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Il Novecento del teatro, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Sintesi de Il Novecento del teatro di L. Mango

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 04/02/2022

Giorgia.Laviano
Giorgia.Laviano 🇮🇹

4.5

(47)

13 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Il Novecento del teatro e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Il Novecento del teatro I: STORIA DI UN INIZIO Una premessa Come e quando comincia il teatro del Novecento? Quella dell’inizio è una questione storiografica affascinante. Se cerchiamo una data simbolica questa potrebbe essere fatta coincidere con il debutto dell’Ubu re di Alfred Jarry presso il Theatre de l’Oeuvre di Lugné-Poe a Parigi il 10 dicembre 1896; ma dobbiamo considerare altri due fattori fondamentali: la transizione al nuovo secolo come approdo di motivi e tematiche emerse nel precedente e la messa a fuoco dei fondamenti teorici attraverso cui viene ripensato in una chiave moderna il teatro e il suo linguaggio. Un’anteprima simbolica Al suo debutto parigino l’Ubu re ebbe un impatto dirompente. Il poeta irlandese Yeats annunciò l’avvento di un “Dio selvaggio” che veniva a sconvolgere il panorama culturale. Alfred Jarry era un giovane scrittore la cui vicenda artistica è legata al proprio personaggio di Ubu. La dimensione insurrezionale di quella serata del 1896 si espresse su due piani: la composizione letteraria del testo e la sua resa scenica. Su entrambi i piani gli spettatori furono posti di fronte a qualcosa che non avevano mai visto prima. L’opera ha i tratti di una farsa grottesca, che appare una rielaborazione di Macbeth. La battuta finale è l’apoteosi del nonsense: “Se non ci fosse la Polonia, non ci sarebbero i polacchi”. La struttura narrativa è frammentata; Jarry fa uso di un linguaggio provocatorio (la prima parola del testo è “merda”). Quella di Jarry è un’invenzione carnevalesca che aggredisce il senso comune lasciandolo disorientato. Jarry aveva immaginato il suo personaggio come una maschera se non una marionetta. Lo interpretò Firmin Gémier, che veniva dall’ambiente naturalista del Theatre Libre di Antoine, realizzando una caricatura dell’eroe che esaltava la mancanza di spessore psicologico del personaggio. Questo spettacolo fu un episodio marginale ma che portò racchiusi i germi di una novità sconvolgente, la stagione delle avanguardie. Ubu re ne anticipa la carica trasgressiva, la tensione al grado zero. Leggere in Ubu re un’anteprima del Novecento significa leggere il Novecento come il secolo della reinvenzione dei codici. L’inizio come processo storico Se Ubu re rappresenta l’anteprima simbolica del Novecento, l’inizio del secolo è caratterizzato da un rapporto più articolato, dialettico rispetto ai modelli teatrali precedenti: da un lato il ripensamento della scrittura letteraria per la scena e dall’altro la progressiva affermazione della regia. Il dramma come crisi del dramma In un libro della metà degli anni Cinquanta, Peter Szondi ricostruisce le dinamiche che caratterizzano il dramma moderno tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. La sua tesi è che la modernità si presenta come messa in crisi della nozione del dramma, il cui carattere principale è di essere “assoluto”: è posto, non prevede la presenza narrativa dell’autore. Il Novecento è caratterizzato dal rifiuto di questo modello: il dramma diventa una forma aperta che comporta la frattura della coesione narrativa dell’azione. Szondi individua l’inizio di tale processo nella stagione a cavallo tra ‘800 e ‘900 in cui si evidenziano le prime crepe nella struttura e nell’idea di dramma. Definisce tale passaggio storico “crisi del dramma”, crisi come inizio di trasformazione in cui i protagonisti sono Cechov, Ibsen, Maeterlinck, Strindberg e Hauptmann. Nella scrittura di questi autori si percepisce la tensione a destabilizzare l’assolutezza della tenuta narrativa e la consistenza drammatica del personaggio. È possibile riscontrare qualcosa di simile negli scrittori teatrali a cavallo del secolo, meno in Ibsen, in cui i giusti equilibri, il colpo di scena, il dialogo come dialettica interpersonale, danno l’impressione di una scrittura legata alla “forma del dramma”, con rimandi alla struttura a effetti della piece bien faite. All’interno di tale struttura, la tenuta drammatica è messa alla prova soprattutto dal fatto che la tragedia è presentata come “postuma”: esito, cioè, di un atto mancato del passato. Più tecnica la messa in scena della forma del dramma in Maeterlinck. La “riprogrammazione” della forma drammatica in una chiave moderna è più sistematica in Strindberg e Cechov. August Strindberg Con Strindberg ha inizio quella che più tardi prenderà il nome di “drammaturgia dell’io”. Strindberg aveva sperimentato generi e forme diversi con un’adesione al Naturalismo radicale. Tra il 1893 e il 1897 poi c’era stata una crisi che lo aveva allontanato dal teatro, a cui torna nel 1898. Quando si parla di “drammaturgia dell’io” si fa riferimento proprio alle opere del “ritorno”: Verso Damasco e Un sogno. Sono diverse come impianto, ma queste due opere hanno molti elementi comuni: la destrutturazione logica del racconto; la rinuncia al realismo in nome di una scrittura ricca di suggestioni simboliche; la messa in crisi della coerenza ed unitarietà dello spazio-tempo. Anton Cechov La destrutturazione della forma del dramma è presente in Cechov, drammaturgo russo dell’ultimo ‘800 e primo ‘900, in una maniera meno appariscente. La veste esteriore del testo resta, apparentemente, integra per quanto riguarda il racconto, l’identità psicologica dei personaggi, il dialogo. Anziché essere sottoposta ad un attacco frontale, come in Strindberg, l’identità drammatica del testo è corrosa dall’interno toccando in primo luogo l’azione. Il dramma fotografa i personaggi bloccati in una condizione da cui non riescono a evadere. Non c’è spazio per trasformazioni, evoluzioni, metamorfosi. Più che agire, i personaggi di Cechov si agitano sperando di vivere, ma restano impantanati in loro stessi. Potremmo definire questo procedimento una “drammaturgia del ribadire”, nel senso che Cechov ribadisce la stessa situazione in momenti diversi di una vicenda che sembra muoversi ma che resta ferma. All’interno di questa drammaturgia hanno una funzione particolare i finali: cancellare i barlumi di speranza, le possibili aperture al futuro. Dopo una pausa teatrale torna ad interessarsi della scena con un nuovo atteggiamento. Scrive al suo editore Aleksej Suvorin nel 1895, a proposito del Gabbiano: “Lo scrivo non senza piacere, sebbene pecchi contro le convenzioni sceniche. È una commedia, ci sono tre parti femminili, sei maschi, quattro atti, un paesaggio, molti discorsi sulla letteratura, poca azione, tonnellate d’amore”. In questo territorio al di fuori dei parametri della scrittura teatrale Cechov incontrò il Teatro d’Arte di Mosca di Stanislavskij e Nemirovic- Dancencko, dando vita ad un sodalizio in cui una nuova scrittura letteraria si coniugava con la nascente regia. Tutta la maggior produzione di Cechov, tranne Il Gabbiano (che poi in quel teatro trovò la sua casa), fu scritta per il Teatro d’Arte. In cosa Il Gabbiano infrangeva le convenzioni sceniche? Nel biglietto da visita con cui Cechov presenta il suo lavoro, sottolinea la non convenzionalità della scrittura e l’assenza di un centro drammatico forte. Il Gabbiano è un testo che racconta di un gruppo di personaggi, una microsocietà chiusa in sé stessa, incapace di evolversi. Treplev è un giovane scrittore che aspira a riformare la scena, ma sia le sue aspirazioni artistiche sia il suo sogno d’amore per Nina saranno destinati al naufragio. Naufraga è anche Nina, la cui passione romantica per lo scrittore Trigorin sfocia in tragedia. Masa sogna Treplev ma sposerà senza amore Medvedenko. Arkadina, attrice e madre di Treplev, e il suo amante Trigorin replicano all’infinito una vita senza vocazione. Alla fine, Treplev si suicida, ma è un suicidio fuori di scena di cui è dato un rapido cenno in una battuta che lascia tutto e tutti in sospeso. Aldilà dell’intreccio e dei personaggi è la costruzione dell’azione a rappresentare la novità del testo. Non accade quasi nulla, e quel poco in una maniera quasi inavvertita. L’innamoramento di Nina per Trigorin sembra rimasto nella penna di Cechov. Così come “depistante” è il dialogo tra Arkadina e Treplev nel terzo atto dopo che questi ha tentato il suicidio. È un litigio, non un conflitto drammatico. Azione, in Cechov, è negazione dell’azione, inerzia, sospensione della tragedia. All’inazione corrisponde la crisi del dialogo. I personaggi parlano ma ciò che dicono ha poco peso, maggiore è il piano emotivo mai espresso compiutamente. Nel finale del Gabbiano Treplev e Nina si rincontrano; la ragazza è un turbine di sentimenti, parla per frammenti, ripetizioni, divagazioni. La scrittura è costellata di puntini di sospensione che espressiva. All’attore è affidato un ruolo intermedio: è il portatore del ritmo della musica attraverso il gesto e il movimento ed è colui che dinamizza lo spazio. Nel terzo dei testi, Appia propone una scomposizione analitica ancor più minimale del linguaggio teatrale, in una sintonia indiretta con quanto sta avvenendo nelle arti visive e nell’architettura. La dialettica tra gli elementi che compongono il teatro è risolta, nel rapporto tra un elemento attivo, il corpo, e uno passivo, lo spazio. La musica è la condizione ritmica di tale relazione. Edward Gordon Craig Figlio della più famosa attrice vittoriana, Ellen Terry, e cresciuto presso il teatro più significativo dell’opera, il Lyceum, Edward si può dire nato nel cuore del teatro. Ma è un irrequieto e nel 1897 abbandona le scene. Per tre anni si dedica allo studio del disegno e dell’incisione e nel 1900 riceve l’invito dall’amico musicista Martin Shaw di dirigere la parte scenica della neonata Purcell Operatic Society, che aveva il progetto di rieditare scenicamente le opere del fondatore del melodramma seicentesco inglese. Il modo di impostare l’allestimento scenico fu già pienamente e modernamente registico. Nel 1903 con la madre, appena uscita dall’esperienza del Lyceum, dirige una versione dei Condottieri a Hegeland di Ibsen, con il titolo The Vikings. L’opera fece molto scalpore perché la Terry vi interpretava un personaggio dai tratti demoniaci all’interno di una scena stilizzata. Craig, nei primi spettacoli, cercava di sostituire al “realismo di cartone” della scena realistica convenzionale una costruzione visiva in grado di fornire essa il motivo simbolico del dramma. Ambiva poi a comporre l’insieme come un tutt’uno, compresi gli attori. Il 1903 segna un anno di cesura nella sua attività. Craig fu chiamato in Germania, dove si illuse di portare a compimento i suoi progetti registici e di lì in poi la sua produzione registica rallentò fino a fermarsi. Si ridusse al disegno per le scene di Rosmersholm per la Duse e alla regia di Amleto, per il Teatro d’Arte di Mosca, nato come progetto a quattro mani con Stanislavskij. Per Rosmersholm aveva disegnato un ambiente verde, come un tempio egizio, con un enorme finestra sullo sfondo a significare simbolicamente la demarcazione tra casa e mondo esterno. Per Amleto invece sperimentò i suoi screens. Si tratta di alti schermi rettangolari di colore neutro che avrebbero dovuto muoversi, grazie a cerniere che li legavano tra loro, in modo da costituire uno spazio plastico e dinamico, reso ancora più attivo dalla luce e in grado di suggerire l’atmosfera drammatica del testo. La componente visiva doveva rappresentare la chiave interpretativa offerta allo spettatore. Lo spettacolo, di cui Craig non rimase soddisfatto perché gli screens, non potendo muoversi a vista, non diventarono quel “volto espressivo” che immaginava, è considerato uno dei primi esempi compiuti di una regia moderna a matrice visiva. Tuttavia, il ruolo di Craig nell’estetica teatrale del ‘900 non è legato ai suoi spettacoli ma alla sua elaborazione teorica. Il ruolo di Craig nell’estetica teatrale del Novecento non è legato ai suoi spettacoli ma alla sua elaborazione teorica. Nel 1905 pubblica L’arte del teatro, nel 1911 Sull’arte del teatro, nel 1913 Verso un Nuovo Teatro e nel 1921 Scena. La sua viene considerata la prima teoria della regia in chiave moderna, superando le pur importanti affermazioni di Antoine. Ne parla come dello strumento per dar corpo a un’arte del teatro i cui presupposti estetici vanno totalmente riconsiderati, risalendo a quello che per lui è il fondamento autentico del linguaggio teatrale. Originario e futuro sono gli estremi del suo discorso, ma ciò che interessa a Craig non è proporre una nuova estetica o un nuovo stile quanto ridisegnare lo statuto stesso del teatro. Anche Craig sarà sostanzialmente un marginale, ma il suo pronunciamento teorico si diffonderà tanto che un certo modo autoriale, creativo, libero dal vincolo dell’illustrazione descrittiva del testo drammatico verrà definito à la Craig. L’obiettivo di Craig è scoprire le “leggi del teatro”; in Verso un Nuovo Teatro questo verrà figurato con l’immagine della scalata ad un monte la cui vetta non si può oggi intravedere con chiarezza ma verso cui è indispensabile andare per dare un senso a quanto si fa. È una visione utopica in cui Craig dà una veste concreta. Le coordinate di tali leggi sono enunciate in L’arte del teatro: l’opera d’arte teatrale non coincide con la letteratura ma nasce dalla sintesi di elementi linguistici. Pur nell’equivalenza tra i diversi elementi è il movimento ad avere il primato, tanto che il “padre del drammaturgo” è considerato il danzatore. Si tratta di un’opzione postwagneriana con due differenze sostanziali rispetto al modello: la sintesi è tra elementi linguistici, che sono la materia prima del regista, e non le arti. L’opera d’arte totale è immaginata come qualcosa di specifico non quale arte delle arti, come in Wagner. La “teoria della regia” di Craig non va, quindi, confusa con l’affermazione della dignità estetica della regia, ma come un’elaborazione estetica: se l’arte del teatro consiste in una scrittura che coinvolge tutti gli elementi della messa in scena, allora il regista è la figura tecnica in grado di corrispondere a tale fondamento linguistico. Craig distingue due tipologie di registi: l’”artigiano” che ancora opera con il testo drammatico e quello in grado di diventare artista, che sarà tale quando opererà in totale autonomia, in assenza di un testo drammatico da mettere in scena. Se la regia si presenta ai suoi esordi come messa in scena, e tale resterà anche in gran parte del Novecento, con Craig diventa creazione. Sul piano concettuale gli esiti di più lungo respiro saranno che lo spettacolo da luogo di mediazione di un’opera d’arte preesistente diventa opera e testo esso stesso, un testo spettacolare, e che il teatro, nel sistema delle arti, viene considerato quale un’arte della visione. Georg Fuchs Anche Fuchs si può leggere in una prospettiva postwagneriana ma in una maniera ribaltata. Il Wagner che sta più a cuore a Fuchs è quello del teatro come voce originaria e arcaica del popolo, che attraverso la riscoperta del mito mira al recupero dell’ethnos. Il suo obiettivo teorico è qualcosa che trascende la dimensione teatrale. È la festa, intesa come luogo di comunione in grado di riscattare l’identità originaria. Un ruolo fondamentale ha “La nascita della tragedia” di Nietzsche, che ebbe una grande influenza su di lui. Senza essere uomo del mestiere, l’approdo di Fuchs al teatro deriva da questa premessa di natura filosofica. “Il dramma, per sua natura, è un tutt’uno con la folla in festa” scrive Fuchs. L’occasione per dare alla sua visione della festa un’applicazione pratica fu la partecipazione alla Colonia degli artisti di Darmstadt, un esperimento avviato nel ’90 dal gran duca di Assia che aveva riunito un gruppo di artisti ed architetti perché condividessero il progetto di un’”arte applicata”: partire da una visione estetica per progettare concretamente il mondo in cui si vive. Quella di Darmstadt fu una vera e propria comunità che non solo lavorava ma viveva insieme. Lì Fuchs incontrò l’architetto Peter Behrens che aveva espresso idee non dissimili dalle sue. Ne nacque un sodalizio molto forte. La riflessione teorica di Fuchs confluì in La scena del teatro e del futuro (1905) e La rivoluzione del teatro (1909). Le conseguenze che trae sono due: bisogna progettare l’edificio della festa; bisogna individuare l’essenza linguistica del teatro della festa. Nel 1908 l’architetto Max Littmann realizzò, sulla base delle sue indicazioni, il Kunstler-theater di Monaco. L’edificio partiva dall’idea di realizzare uno spazio che unisse spettatori e attori in un abbraccio ideale. Oltre alla soluzione ad anfiteatro, che discendeva dal teatro di Bayreuth di Wagner, l’elemento più significativo riguardava la scena. Fuchs pensò ad una struttura a rilievo, divisa in profondità in tre parti. Una scena architettonica al tempo stesso plastica e neutra. Quale doveva essere invece l’essenza drammatica del teatro della festa? “L’arte drammatica è per sua essenza movimento ritmico del corpo umano nello spazio” che “diventa canto, si trasforma in sequenze ritmiche di parole recitate”. In sintesi la visione teorica di Fuchs si può riassumere nel concetto di teatro come festa, di edificio come tempio, di dramma come articolazione di un movimento che parte dal corpo e si estende agli altri elementi del linguaggio relazionandosi a uno spazio in rilievo. Dalle tre proposte esaminate emerge come esse non si limitino a rimettere in discussione le modalità della pratica scenica, a enfatizzare il momento dell’azione rispetto alla parola, ma ribaltano il concetto stesso di teatro: non una forma specifica di racconto che si affida a un testo verbale e lo concretizza in scena, ma la scena come una scrittura primaria e autonoma. Non siamo di fronte ad un’ipotesi su come fare il teatro in una prospettiva moderna, ma a una rivoluzione che mette in gioco cosa è il teatro nella sua essenza. Scena, Scenografia e spazio scenico Quando si dice scena, in questi contesti, si intende un concetto ben diverso da scenografia. Con scena, quei teorici intendono l’insieme dell’evento scenico e non solo una sua parte. Quando i suoi disegni venivano interpretati come scenografie, Craig si infuriava: erano progetti di teatro in forma visiva. Questo non significa che la scenografia scompaia né dal lessico né dalla prassi teatrale, ma è interessante notare come nel momento stesso in cui si formula l’ipotesi teorica del teatro come arte della visione essa perde di autonomia. Sintomatico quanto accade in un libro di grande importanza per la ricostruzione del passaggio tra ‘800 e ‘900: Esthetique generale du decor de theatre de 1870 a 1914 di Denis Bablet (1965). Fino agli anni ’80 dell’800 Bablet si occupa di scenografia e scenografi, poi il discorso scivola verso la regia e la scenografia è trattata come parte del progetto registico. Inoltre, ipotizzare la collocazione del teatro nell’ambito delle arti della visione non significa che la scena divenga “tanta”, che ci si trovi di fronte a spettacoli di matrice scenografica, come era accaduto nel Barocco. Ciò che conta invece è che la scena si faccia segno e non decoro e questo accade grazie al suo essere semplice, essenziale e ridotta ai suoi elementi primari. Condizione che comprendiamo meglio se pensiamo al riduzionismo minimalista che caratterizza l’astrazione pittorica e il Modernismo architettonico dei primi decenni del ‘900. Non va dimenticato anche che questi erano anni di grandi invenzioni scenotecniche. Il problema della scena è un altro e non a caso il dialogo tra regista e spettatore riguardo l’essenza del teatro, nell’Arte del teatro di Craig, inizia dopo che essi hanno visitato