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Il nemico alle porte di Andrew Wheatcroft, riassunto, Sintesi del corso di Storia dell'Europa Orientale

Sintesi dettagliata del libro letto per l'esame di Storia dell'Europa di Centro. Tema centrale del libro è la preparazione dell'esercito turco per la campagna di Vienna che venne assediata nel 1683 e difesa dall'esercito asburgico e da quello polacco comandato dal grande re di Polonia Giovanni Sobiesky.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 21/12/2022

elena-cristofari
elena-cristofari 🇮🇹

4.8

(17)

25 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Il nemico alle porte di Andrew Wheatcroft, riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Europa Orientale solo su Docsity! Il nemico alle porte, Andrew Wheatcroft Riassunto In una sera di agosto 1682, i giardinieri del sultano Mehmet IV scavarono un piccolo canale accanto alla porta del Palazzo Imperiale a Istanbul piantando 7 lunghi pali dei quali la parte in alto era scolpita e decorata terminando in cima con una sfera d’oro dalla quale pendevano dei crini di cavallo di diverso colore: erano i cosiddetti tug, le insegne degli antichi guerrieri dai quali gli ottomani discendevano ed erano il simbolo che il sultano si stava preparando per una campagna militare. L’accampamento ottomano era notevolmente organizzato: se dall’esterno poteva sembrare per un occidentale un’accozzaglia di tende posizionate alla bene e in meglio, per un ottomano era un allestimento ordinato e preciso. Per prepararsi alla guerra, l’accampamento veniva dapprima allestito subito fuori Costantinopoli o Istanbul: quello del 1682 doveva essere costituito da più o meno una sessantina di tende, nella maggior parte delle quali era presente un trono colmo di gemme e lussuosi tappeti; nella tenda del sultano vi era un letto, alla testa del quale era posizionato il Corano su un piedistallo. L’accampamento ottomano era l’equivalente di un grande palazzo: vi era un Padiglione della Giustizia in una tenda che riprendeva la forma della Torre di Giustizia a Istanbul; una tenda adibita alle cerimonie, una per i bagni, una dove si tenevano i consigli, una per i ricevimenti, alcune per gli spogliatoi; tende per feste e banchetti, perfino delle tende per i cavalli del sultano o una tenda che poteva ospitare il corpo di un sultano defunto, come accadde a Solimano I che morì durante una campagna militare in Ungheria (1566). Tuttavia, i soldati ottomani disponevano di tende più piccole. I turchi non avevano quindi bisogno di saccheggiare villaggi durante il cammino per ricavarne del cibo in quanto avevano delle grandi forniture di cibo che sarebbero bastate per mesi: basti pensare che nelle campagne militari era presente un gregge di pecore e macellai. L’esercito ottomano disponeva di una cavalleria pesante (siphai o sphai), una cavalleria leggera e dei celeberrimi fanti professionisti, i giannizzeri. Questi erano prima bambini cristiani reclutati durante le campagne militari in occidente che, portati in territorio turco, venivano addestrati alle armi e convertiti all’Islam tramite il rito della circoncisione. Una volta concluso l’addestramento, gli veniva tatuato un simbolo ed un numero, tatuaggio che aveva un duplice scopo: ricevere salari e razioni oppure per riconoscere i corpi dei giannizzeri caduti in battaglia. Tuttavia, essi godevano di una relativa libertà: in primo luogo potevano decidere di sposarsi e dedicarsi all’attività da commerciante non godendo però di alcuni benefici e privilegi; in secondo luogo, se sceglievano di rimanere nell’esercito, non erano sottoposti ad una schiavitù, bensì potevano ribellarsi agli ordini che non approvavano. Ad ottobre 1682 l’accampamento era al completo e le città si erano quasi del tutto svuotate: il sultano lasciò il Palazzo ad Istanbul pronto per partire in corteo con il suo esercito, e questo era il segno dell’inizio della guerra. In quei giorni, ad Istanbul, vi era l’ambasciatore imperiale Alberto Caprara, giunto per rinnovare la Pace di Vasvàr tra Impero Asburgico e quello Ottomano ma, quando notò che regnava un certo trambusto in città ed un grande traffico di soldati, egli capì che i turchi si