione. L’esperienza percettiva acquista un senso grazie alle nostre capacità corporee. Percepire vuol dire comprendere, implicitamente, gli effetti del movimento sulla stimolazione sensoriale. La nostra capacità di percepire non solo dipende dal nostro possedere questa sorta di conoscenza sensomotoria ma ne è costituita. In questo spazio biologico e culturale, individuale e al tempo stesso specie-specifico, in questa dialettica fra regole e caso, è la condizione di possibilità fondamentale della creatività. Alla base della conoscenza, come sua autentica condizione di possibilità, sta infatti una capacità operativa, una abilità costruttivo-creativa, non determinata da concetti ma basata sulla profonda connessione tra conoscere e sentire col corpo. Dai neuroni mirror alla conoscenza motoria Si può dunque affermare che la valenza costitutiva del movimento per la cognizione, pur con il lungo passato che abbiamo finora preso in considerazione, abbia una breve storia recente che si fonda su solide basi scientifiche solo dalla fine del XX secolo, quando, con la scoperta dei neuroni specchio nella corteccia premotoria ventrale dei macachi, Rizzolati e i suoi collaboratori hanno individuato le prove concrete dell’esistenza di rappresentazioni corticali condivise tra percezione e azione. L’ipotesi di un nesso costitutivo tra percezione e azione è fondata proprio sull’idea che esse condividano un codice di rappresentazione comune nel cervello, ma solo la scoperta dei neuroni sensomotori, mirror e canonici, ha solidamente ancorato la riflessione al dato sperimentale. I neuroni canonici, presenti nella corteccia premotoria ventrale, sono cellule nervose visuomotorie: producono una sorta di impasto di risposta sensoriale e al tempo stesso motoria all’oggetto percepito. Codificano le interazioni possibili con l’oggetto e gli atti motori funzionali agli specifici scopi del soggetto pur in assenza di qualsiasi movimento attivo. I neuroni specchio sono stati chiamati così perché si attivano quando compiamo una certa azione o vediamo altri compierla, come se riproducessimo internamente il comportamento dell’altro. Su questa scoperta poggia l’interpretazione della percezione come simulazione dell’azione: percepire gli oggetti, oltre alle aree sensoriali classiche, attiva contemporaneamente i neuroni canonici che codificano i movimenti possibili che il soggetto può compiere in relazione all’oggetto in questione, e il riconoscimento di un movimento altrui attiva i neuroni mirror, coinvolgendo le stesse strutture neuronali che utilizziamo per preparare noi stessi ed eseguire quel movimento. Lo sviluppo stesso della ricerca sui neuroni mirror va mostrando di giorno in giorno come essi, inizialmente scoperti nelle aree prefrontali e della corteccia frontale preposte alla rappresentazione dell’azione, siano presenti al tempo stesso anche in importanti centri di integrazione visceromotoria, come l’insula per il disgusto, l’amigdala per la paura, la corteccia del cingolo per il riso. La proprietà mirror appare dunque come una proprietà che può riguardare diversi tipi di neuroni, con caratteristiche funzionali differenti. In questo senso la comprensione avverrebbe per via di una sorta di mappatura dell’azione su programmi motori, o piuttosto visceromotori, già esistenti e in continua via di ridefinizione. La nostra mente/cervello è quindi un sistema biologico integrato e dinamico: i processi attentivi interagiscono con la percezione e la memoria può vincolare l’attenzione stessa. È evidente il nesso costitutivo tra attenzione e movimento: il fine dei processi attenzionali è quello di ridurre la complessità dell’analisi del mondo e delle sue relazioni con il corpo in azione. È anche un meccanismo di anticipazione in cui l’esperienza passata viene messa in relazione con i progetti per il futuro. Si tratta dunque di una vera e propria postura mentale, intesa nel senso di preparazione all’azione. L’attivazione delle aree motorie è implicata in tutte le varie funzioni del sistema cognitivo, un sistema dinamico e integrato con la capacità di prevedere simulando il comportamento proprio e altrui. Su quanto detto Gallese espone la sua idea per cui anche le sensazioni, il dolore, le emozioni visualizzate negli altri possano essere empatizzate e dunque comprese tramite un meccanismo di rispecchiamento. Teoria della mente o simulazione incarnata? La teoria della mente affonda le sue radici nella psicologia cognitiva e nella psicologia dell’età evolutiva. Per teoria della mente comunemente si intende la capacità di rappresentarsi mentalmente gli stati mentali dell’altro e di prevederne inferenzialmente il comportamento. È una capacità di assumere una prospettiva diversa dalla propria, non limitatamente al riconoscimento dei pensieri e delle credenze dell’altro ma anche riguardo alle sue emozioni. Tale meccanismo non è presente nei bambini prima dei 3-5 