le attrezzature del palcoscenico, ma di esse poi non si parla. La scena come linguaggio e la scena come tecnica sono due cose distinte. Diverso il caso dell’illuminazione: l’elettricità è assunta come risorsa fondamentale per trasformare la luce in mezzo d’espressione. Jean Duvignaud arriva ad affermare che “la drammaturgia moderna è il regista più l’elettricista”. Praticamente universale è l’avversione verso le luci della ribalta, accusate di rovinare l’effetto di insieme. Per completare il quadro va fatta un’ultima puntualizzazione terminologica: l’introduzione del termine spazio scenico. Se scenografia indica un ambito circoscritto, con spazio scenico si intende sia l’organizzazione della scena che l’edificio teatrale, inteso non come contenitore o mera opera architettonica ma come parte integrante del linguaggio, in quanto intuisce un tipo particolare di relazione tra spettatore e attore. Nel 1927 Allardyce Nicoll scrive un libro destinato a diventare un classico “Lo spazio scenico”: ricostruisce la trasformazione dello spazio scenico nel corso dei secoli, ma l’intenzione di Nicoll non è di fare una storia dell’architettura teatrale bensì una storia dell’arte teatrale che vede nell’organizzazione dello spazio il suo oggetto d’elezione. II: LA REGIA Un concetto declinato al plurale Una volta individuate le coordinate storiche e concettuali che definiscono l’inizio del Novecento tracciarne il racconto non può che cominciare con la regia. È nel Novecento che la regia si trasforma da organizzazione della costruzione dello spettacolo in un vero e proprio modello diventando una sorta di fil rouge che attraversa il secolo subendo profonde metamorfosi ma presentando alcune costanti: la composizione unitaria, lo spostamento autoriale nella direzione del regista, la messa in scena come interpretazione e non illustrazione drammatica. Fin dai suoi esordi gli elementi che abbiamo elencato subiscono applicazioni molti diverse, sia nella resa che nelle intenzioni programmatiche. Ragion per cui la regia è un concetto, nella sua stessa essenza, da declinare al plurale. Un modello produttivo Il teatro è fatto di idee ma anche di dati materiali, il mestiere. Quando Ernesto Rossi, il Grande Attore italiano, incontrò la compagnia dei Meininger la cosa che più lo colpì è che non c’erano “artisti di grido” e Stanislavskij ricostruisce con ammirazione il rigore di Chronegk nel dirigere le prove con un’autorità assoluta. Sono due dati aneddotici che lasciano intravedere una modificazione sostanziale nella pratica del mestiere, senza la quale non ci sono le condizioni estetiche della regia. Il successo del Kleines aprì la strada a una stagione intensissima e ad un successo enorme che fece di Reinhardt il re del teatro berlinese e il prototipo di regista come effervescente ed eclettico costruttore di spettacoli, diversi a seconda del testo: aprì teatri con caratteristiche adatte alle diverse drammaturgie e utilizzò le nuove tecniche sceniche, prima fra tutte il palcoscenico girevole che gli consentiva repentini cambi di scena. Nel 1905 è chiamato a dirigere il Deutsches Theatre. Reinhardt lo rimoderna e ne fa il luogo dove allestire i classici. Lo spettacolo emblema di questa stagione è Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Reinhardt modificò radicalmente l’impianto convenzionale della messa in scena. Protagonista divenne il bosco, con alberi veri enormi che rendessero piccoli i personaggi, ed effetti visivi che esaltavano l’atmosfera magica del testo. Un’attenzione particolare era dedicata al dinamismo scenico e alla pantomima. La novità maggiore fu forse il modo di rappresentare Puck, il folletto dispettoso: non la bambolina leziosa ma una figura quasi demoniaca. Quello che si riprometteva Reinhardt fu di “recitare i classici in modo nuovo: bisogna rappresentarli come se fossero autori di oggi”. Con una simile impostazione, oltre a Shakespeare, mette in scena anche Schiller, Goethe e Calderon. Accanto al Deutsches, nel 1906 Reinhardt apre un piccolo teatro in cui platea e palcoscenico facevano un tutt’uno, divisi solo da due gradini. Lo chiamò Kammerspiele, “Teatro da camera”, e lo pensò come luogo adatto ad accogliere la drammaturgia moderna che aveva bisogno di un contatto intimo con lo spettatore; inaugurato con una versione di Spettri di Ibsen, l’azione si svolgeva in un’atmosfera cupa che evocava la spettralità dell’esistenza. Oswald fu interpretato da Moissi che ne diede una versione nevrotica. Il Kammerspiele fu la casa di Wedekind, Maeterlinck, Hofmannsthal, Wilde, ma c’era anche una terza via che interessava a Reinhardt, un teatro che rievocasse la partecipazione popolare dell’antica Grecia. Acquistò a questo scopo il Circo Schumann, che diventerà il Grosses Schauspielhaus, dove rappresentò Edipo re, l’Orestea, ma anche alcuni classici moderni come La morte di Danton di Buchner. Nel 1911 all’interno dell’Olympia Hall di Londra, un enorme edificio in vetro, fece ricostruire la navata di una chiesa in cui ambientare Il Miracolo di Vollmoeller, con il pubblico lungo la navata. Nel 1935 realizzò il Mercante di Venezia lungo le calli, campielli e ponti di Venezia. La sua curiosità intellettuale lo portò a confrontarsi anche con le esperienze più d’avanguardia. Allestì alcuni drammi espressionisti, tra cui Il mendicante di Sorge, per il quale realizzò una scena spettrale. Ma non si può annoverare Reinhardt tra i registi espressionisti: la recitazione restava misurata, il suo era solo il solito esperimento di adattare le sue doti registiche a forme drammaturgiche diverse. Gli anni Venti, caratterizzati in Germania da un difficile dopoguerra e da una forte politicizzazione delle arti, segnarono un momento di difficoltà per Reinhardt, accusato di “esotismo, evasione, esibizionismo tecnologico, inutile spettacolarità”. Ritornò quindi in Austria dove nel 1920 diede vita al suo grande sogno: un festival dove il teatro potesse ritrovare la sua natura di festa. Con il musicista Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, fondò il Festival di Salisburgo, tutt’ora uno dei più importanti appuntamenti mondiali, ed anche lì sperimentò soluzioni sceniche particolari. Ognuno, dramma di Hofmannsthal, fu realizzato davanti alla facciata barocca della cattedrale; dal cortile della cavallerizza ricavò un teatro dallo scenario architettonico naturale in cui ambientò un memorabile Faust. È sicuramente questo l’episodio più rilevante degli anni Venti. L’avvento del nazismo lo costrinse, lui ebreo, a lasciare la Germania, perdendo tutto quello che aveva costruito. Si trasferì negli USA dove aprì una scuola di teatro, ma non vi si ambientò mai del tutto e morì nel 1943. Jacques Copeau La terza via della prima stagione della regia moderna è quella di Copeau. Il suo approdo al teatro è tardivo, a 35 anni, e avviene per vie esterne al mestiere. Francese, inizia la sua attività come critico letterario e drammatico, vicino ai circoli più innovativi del Modernismo parigino. Nel 1908 è tra i fondatori della Nouvelle Revue Francaise che dirigerà fino al 1913 quando avvierà la sua attività aprendo il teatro del Vieux Colombier. Regista, Copeau è una figura di intellettuale che si dedica al teatro riconducendolo alla sua natura di evento culturale e sottraendolo al mercantilismo. Questo non lo rende indifferente alle problematiche concrete della messa in scena. Al contrario, proprio perché sia un fatto culturale, secondo Copeau, il teatro deve in primo luogo rifondare il suo linguaggio e la sua tecnica. Il passaggio alla pratica avviene nel 1911 con la riduzione scenica dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij per il Theatre des Artes diretto da Jacques Rouché. Era un intervento di natura drammaturgica che fece insieme all’attore Jean Croué, per la regia di Durec, ma divenne una sorta di laboratorio attraverso cui Copeau cominciò ad interrogarsi su cosa significasse la messa in scena e che legame dovesse istituirsi tra scena e parola. Rouché, che non era un regista, cercava di introdurre elementi di modernizzazione nel teatro parigino dopo che Antoine e Lugné-Poe avevano smussato la loro iniziale carica innovativa. Tale compito Rouché lo assolse pubblicando nel 1910 un piccolo libro, L’art theatrale moderne, in cui riassumeva le principali sperimentazioni europee da Fuchs a Stanislavskij, Craig, Appia e Mejerchol’d. Attraverso Rouché, Copeau entra in contatto con la rivoluzione moderna del teatro e quando nel 1913 aprì il suo Vieux Colombier, lo fece in una prospettiva modernista. Il suo progetto partiva dall’esigenza di chiudere con l’industria dello spettacolo, a Parigi particolarmente florida, e restituire allo spettacolo la sua bellezza. Si trattava di un progetto che metteva in campo un atteggiamento di natura etica oltre che estetica; non voleva tagliare i ponti con il passato, ma ritessere il legame con una tradizione che riteneva tradita. Bisognava cercare la vita nei classici, senza affossarsi nelle pratiche accademiche ma senza neanche cadere nei modernismi di maniera. Il motore di tale processo era il regista, in quanto guida di un processo creativo basato sull’accordo dei diversi elementi artistici indirizzati verso un unico scopo da un’unica intelligenza. Il teatro di Copeau si sarebbe affidato alla “scena nuda” che si metteva al servizio dell’attore, nel suo viaggio a ritroso verso la matrice originaria del testo drammatico. La prima stagione (1913-14) lo vide mettersi a confronto con la grande tradizione, Molière e Shakespeare, ma anche con la drammaturgia contemporanea di Renard e Claudel. Il più grande successo fu “La notte dei re o come vi piace (La dodicesima notte)” di Shakespeare. La guerra però interruppe il progetto. Copeau dovette chiudere il suo teatro e si trasferì temporaneamente negli USA dove visse una stagione felice di spettacoli, quindi non di ricerca, cosa che gli stava più a cuore. Copeau, con la collaborazione di Louis Jouvet, tentò di dare a quell’intuizione una veste concreta. Ne nacque un progetto di palcoscenico che, messo a punto per New York, diventò, al ritorno in Francia, la struttura di una scena architettonica fissa e priva di elementi rappresentativi per il Vieux Colombier: una pedana aggettante accessibile sui tre lati, sul fondo un arco ribassato con un ponte, una porta, un balcone uniti alla pedana con due scale. La scena era un tempo un elemento di costrizione, per l’attore, e di liberazione, anzi di liberazione proprio perché costrizione. Il “meno” della struttura formale diventava un più per le potenzialità espressive dell’attore. La regia consisteva nella capacità di guidare questo dialogo tra attore e spazio per portare alla luce la vita drammatica del testo. Nonostante questa visione ascetica della scena, Copeau non vuole un teatro serioso e cerca i fondamenti del linguaggio nella commedia e in particolare in Molière. Ma non il Molière accademico, quanto quello farsesco della Commedia dell’Arte, che si esprime attraverso il movimento scenico. Ma la realizzazione degli spettacoli gli sembrava ormai un esercizio di stile e la sua attenzione cominciò a concentrarsi su un progetto a cui aveva pensato fin dal 1913: l’apertura di una scuola, un luogo dove formare gli attori fin da giovanissimi, come persone prima e come attori poi. All’attore era richiesta una ricerca su di sé che mettesse in campo tanto l’espressione del corpo che quella delle emozioni. Bisognava evitare le trappole del mestiere e purgarne chi le avesse acquisite. Di qui il lavoro sull’improvvisazione, sulla maschera neutra (priva di espressione) che obbliga a cercare altri canali, tutti fisici. Copeau cercava la sincerità delle emozioni. Il suo teatro non riusciva, però, più a dargli sincerità e così nel 1924 si spostò con un gruppo di allievi in Borgogna per provare a risalire alle fonti vergini dell’attore al di fuori del sistema teatrale. Il termine di riferimento diventò sempre di più la Commedia dell’Arte, la tecnica quella dell’improvvisazione. Quella comunità strana assunse il nome di Copiaus e propose spettacoli nelle piazze durante le feste, un mezzo per tornare alle origini comunitarie del fatto teatrale. Quando i Copiaus rientrarono a Parigi e si strutturarono come Compagnie des Quinze, con Michel Saint- Denis come regista, Copeau abbandonò l’impresa. Il teatro “fatto” continuò saltuariamente a praticarlo, ma ciò che lo interessava era sempre di più l’indagine, la ricerca sulla natura più autentica. Non amava la parola rivoluzione. Per lui la regia era la costruzione delle condizioni perché la poesia tornasse a scrivere il teatro. Il regista era come un supplente a tempo, tempo destinato a durare un secolo. Vsevolod Mejerchol’d Il termine che meglio coglie la peculiarità registica di Mejerchol’d è eclettismo, ma in un’accezione diversa di quella usata per Reinhardt. Non si tratta di una regia che si modella a seconda del testo ma di un eclettismo de percorso artistico, nel senso che Mejerchol’d attraversa fasi dalle caratteristiche diverse. Dopo essere stato il primo Treplev del Teatro d’Arte di Mosca, Mejerchol’d abbandona l’impresa di Stanislavskij e si avvia lungo una ricerca sua personale di tipo simbolista. Nel 1905 il tentativo fallimentare del laboratorio affidatogli da Stanislavskij. Mejerchol’d avvia poi la sua vera e propria stagione come regista indipendente, definendola “teatro della convenzione”. Convenzione significa dunque, nel lessico mejercholdiano, rifiuto del realismo e piena leggibilità della dimensione artificiale della messa in scena. Una componente fortissima è quella della dimensione visiva e pittorica. Lo spettacolo è concepito come un quadro animato. L’occasione di sperimentare gli è offerta da Vera Komissarzevskaja, grande attrice russa, che, alla ricerca di un rinnovamento della sua identità artistica lo coinvolge come regista nella sua compagnia. Era una scommessa affascinante quanto azzardata: la grande diva e il regista anticonformista. Il debutto nel 1906 fu una Hedda Gabler di Ibsen antirealistica. Lo spettacolo fece scalpore e i fan dell’attrice protestarono vivacemente ritenendo che il regista ne avesse brutalmente irreggimentato le naturali qualità di sensibilità attorica dentro una rigida cornice registica. Lo spettacolo che più caratterizza questa fase è però La barca dei saltimbanchi di Aleksandr Blok, testo simbolista con un’ambientazione mistico-esoterica ma anche ironica con protagoniste alcune delle maschere della Commedia dell’Arte. Lo spettacolo era stato concepito come un teatro nel teatro. Gli elementi che caratterizzano il “teatro della convenzione” sono l’antirealismo, la figuratività pittorica, una statica tessitura gestuale, l’assorbimento dell’attore nel quadro scenico. La collaborazione con Vera durò poco per l’inevitabile conflitto tra un’attrice che voleva essere il centro dello spettacolo e un regista che considerava l’attore come elemento di una partitura. Licenziato, a Mejerchol’d venne offerto l’incarico prestigioso di regista dei teatri imperiali, tempio della forma più convenzionale e accademica del teatro russo. Mejerchol’d si mise a lavorare sui classici attraverso quello che definiva “tradizionalismo”, riportare i testi alla loro veste spettacolare originaria inserendovi elementi di stilizzazione modernista. Contemporaneamente, in teatri privati e cabaret continuava la sperimentazione avviata con la Baracca: giochi scenici dinamici, totale irrealismo, frattura della scatola scenica. È in questo periodo che approfondisce l’interesse per la Commedia dell’Arte e pubblica una rivista il cui titolo, “L’amore delle tre melarance”, cita un testo di Carlo Gozzi. È proprio in questo periodo che fu soprannominato Dottor Dappertutto, a segnalare un’attività frenetica e varia. La rivoluzione del 1917 determina una cesura nell’attività di Mejerchol’d che non solo aderisce al progetto rivoluzionario, ma si avvicina alle avanguardie. Inizia così un sodalizio con Majakovskij. Nel 1918 la messa in scena di Mistero buffo. Lo spettacolo più significativo di questo periodo però parte da un testo tutt’altro che politico: la farsa paradossale scritta nel 1921 da Fernard Crommelynck, “Il magnifico cornuto”. A Mejerchol’d non interessava tanto il tema, quanto il brillante congegno compositivo. L’impianto scenico fu affidato all’artista costruttivista Ljubov Popova che realizzò una struttura praticabile a più piani. Più che una scenografia era una macchina per gli attori che la agivano in tutte le sue dimensioni. A sottolineare che gli attori erano degli “operai” che lavoravano con la macchina scenica, Mejerchol’d scelse che indossassero delle tute blu. L’espressività dinamica del corpo si esaltò grazie anche alla nuova tecnica che Mejerchol’d stava mettendo a punto, la Biomeccanica. Nel quadro del processo di restaurazione politica e culturale che caratterizzò la Rivoluzione d’ottobre dopo il 1924, Lunacarskij coniò lo slogan “Tornare a Ostrovskij”, maestro del realismo russo ‘800esco. Mejerchol’d lo posizione così radicale di Piscator creò una frattura con la Volksbuhne; il primo intraprese allora l’avventura di un teatro suo, il “Teatro Piscator”. Con l’avvento di Hitler nel 1933, Piscator lasciò la Germania per gli USA. In quegli anni realizzò spettacoli rilevanti, in alcuni dei quali entra come parte integrante della scrittura il film, e la scena afferma così, ancora di più, la sua valenza drammaturgica. Piscator individua tre diversi modi di uso del film: quello didattico che “informa lo spettatore sull’argomento”, quello “drammatico” che si inserisce nello sviluppo dell’azione sostituendo la scena recitata, e il “commento” che agisce come una sorta di moderno coro. L’ida di Piscator era che una regia basata su una macchineria scenica complessa riuscisse a dare incisività alla dimensione politica perché in grado di raccontare la Storia attraverso strumenti di comunicazione diretti, efficaci e moderni. L’esigenza di una più articolata costruzione scenica lo spinse a proporre a Walter Gropius, architetto fondatore del Bauhaus, di progettargli un edificio teatrale. Gropius, che definì tale edificio “Teatro totale”, immaginò una struttura modificabile in cui si potevano realizzare diverse disposizioni dello spazio scenico. Il Teatro totale non venne realizzato ma resta la più significativa testimonianza moderna di un teatro “altro” rispetto al modello convenzionale. La dialettica tra direzione di un teatro, regia come fatto autoriale e impegno politico trova un elemento di sintesi nell’altro importante regista tedesco degli anni Venti, Leopold Jessner. La direzione teatrale ha, per lui, un ruolo strategico. Nel 1919, anno di nascita della Repubblica di Weimar, gli viene affidata la direzione del Teatro di Stato di Berlino che andava a sostituire il Teatro di Corte. Il Teatro di Stato doveva essere lo specchio dentro cui riflettere le aspettative democratiche della neonata Repubblica. Era indispensabile abbandonare i manierismi accademici e confrontarsi con la realtà. In una prospettiva politica profondamente diversa però da quella di Piscator. Fondamentale era la scelta del repertorio. Da giovane Jessner era stato il portavoce di Wedekind, la cui drammaturgia scandalosamente modernista si era scontrata poi con la censura. Con l’assunzione della direzione di teatri pubblici, anche prima di Berlino, la sua attenzione si sposta sui classici. Il suo modo di metterli in scena fu uno degli argomenti che arroventò il dibattito culturale. Bisognava secondo lui individuare il “motivo centrale” del testo, la ragione sociale e politica che legava la trama alle tematiche dell’epoca contemporanea. Per portarlo alla luce il regista doveva intervenire sulla struttura drammaturgica, per poi creare dalla nuova disposizione di questi elementi l’”opera scenica”. Lo spettacolo manifesto di questo modo di concepire la regia è il Guglielmo Tell di