stavano in realtà preparando alla guerra. Nessuno nella corte diede ascolto a Caprara che invece fu costretto a seguire il protocollo accompagnando il sultano nella sua marcia verso nord. Tra la seconda metà del ‘500 e l’inizio del ‘600 la guerra era cambiata: c’erano meno scontri diretti fra i soldati poiché vennero costruiti muri di cinta all’esterno delle città o delle fortezze. La guerra era quindi costituita da una lunga fase d’assedio di quelle mura, come accadde nella terza campagna a Vienna. I soldati utilizzavano ora le granate (la loro somiglianza ai melograni fece sì che vennero chiamate granata in spagnolo o grenade in francese), delle sfere di argilla o vetro dove all’interno c’era la polvere da sparo; altre armi utilizzate dai turchi erano la famosa sciabola ma anche gli archi da freccia (di fatti gli ottomani godevano della fama di essere degli ottimi arcieri). In Occidente, i soldati usavano invece il picchiere, una lunga asta costituita da un’ancia di 3 o 4 metri: solo dopo la Guerra dei Trent’anni (1618 – 1648) si diffuse il moschetto (utilizzato appunto dai moschettieri) e la pistola. Poco dopo si diffuse l’utilizzo della baionetta che era sostanzialmente un moschetto che sotto la canna aveva posizionata una lunga lancia di acciaio che rendeva il colpo del moschetto ancora più preciso. Dunque, partiti da Istanbul la prossima tappa del sultano e dei cavalieri (la fanteria era rimasta ad Istanbul ad attendere gli ultimi rifornimenti) era il palazzo di Edirne dove il sultano avrebbe soggiornato per tutta la durata della guerra. Tuttavia, il sultano avrebbe prima avanzato con il suo esercito fino al Danubio dove avrebbe lasciato il comando al Gran Visir Kara Moustafà per poi tornare indietro al palazzo. Moustafà avrebbe avuto da quel momento la responsabilità di ogni cosa: la vittoria lo avrebbe ricoperto di onori e privilegi; la sconfitta avrebbe significato per lui le dimissioni dal suo incarico o addirittura la morte. Intanto, il sultano aveva mandato un messaggero in territorio dal tartaro1, precisamente dal khan dei Tartari, il fratello di Mehmet IV, per chiedere il suo appoggio e la partecipazione dell’esercito tartaro in questa ambiziosa missione ottomana. I tartari, ancor più dei turchi, seminavano terrore in Europa: essi erano celebri per la loro cavalleria dotata di cavalli massicci e resistenti che riuscivano a spostarsi con grande velocità; inoltre i tartari non avevano armatura e non utilizzavano armi da fuoco o spade ma usufruivano dei soli archi e delle veloci frecce godendo di una mira e di una precisione micidiale. I tartari non combattevano per la gloria o l’onore ma per il solo profitto che ne traevano dalla vittoria, devastando villaggi o abbazie: essi facevano la loro comparsa poco prima dell’alba, come recita il Corano, prima che tu possa distinguere un filo bianco da un filo nero alla luce dell’alba in arrivo. Ciò che ancora non è chiaro agli storici, con assoluta certezza, è il motivo che spinse i turchi ad attaccare Vienna. Forse per la vendetta alle due campagne precedenti (1529 e 1532) che finirono con la sconfitta turca; forse perché la presa di Vienna avrebbe significato un maggiore controllo turco in Ungheria; forse perché il vero titolo di imperatore romano non spettava ad un cattolico ma al discendente dell’Imperatore che fondò e regnò a Costantinopoli, quindi a un turco; o forse perché gli ottomani erano sicuri questa volta di 1 Tartaro dal latino Tartarus, secondo la tradizione greca e latina è quel luogo infernale dove Zeus imprigionò i titani vinti. ostacolarono l’avanzata del nemico tenendolo impegnato a liberare la strada per proseguire l’assedio. Ogni notte, dalla città di Vienna, partirono dei razzi segnaletici nella speranza di una risposta dal Monte Kahlenberg di altrettanti razzi che annunciassero l’arrivo dell’alleato. Finalmente, nella notte tra il 7 e l’8 settembre, dopo aver sparato in cielo un razzo segnaletico, fu avvistato un altro dalla cima del Monte: i soccorsi erano vicini. Gli eserciti cristiani arrivati in aiuto erano quelli di Massimiliano di Baviera, principe elettore di Baviera, Giulio Francesco, principe elettore di Sassonia ed infine Giovanni III Sobiesky, re