anni, secondo alcuni autori si sviluppa automaticamente, secondo altri si acquisisce con l’esperienza. Sulla base di un modello della mente rappresentazionale e computazionale è decisivo in questo approccio il ruolo del linguaggio e delle rappresentazioni mentali. Va sottolineato che possedere una teoria della mente implica molto più del semplice comprendere che l’altro ha una credenza diversa dalla propria, è stata formulata infatti la teoria della simulazione, per mettere al centro del ragionamento proprio il corpo e le sue capacità motorie come precondizioni ed elementi costitutivi delle funzioni cognitive. A partire dagli ultimi anni del Novecento, supportata dagli studi sperimentali neurobiologici, la simulazione neuronale inconscia e immediata è diventata una sorta di prisma attraverso il quale guardare alla genesi e allo sviluppo delle funzioni cognitive, fenomeni empatici inclusi. E declinando in modi diversi il concetto di simulazione il panorama degli studi cognitivi attuali vira in maniera sempre più decisiva verso le radici sensomotorie della mente. Glenberg sintetizza le riflessioni teoriche sul movimento che negli ultimi secoli si sono susseguite e sono ora confluite in una sorta di potente consilience (convergenza tra teorie scientifiche, scienze umane e scienze hard): i sistemi percettivi si sono evoluti per facilitare le nostre interazioni con un mondo reale tridimensionale. Per fare questo, il mondo è concepito in termini di schemi corporei d’azione possibili, ovvero, del modo in cui possiamo muovere mani e dita e così via, per rapportarci al mondo che ci si presenta. Per cui, per una persona specifica, il significato di un oggetto, evento, frase è ciò che questa può fare con l’oggetto, l’evento o la frase. Così sulla base delle acquisizioni di fine secolo e recuperando l’approccio funzionalmente integrato al sistema organismo-ambiente proprio della psicologia ecologica e della psicologia dell’attività, Preston e de Waal all’inizio del Duemila hanno formulato il modello della percezione-azione, secondo il quale le sensazioni più basilari (dolore, odore, colore, disgusto..) sono un tipo di movimento coperto. Nelle parole di Jeannerod rappresentazione e azione si possono considerare come una sola e unica cosa, nel senso che l’azione è una modalità di esistenza della rappresentazione e la rappresentazione una modalità di esistenza dell’azione. L’azione dunque è in qualche modo già dentro la percezione e ciò fornisce la base biologica regno della cognizione. Le capacità motorie sono al cuore della nostra interazione adattiva con l’ambiente e dei nostri processi cognitivi mentre la grande neuroplasticità si vede nella relazione dialettica esterno/interno, mente/corpo, organismo/ambiente, percezione/azione, natura/cultura. Plasmando gli ecosistemi umani la cultura si intreccia con la biologia dentro e fuori i nostri corpi, nei meccanismi mentali e anche nel funzionamento dei geni in una prospettiva epigenetica. Occorre riconfigurare la concezione della conoscenza stessa, come sistema integrato e dinamico di capacità motorie e sensoriali intrinsecamente proiettive rispetto alle nostre relazioni con gli oggetti, con gli altri e con l’ambiente. Alla base dell’idea di una cognizione motoria sono la presenza dei neuroni mirror e canonici che implementano nel nostro cervello la capacità di agire intenzionalmente e di comprendere in termini motori la relazione con l’ambiente, oggetti e gli altri. Si può quindi individuare nella cognizione motoria una forma di cognizione sociale e nell’architettura funzionale del cervello lo scheletro e il motore delle nostre capacità cognitive e sociali. Sintetizzando: il corpo nelle sue potenzialità motorie viene ad essere considerato fondamento della vita sociale e della cognizione. Nell’approccio della simulazione incarnata, anche i fenomeni empatici vengono visti come qualcosa di inconsapevole e non mediato da processi cognitivi di alto livello: si percepisce direttamente l’espressione del sentimento dell’altro e la si rivive. Una prospettiva evolutiva sulla coscienza prende corpo Quello che le nuove scienze della mente e del comportamento mettono in luce è dunque un quadro teorico volto alla ricostruzione di una vera e propria storia naturale della mente. L’oggetto di studio è ovviamente oltremodo complesso, e reso terribilmente difficile da indagare per via del chiaro intreccio di implicazioni metafisiche e ideologiche con lo sforzo teorico che ormai molte discipline diverse mettono in campo in maniera consiliente. Tale intreccio è causa e cuore del problema teorico stesso. Tradizionalmente, lo studio della mente si è basato sulle componenti proposizionali dell’esperienza (idee, credenze, opinioni, sentimenti); oggi invece si guarda alle loro condizioni di possibilità, che vengono indagate da punti di vista multipli e con approcci metodologici diversi, nelle loro