Schiller. Nel 1929 Jessner è costretto ad abbandonare la direzione del Teatro di Stato di Berlino ed i lì a poco, lui ebreo, scelse la via dell’esilio. In quell’anno chiuse anche il Teatro di Piscator e la stagione particolarmente vivace della regia tedesca degli anni Venti può dirsi finita. Francia Il contesto francese si presenta diverso da quello russo e tedesco. A Parigi c’è un gran teatro sia sul piano accademico, la Comedie Francaise, sia su quello commerciale. Gli elementi di innovazione registica faticano a trovare adeguati spazi di visibilità. Punto di riferimento è Jacques Copeau. Il Vieux Colombier e ancor prima l’allestimento dei Fratelli Karamazov, è il luogo di formazione di due dei protagonisti della regia francese: Louis Jouvet e Charles Dullin. Accanto a loro altre due figure: Gaston Baty, unico a non essere anche attore, e Georges Pitoeff. I quattro avviano l’esperienza di piccoli teatri in cui poter agire al di fuori del contesto industriale della scena parigina. Ruolo importante lo assume Jacques Hebertot, che nel ’22 invita Jouvet a dirigere la Comedie des Champs-Elysées e nel ’24 Baty a condurre lo Studio dello stesso teatro. Il 6 luglio 1927 i quattro registi fondarono un’associazione, il Cartel des Quatres, nel cui atto costitutivo era scritto che si basava “sulla stima professionale e sul rispetto reciproco” aggiungendo che ciascuno degli associati “conserva la sua piena libertà artistica e resta il solo responsabile del suo sfruttamento”. Si trattava insomma di un patto di solidarietà e di collaborazione più che della creazione di un movimento artistico. Tuttavia, c’è una serie di elementi che lega tra loro i firmatari: la reazione al teatro commerciale; la difesa dello spirito autentico del teatro; la considerazione della compagnia come un gruppo organico; il rinnovamento delle convenzioni; la ricerca di una nuova drammaturgia francese da affiancare alla rilettura dei classici; la ricerca di un’omogeneità scenica e un’attenzione particolare posta al problema dell’attore. Louis Jouvet era il più stretto collaboratore di Copeau al Vieux Colombier, attore e regisseur (direttore di scena) ebbe una parte rilevante nella messa a punto del tréteau. Nella prefazione alla tradizione francese del seicentesco “Pratica di fabricar scene” di Nicola Sabbatini si definisce “attore, spettatore, macchinista e costumista, attrezzista, pittore, suggeritore e datore di luci”. Questo lo porta a curare tutti i particolari della messa in scena preferendo scenografie essenziali inondate da una luce bianca e uniforme. Il fulcro della sua ricerca è l’attore. Jouvet distingue tra acteur e comédien: l’attore non può che interpretare certi ruoli, gli altri li deforma a seconda della sua personalità. Il comédien può interpretare tutti i ruoli. L’attore entra nel personaggio, il comédien lo riceve a sé”. È una distinzione capitale tra un tipo di attore che pone sé stesso e la sua interpretazione al centro del lavoro e uno che si fa strumento. La sua preferenza va al comédien. Jouvet non diede mai vita ad un suo metodo, ma la sua vocazione pedagogica fu fortissima e si basò sul lavoro continuo con l’attore, sulla sfera delle sue emozioni. L’incontro decisivo nella sua attività è con Jean Giraudoux. Jouvet aveva già messo in scena autori francesi, ma con Giraudoux è diverso. Questi cominciò a scrivere per il teatro, avendo alle spalle una brillante carriera di romanziere, grazie proprio all’incontro con Jouvet. A sua volta Jouvet trovò in Giraudoux le parole cariche di senso morale di cui aveva bisogno. Il lavoro sugli autori francesi lo porta a confrontarsi con scrittori diversi e nel 1947 a mettere in scena “Le serve” di Genet. A questo si affianca il suo lavoro sui classici che significano Molière (drammatico). Anche in Charles Dullin è centrale la messa in scena e testo. Il regista, sostiene, è un orologiaio che smonta e analizza i meccanismi di funzionamento di un orologio. Tutto il resto, la scelta degli attori, il tipo di recitazione e la scenografia, viene dopo. Il regista dissolve a questa funzione in maniera positiva se sa seguire l’opera nella sua integrità, è invece “nefasto” quando se ne impadronisce per i suoi scopi, svuotandola della sua autentica sostanza interiore”. Ne 1921, dopo aver lasciato il Vieux Colombier, Dullin fonda il Teatro dell’Atelier. L’Atelier è un luogo di spettacoli ma soprattutto uno spazio dedicato allo studio e al lavoro quotidiano dell’attore. Dullin, come Jouvet, non formalizza la sua metodologica di lavoro. Il fulcro delle sperimentazioni dell’Atelier era l’improvvisazione, con un forte rimando alla Commedia dell’Arte, di cui si voleva recuperare lo spirito, non imitarne le forme. Il corpo, il gesto, erano gli strumenti di lavoro. Nella scelta del repertorio Dullin oscilla tra i moderni e i classici. È il primo a portare in Francia Pirandello con “Il piacere dell’onestà”, nel ’22 mette in scena Nicolaj Evreinov e Armand Salacrou. Anche quando affronta i classici spesso li fa mediare da autori moderni, o li mette in relazione con la storia contemporanea. Pur prestando un’attenzione minuziosa alla scenografia, si oppone al primato della visività a teatro, facendo ricorso a pochi elementi essenziali e stilizzati. Gaston Baty non era un attore e non veniva dal Vieux Colombier. Fonda nel 1921 i Compagnons de la Chimère con cui inizia la sua avventura registica. Dello stesso anno è uno scritto che fece scalpore, “Sire le Mot” (Sua maestà la parola), in cui Baty ribadiva che la parola doveva cedere il suo dominio assoluto a teatro. La parola è in grado di comunicare fino ad un certo punto, oltre c’è la zona di silenzio che è compito del regista esprimere. Fondamentale era stata la scoperta nel 1907 del Kunstlertheater di Monaco: la scena doveva essere una funzione della regia e ridurre le sue pretese visive. È all’insegna di questa stilizzazione che lavora sugli autori moderni e sui classici che intende sottrarre alla sedimentazione di abitudini sceniche. Essere fedele ai classici significa rimetterli continuamente in discussione. Baty faceva anche diversi esperimenti di teatralizzazione scenica di romanzi, tra cui Delitto e Castigo di Dostoevskij, e fu il primo a portare in Francia Brecht. La dimensione registica di Baty è sempre stata legata alla messa in scena di un testo. George Pitoeff, russo, viene invitato a Parigi da Hebertot. La sua compagnia, che fece fatica a trovare una sede stabile, era condivisa con la moglie Ludmilla, attrice dalle straordinarie doti interpretative. Tra i quattro è quello in cui la dimensione scenica ha più risalto. Scrive: “Quando l’opera arriva sul palcoscenico, la missione dello scrittore è conclusa, è grazie ad un altro che essa si trasformerà in spettacolo”: il regista. Aggiunge anche che il primo dovere del regista è “entrare in comunione con l’opera”; questo non comporta concentrarsi sulla trama ma liberarne la “vibrazione moderna, rispettando l’integrità del testo”. Il rispetto del testo non consiste nell’adagiarsi sui modelli convenzionali ma nel saper estrarre dal dramma la sua anima moderna grazie ad un attento lavoro di scavo. Il rapporto dialettico tra scena e testo si manifesta nel ritmo. Ogni testo ne ha uno, secondo Pitoeff, e così ogni attore; il lavoro del regista consiste nel saperli coordinare per scrivere il ritmo unitario dello spettacolo. Pitoeff fu regista di moltissimi testi, tra cui molti di Cechov, con cui voleva freneticamente sperimentare soluzioni registiche diverse, ma gli spettacoli con cui toccò il suo vertice furono Sei personaggi di Pirandello, Santa Giovanna di Shaw. Rispetto ai grandi sconvolgimenti linguistici proposti in Russia e in Germania e ai fermenti d’avanguardia che animavano Parigi, i registi del Cartel hanno un approccio meno radicale. Non sono rivoluzionari, ma mettono in gioco, in un’accezione moderna, il rapporto tra regia e testo: non una regia autoriale e assoluta ma una regia che si dispone dialetticamente nei confronti del testo, rispettandone l’integrità ma distaccandosi dai canoni della convenzione accademica. Italia La ragione per cui è presente l’Italia in un discorso sulla regia primo-novecentesca è diametralmente opposta a quanto detto per gli altri paesi; anziché rapido, il suo fu un lentissimo affermarsi. Fino al 1932 quando il linguista Bruno Migliorini propone in un articolo sulla rivista “Scenario” di adottare i lemmi “regia” e “regista”, non esiste neanche la parola. Migliorini sceglie “regia” da “régie”, preferendo a “mise en scène” e opta per l’espressione “regista” che oggi sembra ovvia, al posto di un cacofonico “regissore”. Il testo di Migliorini testimonia due cose: quanto il dibattito sulla regia in Italia sia tardo, e come la scelta terminologica abbia inciso poi nel discorso critico. La ragione di questa situazione non risiede nell’ignoranza dello scenario europeo ma nella struttura di un sistema teatrale basato ancora sul capocomico mattatoriale e su compagnie di “giro” che cambiavano continuamente città e repertorio. Regia e stabilità sono, invece, un’accoppiata inscindibile. Questo stato di cose non significa però l’assenza del tutto di fenomeni che si indirizzano in una direzione registica, solo che si tratta di esperienze che non “fanno sistema”. Tra i tentativi di smuovere lo status quo vi è quello di Virgilio Talli, attore che si trasforma in direttore in un’accezione moderna del termine: pone un argine al sistema dei ruoli; riduce il primato delle vedettes; assume su di sé la linea interpretativa della messa in scena del testo. Si tratta di una partica scenica che fece parlare di “compagnia di complesso” rispetto a quella capocomicale, ma è ancora più un modo di organizzare lo spettacolo che di orientarlo registicamente. Più incisivo il progetto di Luigi Pirandello, che nel 1925 assume la direzione del Teatro d’Arte, esperienza importante ma troppo breve per poter realmente incidere sul tessuto teatrale italiano. Si conclude infatti nel ’28 ma è più di un anno che ha perso vigore. Il progetto del Teatro d’Arte consisteva in alcuni punti chiave: costituire un teatro stabile; sperimentare una messa in scena che desse dignità d’arte allo spettacolo; curare una distribuzione delle parti che non tenesse conto in modo rigido del sistema dei ruoli; dare uno spazio importante alle prove. Nel primo anno il teatro ebbe una sede stabile, il Teatro Odescalchi, che dovette lasciare quasi subito. Era un piccolo teatro restaurato in chiave modernista da Virgilio Marchi, curato nei dettagli e dotato di un sistema illuminotecnico moderno. Pirandello non fece del Teatro d’Arte il luogo dove rappresentare i suoi testi, anche se ne realizzò diversi, ma l’occasione per cimentarsi con la messa in scena come attività autonoma, appassionandosi soprattutto alle possibilità espressive delle luci. La sua modalità direttoriale aveva molti punti in comune con la regia europea ma praticamente nessuno se ne accorse. Uno degli spettacoli in cui meglio risalta l’anima registica di Pirandello è quello inaugurale, il suo “La sagra delle signore della nave”. Il tentativo registico di Pirandello resta un corpo estraneo rispetto al teatro italiano. Altrettanto estraneo è il Teatro Sperimentale degli Indipendenti diretto da Anton Giulio Bragaglia dal ’23 al ’30. Il teatro fu progettato da Virgilio Marchi e decorato da Balla, Prampolini e Depero. Si tratta di un’operazione dunque vicina al di un teatro astratto che fa a meno dell’attore. Nel 1924 chiarirà il concetto parlando della “personificazione dello spazio nella funzione di attore” per la realizzazione di un teatro poliespressivo futurista. Prampolini inaugura la sua attività teatrale nel 1918 con uno spettacolo di marionette, Matotum e Tevibar, testo simbolista di Birot, la cui scena era risolta in una serie di piani di stoffa coloratissimi articolati nello spazio. Il vero poeta, Matotum, aveva la testa che si illuminava, il falso, Tevibar, era caratterizzato da toni cupi. Nel 1920 collabora con Achille Ricciardi all’esperimento del teatro del colore, che Ricciardi aveva teorizzato fin dal 1913 sostenendo l’idea che il colore dovesse avere in scena una funzione espressiva autonoma in grado di sollecitare gli stati emotivi profondi dello spettatore, con una funzione analoga a quella della musica in Wagner. Del 1927 è la Pantomima futurista realizzata con Maria Nadotti. Nella Pantomima futurista, diversamente da quanto teorizzato in precedenza, è presente la componente umana, che esprime il dinamismo scenico attraverso la meccanizzazione del gesto e la stilizzazione geometrica del movimento. Nello stesso 1927 un progetto estremo: il Teatro Magnetico, che vinse il Gran Prix di Parigi. Un edificio teatrale il cui esterno riproduceva la Te la M e il cui interno si faceva esso stesso spettacolo, con lo spettatore invitato a compiere un percorso sensoriale fatto di immagini, luci, proiezioni. Lo spettatore diventava attore del suo stesso spettacolo. Il Teatro Magnetico rimase allo stato di progetto ma prefigura una nuova condizione dell’opera teatrale che eccede i confini dello spettacolo e si trasforma in esperienza sensoriale. L’attività teatrale di Giacomo Balla è più circoscritta ma non meno significativa. A lui si deve nel 1917 il più compiuto esperimento di teatro astratto, il Feu d’artifice di Igor Stravinskij, prodotto dai Balletti russi di Sergej Djagilev, un episodio che rende bene lo spirito dei tempi: la più nota compagnia di danza moderna del momento che commissiona ad un pittore d’avanguardia uno spettacolo senza danzatori. Balla aveva costruito un paesaggio di volumi geometrici tridimensionali di colore neutro illuminati con varianti cromatiche che interagivano con la musica dando vita ad una partitura sonoro-visiva che faceva della scena la protagonista assoluta. Le difficoltà tecniche non resero che in parte minima le intenzioni di Balla, ma lo spettacolo resta una testimonianza fondamentale delle potenzialità di un teatro dei pittori a matrice astratta. Il terzo pittore futurista a cimentarsi col teatro è Fortunato Depero. Nel 1918 dà vita ad un teatro di marionette, i Balli plastici: “liberandomi dell’elemento uomo, conseguii la massima autonomia e la massima libertà nelle mie amatissime costruzioni viventi”. L’uso della marionetta creava un continuum visivo tra personaggio e ambiente. Ovviamente le marionette di Depero sono distanti da quelle convenzionali, sono sagome di legno dai tratti stilizzati e geometrizzati. Immagini in movimento, colori, forma, astrazione: il teatro dei pittori futuristi è programmaticamente antinarrativo, come lo è il complesso del teatro futurista, aspirando, viceversa, ad un “meraviglioso moderno” in grado di stupire e spiazzare lo spettatore. Dada e Surrealismo Tra i movimenti di avanguardia, il dadaismo è forse il più estremo. Nasce a Zurigo nel 1916 in una Svizzera neutrale dove avevano trovato asilo artisti di varie nazionalità. Tristan Tzara, poeta rumeno e principale figura di riferimento del movimento, negli anni ’50 sosterrà che la “volontà di distruzione era molto più aspirazione alla purezza e alla sincerità che tendenza ad una sorta di inanità sonora o plastica”, che lo spirito distruttivo di Dada non era fine a sé stesso ma un modo per porre la questione di un nuovo inizio. Nel Manifesto del Dadaismo del 1918 Tzara scrive che “Dada non significa nulla” e specifica “Noi non riconosciamo alcuna teoria. Basta con le accademie cubiste e futuriste” proponendo una “protesta a pugni di tutto l’essere intento a un’azione distruttiva”. vengono quindi proposte, urlate per meglio dire, una serie di abolizioni: della logica, della memoria, dell’archeologia, dei profeti, del futuro. L’abolizione del futuro appare del tutto inedita per le avanguardie. Dada si presenta come una antiarte che mette in primo piano la vita, l’effimero, e un gesto distruttore che aggredisce la logica, il buon senso borghese e l’idea stessa di arte. La storia di Dada inizia con uno spazio aperto da Hugo Ball, poeta tedesco emigrato in Svizzera a causa della guerra, il Cabaret Voltaire, nome che coniuga assieme la modernità del varietà con il profeta del razionalismo illuminista. È attorno a questo luogo che si aggregano artisti di diversa provenienza, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Arp, Sophie Tauber, mossi da un comune spirito di contestazione totale. Il Cabaret Voltaire fu uno spazio animato da “serate” in cui venivano declamati proclami, poesie dal linguaggio disarticolato, esposte opere pittoriche. Nei suoi soli due anni di vita vi si potette assistere a situazioni spettacolari della più diversa e provocatoria natura. Tzara presentò le sue “Poesie statiche”: su delle sedie erano disposti dei cartelli con delle parole, a ogni buio di scena le sedie venivano spostate creando una sequenza verbale casualmente diversa. Gli esordi di Dada sono quindi riconducibili ad una forma di spettacolarizzazione della poesia attraverso azioni fisiche. Il 23 giugno 1916 Hugo Ball comparve sulla scena del Cabaret Voltaire abbigliato in un costume che lo trasformava in una sorta di misteriosa figura meccanica con le gambe infilate dentro due tubi di cartone, un cilindro attorno al corpo, un mantello rosso e oro che si muoveva simulando delle ali, un lungo cappello a forma di imbuto a strisce. Di fronte a tre leggii lesse tre sue poesie, di cui l’ultima, “Gadji beri bimba”, era un puro insieme fonetico. L’evento poetico si era trasformato in una nuova forma di spettacolo. Finita la guerra, la comunità zurighese si sciolse e il Dada migrò per l’Europa. Il nuovo epicentro diventò Parigi, dove nel 1920 si trasferì Tzara, accolto come un Messia ribelle dal gruppo di “Littérature”, rivista modernista diretta da Breton. Il clima culturale dell’avanguardia parigina era propizio a questo nuovo scossone. Nel 1917 Guillaume Apollinaire aveva messo in scena un testo, “Le mammelle di Tiresia”, che aveva fatto grande scalpore per la decostruzione della logica narrativa: una donna che si trasforma in uomo, rifiutando la maternità, e il marito che partorisce al suo posto più di quarantamila bambini in un giorno. Apollinaire aveva battezzato quel suo dramma “surrealista” e Breton, qualche anno dopo, sceglierà quel termine per nominare il suo nuovo movimento artistico. C’erano dunque le premesse perché anche il teatro trovasse una sua via verso l’avanguardia. Lo fece con l’arrivo di Tzara. Parigi fu protagonista nei primi anni Venti di una serie di serate provocatorie, esplosive, irridenti costruite sul modello zurighese. All’interno di queste Tzara presentò il suo primo testo teatrale: “La prima avventura celeste del Signor Antipirina”. Annullata ogni dimensione narrativa, negato il dialogo e dissolto ogni vincolo di senso, la drammaturgia si risolveva in “grumi di phoné”. I personaggi erano ridotti ad enunciati verbali, il linguaggio oscillava tra gioco fonetico e nonsense. Poi senza logica appariva Tzara che declamava un manifesto dadaista. La decostruzione del senso è alla base anche dei testi teatrali successivi, con una progressiva attenzione però verso l’organizzazione formale. Vero e proprio dramma dell’assurdo sarà “Cuore a gas” di Tzara, dove i personaggi sono parti di un viso, Occhio, Naso e Bocca; Tzara reintroduce il dialogo ma spiazza la logica rifuggendo da una conversazione coerente e ricorrendo a moduli ripetitivi. Nello stesso 1924 Tzara mette in scena “Fazzoletto di nubi”. Stavolta c’è un barlume di trama, con l’evocazione di un ménage a trois, ma l’azione è frammentata in 15 brevissimi atti inframmezzati da personaggi, individuati con le lettere A B C che fungono da coro che commenta l’azione e il rapporto realtà finzione. Temi che hanno un riconoscibilissimo sapore pirandelliano. D’altronde nel 1923 la messa in scena di Sei personaggi di Pirandello aveva suscitato un enorme scalpore. Il 1924 è un momento di