di Polonia. Questi erano finanziati dal Papa Innocenzo XI che aveva organizzato la formazione di una Lega Santa per combattere l’infedele turco. Riunito nel suo insieme l’esercito cristiano, il Duca di Lorena, i due Principi elettori ed il re di Polonia pianificarono il piano d’attacco: Carlo sarebbe stato alla guida dell’ala sinistra dell’esercito, al centro i due principi e l’ala destra sarebbe stata guidata da Sobiesky. Tuttavia, il terreno sopra a cui si trovavano non era dei migliori per dare alla carica poiché era roccioso e costituito da diversi precipizi: dunque, l’unica maniera per scendere verso Vienna era quello di creare piccoli gruppi di soldati, fermandosi e rimettendosi in posizione ogni qualvolta che il gruppo di disordinava; questa procedura avrebbe sicuramente rallentato l’esercito. Nel frattempo, i prigionieri fatti dagli ottomani avevano rivelato che si stava costituendo un esercito a nord del Danubio: Kara Moustafà decise che l’assedio doveva continuare mentre la cavalleria avrebbe ispezionato il perimetro di Vienna. Anche Moustafà si allontanò a cavallo fino al Danubio. Tuttavia, l’11 settembre l’esercito cristiano era disposto sul monte Kahlenberg sopra la vista attenta del Gran Visir: nelle prime ore del mattino del 12 settembre, i turchi salirono sul monte e fecero fuoco sull’esercito cristiano creando scompiglio. Alcuni soldati cristiani si ferirono, altri morirono e così le truppe asburgiche iniziarono a scendere il monte verso il nemico; dietro di loro si mossero i Sassoni e poi alcuni cavalieri del Lorena per dare sostegno. Dopo un lungo combattimento i turchi si diedero alla fuga scendendo di fretta il monte mentre Carlo di Lorena corse da Sobiesky per discutere le prossime mosse: così dapprima le truppe di Carlo furono direzionate ad uno scontro con Kara Moustafà mentre Sobiesky scese dal monte con il suo esercito solo qualche ora dopo sbaragliando l’esercito turco. Il Gran Visir si rifugiò nella sua tenda portando con sé lo Stendardo del Profeta ed i turchi che si accorsero della sua fuga dal campo di battaglia, scapparono ulteriormente in una frettolosa ritirata. Quando gli ussari polacchi si avvicinarono alla tenda di Moustafà, questi raccolse lo Stendardo e scappò definitivamente in Ungheria dando l’ultimo ordine di distruggere qualsiasi cosa che potesse essere d’aiuto al nemico e di uccidere i prigionieri. Così, 12 ore dopo Vienna era stata liberata. Il giorno dopo Sobiesky entrò a Vienna ricoperto di fama ed onore, lasciando sfilare dietro di lui il cavallo del Gran Visir, il tug turco e gli stendardi ottomani. Fatta sera, Sobiesky si ritirò nella tenda del Gran Visir dove Sobiesky scrisse delle lettere agli altri sovrani europei recitando Venimus, Vedimus et deus Vicit (Venimmo, vedemmo e Dio vinse). Leopoldo I arrivò il giorno dopo ricevendo i comandanti dell’esercito cristiano a banchetto per poi incontrare formalmente Sobiesky e suo figlio Jakub ai quali però si rivolse in modo freddo e distaccato. Questo fu uno dei pretesti per lasciare Vienna poiché il primo e principale motivo, fu quello di rincorrere il nemico turco scappato verso l’Ungheria per riconquistare quei territori che i turchi avevano strappato all’Impero e alla Polonia, approfittando della sconfitta appena subita. Gli eserciti del Lorena e di Sobiesky riuscirono ad assediare ed espugnare la città di Esztergom (italianizzato, Strigonio) che gli ottomani avevano preso nella prima metà del ‘500: fu una grande conquista per Carlo in quanto l’esercito asburgico aveva provato 6 volte a riconquistarla. Intanto, Moustafà aveva lasciato Buda e, una volta giunto a Belgrado, fu raggiunto da due messaggeri mandati dal sultano che gli riferirono di restituire il Sigillo, il Sacro Stendardo del Profeta e la Chiave per la Ka’ba della Mecca. Gli comunicarono in seguito che avrebbe subito la morte, così Moustafà si svestì dei suoi abiti (l’abito in pelliccia ed il turbante) e chiese che fosse tolto il tappeto sotto di lui per cadere inanime sul pavimento polveroso come un soldato in guerra. Successivamente i due uomini posizionarono una corda di seta intorno al collo di Moustafà uccidendolo.
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