dimensioni di genetica, ontogenetica e filogenetica, alla ricerca dei modi in cui la mente sia emersa come prodotto naturale nel corso dell’evoluzione e delle fasi attraverso le quali si sviluppa nel bambino o disgrega nel malato. Nella nostra ricostruzione si è visto come la sensazione, considerata l’elemento di base, si sia rivelata sempre più complessa e soprattutto attivamente e dinamicamente prodotta da un organismo inserito nel suo ambiente: naturale e culturale, biologico e relazionale. La sensazione visiva, ad esempio, non è una semplice copia dell’immagine sulla retina: rappresenta invece i modi dell’interazione possibile del soggetto con lo stimolo. La visione è un fenomeno multilivello che impegna attivamente non solo le aree visive della nostra corteccia ma l’intero cervello, e con esso il corpo nella sua globalità e la mente intesa come intreccio costitutivo di coscienza e livelli multipli di funzioni sottocorticali. Un cervello biologicamente evoluto genera esperienza, non solo consapevole, tramite azioni che si compiono con il corpo, dunque ad oggi l’enigma è a cosa serve la coscienza se i processi inconsci sono pienamente capaci di eseguire tutte le operazioni cognitive della percezione e del controllo? Humphrey ipotizza in questi termini una storia naturale della mente, individuandone una sorta di traiettoria evolutiva possibile: l’animale è colpito da stimoli e deve evolvere la capacità di distinguerli in salutari e dannosi (piacere/dolore), così da poter rispondere in maniera appropriata. Sensazione e movimento si impastano nell’interazione con l’ambiente e al classico arco riflesso sensazione-elaborazione-movimento va sostituita la circolarità sensomotoria per cui le sensazioni stesse vengono ad essere viste come risposte sensoriali. Con l’aumentare della complessità dell’organismo e del suo sistema nervoso, diventa vantaggioso immagazzinare informazioni su ciò che accade nelle diverse circostanze ambientali, una forma di memorizzazione inconscia dei segnali di ritorno che l’animale produce in merito all’interazione più efficace con l’ambiente, e questo potrebbe costituire il fondamento neurobiologico della sua capacità di prevedere i risultati dell’azione, dunque pianificare e prendere decisioni in modo più sofisticato. Un sistema complesso e robusto rispetto alle perturbazioni future è in grado anche di fare delle scelte in vista di esperienze nuove, pianifica dunque il da farsi in base a modelli mentali che prevedono, simulano, le situazioni future. Dal corpo in movimento, dalle capacità motorie e sensoriali di un organismo, nascerebbe così un’immagine connotata emotivamente (piacere/dolore, avvicinarsi/ritirarsi) di quello che lo stimolo è per l’animale (il prototipo della percezione). Nel corso dell’evoluzione tutta l’attività sensomotoria, tramite il processo di encefalizzazione si privatizza: i segnali di istruzione per le risposte sensoriali si generano prima che la sensazione arrivi effettivamente al corpo, l’intero processo si autonomizza dall’interazione effettiva con l’ambiente e l’organismo è in grado di prevedere il risultato dell’azione e adottare il comportamento più efficace nella situazione data. La coscienza emergerebbe così da una attività neurale che ritorna su se stessa in modo da creare una sorta di autorisonanza. L’albero genealogico della coscienza partirebbe dunque da circuiti sensomotori che generano accettazione o rifiuto in risposta agli stimoli. Ecco dunque che la sensazione assume un ruolo chiave nella capacità di simulare gli esiti dell’azione e gli stati mentali delle altre persone: il corpo attivo alla base della empatia proiettiva. Già Nietzsche aveva enfatizzato la dimensione attiva e sociale della coscienza considerando la capacità di comprendere come radicata sull’imitare e su un’antica associazione tra moto e sentimento: per comprendere l’altro, per imitare in noi il suo sentimento generiamo in noi quel sentimento secondo gli effetti che esso esercita e fa apparire sugli altri, imitando sul nostro corpo l’espressione del suo sguardo, della sua voce, della sua andatura e del suo atteggiamento. È allora che in noi nasce un analogo sentimento. Per lo sviluppo della mente, del nostro sistema cognitivo nel suo complesso, è di importanza fondamentale l’interazione attiva con l’ambiente e con l’altro, la rete dell’esperienza condivisa. La coscienza umana, a differenza di tutte le varietà di coscienza animale, nasce nella nostra dimensione sociale e culturale. La stessa empatia è mediata dall’imitazione dell’azione corporea: se le sensazioni più basilari, come dolore, colore, disgusto, sono un tipo di movimento coperto (off-line), l’imitazione è alla base dell’empatia e di tutto lo sviluppo della cognizione (passando per la comprensione somatica e l’apprendimento motorio). È un fattore che evidentemente gioca un ruolo significativo nella sopravvivenza biologica