frattura: in un processo di conflitto e continuità il Dada si estingue, e nasce, ad opera di Breton, il Surrealismo. Il gioco nichilista dadaista appare a Breton divenuto ripetitivo e fine a sé stesso. Bisogna aprire un nuovo fronte di sperimentazione che guardi alla dimensione originaria e inconscia dell’io liberandola dalla gabbia della ragione. Fondamentale fu la lettura degli studi dell’interpretazione dei sogni di Freud. Il sogno diventò uno dei valori chiave della nuova estetica. Nel Manifesto del Surrealismo del 1924, Breton scrive “perché non mi aspetterei dall’indizio di un sogno più di quanto non aspetti da un grado di coscienza sempre più elevato?” e propone una fusione tra realtà e dimensione onirica che strappi la percezione dall’illusione del quotidiano determinando la “surrealtà”. Il termine “surrealtà”, coniato prima da Apollinaire, diventa in Breton qualcosa di complesso, lo strumento per disarticolare la conoscenza razionale e arrivare ad una rivoluzione complessiva della sensibilità e della stessa identità umana. Gli strumenti necessari a tale fine sono l’automatismo psichico, l’accostamento di elementi incongrui in grado di creare associazioni libere e altrettanto libere. Tecniche che rimandano ai meccanismi linguistici del sogno individuati da Freud: la condensazione di segni diversi in un’unica immagine e lo spostamento di elementi da un contesto ad un altro con la perdita di senso. Breton riteneva che la poesia e la pittura fossero le arti in cui si potesse esprimere la scrittura automatica surrealista, guardava, viceversa, con sospetto al teatro che abbisogna necessariamente di un processo di costruzione. Aveva scritto dei brevissimi testi nel 1920, insieme a Soupault, che erano finiti all’interno delle serate dadaiste parigine ma li considerava dei giochi performativi legati ad una stagione che riteneva esaurita. Questo non significa che non ci fu un teatro surrealista ma fu un teatro di “eretici”, di artisti che presero parte al gruppo e poi, in parte proprio per la loro scelta teatrale, ne furono espulsi, pur rimanendo in sostanza dei surrealisti: Roger Vitrac e Antonin Artaud. Nel 1926 fondarono il Teatro Alfred Jarry, rifacendosi al padre di tutti i dissacratori. Fu un esperimento di breve vita, solo quattro spettacoli fra il 1927 e il 1930, ma rappresenta un momento importante nel ‘900. Le prime esperienze di scrittura teatrale di Vitrac nascono nell’ambiente dadaista. “Veleno”, pubblicata nel 1920, è una pantomima muta di dodici quadri mimici che presentano situazioni diverse e scollegate, caratterizzate da forte ascendenza onirica. Un’opera di poco successiva segna un’apertura ancora più evidente verso le dinamiche linguistiche del sogno: “I misteri dell’amore”. Antonin Artaud L’altro surrealista “eretico” è una delle figure di spicco del ‘900. Per quanto sia stato un surrealista è riduttivo limitarlo a quel contesto a causa di una visione teatrale particolarmente complessa, utopica, che ne fa uno dei “fondatori” del ‘900 teatrale e ha avuto ricadute importanti nella seconda metà del ‘900. Artaud arriva a Parigi all’inizio degli anni Venti con aspettative di poeta. Fondamentali gli incontri con Breton e Dullin che gli aprono l’uno le vie dello sperimentalismo d’avanguardia, l’altro la pratica di una modalità attorica del tutto innovativa. Tuttavia, Artaud fu parte importante di tutto il movimento surrealista, scrivendo sulla rivista del gruppo e dirigendo per un certo periodo il Centro di ricerche surrealiste. Nel 1926 però c’è la frattura con Breton, determinata in parte dagli interessi sempre più concreti verso il teatro ma anche da un’inconciliabile differenza di vedute su un concetto cruciale in quel momento storico, quello di rivoluzione. Il conflitto fu inevitabile e Artaud fu ripudiato. Nel 1926 insieme a Vitrac e Robert Aron, Artaud apre il Teatro Alfred Jarry i cui elementi programmatici sono espressi in una serie di importanti scritti teorici. Il primo elemento è il disprezzo per i mezzi teatrali correnti e la ricerca di una “necessità interiore” del teatro. La tesi di base è espressa nello scritto inaugurale ed è chiara nel suo voler radicalmente spiazzare la destinazione del teatro: “vogliamo arrivare a questo: che ogni spettacolo allestito è per noi in gioco una partita grave…Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi ad un’operazione vera”. Questa intenzione di fare del teatro il luogo di un qualcosa di estraneo che agisca sullo spettatore in modo dirompente, si tradusse in un repertorio che spaziava di molto. La scena era trattata come una vera e propria scrittura. L’attività pratica di Artaud si risolse nella messa in scena, nel 1935, di un suo testo, “I Cienci”, in cui cercava di dare corpo alle idee teoriche raccolte in un libro diventato un classico: “Il teatro e il suo doppio”; il volume raccoglie testi di anni diversi rimontati da Artaud come capitoli. La prima occasione per ripensare il teatro dalle sue radici è fornita dalla visione, nell’Esposizione coloniale di Parigi del 1931, di uno spettacolo di danze balinesi. Artaud fu colpito dal contatto con un teatro “altro” da quello occidentale, non verbale, non realistico, ma gestuale e fisico, simbolico. “In questo teatro ogni creazione umana viene dalla scena, trova la sua traduzione e le sue origini in un impulso psichico segreto che è la Parola prima delle parole”. Questa parola originaria non si risolve nel verbo ma riguarda tutte le componenti della scena che formano un alfabeto attraverso cui uno stato d’animo consente di risalire ad una condizione di estasi. Questo sguardo ad oriente porta Artaud a ribadire il suo rifiuto per il teatro “quale lo conosciamo in occidente”. Di quel teatro rifiuta più il dialogo, portatore di una dimensione narrativa e discorsiva, che la parola in sé di cui apprezza invece le potenzialità di evocazione magica legate alla sonorità. Ciò che gli preme è un linguaggio teatrale fisico in grado di toccare i sensi più che la mente dello spettatore. Lo definisce “pantomima non pervertita”. la sua ricerca sperimentando danze sui materiali, metallo, vetro e legno. Nella “Danza dei bastoni” un danzatore indossava una calzamaglia era, che lo rendeva praticamente invisibile. L’attore virtualmente sparisce e a danzare sono direttamente i materiali. Sullo stesso quaderno, Nagy propone un teatro di varietà basato sul gioco dinamico degli spazi, colori, suoni, e luci esiliando del tutto la figura umana e Gropius pubblicava il suo progetto di “teatro totale”. L’Espressionismo Sviluppatosi soprattutto in Germania, l’Espressionismo presenta un’anomalia significativa rispetto agli altri fenomeni dell’avanguardia. Non è un caso che manchi un manifesto programmatico. Il testo che ne sintetizza l’estetica è di un critico e riassume una poetica: “Espressionismo” di Hermann Bahr, 1916. I dati principali che vi emergono sono due: la distinzione tra Impressionismo ed Espressionismo, intesi come modi opposti di intendere il rapporto tra arte e realtà (se nel primo caso prevale la ricettività percettiva dell’artista, nel secondo la capacità di produrre un segno artistico espressione della propria interiorità), e la collocazione dell’artista nel drammatico momento storico. Un anno dopo lo scrittore Kasimir Edschmid renderà con evidenza apodittica la nuova collocazione dell’artista: “egli non guarda, vede; non racconta, vive; non riproduce, crea; non trova, cerca.” Queste affermazioni sono da un lato in sintonia con il rifiuto della rappresentazione tipico delle avanguardie, dall’altro evidenziano un peculiare sentimento del tragico inteso come rifiuto della realtà sociale e come sofferta ribellione. L’artista espressionista è colui che sente l’inanità del tempo presente e scaglia questo suo sentire contro il mondo: è il primato della cultura sulla civilizzazione. Come data di inizio dell’Espressionismo si può indicare il 1905 quando un gruppo di pittori che ruota intorno a Kirchner fonda il movimento del Ponte. L’acme si ha durante e subito dopo la guerra fino a che l’Espressionismo può dirsi esaurito. Fazio è più precisa individuando nel “Teatro dell’estasi” di Felix Emmel del 19124 il testo che chiude la stagione espressionista, riassumendone motivi, slanci e suggestioni. Ancora una volta il 1924 torna come data chiave, momento di svolta e crisi che ridisegna lo scenario del “nuovo”. I tratti comuni al teatro espressionista sono il risalto dato alla parola come Verbo, evocazione lirica più che tramite logico della comunicazione, la trasfigurazione della realtà in una dimensione simbolica, la forzatura del linguaggio, il sentimento di ribellione. Alle spalle vi sono figure diverse di filiazione: George Fuchs e Strindberg, ma anche Craig e un autore che fu riferimento per i giovani: Franz Wedekind. Wedekind appartiene alla generazione di mezzo tra ‘800 e ‘900, ma la sua storia personale e artistica lo pone in una posizione anomala rispetto alla transizione del secolo. Figura in totale controtendenza rispetto alla sua epoca, Wedekind dovette aspettare il ‘900 perché il suo lavoro venisse riconosciuto. Precedentemente la scandalosità dei temi trattati e l’impossibilità di collocarlo dentro le coordinate estetiche dell’epoca lo tennero ai margini del contesto teatrale, viceversa ad inizio ‘900 diventò un autore di riferimento. Nel giro di pochi mesi Jessner e Reinhardt portarono il suo “Risveglio di primavera” all’attenzione dell’ambiente culturale. Il testo era stato pubblicato nel 1891 ma il suo riscontro tardivo ci spinge a parlarne come di un testo novecentesco. Racconta la storia di un gruppo di adolescenti a confronto con la sessualità che fa sentire la sua impellenza in un mondo di adulti che la censura, così come li censura come individui. Wedekind trasforma questa condizione in una tragedia della ribellione sociale. Due dei protagonisti muoiono. Dietro l’illusoria atmosfera realistica, contraddetta nel finale, Wedekind costruisce un dramma che lascia emergere gli stati d’animo dei personaggi. Il dialogo più che strumento di conversazione è momento di confessione. Il secondo oggetto di scandalo di Wedekind è il ciclo dedicato al personaggio di Lulù, “Lo spirito della terra” e “Il vaso di Pandora”. Il dramma ruota intorno ad un personaggio femminile colto in una sorta di pellegrinaggio dei sensi e dello spirito che la porta dalle altezze più sofisticate ai più infimi abissi, conducendola alla morte per opera di Jack lo squartatore. Sessualità, rivolta contro i costumi borghesi, azione che scivola alla suggestione metaforica, sono egli elementi che fecero esplodere il fenomeno Wedekind nella Germania puritana di inizio secolo. Tra il 1912 e 1914 vengono pubblicati due testi chiave dell’espressionismo: “Il mendicante” di Sorge, e “Il figlio” di Hasenclever. In entrambi il nucleo tematico è la rivolta di un figlio contro il padre scaturita dalla disperazione. La costruzione narrativa è sostanzialmente rispettata, così come la forma dialogica, ma entrambe presentano scarti che ne contraddicono dall’interno la logica discorsiva in nome di un’evocazione poetica. L’ambientazione è realistica. Entrambi i testi sono accumunati anche da un destino comune: le potenzialità eversive della loro scrittura furono messe in luce da regie che seppero rompere la crosta ancora in parte convenzionale della scrittura. Nel 1917 Reinhardt inaugura con “Il mendicante” la Das Junge Deutschland. Non diversamente Richard Weichert risolse la regia de “Il figlio”. L’innovazione linguistica dei due testi è sicuramente legata alla modalità di composizione drammaturgica ma è ugualmente determinata dalle soluzioni registiche. Questo ci conduce ad un altro livello dell’Espressionismo tedesco, quello dei registi. Si tratta di un fenomeno particolare perché non si può certo definire espressionista Reinhardt e lo stesso Weichert lo è per adesione formale. Esemplare anche il caso di Jessner, assimilato all’espressionismo ma anche nel suo caso l’adesione fu più alle modalità che alla poetica. A queste modalità dell’Espressionismo ne va aggiunta un’altra basata su una forte impronta mistica. Ad essa può essere ricondotto il primo dramma espressionista “Assassino, speranza delle donne” di Oskar Kokoschka, 1907. È un atto unico breve che presenta un processo iniziatico di ascendenza superomistica. Kokoschka era un pittore ma il suo non può essere annoverato nel teatro dei pittori perché nel momento in cui scrive agisce a pieno titolo come autore drammatico. Il testo mostra il conflitto tra Uomo e Donna, manifestazioni di principi opposti. Il testo viene pubblicato nel 1910 sulla rivista “Der Sturm”. Lo spazio dato al testo è il segnale dell’interesse verso il teatro e verso l’Espressionismo. Nel 1916 Walden chiamò a dirigere “Der Sturm” Schreyer, scrittore, regista e teorico dell’Espressionismo. Partendo dall’assunto condiviso da tutte le avanguardie del rifiuto della rappresentazione, Schreyer pensa l’opera d’arte come rivelazione di una forza spirituale originaria, di cui l’artista deve farsi medium. L’arte per lui non è espressione del sé ma espressione attraverso il sé, risultato è uno stato di estasi in cui si annulla il soggetto. Teatralmente tale processo si realizzava attraverso l’attore considerato come un corpo simbolico e spersonalizzato, spesso celato dietro una maschera. Schreyer sperimentò le sue ipotesi dando vita ad un laboratorio i cui risultati erano mostrati solo ad un elitario gruppo di spiriti eletti. Quando Gropius lo chiamò a dirigere il laboratorio teatrale del Bauhaus era chiaro che la collaborazione non avrebbe dato frutti, ma questo testimonia l’importanza della visione teatrale di Schreyer nella Germania della fine degli anni ’10. Il dramma d’esordio del laboratorio di Schreyer fu “Santa Susanna” di August Stramm. Il testo mostra come apologo sintetico, simbolico e provocatorio, la trasformazione in estasi sensuale della tensione mistica di una monaca. La sensualità esplode in maniera incontenibile di fronte all’immagine monumentale di un crocifisso. Stramm, diventato poeta del Der Sturm, non affronta il tema attraverso una drammatizzazione narrativa, si concentra su immagini statiche, fortemente evocatrici che costituiscono una vera e propria drammaturgia visiva grazie alla precisa e quasi astratta partitura dei gesti descritta nelle didascalie. La stessa parola assume potenza evocatrice. La parte più significativa dei drammi espressionisti è scritta nella prima metà degli anni Dieci, nel clima teso che precede lo scoppio della guerra; le messe in scena sono del tardo periodo bellico e di quello immediatamente successivo. Le atmosfere cupe in tale contesto vengono accentuate esaltando il tono di una tragicità moderna che non lascia molti margini di catarsi. L’atmosfera bellica e postbellica si riflette anche in un’ulteriore anima dell’Espressionismo, quella politica. Il caso più esemplare è Ernst Toller, con “La svolta” e “Uomo massa”. La disfatta della Repubblica dei Consigli portò ad una repressione violenta di cui Toller fece le spese con una reclusione di 5 anni. Nel 1927 la sua vicenda si tradusse in modo quasi autobiografico in “Oplà noi viviamo” il cui protagonista, tornato in libertà, scopre che gli ideali di un tempo sono stati traditi dai suoi compagni. Cerca di reagire attentando alla vita di uno di loro, divenuto nel frattempo ministro, ma è anticipato da un nazionalista di destra. Arrestato nuovamente, si suicida. Il testo segna una trasformazione radicale nella scrittura di Toller che dai toni lirici dell’espressionismo passa ad una struttura di tipo più didascalico. L’Espressionismo è finito. IV: Forme e modi della drammaturgia Il testo letterario L’assetto che assume il sistema linguistico del teatro del primo ‘900 vede una diffusa tendenza a privilegiare il momento scenico. È un atteggiamento che si traduce nell’uso ricorrente di due termini che diventano delle vere e proprie parole d’ordine: “specificità” e “autonomia”. Entrambi fanno riferimento all’indipendenza che il teatro rivendica rispetto al testo letterario, considerato al vertice di una piramide gerarchica in cui gli elementi scenici hanno invece una funzione subalterna. I teorici e registi del Novecento modificano tale assetto spostando la dimensione dell’autorialità dalla scrittura letteraria a quella scenica o creando le condizioni di una doppia autorialità. L’idea che il testo letterario fino al ‘900 sia esistito come un’entità autonoma e autosufficiente rispetto alla messa in scena è un’astrazione, basti pensare ai casi di Shakespeare e Molière in cui la scrittura nasceva all’interno dello spettacolo, ma anche lo stesso Goldoni. È vero però altrettanto che il testo era, in questi casi, molto più di un canovaccio e che in molte fasi storiche esso è stato scritto come un prima rispetto al dopo della messa in scena. In questi casi il testo letterario non è una parte del tutto ma il luogo in cui si sintetizza il progetto drammaturgico. Detto altrimenti è il punto di sintesi del linguaggio, il che ne fa un’opera dotata di una sua leggibilità in termini sia letterari che teatrali. Ci sono certo eccezioni nella storia, come la Commedia dell’Arte o il teatro del Grande Attore ottocentesco, in cui il ruolo primario dell’attore finiva con il decentrare il testo ma anche in questo caso ad emergere era la rilevanza della scrittura. Flaminio Scala, ad esempio, uno dei maestri della commedia dell’arte seicentesca, in un Prologo motiva l’originalità della sua proposta in quanto atto letterario basato sull’osservazione del reale invece che sul rispetto delle regole accademiche. Il testo letterario tende in gran parte a non essere più il luogo di sintesi della drammaturgia dello spettacolo. Tanto è vero che lo stesso termine drammaturgia, utilizzato convenzionalmente per indicare la testualità letteraria, subisce una radicale modificazione. Il termine drammaturgia verrà applicato all’attore, allo spazio e a tutti gli altri segni scenici utilizzati con un’intenzione autoriale propria. La scrittura drammaturgica del primo ‘900 si trova a dover ridisegnare la sua collocazione all’interno del nuovo assetto linguistico mettendo in discussione lo statuto letterario e teatrale dei suoi elementi costruttivi: parola, personaggio, narrazione. Un nuovo modello costruttivo La messa in contraddizione degli elementi costitutivi della forma drammatica e la ricerca della difficile convivenza tra scrittura poetica e scrittura scenica si traducono in due diverse opzioni sotto le quali possiamo inserire l’insieme della produzione letteraria per il teatro del primo ‘900: procedere ad una modernizzazione della scrittura che risente della contraddizione ma non la affronta di petto, o agire dentro la contraddizione per renderla drammaturgicamente attiva, sperimentando un nuovo modello costruttivo. È quanto fanno due figure cruciali nel processo identitario del ‘900: Pirandello e Bertolt Brecht. Scrivere la crisi della forma drammatica: Luigi Pirandello Affrontare la difficile convivenza tra scrittura letteraria ed incarnazione scenica e porre l’identità di personaggio e racconto come elementi problematici sono l’oggetto attorno a cui costruisce la sua scrittura Pirandello. Nel 1908 quando ha già pubblicato “Il fu Mattia Pascal” scrive “Illustratori, attori e traduttori”, saggio in cui si pone il problema della possibilità del teatro in quanto arte. Istituendo un parallelismo tra chi traduce un’opera da una lingua all’altra e chi la illustra visivamente, Pirandello affronta la questione della dialettica tra scrittura letteraria e realizzazione scenica. È impossibile che la creatura viva che ha immaginato l’autore, il personaggio, arrivi tal quale sulla scena, qualsiasi sia l’impegno dell’attore. Certo, l’attore potrebbe improvvisare creando direttamente sulla scena, ma così finirebbe per mancare la dimensione artistica del teatro, la poesia. Così Pirandello conclude che il teatro è un’arte impossibile. Pirandello non nega il teatro, ma ne parla come di un’arte impossibile. Passano pochi anni e Pirandello comincia a scrivere intensamente per il teatro. L’anno cruciale è il 1916. Per l’attore siciliano Angelo Musco scrive i primi testi in dialetto: Pensaci Giacomino, Liolà, Il berretto a sonagli. In essi traduce scenicamente il problema dell’identità tra piano personale e piano sociale. Gli anni dell’esilio, dal 1933 al 1947, sono quelli delle opere più mature. “Madre Coraggio e i suoi figli”, “L’anima buona del Sezuan”, “Il cerchio di gesso del Caucaso”, “Vita di Galileo”. La grammatica del teatro epico è ormai pienamente padroneggiata diventando una lingua straordinariamente efficace sul piano della costruzione drammaturgica. Brecht stempera l’ideologismo dei “drammi didattici” indirizzando il suo impegno politico verso una dimensione più dialettica. Abbandonata la composizione per atti, i testi sono strutturati per scene poste in una relazione non conseguenziale tra loro, così da istituire un dialogo tra momenti emblematici della vicenda. Non ci sono tesi preconfezionate ma problemi aperti alla cui soluzione si può giungere solo attraverso una presa di coscienza politica. Madre Coraggio è una vivandiera che vive al seguito degli eserciti nella Guerra dei trent’anni. Perde i tre figli ma non può che continuare a vivere nell’ombra della guerra. La sua vita è distrutta ma lei non si rende conto di essere una pedina perdente in un gioco che la trascende. Della guerra Brecht non ci mostra che la periferia, e ne fa la metafora di un’organizzazione sociale in cui l’unica legge è sopravvivere. Brecht non lo dice in modo così pedissequo ma è in quella direzione che lo spettatore è chiamato ad andare. Madre Coraggio non va condannata quando mercanteggia sulla vita del figlio né compianta quando culla il corpo morto della figlia. Madre Coraggio va studiata chiedendosi che cosa si può fare in una simile situazione e allo stesso tempo divertendosi per l’organizzazione compositiva della vicenda, per le situazioni che Brecht costruisce, per come delinea i personaggi e come struttura il ritmo della composizione. Ancora più evidente la problematicità ideologica in Vita di Galileo: è un vile perché ritratta o un eroe della resilienza perché così può continuare le sue ricerche? È un approfittatore perché si appropria della scoperta del cannocchiale o un genio perché lo utilizza per studiare i moti dei pianeti? A Brecht stava a cuore leggere in Galileo il rapporto tra scienza e potere ma voleva che il tema si incarnasse in un personaggio vivo che all’inizio del testo beve distrattamente il suo bicchiere di latte prima di cominciare la lezione con il suo allievo e finisce irrazionalmente avido di cibo. Potrebbe essere la figurazione della decadenza ma il Galileo vecchio e disincantato è anche quello che ha conservato gli scritti con i suoi studi che affida all’allievo che è venuto a trovarlo. Rientrato in Europa nel 1947, nel 1948 Brecht sistematizza in un saggio dal titolo emblematico “Il breviario di estetica teatrale2, il suo pensiero teatrale partendo da un concetto cruciale: il teatro nell’epoca scientifica. Come la scienza cambia il rapporto con la natura, non ritenendola più immutabile ma potendola governare, così la scienza sociale, cioè il marxismo, non considera più i rapporti di classe immutabili ma trasformabili. Il teatro deve entrare in sintonia con questo ridisegnando il suo statuto linguistico. Non serve raccontare in modo convenzionale, non serve il realismo ma una costruzione drammaturgica che modifichi l’atteggiamento dello spettatore. Lo straniamento, porre cose note sotto una lente diversa, lo obbliga a prendere posizione, agisce sulla coscienza politica, non sull’emotività. Il teatro politico Il discorso su Brecht ha messo in luce un aspetto del teatro primonovecentesco, la dimensione politica del teatro. Quello di “teatro politico” è un concetto ricco di sfumature. Brecht non lo userà mai. Il teatro doveva essere un mezzo per la diffusione di una coscienza politica non di un messaggio ideologico. Diversamente la pensava Piscator che del teatro politico aveva fatto una bandiera e credeva nell’importanza della propaganda. D’altronde i primi decenni del secolo sono segnati dalla Rivoluzione d’ottobre e dai suoi riflessi ed è all’interno di questo clima che quel concetto prende forma, trascendendo la dimensione politica che appare connaturata al teatro come arte sociale per eccellenza. Nel Novecento la questione è posta in una maniera diversa, riguardando il rapporto del fatto teatrale con la realtà politica attiva attraverso una declinazione ideologica di matrice marxista che considera i processi di trasformazione sociale in una chiave rivoluzionaria. Alle spalle c’è il concetto di teatro popolare che si sviluppa in Francia tra ‘800 e ‘900. Nel 1903, Romain Rolland ne sintetizza i principi: “la gioia, la forza e l’intelligenza”. Il teatro popolare, dunque, non deve essere il podio di una predicazione moralista, ma un luogo che serva a rivitalizzare lo spirito sottomesso delle masse popolari. Il teatro va sottratto all’egemonia della borghesia e fatto tornare a vivere tra il popolo. È un atteggiamento in cui si leggono le ascendenze umanistiche del socialismo non marxista. La formulazione di Rolland resta però allo stadio di intenzione, ne riprende lo spirito Firmin Gémier, primo interprete di Ubu e figura di rilievo della scena parigina. Nel 1911 avvia un’esperienza che servirà da modello per tante che seguiranno. Carica su otto vagoni un enorme tendone per portare il teatro lì dove non arriva. Il Teatro ambulante “va a mettersi su una piazza, viale, sbarra la strada, costringe il passante a fermarsi”. Il suo sarà un repertorio privo di implicazioni direttamente politiche. Su questa scia nel 1920 viene fondato il Theatre National Populaire, la cui direzione è affidata allo stesso Gémier, che vedrà oltre a questa prima, un’altra vivacissima stagione nel secondo dopoguerra. Pur in assenza di una precisa matrice politica, l’esperienza di Gémier mette in gioco la destinazione sociale del teatro, infrangendo il suo legame organico con la borghesia e affidandogli la funzione di crescita culturale delle masse popolari. È con Piscator e Brecht che l’idea di teatro politico fa una svolta. Il legame con i processi rivoluzionari diventa stretto: più organico quello di Piscator più problematico quello di Brecht. Ma il coinvolgimento politico lo abbiamo già in Russia con Majakovskij, Mejerchol’d. Non va scordato poi il caso Marinetti. Altri casi nell’ambito dell’avanguardia mostrano l’importanza della dimensione politica.: quello di una certa modalità di Espressionismo, Toller ad esempio, o del Surrealismo. Nel 1926 Breton, leader del gruppo del Surrealismo, avvia un rapporto, che non fu mai facile, con il Partito comunista francese, ritenendo che il processo di rivoluzione globale predicato dal movimento surrealista potesse fare un primo passo appoggiando una rivoluzione di matrice comunista. Questa proposta creò una frattura nel gruppo. Artaud ne rifiutò le premesse e si allontanò addirittura dal movimento, o ne fu espulso. L’ampiezza dei riferimenti dimostra il peso che la dimensione politica ebbe nel teatro primonovecentesco. C’è anche dell’altro: casi in cui il rapporto fra teatro e politica va considerato invertito, in quanto la dimensione estetica, che nei casi fin qui elencati è dominante, diventa, nei fatti, subalterna. Luogo germinale di queste forme particolari è l’Unione Sovietica delle origini. Negli anni ’20 si affermano forme spettacolari la cui caratteristica è di nascere al di fuori del contesto professionista. Si tratta di associazioni operaie che scelgono il mezzo teatrale per diffondere il più possibile il messaggio rivoluzionario. La più celebre di tali associazioni è la Bluse blu, denominata così per le tute da lavoro usate come costume di scena con pochi accessori ad indicare il personaggio. Gli spettacoli si svolgevano nelle piazze o nelle fabbriche, la scena era praticamente assente e la recitazione si concentrava sulla fisicità. Era un teatro dichiaratamente di propaganda. L’obiettivo era rinsaldare la coscienza rivoluzionaria, commentare gli avvenimenti, divertire politicamente i lavoratori. Nella Germania della Repubblica di Weimar si assiste ad un fenomeno analogo, conosciuto come agit-prop, teatro di agitazione e propaganda. Diverso è però il contesto dall’Unione Sovietica. L’agit-prop tedesco comincia a manifestarsi verso il 1924, quando la Repubblica di Weimar sembrava assestarsi e i moti rivoluzionari sono sconfitti. È un teatro di presa diretta che doveva giocare sul coinvolgimento emotivo. L’agit-prop fu vivacissimo e cominciò a spegnersi all’inizio degli anni ’30 con la svolta restauratrice che avrebbe portato Hitler al potere. Discorsi possibili della scrittura modernista per il teatro Strategie del realismo C’è una presenza ricchissima di autori che operano una ridefinizione modernista del testo drammatico inteso soprattutto come oggetto letterario. È possibile organizzare tale tendenza per nuclei tematici in modo da renderne più chiari i diversi aspetti. Proprio all’inizio del secolo il realismo trova dei suoi singolari sviluppi in George Bernard Shaw e Maksim Gor’kij. Shaw, irlandese ma di cultura inglese, si era formato sull’insegnamento di Ibsen a cui aveva dedicato un saggio “La quintessenza dell’ibsenismo”, 1891. Il suo obiettivo era fotografare la società contemporanea con spietatezza guardandola però con un’ironia aspra. Shaw trattava temi scomodi per la morale vittoriana. Il testo che meglio rappresenta il suo atteggiamento è “La professione della signora Warren”, che parla di una madre ex prostituta che continua però nel suo mestiere nonostante ora sia ricca. Shaw non fa la morale ma mostra la disinvoltura della signora Warren nel parlare del suo mestiere ed ironizza sui ruoli maschili. Di tutt’altra natura il realismo di Gor’kij, scrittore russo dalla forte matrice marxista. Il suo testo più rilevante è del periodo rivoluzionario, “I bassifondi”, 1902. L’impostazione è cechoviana, uno spaccato sociale di persone paralizzate nella loro condizione. Ad essere rivoluzionaria è l’ambientazione: un dormitorio di miserabili, ritratti nella tristezza sordida della sopravvivenza quotidiana. Non inserisce nessun elemento melodrammatico o ideologico. Sempre legato al realismo ma in maniera diversa è il teatro di Eugene O’Neill, autore con cui si fa iniziare la drammaturgia statunitense. Il suo interesse era rivolto soprattutto ad uno scavo di natura psicanalitica all’interno dei personaggi, posti ad agire in un contesto reale ma in situazioni drammatiche. I suoi due testi più significativi sono “Strano interludio”, 1928 e “Il lutto si addice ad Elettra”, 1931. Quest’ultimo, ambientato durante la guerra civile americana, è una rilettura in chiave moderna dell’Orestea di Eschilo. Ciò che interessa all’autore sono più le motivazioni dei personaggi che la vicenda: la tragedia è l’occasione dello scatenarsi delle pulsioni individuali. Ancora più esplicito in questa direzione è Strano interludio, sia per la vicenda che per la scelta drammaturgica innovativa. O’Neill infatti scrive, oltre alle battute dei personaggi, anche i loro pensieri. Finis Austriae Ambiente particolare della produzione culturale e teatrale di inizio ‘900 è quello di Vienna. È un momento storico cruciale che viene definito Finis Austriae, caratterizzato dagli ultimi fuochi dell’Impero asburgico prima della sua dissoluzione con la disfatta della Prima Guerra mondiale. Il collasso storico è accompagnato da un’intensa vita artistica che ha riflessi significativi nella produzione drammaturgica, grazie soprattutto a Arthur Schnitzler e Hugo von Hofmannsthal. Schnitzler rappresenta quasi una sintesi ideale dei temi che caratterizzano l’epoca: l’attenzione verso la dimensione psicologica e verso un contesto sociale vivace quando inconsapevole della crisi. Il suo testo più emblematico è Girotondo, 1900. Si tratta di 10 scene a base erotica legate in uno schema ad anelli, fino a tornare alla situazione iniziale. Schnitzler rende l’immagine di un mondo chiuso su sé stesso, che gira a vuoto. I personaggi non hanno nome proprio, le scene sono sintetiche. È differente dagli altri testi, in cui la componente verbale domina grazie ai dialoghi serrati che tirano fuori le problematiche interiori. Nel ciclo “Commedia delle parole” (L’ora della verità, Scena madre, Baccanale) l’azione di ogni testo ruota attorno all’impossibilità di manifestare l’amore all’interno di un contesto dominato da abitudini sociali repressive che opprimono l’individuo e lo costringono a sfuggire a sé stesso. La dimensione della finis Austriae è espressa in maniera ancora più chiara dalla parabola artistica di Hugo von Hofmannsthal. Si avvicina al teatro giovanissimo con drammi lirici condizionati dal contesto simbolista. “Il piccolo teatro del mondo” è una sequenza di monologhi poetici di personaggi dai tratti indistinti che si affacciano da un ponte e nei riflessi dell’acqua leggono misteriose apparizioni della vita, in continua trasformazione tra dolore ed estati. I testi di questa primissima stagione sono pura enunciazione lirica. Con il nuovo secolo Hofmannsthal si interessa ad una più articolata dimensione drammaturgica. Lo fa attraversando testi e miti del teatro classico. Del 1903 è “Elettra” che rappresenta tale progettualità. Il modello di Sofocle è rielaborato dando della Grecia antica una visione cupa e barbarica, dominata dalla magia e dall’estati. I due motivi si sintetizzano nella metafora della danza di trionfo e di morte continuamente evocata da Elettra che muore mentre celebra danzando il compimento della vendetta. Elettra è l’occasione per l’incontro con Reinhardt che rappresenta un fattore determinante per lo scrittore che collabora in più riprese con il regista con il quale, nel 1920, fonda il Festival di Salisburgo, che si inaugura con il suo “Ognuno” e che celebra il teatro come momento festivo, isola di poesia e spiritualità nei confronti della durezza del mondo. Il Festival viene dopo la Prima guerra mondiale e il crollo dell’Impero asburgico che Hofmannsthal visse drammaticamente come il collasso del suo mondo. Il senso della fine è dominante nell’ultimo testo di Hofmannsthal, “La torre”, tratta da “La vita è sogno” di Calderon de la Barca. La storia di Sigismondo, figlio del re tenuto prigioniero in una torre, il quale una volta liberato si ribella dimostrando il carattere violento ma una volta addormentato e riportato nel carcere capisce che ambizione e potere sono vanità, che la vita è un sogno e si appresta a diventare un re giusto, è l’occasione per fermare in un’immagine simbolica il crollo politico di un mondo. Fino ad un certo momento Hofmannsthal segue la trama originale ma nella parte finale corale, l’unico personaggio dotato di nome proprio è l’amante, Leonardo, gli altri sono indicati solo con il loro ruolo sociale. “Yerma”, viceversa, è una tragedia personale, di una donna ossessionata dalla sterilità, male interiore che la condurrà ad uccidere il marito. Nella sua opera conclusiva, “La casa di Bernarda Alba” questi temi tornano in un’ambientazione più realistica. La casa di Bernarda è una prigione del lutto in cui vivono recluse le sue figlie fino a che la più piccola cede alla passione per l’uomo destinato alla sorella maggiore. Quando pensa che la madre abbia ucciso l’amante, la giovane si impicca. Negli anni precedenti alla sua maturazione come drammaturgo, Lorca dà vita alla Barraca. Si tratta di un teatro nomade con l’intenzione di portare il dramma classico spagnolo nei più sperduti paesi per diffondervi una cultura da cui le classi oppresse e gli umili erano esclusi totalmente. La sua è una vocazione pedagogica, ma anche politica. Ripensare il codice Nel ripensamento modernista della scrittura drammatica uno spazio importante lo hanno quelle esperienze che rimettono in discussione il codice drammatico, narrazione-dialogo-personaggi, agendo a volte dentro i confini concettuali dell’avanguardia a volte con una poetica on riconducibile a quel modello culturale. Un caso esemplare è quello di Nikolaj Evreinov. Difficile la sua collocazione, perché fu scrittore ma anche regista, dimostrandosi per alcuni tratti anticipatore della rivoluzione scenica sovietica. La sua proposta drammaturgica è legata all’idea di “monodramma” teorizzata nel 1909. Evreinov si schiera contro la forma drammatica convenzionale basata sulla dialettica tra personaggi, il confronto tra soggetti individuali, spostando il piano dell’azione tutto all’interno del personaggio di cui gli altri non rappresentano che delle proiezioni. “L’azione avviene nell’anima in mezzo minuto”, è scritto nella didascalia di “Tra le quinte dell’anima” i cui protagonisti sono: la Dimensione razionale dell’anima, la Dimensione emozionale e la Dimensione subliminale a cui si affiancano le loro proiezioni: i due Concetti della moglie e i due Concetti della cantante del café chantant. Il tema è banale: il conflitto interiore di un uomo nella scelta tra la moglie e l’amante. Il personaggio emozionale ha una visione idilliaca della cantante da tabarin e così essa si manifesta affascinante e sensuale, mentre la parte razionale la mostra brutta e deforme. L’uno vede l’aspetto esteriore che l’ha sedotto, l’altro la volgarità e l’opportunismo della sua anima. Altrettanto accade per la moglie: nella proiezione che ne fa il sé razionale, è una creatura sensibile e buona, nel suo ruolo di madre; in quella del sé emozionale una borghese sciatta e lamentosa. L’azione monodrammatica si risolve nel conflitto verbale tra le due dimensioni fino a che la parte emozionale prima uccide la razionale, poi si spara quando scopre la meschinità dell’amante. Solo ora l’inconscio si sveglia e viene accompagnato fuori scena, e nel fondale si apre un foro di sangue. Il testo più noto di Evreinov “Ciò che più importa” non è un monodramma, affrontando invece l’altro tema che sta a cuore a Evreinov: la teatralità. Ad essa dedica un libro “Il teatro in quanto tale”, in cui enuncia il principio che la teatralità è una condizoone che eccede la dimensione estetica e riguarda le manifestazioni comportamentali dell’uomo. Il teatro dunque non deve imitare la vita, è essa stessa ad essere teatrale. Su questo gioca “Ciò che più importa”. Evreinov fu anche regista e qui riflette il suo antinaturalismo. Nel 1907 avvia l’esperienza del Teatro Antico con cui si riprometteva di riportare in vita opere del passato nella loro veste originaria. Lo fece per il teatro medievale francese e per quello spagnolo del Siglo de oro, non riusc’ invece per lo scoppio della guerra a portare a termine il lavoro sulla Commedia dell’Arte. Il gioco sulla teatralità si espresse nell’attività che svolse a Pietroburgo nel cabaret. L’esito più ironico fu l’allestimento dell’inizio del “Revisore” di Gogol’ secondo cinque diversi stili: classico, Stanislavskij, Reinhardt, Craig, cinema muto. Alla concezione della teatralità come superamento dei limiti convenzionali dell’opera d’arte è legata la realizzazione della celebrazione della Rivoluzione attraverso un evento di massa, “La presa del palazzo d’inverno” che coinvolgeva più di 8000 comparse e ricostruiva le fasi salienti della Rivoluzione di ottobre. Complessa, variegata è la figura di Jean Cocteau, individualista fin troppo per riconoscersi nei movimenti dell’avanguardia. Fu poeta, drammaturgo ma anche pittore e regista cinematografico. Proclamò un “ritorno all’ordine” che nel suo lessico significava l’esigenza di superare certo formalismo sperimentale, come stava facendo anche Picasso, e che finì per indicare, viceversa, la vera e propria eutanasia dell’avanguardia negli anni Trenta. Il suo esordio a