degli uomini. Ciò offre una prospettiva nuova al nostro modo di guardare alla mente scendendo più in basso, nelle modalità pre-verbali, di comprendere e produrre un comportamento adattivo. Dall’opera di filosofi interdisciplinari e scienziati di formazione filosofica emerge la struttura di base di una teoria scientifica sulla nascita della mente, una teoria per riflettere sulla mente e sul cervello senza cadere in allettanti trappole filosofiche. È la cosiddetta ingegneria inversa, secondo la quale si parte dalle funzioni basilari di un organismo e si procede a ritroso cercando di individuare la concatenazione di processi che potrebbero aver prodotto quei cambiamenti che possiamo giudicare come proprietà dei sistemi emergenti. Ciò che si delinea all’orizzonte non è solo un modo per evitare le trappole filosofiche e ideologiche ma anche la proposta di una complessa lente interpretativa che favorisca il superamento del secolare taglio epistemico che, come si è detto, ha prodotto fratture e dicotomie fuorvianti: da quella soggetto/oggetto a quella cervello/mente. Abbiamo visto come percezione/azione vada ripensata in termini di percezione-azione (circolarità funzionale), mente/corpo tenda ad essere sostituita da mentecorpo e natura/cultura sia “naturalmente culturale”. Natura e cultura, geni e ambiente, si intrecciano nella formazione e nello sviluppo del nostro sistema cognitivo; esperienza e relazioni ci plasmano costantemente e ricablandoci (cerebral remapping dell’architettura neurale e funzionale, come si è visto nel caso dell’uso di strumenti). Conclusioni Non è facile trovare il modo di concludere questa lunga ricostruzione storico-epistemologica di uno spaccato degli studi sulla mente e sul cervello, corpo e ambiente, non è facile anche perché si sta narrando una storia non conclusa. Abbiamo vito porre, difendere, mettere in dubbio e tentare di ridefinire i confini tra corpo e mente. Abbiamo seguito l’estendersi del corpo e della mente all’ambiente, agli altri, alla tecnologia. Occorre tuttavia guardare con cautela e consapevolezza, epistemologica, filosofica, scientifica al rapporto interno/esterno, mente/corpo, organismo/ambiente. La costitutiva capacità di espansione prima che della mente è dell’individuo nella sua totalità di corpo plasmato dall’evoluzione, storia e cultura. Comunque occorre molta cautela nel parlare di potenziamento piuttosto che di modifica. (Benasayag ad esempio discute come caso di studio delle nostre funzioni cognitive la memoria, e la considera alla luce delle notevoli possibilità di espansione rese possibili dai più recenti strumenti tecnologici). In conclusione, nel fitto e fertile scambio di conoscenze, teorie, modelli e strumenti teorici tra varie discipline, tutto sembra convergere sull’importanza di considerare la dimensione psicologica, dinamica, storica e individuale, e non sottovalutare la dimensione biologica, la specie-specificità del nostro corpo con i suoi molteplici gradi di libertà nell’interazione con l’ambiente, e la specificità del nostro cervello: organo aperto, abile nell’utilizzo ottimale di una architettura dinamica, ridondante e degenerata, che opera e subisce al tempo stesso una continua trasformazione. Con le esperienze, apprendimento e relazioni. Con questo corpo ed essendo questo corpo produciamo sempre nuovi strumenti e protesi tecnologiche, creando una mente aumentata, espansa verso l’esterno, libera di creare nuovi strumenti, in questo senso gli strumenti esprimono la nostra architettura cerebrale e cognitiva, dinamica e individuale, il nostro modo di pensare, muoverci ed essere nell’ambiente, nel tempo, cultura e società. Comunque l’analisi storico-epistemologica sul funzionamento del cervello e della mente è un efficace case study per la messa in luce della natura complessa e a volte accidentale dello sviluppo della conoscenza scientifica, con le sue luci, ombre e punti ciechi. Oliver Sacks parla in proposito di scotoma storico e culturale: scotoma che significa oscurità denota una disconnessione della percezione, una lacuna nella conoscenza. E nella storia del pensiero scientifico è ricorrente che intuizioni o modelli teorici cadano, per motivi storici, culturali o di altro tipo in una zona oscura che produce l’inabissarsi di ipotesi e dispositivi interpretativi. Lo scotoma implica una perdita di conoscenza, la dimenticanza di acquisizioni che sembravano già chiaramente consolidate e a volte una regressione a spiegazioni meno perspicaci. Ma a ipotesi e teorie capita non di rado di tornare alla ribalta sulla base di nuove acquisizioni teoriche e sperimentali o dello sviluppo di nuove tecniche di analisi: siamo giunti al riconoscimento della valenza costitutiva delle nostre capacità motorie, sensomotorie, per lo sviluppo della mente e del comportamento complesso che ci caratterizza come specie.
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