teatro è legato alla partecipazione come librettista a uno spettacolo monumento dell’avanguardia, “Parade”. In quell’occasione il suo contributo si riduceva all’indicazione dell’atmosfera e all’individuazione dei personaggi come figure di un baraccone circense. Più complesso fu “Gli sposi della Tour Eiffel”; si tratta di un vero e proprio testo ma Cocteau scinde le battute, pronunciate da due attori mascherati da fonografi, dall’azione mimica. La vicenda ruota attorno ad un matrimonio in cui si succedono eventi senza senso, apparizioni, giochi verbali. A partire dalla fine degli anni venti si cominciano a sentire i sintomi del ritorno all’ordine. L’”Orfeo”, messo in scena da Pitoeff nel 1926 è ancora fortemente permeato da uno spirito d’avanguardia che può rimandare al Surrealismo. Il mito è posto in un contesto del tutto spiazzato. C’è una linea narrativa riconoscibile ma il viaggio agli Inferi di Orfeo per recuperare Euridice diventa un viaggio oltre uno specchio che si può varcare indossando i guanti della Morte, guidati dal vetraio Heurtebise che si rivela un angelo. Nel testo si fondono insieme il motivo mitico, l’ambientazione contemporanea e la deformazione onirica creando uno straniamento. A partire dagli anni Trenta i testi di Cocteau presentano una struttura più dialogica: “La macchina infernale” e “I parenti terribili”, un intrigo familiare a base edipica secondo il tipico triangolo amoroso. Più interessante il caso della “Voce umana”, la telefonata di una donna disperata al suo amante che assume la forma di un monologo perché ascoltiamo solo quanto dice lei. Centrali diventano così i silenzi in un testo in cui l’attrice è chiamata a recitare l’ascolto più che la parola. Figura centrale nella Parigi delle avanguardie è Gertrude Stein. Americana, poetessa e sperimentatrice e punto di rifeirmento del mondo culturale parigino più trasgressivo, la Stein scrisse per il teatro. la sua però non nasce come scrittura per la scena ma è un esperimento del tutto letterario. Definì i suoi testi drammatici come “drammi di paesaggio” in quanto li riteneva frutto della percezione di quanto la circondava. A venir meno del tutto erano il racconto, il dialogo, il personaggio. Un esempio è fornito da Leadies Voices, in cui si susseguono immagini e suggestioni fra loro non connesse. Più articolata la struttura del suo testo più noto “Doctor Faust Lights the Lights”. Qui ci sono i personaggi ma non hanno un’identità precisa. La struttura è quella del dramma paesaggio: messa in evidenza di singole situazioni isolate e ripetitive. Ciò che più importa è la struttura verbale che nega lo sviluppo logico della frase e gioca sulla dimensione ritmica attraverso ripetizioni, ellissi, spiazzamenti. Un altro “eccentrico” è Stanislaw Witkiewicz. La Polonia, in cui nasce si forma ed opera, è decentrata rispetto alla cultura europea ma vi è un’intensa vita artstica ispirata all’avanguardia. Pittore e romanziere, oltre che drammaturgo, Witkiewicz vi prese parte attivamente adottando forme sperimentali di composizione drammatica che giocano sullo spiazamento, deformazione onirica, assurdo. Egli definiva il teatro come “Il cervello di un pazzo sulla scena” specificando che uscendo dal teatro lo spettatore dovrebbe avere la “”sensazione di essersi svegliato da uno strano sogno”. Queste affermazioni risentono del nichilismo dadaista da un lato, dall’altro introducono elementi di Surrealismo ante litteram. La struttura del dialogo e delle battute sembra apparentemente logica, ma poi vengono introdotti elementi che straniano completamente il senso di realtà. Nel “Pazzo e la monaca” la turbolenta passione erotica che si scatena tra un poeta recluso in manicomio e una giovane suora sembra scorrere su binari logici, anche se il linguaggio è spesso deformato liricamente, fino a che il poeta, che si è appena suicidato, ritorna in vita, prende sotto braccio la suora e la porta via. Nella “Gallinella acquatica” la decostruzione è più radicale. Il personaggio del titolo è una giovane donna che muore facendosi sparare dal fidanzato per tornare vent’anno dopo ancora più giovane e bella e finire uccisa nuovamente nella stessa maniera. Tutto è accaduto perché doveva accadere, ma non ha senso. Apparentemente meno radicale l’opera dell’americano Thorton Wilder che giunge a teatro dopo una felice attività di romanziere. Conservando un apparente legame con la dimensione rappresentativa, Wider la smonta dall’interno. Restano infatti la forma dialogica, la coerenza dell’enunciato verbale e la situazine narrativa, ma spiazzati drasticamente. Nel “Lungo pranzo di Natale” il realismo della situazione è messo in crisi dal fatto che durante la breve durata di quest’atto unico trascorrono 90 anni. Wilder tiene i suoi personaggi fermi attorno alla tavola a ripetere la medesima conversazione ma alcuni invecchiano, muoiono, nascono, e così il vero protagonista diventa il tempo. Del 1938 è “Piccola città”; il testo racconta lo scorrere semplice della vita di una piccola città, che è mostrata però alla “seconda potenza” in quanto presentata da un regista, così che la realtà doiventa la messa in scena si sé stessa. Il gioco drammaturgico si amplifica quando la giovane Emily, morta di parto, ottiene di poter rivivere un giorno della sua vita. Tornata al suo dodicesimo compleanno, Emily non riesce più ad assaporare la vita, rendendosi conto di come gli uomini vivano senza la consapevolezza di quello che fanno. L’esperienza p sconvolgente, non le resta che dare un ultimo addio al mondo dei vivi e rifugiarsi in quello dei morti. Wilder riesce a raggiungere con questo testo un punto di equilibrio tra realismo fotografico, decostruzione della realtà, rappresentata attraverso l’io epico del regista, e drammaturgia del tempo, ancora una volta vero protagonista dell’azione. V: La recitazione Storia della recitazione o storia degli attori? Lo studio della recitazione nel ‘900 presenta delle problematiche specifiche che vanno ad assommarsi a quelle che la riguardano su di un piano generale. Per quanto riguarda le poche informazioni riguardanti il ‘900 questo è dovuto non alla carenza di informazioni sugli attori ma la difficoltà della loro collocazione in un discorso coerente. Si tratta di una questione metodologica che possiamo riassumere nella distinzione tra una storia della recitazione e una storia degli attori. In altre epoche storiche i due aspetti in gioco erano le teorie e le prassi, ambiti non sovrapponibili meccanicamente. Nel Novecento ci troviamo invece di fronte ad una situazione diversa. L’attore e la riflessione sulla recitazione hanno un rilievo importantissimo producendo modelli forti che prevedono tecniche di lavoro e modalità di applicazione scenica. Si tratta di modelli che però nascono nell’ambito della regia, come in Stanislavskij e Brecht, Mejerchol’d o Craig, in cui agli attori è affidato un ruolo di esecutori più che ideatori. Se siamo attrezzati, anche nel ‘900, per studiare gli attori quando essi sono portatori di un proprio teatro al di fuori dell’universo eterodiretto della regia, abbiamo pochi strumenti per studiare gli attori all’interno del teatro di regia. A questo aspetto se ne associa un altro: una fortissima tensione ad una nuova dimensione pedagogica, per cui i modelli di recitazione diventano occasione per ripensare metodi e criteri attraverso cui si forma l’attore, che non sono più quelli formali tecnici ma riguardano un lavoro profondo che trasforma i registi in “maestri”. Stanislavskij o dell’immedesimazione Quello dell’immedesimazione dell’attore con il personaggio è un problema antico della recitazione. Nel ‘700 si era accesa una disputa tra “emozionalisti” e “antiemozionalisti”: i primi ritenevano che l’attore dovesse provare realmente le emozioni che rappresentava, i secondi, tra cui Diderot, che dovesse solo fingerle. La disputa si trascinò fin dentro l’800, riguardando modelli teatrali basati su passioni dai tratti generali e tipici. Verso la fine del secolo invece la drammaturgia comincia a produrre personaggi che sono “veri e propri individui”, dotati quindi di emozioni personali, non più riferibili a modelli emotivi. Per accedere al personaggio non era più sufficiente muoversi all’interno delle battute del testo ma bisognava rivolgersi a lui come persona. Si trattava di un processo creativo più che di una tecnica che riguardava le modalità di lavoro di ogni singolo attore. È il caso di Tommaso Salvini che si chiudeva in camerino ore prima dello spettacolo, cominciando a truccarsi per entrare un passo alla volta nella parte, chiudendo fuori la realtà quotidiana. È all’interno di questo problema che si inserisce Stanislavskij, grande ammiratore di Salvini, in cui il processo di immedesimazione si trasforma in un sistema, qualcosa a cui si arriva attraverso il lavoro e non l’intuizione, attraverso un metodo che va studiato, una via consapevole verso la dimensione inconscia. In sintesi il “sistema Stanislavskij” consiste in un insieme organico di tecniche che consentano di giungere alla costruzione del personaggio in una maniera tale da farlo apparire credibile come persona e non una funzione scenica. definito un teatro epico naturale. Brecht ipotizza che un testimone sia chiamato a raccontare l’investimento di un pedone da parte di un’automobile. La sua funzione sarà quella di ricostruire dall’esterno la vicenda, dando spazio a momenti in cui incarna le persone coinvolte mimandone i comportamenti. Così egli si qualifica come un dimostratore più che un interprete. Alla stessa maniera deve comportarsi l’attore del teatro epico. Dovrà anche egli diventare un dimostratore. Nel secondo testo questa premessa tesa ad evitare che si determino dei campi ipnotici in sala ha uno sviluppo di natura più tecnica: eliminare atteggiamenti empatici; rivolgersi allo spettatore in maniera diretta e elaborare un tipo di gesto particolare, che chiama “Gestus”, definito come un gesto sociale, cioè un gesto attraverso cui l’attore mostra al pubblico il tratto distintivo del personaggio. Ogni intenzione interpretativa deve tradursi in un concreto atto scenico e il gesto deve esprimere il carattere individuale e sociale del personaggio. Il caso più esemplare è quello di Helene Weigel, attrice e moglie di Brecht. Per la sua Madre Coraggio aveva elaborato alcuni gesti altamente caratterizzanti che evidenziassero il rapporto con il denaro che conduce alla tragedia. Il più forte era un urlo muto dopo aver disconosciuto il cadavere del figlio. Un gesto che portava in sé la natura contraddittoria del personaggio: il dolore umano e un cinismo inevitabile per poter sopravvivere in un mondo che altrimenti la schiaccerebbe. Brecht sposta il peso della recitazione dalle motivazioni interiori ad una costruzione formale che non deve cedere alla stilizzazione né essere fredda ma “possedere la corposità di un gesto umano”. Per liberarsi dalla tentazione all’immedesimazione sono fondamentali le prove. È allora che si creano le condizioni di straniamento tra attore e personaggio che poi verranno proiettate sullo spettatore, consentendogli di restare seduto in sala. Brecht individua tre accorgimenti che possono aiutare l’attore. I primi due servono ad istituire la distanza con il personaggio: la trasposizione alla terza persona della battuta in discorso indiretto, nel secondo rievoca l’azione come già accaduta: egli fece questo e disse quest’altro. Il terzo accorgimento consiste nel pronunciare ad alta voce le didascalie e introdurre commenti all’azione. In questo modo azione e descrizione si contaminano. A questi tre accorgimenti Brecht ne aggiunge un quarto che dà come preliminare. L’attore deve allungare il più possibile i tempi di lettura del testo, non deve precipitarsi a trovare la chiave di interpretazione del personaggio, non deve farsi adescare da lui. “Prima ancora di mandare a memoria la parte, egli deve mandare a memoria ciò che ha procurato la sua meraviglia”. L’attore come corpo di scena La terza via della recitazione primonovecentesca è meno definita delle altre due. Più che un metodo indica una categoria utile per identificare un modo di intenderla che ne sposta i parametri dalla centralità del rapporto con il personaggio ad altri che assumono una funzione primaria: la presenza scenica, il corpo come mezzo di espressione, la dimensione visiva. Ubermarionette: l’attore secondo Gordon Craig Il modello archetipo di tale modo di intendere la recitazione è la Ubermarionette, teorizzata da Edward Gordon Craig nel 1908. Con questo termine Craig rimette in gioco il concetto stesso di recitazione, tanto che il problema di come intendesse realizzarlo è tutt’ora aperto. Si passa dall’ipotesi che volesse sostituire ad un teatro degli attori un teatro delle marionette, a quella opposta che volesse parlare di un attore piegato totalmente alle intenzioni registiche, o ancora a quella di una sorta di costume-maschera che coprisse l’attore. Ciò che conta è che Craig rimette in discussione i parametri attraverso cui si considera il lavoro dell’attore. A integrare le conclusioni a cui era giunto in “L’arte del teatro” scrive degli attori: “oggi essi impersonano e interpretano, domani dovranno rappresentare ed interpretare, dopodomani dovranno creare”, indicando un processo le cui prime tappe sono legate ancora ad una preesistenza letteraria mentre la terza è indipendente. Ma questo non è che un primo passaggio, ben più importante il successivo in cui sostiene che l’uomo è di per sé inutilizzabile come materiale artistico in quanto “le azioni fisiche, il volto, il suono della voce, tutto è in balia delle emozioni”. L’emozione, che è parte connaturata della natura, produce accidentalità e l’accidentalità è nemica dell’arte che viceversa si basa sulla perfezione, sul compimento della forma. Di qui l’idea rivoluzionaria di eliminare l’attore dalla scena per lasciar posto ad una figura inanimata, definita Ubermarionette, termine che rimanda all’Ubermench di Nietzsche. Questa Ubermarionette appare come una strategia teorica per ripensare il corpo in scena e l’idea stessa di corpo; un corpo in sospensione tra vita e morte, che rimanda alla tradizione mistica. Così la Ubermarionette diventa la figurazione sublimata del corpo umano: “Che cosa sono le marionette? Uomini senza egoismo”. La sua origine è collocata in un Oriente mitizzato dove avrebbe rappresentato l’uomo nelle celebrazioni rituali in lode della Creazione. Insomma indicherebbe un corpo prima del peccato, fino a quando due donne l’avrebbero imitata, determinando il decadimento dell’originaria sacralità del teatro. E’ chiaro allora quanto sia incolmabile la distanza tra idea e prassi nelle parole di Craig ma è interessante come per la prima volta il discorso sull’attore venga spostato da ciò che sa fare e da come lo fa a ciò che è, ad un livello umano prima che artistico. Negando il suo ruolo, Craig crea in realtà le premesse per una riflessione sull’attore e sul corpo come veicolo di conoscenza. La Biomeccanica L’idea più articolata dell’attore come corpo di scena si ha con la Biomeccanica di Mejerchol’d. Siamo nella sua stagione costruttivista ed egli scrive: “Il costruttivismo esige dall’artista che egli diventi anche un ingegnere”. La recitazione biomeccanica è presentata come un processo di costruzione. All’attore occorre prima di tutto “la capacità di analizzare ogni momento i propri movimenti”, la recitazione è frutto di uno studio e deve essere sottoposta ad un continuo controllo da parte dell’attore. Questo atteggiamento di formalizzazione razionale ha un suo esplicito termine di riferimento in Craig. Mejerchol’d dice “quando Craig parlava di Supermarionetta voleva dire che l’attore doveva acquisire una tecnica che lo rendesse simile ad una marionetta”. La Biomeccanica può essere letta come un tentativo di risposta alla domanda lasciata inevasa da Craig. Acanto a questo ci sono però altri due riferimenti importanti: il teatro d’Oriente per la sua formalizzazione, e la Commedia dell’Arte per quanto riguarda la tipizzazione. Il “Primo principio” della Biomeccanica è che “il corpo è la macchina, l’attore è il meccanico”. La grammatica della macchina dell’attore è il movimento. “Non partiamo dalla psicologia per arrivare al movimento, facciamo il cammino inverso”, e fa l’esempio di un attore che deve interpretare un uomo inseguito da un cane. Non dovrà partire dalla paura e tradurlo nella corsa, ma cominciare a correre e far emergere la paura. Il movimento della Biomeccanica si basa su due principi: la scomposizione e ricomposizione e il rapporto con lo spazio. Occorre, sostiene Mejerchol’d, che un movimento, per essere espresso, debba essere dapprima scomposto in segmenti. Il primo è l’”Otkaz”, la fase iniziale in cui l’attore dirige il gesto nella direzione opposta a quella che avrà per caricarlo di energia; segue lo “slancio”, cioè il compimento del gesto, quindi l’arrivo, la sua conclusione, cui succede una pausa per sottolineare la fine in uno stato di sospensione. Per quanto riguarda lo spazio invece, Mejerchol’d sostiene che attore e spazio siano entità strettamente interrelate perché “la posizione del nostro corpo nello spazio influisce su tutto ciò che chiamiamo emozione” e che quindi ogni piccolo gesto va accuratamente calcolato. La sintesi di tale processo è in questa fase: la Biomeccanica “si fonda sul principio che se si muove la punta del naso si muove tutto il corpo”. Ci sono altri due elementi: il primo è la “reattività”, la capacità di ridurre al minimo l’intervallo tra intenzione ed esecuzione; il secondo è la musicalità, cioè l’attore lavora sul ritmo, il movimento stesso è ritmo e come tale va musicalmente trattato; infine, l’acrobatica, intesa come sapienza nella gestione del corpo. L’insieme di tutti questi elementi conduce ad una costruzione del personaggio dall’esterno, utilizzando il movimento, forma e ritmo, che ne esalta l’artificialità. Il’inskij, nel Magnifico cornuto, nel bel mezzo di una tirata patetica introduceva elementi di acrobatica determinando uno stridente effetto di contraddizione. L’efficacia della recitazione non può essere pensata dunque come un’entità a sé stante: “se la recitazione è la melodia, la messinscena è l’armonia”. Lungo la direttrice aperta da Mejerchol’d si muove Sergej Ejzenstein, che era stato allievo dei suoi corsi di Biomeccanica. La sua teoria del movimento espressivo parte dal presupposto che il materiale linguistico di base dell’attore sia il movimento, solo che questo per essere in grado di esercitare un’attrazione, cioè un’azione emotivamente efficace, deve eliminare ogni retaggio possibile della quotidianità, recuperando l’organicità originaria. L’uomo moderno ha dimenticato il gesto più efficace per compiere l’azione, “bisogna rivolgersi agli artigiani e ai contadini per individuare il movimento lavorativo giusto. Teoricamente lo si potrebbe trovare osservando gli animali”. L’attore, per recuperare organicità del corpo, non segue astratti atteggiamenti di principio, ma allena “il potenziale di risposta rapida del muscolo all’impulso volitivo”, concetto che richiama chiaramente il principio mejercholdiano di reattività. Occorre dunque costruire la capacità di essere spontanei, secondo un modello che rimanda al rapporto fra il gesto che l’attore deve compiere e l’allenamento necessario per farlo d’istinto, senza pensare. L’esigenza di rivivere le emozioni del personaggio, conclude Ejzenstein, viene meno perché il movimento espressivo è comunicativo di per sé. Forme del movimento “L’Arte del Teatro è nata dall’azione, dal movimento, dalla danza”, scrive Craig nel 1905. Non l’arte dell’attore ma l’arte del teatro nel suo complesso. Teatro e danza trovano un punto di incontro. Questo è reso possibile dall’affermarsi della danza moderna che prende decisamente le distanze dal balletto classico. Se il teatro, nel ripensare la sua identità, può considerare la danza come un interlocutore privilegiato è perché la danza sta procedendo ad un analogo processo di rifondazione. Il passaggio da balletto a danza non è solo terminologico. Per come si era strutturato nell’’800, il balletto si basava su una codificazione di passi e figure che creava una grammatica fissa e mirava da un lato all’esaltazione del virtuosismo tecnico e da un altro alla defisicizzazione del corpo, specie di quello femminile, a cui venivano tolti peso e aderenza al terreno. La danza moderna rifiuta tutto questo e torna al corpo in quanto tale, alla sua manifestazione “fisiologica”, al movimento e non al passo codificato. L’argomento andrebbe studiato nella sua articolazione complessiva, ma è impossibile inserire una storia della danza moderna all’interno di una storia del teatro del ‘900. Ci limitiamo a due casi paradigmatici: Isadora Duncan e Magdeleine G., le cui figure sono legate a due dei teorici dell’idea moderna di teatro: Craig e Fuchs. La prima è una delle fondatrici della danza moderna. La sua apparizione sulle scene europee (era americana) fece uno scalpore enorme: si limitava a muoversi in maniera libera dialogando in maniera altrettanto libera con la musica; danzava scalza per rimarcare la sua natura di corpo naturale; cercava di risalire a una fonte originaria che riscontrava nella danza dell’antica Grecia a cui cercò di ridare vita. L’incontro con lei ebbe per Craig un ruolo decisivo. La vide la prima volta in Germania nel 1904 durante la fase di gestazione di “L’arte del teatro”. Il movimento era un linguaggio, aveva un suo linguaggio. L’idea craighiana che tra i diversi elementi che compongono la lingua del teatro il movimento sia quello centrale, che il padre del drammaturgo sia il danzatore deriva dall’influenza della Duncan? Molto si può discutere a riguardo, ma vedere la Duncan sicuramente lo aiutò con le idee. Non meno significativo, il rapporto di Fuchs con Magdeleine G., ma ben diversa è la figura della danzatrice che era protagonista di esperimenti di ipnotismo durante i quali si esprimeva in una danza libera e non condizionata. Fuchs, che cercava la fonte originaria del teatro, ne trovava l’essenza nel movimento del corpo nello spazio, un movimento che sollecitasse “un’esperienza in sé armonica dell’universo”. Magdeleine G. gli sembrò un modello delle potenzialità espressive del corpo quando esso è ricondotto ad impulsi emotivi non programmati. Non che pensasse di tradurre questa esperienza in un “teatro di ipnotizzati”, ma gli fornì un termine di riferimento concettuale fondamentale nello sviluppo del suo pensiero teorico. Anche in questo caso, dunque, si determina con la danza un intreccio di motivi che conduce al ripensamento della nozione stessa di teatro. Gli intrecci linguistici tra danza e teatro assumono nel primo ‘900 anche delle configurazioni operative. È il caso dei Balletti russi. Sergej Djagilev li aveva fondati a Parigi negli anni Dieci. Veniva dalla Russia dove era stato tra i protagonisti del “Mondo dell’arte”, l’associazione che indusse il Modernismo in quel paese. Come compagni di strada aveva avuto in quell’occasione i pittori scenografi Aleksandr Benois e Léon Bakst. Djagilev era un organizzatore culturale, il suo progetto era di trapiantare a Parigi la grande esperienza del balletto russo. Coinvolse dunque oltre ai suoi due sodali pittori, coreografi e danzatori di fama. La miscela che ne veniva fuori erano spettacoli di grande virtuosismo coreografico dal taglio modernista, con un vivacissimo impianto visivo. Ciò che a noi interessa è il passaggio in cui Djagilev viene a contatto con il mondo delle avanguardie. Nel 1917 Djagilev produsse lo spettacolo che meglio rappresenta questa fase: “Parade”. Il libretto era di Cocteau, la coreografia di Massine, la musica di Eric Satie, scene e costumi di Picasso. Lo Medioevo per l’assenza di un teatro convenzionalmente inteso. Il Novecento è pieno di pratiche basse che hanno interessanti elementi di interrelazione con quelle considerate “alte” (esempio il rapporto fra Avanguardie storiche e teatro di varietà”. Nella Germania di inizio secolo ci fu una vera e propria esplosione di teatri di cabaret, sale, spesso piccole, in cui avevano luogo spettacoli caratterizzati da un’invenzione libera, sperimentale e dall’uso del comico. Si ricorderà che proprio in uno di questi cominciò l’avventura registica di Max Reinhardt. Tra i protagonisti del cabaret tedesco spicca Karl Valentin. Valentin aveva costruito una vera e propria maschera, paragonabile a quella che aveva elaborato Charlie Chaplin con il suo Charlot. Questo personaggio alto, con le gambe magrissime, calvo e con una parrucca arruffata, il naso rosso e il viso pallido, già di per sé paradossale era messo in situazioni altrettanto paradossali, in coppia con Liesl Karlstadt, attrice che gli faceva da spalla. Gli spettacoli di Valentin tra anni Dieci e Venti erano sketch, a volte elaborati in forma di brevi commedie come nel caso della più nota: “Tinteltangel”. Le scenette e le commedie presentavano situazioni comiche che nascevano dal gioco con gli oggetti e dall’uso alogico del linguaggio. Valentin e il suo aiutante dovevano aggiustare qualcosa e più andavano avanti nel lavoro più producevano disastri. La sua trasgressione è fisiologica, non ideologica, mira all’inverosimile comico e non alla negazione dell’arte. Nel suo cabaret si esibiva ogni tanto al clarinetto Bertolt Brecht. Se quella di Valentin è una maschera, Ettore Petrolini, invece, di maschere ne creò un numero infinito. Romano, è intriso di romanità sia per certi atteggiamenti linguistici sia per quella indolenza che caratterizza i suoi personaggi. La tradizione da cui discende è quella della macchietta che si era saldamente insediata nel teatro di varietà e vedeva in Raffaele Viviani, napoletano, un interprete particolarmente efficace. Petrolini nasce come macchiettista, per cimentarsi poi con la farsa e infine approdare a Molière. La sua dote principale era una capacità estrema di caratterizzazione. “Gastone” è la parodia sfrenata di un viveur, con tanto di frac. Guanti bianchi e tuba. Il gioco parodico e ironico si rivolge anche a sé stesso. L’esaltazione dell’idiozia era qualcosa di più che un espediente comico: un attacco a tutto campo contro la logica, il senso e soprattutto il buon senso. È questo che gli attrasse le simpatie di Marinetti, che vi vedeva incarnato l’attore futurista, ma Petrolini sfuggì sempre ad ogni assimilazione d’avanguardia. Il nonsense in una delle sue macchiette più fortunate, “Fortunello”, si traduceva nella frenetica sequenza ritmica di paradossali accostamenti verbali messi in relazione dalla rima baciata, ma è anche la sigla del suo “Nerone”, parodia dei drammi in costume. Il nonsense verbale è solo metà della recitazione di Petrolini, l’altra riguardava la capacità di trasformarsi in una maschera vivente. Valentin e Petrolini mettono in campo il legame fra pratiche basse e pratiche alte in maniera invertita. Manca l’intenzionalità azzeratrice, la rimessa in discussione del codice artistico, la provocazione, ma ci sono la dissoluzione del buon senso rappresentativo, dell’obbligo alla logica, del primato della serietà rispetto alla comicità che finisce per assumere una funzione trasgressiva. Diverso il terzo caso. Nel 1931 Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, figli naturali di Eduardo Scarpetta, fondano una loro compagnia, il Teatro umoristico “I De Filippo”. I tre sono figli d’arte e muovono i loro primi passi nella compagnia del fratellastro Vincenzo all’interno della tradizione napoletana riformata tipica del padre: dialetto, tipizzazione, andamento farsesco ma anche apertura alle trame de vaudeville che venivano dalla Francia. Nei loro primi anni i tre fratelli fanno un teatro fortemente radicato nella città. Il dialetto e la struttura farsesca hanno precise implicazioni locali che cominciano ad essere rielaborate per cercare un respiro più nazionale. I tre, come attori, incarnano delle precise tipologie: Peppino è il mamo, ingenuo e bonaccione, Eduardo l’astuto smaliziato, Titina la donna di carattere, che vengono con sempre maggiore insistenza applicate alla caratterizzazione sociale dei testi che Eduardo scrive in quegli anni. Siamo di fronte ad una pratica bassa, in quanto nasce come teatro popolare, che vive un processo di sviluppo interno per trasformarsi in qualcosa d’altro. L’intelligenza drammaturgica di Eduardo si sente già in Sik Sik l’artefice magico, in cui il gioco farsesco del prestigiatore da strapazzo e del suo assistente improvvisato si traduce in un ironico teatro nel teatro. il passaggio successivo è influenzato dall’incontro con Pirandello. Eduardo interviene sulla lingua, stemperando il dialetto, introduce elementi drammatici, creando i tratti di una moderna commedia umana. “Natale in casa Cupiello” è un “testo ponte”, il comico si trasforma in grottesco, la famiglia diventa luogo di conflitto e non più isola rassicurante, la tragedia si inserisce man mano nella vicenda. Il popolare e il dialettale ormai sono pronti per diventare altro, la tradizione del teatro napoletano a vivere un ulteriore scarto. Ogni regola ha un’eccezione Eleonora Duse: senza di lei, senza la sua indipendenza e diversità, il racconto del Novecento risulterebbe incompleto. Non tanto perché la Divina è l’attrice più nota del momento, o perché è un termine di riferimento in tutta Europa, ma proprio per la sua vicenda personale di attrice a cavallo dei secoli, troppo diversa per appartenere all’Ottocento e troppo legata ad una concezione antica del teatro per aderire al Novecento più sperimentale e moderno. Duse balza all’attenzione nel 1879 per la sua interpretazione nella “Teresa Raquin” di Zola. Libera dagli stereotipi dei ruoli, pur restando prima attrice, ne abbassava i toni, lavorando sulle sfumature espressive, su una femminilità nervosa che colpiva il pubblico. La sua modernità consisteva nell’essere sempre attiva e reattiva. Nella “Signora delle camelie” evitava ogni enfasi melodrammatica, recitava vicinissima al partner spesso toccandolo, stemperava i momenti clou. Negli ultimi anni del secolo sente una profonda insoddisfazione per il repertorio routinario e va alla ricerca di una drammaturgia moderna. La trova prima in Ibsen che le offriva una materia letteraria solida e personaggi complessi, ma soprattutto in D’Annunzio. In controtendenza alle abitudini italiane, dà vita ad una compagnia destinata a rappresentare opere del poeta esclusivamente. L’attrice più osannata del momento che si mette al servizio di uno scrittore: oggi può sembrare ovvio ma allora era inedito. Inoltre, per essere completamente dannunziana, Duse modificò la sua recitazione: le vibrazioni nervose furono sostituite da un atteggiamento lirico, posture stilizzate, espressioni sognanti, risalto assegnato alla voce. La fine del rapporto, anche sentimentale, con D’Annunzio, la porta nuovamente alla ricerca di un’identità attorica. Duse non vuole tornare alla logica del capocomicato di mestiere e si rivolge di nuovo ad Ibsen, e nel 1906 fa convincere a coinvolgere Craig in una produzione di “Rosmersholm” che, se ebbe un esito fallimentare non fu perché l’attrice non ci credesse ma per l’incompetenza del sistema teatrale. Le scene, in una replica a Nizza, vennero ritagliate perché non entravano nel boccascena, Craig fu chiamato a consulto e si infuriò così che non solo quello spettacolo ma anche altri progetti che Duse aveva in mente con lui abortirono. Quando nel 1921 torna al teatro che aveva abbandonato nel 190, ha di fronte a sé tre strade che discute con Silvio D’Amico: dar vita ad un teatro nazionale che formasse giovani attori, accettare la proposta di fare compagnia con Ermete Zacconi, uno degli ultimi grandi attori, o tornare ad Ibsen. Scelse quella più convenzionale, la compagnia con Zacconi, e come attrice diede un segno di modernità fortissimo. Il 5 maggio 1921 al debutto nella “Donna del mare” di Ibsen, per interpretare la giovane Ellida comparve in scena senza trucco e con i suoi capelli bianchi: niente mimetismo, nessun gioco suoi ruoli e le maniere del teatro dell’epoca, solo la sua presenza a significare un’autenticità senza filtri. VI: Guerra Un atroce interludio La Seconda guerra mondiale taglia in due il ‘900. Quando Theodor Adorno affermava che dopo Auschwitz non c’era più spazio per la poesia, metteva in evidenza un trauma a cui ne corrispondeva un altro che si traduceva nella domanda su quale mondo fosse pensabile dopo la bomba atomica di Hiroshima. Gli esiti di questa faglia profonda possono riassumersi in: la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti, quello occidentale e quello orientale comunista; la Guerra Fredda tra Unione Sovietica e USA; infine, la centralità culturale, oltre che politica, assunta da questi ultimi. Gli anni tra il 1939 e il 1945 rappresentano un blocco nella vicenda teatrale novecentesca, ma in realtà questa linea di demarcazione è parte di una faglia di dimensioni più ampie che coinvolge già il decennio precedente. La spinta propulsiva all’innovazione negli anni Trenta subisce una battuta d’arresto. Le ragioni sono diverse; la prima è di natura politica. Gli anni Trenta rappresentano in due dei paesi guida della modernizzazione teatrale, la Germania e la Russia, l’affermazione di dittature che schiacciano ogni forma di innovazione. Nella Germania di Hitler si determina una vera e propria diaspora culturale; da Reinhardt a Brecht a Piscator, le menti migliori del teatro tedesco lasciano il paese per sfuggire alla persecuzione ideologica, il Bauhaus chiude. Nella Russia divenuta ora Unione Sovietica, dominata da Stalin, la sintonia tra momento rivoluzionario e avanguardia si rompe. Il suicidio di Majakovskij nel 1930 e la fine atroce di Mejerchol’d ne sono la testimonianza più tragica. Fin quando vive, 1938, Stanislavskij riesce a navigare nella bufera ma molti suoi allievi scelgono l’esilio. Anche in Italia si assiste ad un processo reazionario: Marinetti, sostenitore di Mussolini, si illude che il Futurismo possa diventare l’arte ufficiale del fascismo, cosa che non accade. In Italia, come in Unione Sovietica e Germania, si afferma un’arte monumentale, celebrativa e retorica. Uno degli esiti di tale situazione è l’emigrazione di molte figure di intellettuali ed artisti, sia teatrali che non, negli USA, determinando un processo di accelerazione nella modernizzazione culturale di quel paese. A queste motivazioni di natura politica se ne accompagnano altre di natura interna ai processi artistici. Già tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti, Jean Cocteau aveva introdotto la formula del “richiamo all’ordine”. In quel contesto la sua affermazione aveva un preciso valore storico: superare il decostruttivismo delle avanguardie in nome di una rinnovata organicità dell’opera d’arte. In realtà quella definizione finì presto per significare altro. Il “richiamo all’ordine” diventò il termine per definire la crisi non solo delle avanguardie ma anche dei processi di innovazione. Ma se vogliamo guardare ad un fenomeno che segna effettivamente un’epoca, allora dovremmo considerare le trasformazioni che intercorrono nella regia francese. Jouvet, che di Copeau era stato allievo prediletto, intende la regia come lavoro di interpretazione del testo. È uno stabilizzarsi dell’idea di regia come mediazione, un “richiamo all’ordine” rispetto alle spinte “indipendentiste” che avevano caratterizzato gran parte della sua stagione inaugurale. Quando, dopo la Seconda guerra mondiale, il teatro riavviò le sue attività, ponendosi nuovamente il problema dell’identità, il vuoto da colmare era più profondo di quello lasciato dal periodo bellico. Drammaturgia in tempo di guerra Durante gli anni del conflitto vengono scritti testi drammatici che con la guerra hanno un rapporto, diretto o indiretto, rilevante per comprenderne la natura. Il caso più evidente è quello di Eduardo De Filippo che nel 1945, 25 marzo, rappresenta “Napoli milionaria”. La città era già libera da più di un anno ma manca un mese alla fine del conflitto, eppure De Filippo ha l’intelligenza drammaturgica di portare in scena il “dopo” con le difficoltà. Il testo ha un ruolo spartiacque; il primo di quelle che Eduardo chiamerà le “Cantate dei giorni dispari” per distinguerle da quelle dei giorni pari della sua prima produzione. Il testo è diviso in due parti; la prima ricorda ancora atmosfere pari per la vivacità d’ambiente nel basso napoletano dove la protagonista svolge la sua attività di mercato nero. Siamo durante la guerra ma la microsocietà che racconta Eduardo ancora tiene. Nella seconda parte, la città è libera, la donna si è arricchita alle spalle del vicinato, il marito sparito torna e trova un mondo in cui non si riconosce più: l’umanità si è dissolta. Il danno prodotto dalla guerra è stato più morale che materiale. Eduardo però sente il bisogno di stemperare il clima e così sarà proprio uno di coloro che è stato rovinato dal contrabbando che porterà la medicina per curare la bambina di questi nuovi ricchi. Una bambina identificata come l’Italia stessa; “Ha da passa’ ‘a nuttata”, una delle battute più note del teatro italiano, chiude il testo in un clima di attesa e ripensamento. La guerra interviene però anche in maniera indiretta nella scrittura drammatica, come contesto e non oggetto. Nel 1943 e 1944, qualche mese prima della liberazione di Parigi, Jean Paul Sartre scrive “Le mosche” e “A porte chiuse”. Il primo è una riscrittura delle “Coefore” di Eschilo attraverso cui Sartre mette in primo piano l’autoritarismo di un potere che si affida alla superstizione religiosa e al senso di colpa, così da far diventare il popolo complice del suo tiranno. Metafora è la città infestata di mosche che rappresentano l’aria. La vendetta di Oreste non ottiene nessun effetto liberatorio, non restano, alla fine, che la sua solitudine e una città che gli è ostile. Il secondo testo è anche esso una metafora claustrofobica. Tre personaggi finiscono all’Inferno rappresentato da una stanza chiusa in cui tutto sembra scorrere come nella vita. La struttura è quella di un dramma borghese in cui i personaggi si tormentano l’un l’altro con i loro crudeli giochi di ruolo. “L’Inferno sono gli altri” è la battuta chiave”. la glorificazione dell’Immagine e del Riflesso”. È un concetto fondamentale. Il gioco metateatrale non si risolve pirandellianamente, nello sdoppiare la presenza scenica del personaggio tra autenticità e finzione ma rappresenta, invece, implicazioni più profonde. Lo specifica lo stesso Genet a proposito di un altro suo testo fondamentale, Le serve. L’Immagine e il Riflesso, che prendono il posto della realtà, indicano la finzione come il luogo in cui si esprime l’inesprimibile, in cui si rappresenta l’irrappresentabile. È un atteggiamento molto artaudiano e in effetti i testi di Genet sono i pochi a cui si possa adattare la definizione di “teatro della crudeltà”. La dimensione innominabile che il teatro ci consente di manifestare ruota attorno a dei nuclei: il potere come atto costitutivo della relazione tra gli individui che si esprime nel rapporto servo-padrone, le sue implicazioni di natura sessuale; la diversità e la estraneità al corpo sociale come condizione irrimediabile. Nelle “Serve”, due sorelle cameriere ogni volta che esce la loro Signora celebrano il rito della sua uccisione. È un rito quotidiano, crudele ma innocuo, che manifesta un desiderio represso. Nei testi successivi la dimensione simulacrale e celebrativa si estremizza ancora. Protagonista del “Balcone” è un bordello dove i clienti vanno a rappresentare un ruolo attraverso cui manifestare la propria perversione sessuale. Restano però bloccati in questi ruoli perché esplode una rivoluzione e l’unica risorsa per fronteggiarla sono loro. Nei “Negri” la dinamica Immagine-Riflesso è ancora più complessa. Un gruppo di neri deve rappresentare per dei bianchi, che però sono dei neri malamente truccati da bianchi, l’uccisione di una donna bianca e il processo che ne segue. Devono rendere manifesti tutti gli argomenti tipici del razzismo che oscilla tra disprezzo e attrazione sessuale. Il nero è l’ombra, il doppio di una realtà bianca falsamente ordinata. Mentre la celebrazione va avanti, arriva la notizia che un traditore della causa è stato ucciso. La celebrazione sembra quasi una mascherata attraverso cui celare il vero delitto. In Genet, il rifiuto del realismo crea situazioni che appaiono assurde ma sono tragiche. Una tragedia al contrario in cui il teatro non produce una propria verità. Genet non affronta i suoi temi in una prospettiva politica ma questo non significa disimpegno quanto un diverso modo di essere politico, al di fuori degli schemi ideologici abituali. Nei suoi ultimi anni Genet decise di sparire e visse prima con le Pantere nere americane, movimento paramilitare di protesta, e poi andò in Palestina dove scrisse pagine struggenti sui campi si segregazione. Un secondo tema genetiano è la dimensione claustrofobica. Le azioni cerimoniali si svolgono in spazi chiusi da cui è impossibile uscire e in cui manca l’aria: fuori c’è sempre un mondo misterioso e pericoloso. Un terzo elemento è l’uso del linguaggio. Genet usa lunghi periodi, metafore, toni barocchi, una costruzione ellittica e a volte involuta nella frase, per spostare la parola dal piano di realtà e condurla in una zona poetica dove si gioca come Immagine e Riflesso, decostruendo la sua funzione comunicativa. Samuel Beckett: un punto di svolta Il 5 gennaio 1953 è una delle date chiave del ‘900. Al Theatre de Babylone di Parigi, il regista Roger Blin mette in scena “Aspettando Godot”. Il testo era stato pubblicato l’anno prima dopo una lunga gestazione, ma è il suo debutto sulla scena a farne un punto di riferimento. Beckett, irlandese ma trapiantato in Francia, lo aveva scritto in francese “perché l’inglese era troppo facile. Volevo la disciplina”. Il francese lo obbligava ad un atteggiamento analitico e freddo nei confronti del linguaggio che la lingua nativa non gli richiedeva. Aspettando Godot è il luogo in cui le dinamiche della drammaturgia di Beckett si esprimono in piena evidenza. Beckett scardina gli elementi costitutivi della drammaturgica: il piano narrativo non prevede lo sviluppo della vicenda; il personaggio è immobilizzato in una condizione statica e non può che continuare a replicare sé stesso; il dialogo perde la funzione drammaturgica di condurre avanti l’azione e si trasforma nel tentativo di riempire questo tragico vuoto. L’insieme degli elementi si manifesta attraverso l’ideazione di situazioni paradossali. Ham, il protagonista di “Finale di partita” racconta di un pittore considerato pazzo che rifuggiva la visione del mondo perché li dove tutti ammiravano le meraviglie del mondo lui non vedeva che ceneri. Il rapporto di Beckett con la realtà è di questa natura: nel mondo egli vede il processo che lo condurrà alla sua dissoluzione. Non a caso il tema dominante in entrambi i testi è l’attesa: di un personaggio misterioso, Godot, di cui non sappiamo nulla, che non arriverà mai ma che con la sua assenza condiziona in modo irreparabile la vita dei due protagonisti; di una fine, la propria ma anche quella della specie umana e del mondo intero che sta lì lì per accadere ma resta sospesa, in “Finale di partita”, il cui titolo rimanda alla fase conclusiva di una partita a scacchi. L’attesa rappresenta nel primo Beckett la forma del tragico: la tragedia non è un evento straordinario, consiste nella riduzione dell’individuo umano all’inerzia, replica, ad una solitudine disperata. Ma il tragico non assume mai una tonalità seriosa, traducendosi viceversa nel grottesco attraverso la contaminazione con il comico. In “Aspettando Godot”, Vladimiro ed Estragone sono due figure marginali, dei barboni in attesa sotto un albero ad un crocevia, che arrivi Godot. Durante questo tempo vuoto, agendo spesso come clown, parlano o meglio si parlano affosso, fanno un inutile tentativo di suicidio e incontrano un’altra coppia di personaggi, Pozzo e Lucky, padrone e schiavo. L’incontro anima per un breve istante le loro vite, poi il tempo riprende a trascorrere a vuoto fino a che arriva un bambino ad annunciare che per quel giorno Godot non arriverà. Ma chi è Godot? Beckett si è sempre negato ad una risposta, una strategia per rifiutare la chiusura dell’evento rappresentativo dentro un esplicito nucleo simbolico. Alla stessa maniera, Finale di partita è ambientato in una casa posta ai limiti del nulla: nessun altro essere umano oltre a quelli che la abitano, nessun’altra forma di vita attorno: il mondo dopo la catastrofe atomica? Forse, ma non c’è nulla che lo espliciti. Il senso è destinato a rimanere enigmatico: è il dubbio che ci rimane alla fine della vicenda vero contrappunto al negativo della catarsi aristotelica. Lo spettatore viene posto da Beckett nella stessa posizione dei suoi personaggi: non sa perché sia là ma non può non starci. È questo che ha indotto Esslin a fare di Beckett uno dei protagonisti del Teatro dell’Assurdo. Beckett appare però come un fenomeno a parte. La sua drammaturgia agisce come un bisturi sul concetto di scrittura per il teatro, incidendone in profondità le modalità come avevano fatto autori quali Cechov, Pirandello o Brecht. Beckett è interessato a smontare la macchina drammaturgica. Questo intervento si concretizza nella dialettica serrata tra la tragicità “calda” della situazione ed una dimensione analitica, fredda, della struttura compositiva. La dinamica narrativa in “Aspettando Godot” è disposta in due atti che si corrispondono geometricamente in un gioco di variazioni sugli stessi temi narrativi. Nel primo atto Pozzo è l’autoritario padrone di Lucky, nel secondo i due ritornano ma l’uno è cieco e l’altro muto. Ci sono altri elementi di simmetria: il finale dei due atti è uguale, ma il bambino non sarà lo stesso; l’albero che nel primo atto è spoglio, nel secondo è coperto di foglie. Nei testi successivi Beckett scarnifica la forma teatrale ulteriormente. In “Finale di partita” Ham, vecchio, e Clov, giovane servo, aspettano una fine destinata a non arrivare mai. Nell’”Ultimo nastro di Krapp” un uomo riascolta al registratore il racconto della sua vita di trent’anni prima; in “Giorni felici” una donna parla a ritmo incalzante di tutto. Dal punto di vista tematico, c’è un dato che emerge con insistenza: i personaggi sono dei vecchi, ombre degli uomini o delle donne che sono stati o si sono illusi di essere stati. Dal punto di vista strutturale risaltano due elementi. Il primo è presente da sempre: la dialettica serrata tra parola e azione scenica, espressa dalla didascalia; il secondo è l’annullamento del dialogo. Testimone esemplare del primo aspetto è “Giorni felici”. L’impossibilità del movimento si traduce in una puntigliosa indicazione di ogni minimo gesto. La caratteristica che fa di Beckett uno spartiacque nel teatro del secondo ‘900 è il passaggio dal testo come costruzione drammaturgica al testo come partitura. “Atto senza parole I” e “Atto senza parole II” sono due lunghe didascalie che indicano in dettaglio un’azione scenica priva di parola. Con gli anni la scrittura di Beckett tende ad una riduzione, fino a sfiorare il “grado zero”. Mentre il drammaturgo tradizionalmente costruisce l’azione scenica a partire da una situazione, Beckett la costruisce a partire da un’immagine. Questa immagine è ridotta quasi al nulla, sta alla soglia dell’invisibilità. In “Non io”, nel buio assoluto vediamo solo la bocca di una donna che ricostruisce per frammenti il suo aver riacquisito la parola dopo anni di silenzio. In “Quella volta” la testa di un uomo galleggia a mezz’aria nel nero più totale. I personaggi sono immagini pure, potenti nel loro minimalismo. La tragedia assume, negli ultimi anni di Beckett, una connotazione astratta che mette in discussione cosa debba essere inteso per drammaturgica. Questo ne fa uno spartiacque nel teatro del ‘900. Gli “arrabbiati” inglesi e due voci dall’America In area anglofona la drammaturgia del dopoguerra assume i toni di diverse sfumature di realismo che ricorrono a soluzioni drammaturgiche di natura convenzionale ma ha delle connotazioni specifiche sul piano tematico. Il discorso è diverso fra Inghilterra e USA ma c’è un tratto che distingue le drammaturgie di quei paesi e riguarda una scrittura teatrale che gioca sulla “tenuta drammatica” rispetto alla disarticolazione precedente. Il debutto, nel 1956 di “Ricorda con rabbia” di John Osborne a Londra, segna la data di inizio di un fenomeno che fu definito dei “giovani arrabbiati”, scrittori, cioè che esprimevano il disagio sociale di una nazione tra collasso dell’Impero coloniale e difficoltà dei ceti popolari. Quello degli “arrabbiati” non è un teatro politico. Non analizza il dato sociale dei problemi, non mette in gioco categorie di interpretazione critica né fornisce chiavi di lettura ideologiche. Gli arrabbiati forniscono uno spaccato impietoso di frammenti di vita. “Ricorda con rabbia” mette in gioco le contraddizioni di una coppia di estrazione sociale diversa, lui popolare lei borghese. Lei ha tagliato i ponti con la famiglia ma si trova a vivere in un quotidiano che è ripetizione ossessiva dell’aggressività inconcludente del marito. La situazione drammatica è l’istantanea di un ménage che si replica sempre identico. L’unico momento dinamico è quando la moglie se ne va, sostituita da una sua amica attrice, figurazione anche essa di un atteggiamento meccanico verso la vita. Osborne ha il pregio di un’oggettività spietata. Nel caso di John Wesker la situazione di partenza è diversa: non un micronucleo familiare chiuso nella sua prigione ma un’epoca sul crollo dell’illusione del comunismo. Nella trilogia “Brodo di pollo con orzo”, “Radici” e “Parlo di Gerusalemme” è rappresentata una famiglia della classe operaia, molto impegnata politicamente che negli anni perde progressivamente le sue certezze. Fra i tre testi quello in cui il messaggio di Wesker è più esplicito è il primo. Il racconto è scandito in tre parti che corrispondono a tre momenti storici cruciali del movimento comunista inglese: 1936, scontro con la marcia dei fascisti e lo sfondo della guerra di Spagna; 1946, dopoguerra difficile; 1956, anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria. La struttura è realistica ma la scansione temporale crea le condizioni attraverso cui assistere al disfacimento del modello ideologico. Wesker gioca abilmente con i personaggi: Sara, la madre, è una pasionaria convinta che resta del suo credo anche quando viene a sapere degli orrori dello stalinismo e dei fatti d’Ungheria, elementi che invece allontanano la figlia e il figlio. Personaggio più emblematico è Harry, il padre: inerte e vile. Il suo pensiero durante gli scontri del 1936 è mettersi in salvo e resta come una presenza priva di coscienza politica e di volontà per tutta la trilogia, fino a che due attacchi lo conducono alla paralisi. La stagione degli arrabbiati durò poco. Agli inizi degli anni ’60 può dirsi conclusa. Diverso il sentimento della realtà che viene dall’America. Il realismo americano è privo delle implicazioni sociali tipiche di quello inglese. È un realismo interiore, un racconto di anime e della loro sconfitta. Nel teatro di Tennessee Williams questo aspetto si colora di toni tragici. Il realismo di Williams si tinge di valenze espressioniste. Le sue valenze simboliche non deformano la struttura drammatica che è fatta di azioni realisticamente coerenti e di un dialogo al cui interno i personaggi manifestano le contraddizioni più segrete del proprio animo. Quella di Williams è soprattutto una drammaturgia di personaggi in cui la situazione narrativa funziona da detonatore emotivo. In “Zoo di vetro” l’unicorno di vetro che cade e perde il corno diventa simbolicamente un cavallino come gli altri; non c’è spazio per i sogni. Ancora più cruda questa realtà in “Un tram che si chiama desiderio” testo perfetto per la leva degli attori in quegli anni e che portò al successo Marlon Brando. Quello di Tennessee è il ritratto di un’umanità che vive in un tempo tragicamente sospeso la cui frattura interna nasce da una sconfitta non sanata e non sanabile. Di natura diversa il rapporto con la realtà di Arthur Miller. In “Erano tutti miei figli” il dramma ricostruisce le ricadute sul presente della truffa di un industriale che durante la guerra ha venduto pezzi di ricambio difettosi per gli aerei causando la morte di molti piloti. La scoperta della truffa e il relativo suicidio del figlio rompe in maniera irrimediabile l’equilibrio familiare e conduce il padre a sua volta ad uccidersi. Il dramma riflette una colpa che è sociale più che individuale. In una battuta chiave il padre si rivolge alla madre in termini crudi che scoperchiano la morale del sistema capitalistico. La matrice ibseniana non consiste però nuovo, vitale e autentico tra dramma e spettatore. Avignone è un festival di massa, frequentato non solo da intellettuali ma da persone che si avvicinano al teatro con preparazioni diverse e l’atteggiamento di partecipare ad una festa culturale. Il passaggio alla direzione del TNP di Chaillot può dirsi fisiologica. Il repertorio che Vilar sperimentò a Chaillot fu vario, ma con nessuna novità. Vilar sosteneva che gli autori moderni vivevano chiusi nel loro mondo poetico e voleva, viceversa, lavorare sui classici per metterli in relazione ad un pubblico diverso. La messa in scena era giocata su un rifiuto della decorazione che ricorda Copeau, con pochissimi elementi su un fondale nero e tagli di luce che evidenziavano i personaggi dalla penombra. Questo perché lo spettatore non si destrasse da ciò che il teatro autenticamente è: il personaggio nel corpo dell’attore. La recitazione risultava vibrata, a gesti ampi e precisi, rude, aggressiva, così da colpire la sensibilità dello spettatore. A sottolineare la natura popolare del suo teatro Vilar lo apriva prima dello spettacolo perché chi usciva dal lavoro potesse mangiarvi qualcosa a poco prezzo e organizzò delle serate in cui gli spettacoli si alternavano a dibattiti e momenti festivi. Giorgio Strehler Nel 1947 veniva inaugurato il Piccolo Teatro di Milano, animatori ne erano un regista, Strehler, un intellettuale e organizzatore, Grassi, e un professore, Apollonio. Qualche mese prima era stata pubblicata su “Politecnico” la “Lettera programmatica per il Piccolo Teatro della città di Milano”. Era un testo che definiva le coordinate etico-politiche più che estetiche di quel progetto. Il teatro come arte il cui perno è il coro sociale rappresentato dal pubblico. Il Piccolo nasce all’insegna di un nuovo umanesimo sulle cui basi far ripartire la cultura e le società italiane dopo il fascismo. Nasceva così il primo teatro pubblico italiano che avrebbe dato vita al fenomeno dei Teatri Stabili. Oltre che un teatro a vocazione sociale, il Piccolo era anche il teatro di un regista, Strehler, che ne fu l’anima creativa. L’Italia prebellica non aveva prodotto una regia di matrice europea, il teatro italiano del dopoguerra ripartì invece proprio dalla regia. Strehler rappresenta per molti versi la manifestazione più compiuta di questo scarto storico, ma non è il solo. Nel 1945 Luchino Visconti debutta alla regia teatrale aveva già avuto esperienza come regista cinematografico e l’intreccio tra i due linguaggi fu una delle sue caratteristiche. La scelta dei testi testimoniò subito la volontà di operare una frattura nello stagnante panorama italiano: l’ultimo Cocteau, Sartre, Anouilh. Si trattava di prime rappresentazioni attraverso cui il pubblico italiano incontrava una drammaturgia nuova, dopo anni di Censura. Fin dagli esordi Visconti dimostrò un’attenzione particolare alla ricostruzione quasi maniacale dei dettagli. L’attore ha bisogno di un ambiente autentico per essere altrettanto autentico, dando così un senso di verità alla conflittualità e alle tensioni emotive e psicologiche tra i personaggi. È con lui che il regista assume una centralità autoriale. Ma quella che possiamo definire la nascita della regia italiana è caratterizzata da un’esplosione improvvisa che va da Vito Pandolfi a Gianfranco de Bosio a Luigi Squarzina e Orazio Costa. Il Piccolo come teatro di un regista va pensato all’interno dello sforzo che sta facendo il teatro italiano per scrostarsi dalle vecchie abitudini. Strehler è tra i primi a compierlo, regista senza maestri, individua però tre figure che hanno avuto nella sua formazione un ruolo centrale: Copeau, Jouvet, Brecht. È una lettura dello scrittore tedesco diversa da quella francese. Nel ’56 mette in scena l’”Opera da tre soldi”, nel ’63 il suo spettacolo brechtiano più complesso “Vita di Galileo”. Brecht non è però per Strehler solo autore di riferimento, ma qualcosa di più. Nella sua lunghissima attività Strehler è stato un regista particolarmente prolifico. Fondamentale è il rapporto con il testo. Il repertorio che Strehler ha toccato è vastissimo, ma ci sono dei filoni che rappresentano l’ossatura del suo progetto. Uno Brecht, l’altro Goldoni. I suoi testi gli consentono di dare uno spessore umano ai personaggi che l’autore aveva sbozzato e di cui Strehler svela i riflessi interiori. Goldoniano è soprattutto “Arlecchino servitore di due padroni”, spettacolo diventato manifesto del Piccolo e che ha avuto dopo il debutto ben nove edizioni. Strehler pensa il suo Arlecchino come una riflessione sul mestiere del teatro, introducendo tra testo e pubblico un livello intermedio, quello di una compagnia di comici dell’arte che mette in scena il testo, creando un effetto di distanziamento e al tempo stesso mettendo in gioco la dimensione umana dell’attore colto nel suo mestiere. Questa modalità di lavoro è stata definita da Claudio Meldolesi “regia critica”. È una definizione che ha fatto scuola. Un attore di transizione Nel passaggio tra le due metà del secolo Jean-Louis Barrault ha un interessante ruolo di congiunzione. Nei primi anni Trenta entra nella scuola di Dullin e ne assorbe l’insegnamento relativo alla formazione dell’attore. Del metodo dell’Atelier, ciò che lo colpisce maggiormente è il lavoro sul corpo come mezzo espressivo privilegiato, l’elaborazione creativa dell’improvvisazione. Attraverso Dullin, Barrault si collega a Copeau ma soprattutto a due figure che avranno un peso determinante per lui: Decroux e Artaud. Il primo aveva dato vita al mimo corporeo. Barrault ne assorbe l’insegnamento e lo pone alla base del suo teatro anche se non farà mai spettacoli di mimo puro. Grazie ad Artaud invece entra a contatto con la dimensione visionaria dell’idea di teatro. Nel 1935 sarà tra gli interpreti dei “Cenci” e sosterrà tutta la vita che “Il teatro è il suo doppio” è una delle opere chiave del ‘900. Come non era propriamente mimo, così l’enorme ammirazione per Artaud non ne fece mai un attore e regista d’avanguardia. Barrault dirà “Il teatro è la poesia a tre dimensioni: l’uditiva (parola), la visuale (gesto), la magnetica (tatto)”. Definirà questa sua concezione “teatro totale”, nel senso di “umanizzare lo spettacolo innalzandolo alla presenza, fare in modo che prenda parte all’azione”. Il momento di svolta è il 1942 quando è chiamato a dirigere, in piena occupazione tedesca, la Fedra alla Comedie Francaise. Nel 1946 fonda insieme alla moglie una compagnia. La compagnia realizza soprattutto classici. Quando Barrault assunse la direzione del Theatre dell’Odeon, vi ospitò anche nuova drammaturgica. Nel 1968 il suo teatro venne occupato dai rivoltosi e vi ebbe luogo un’edizione di “Paradise Now” del Living Theatre, formazione radicale del momento. Barrault si dimise.
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