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Il Novecento del teatro, Appunti di Comunicazione Teatrale

riassunto dettagliato del libro di Mango, "Il Novecento del teatro" per la preparazione dell'esame di Storia della Regia.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 08/12/2022

MariaLiuni
MariaLiuni 🇮🇹

4.5

(18)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Il Novecento del teatro e più Appunti in PDF di Comunicazione Teatrale solo su Docsity! IL NOVECENTO DEL TEATRO – MANGO 1.STORIA DI UN INIZIO Premessa Difficile far partire il teatro del Novecento da una data ben precisa, soprattutto quando si hanno molteplici elementi da cui “partire”. Una data simbolica potrebbe essere fatta coincidere con il debutto dell’“Ubu re” di Alfred Jarry presso il Thèatre de l’Oeuvre di Aurelièn Lugnè-Poe a Parigi il 10 dicembre 1896. Anteprima Simbolica La rappresentazione dell’Ubu, incise in maniera profonda sull’immaginario artistico novecentesco e, in particolare, su quello delle avanguardie. La dimensione insurrezionale, selvaggia si espresse su due piani: la composizione letteraria del testo e la sua resa scenica. L’opera ha i tratti di una farsa grottesca, apparendo come una rielaborazione parodica di “Macbeth” in cui il tema dell’avidità di potere e della congiura sono esposti in modo paradossale nella figura di Ubu. La struttura narrativa è frammentaria e i passaggi da una situazione all’altra sottraggono coerenza ad un racconto surreale, aiutati anche da un uso provocatorio del linguaggio. Il personaggio, inteso da Jerry come una marionetta fu interpretato magistralmente da Firmin Gèrnier, che veniva dall’ambiente naturalista di Antoine, realizzando una caricatura dell’eroe che ne esaltava la mancanza di carattere. Non meno rivoluzionaria apparve la messa in scena da parte di Sèrusier e Bonnard: sicuramente si tratta di un episodio marginale che non fa scuola ma porta in sé i germi della rivoluzione delle avanguardie. Novecento: secolo della reinvenzione dei codici, di azzeramento e ripartenza. L’inizio come processo storico L’inizio del Novecento è caratterizzato però da un discorso più complesso rispetto ai modelli teatrali precedenti: da un lato un ripensamento della scrittura letteraria per la scena e dall’altro la progressiva affermazione della regia. Il dramma come crisi del drammaàIn un libro della metà degli anni Cinquanta Peter Szondi ricostruisce le dinamiche che caratterizzano il dramma moderno tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. La sua tesi è che la modernità si presenta nella letteratura teatrale come messa in crisi della nozione di dramma, il cui carattere principale è di essere “assoluto”: non prevede la presenza narrativa dell’autore, accade in funzione dell’azione agita e si compie nel dialogo. Il Novecento è caratterizzato dal rifiuto di questo modello: il dramma diventa una forma aperta che comporta la frattura della coesione narrativa dell’azione. Lo stesso Szondi definisce tale passaggio “crisi del dramma”, crisi come inizio di una trasformazione, i cui protagonisti sono: Ibsen, Cechov, Maeterlinck, Strindberg e Hauptmann. August Strindgbergà”Con Strindberg ha inizio quella che più tardi verrà definita “drammaturgia dell’io”. Dopo aver aderito al Naturalismo radicale (con testi come “Il padre”, “La signorina Giulia”), e dopo essersi allontanato dalla scena teatrale, egli tornerà con le prime parti di “Verso Damasco” ed il sequel “Un sogno”. Quando si parla di “drammaturgia dell’io” si fa riferimento proprio a queste opere intendendo la decostruzione della dimensione oggettiva e chiusa della forma drammatica convenzionale. Il mondo rappresentato non esiste come cosa in sé ma in relazione all’esperienza del protagonista che vi viaggia attraverso come in un percorso iniziatico. Diverse come impianto le due opere hanno molti elementi comuni: in primo luogo la destrutturazione logica del racconto che procede a sbalzi, in secondo luogo la rinuncia al realismo, in nome di una scrittura ricca di suggestioni simboliche; ed infine v’è la disposizione della narrazione che procede in maniera illogica ed arbitraria, negando l’effettiva logica unitaria del dramma. Dissoluzione della tenuta logica che si manifesta attraverso un processo di straniamento. Tra il 1907 ed il 1910 Strindberg proverà, con la collaborazione di August Falk, a dare un corpo scenico alle sue visioni drammatiche nell’Intima Teatern (“Teatro intimo”) aperto a Stoccolma. Scenicamente abbraccia l’ipotesi di una scena spoglia, guardando alle proposte di grandi riformatori della scena come Craig e Fuchs, Pochi elementi figurativi, ambientati in una cornice di tendaggi animati dal colore delle proiezioni luminose, in grado di suggerire più che rappresentare il dramma. Anthon CechovàAnthon Cechov, drammaturgo russo, lascia la veste esteriore del testo apparentemente integra (a differenza di Strindberg), toccando in primo luogo l’azione ed andando a corrodere dall’interno l’identità dell’azione. La sua è una “drammaturgia del ribadire”, nel senso che Cechov ribadisce la stessa situazione in momenti diversi di una vicenda che sembra muoversi ma in realtà resta ferma. All’interno di questa drammaturgia una funzione particolare hanno i finali: cancellare i barlumi di speranza, le possibili aperture al futuro. Ed è ciò che avviene in testi come “Il gabbiano” (1886, testo corale in cui un gruppo di personaggi rappresentano una microsocietà incapace di evolversi), “Zio Vanja” (1889, l’inutilità della ribellione si concretizza nel colpo di pistola sparato a vuoto), “Le tre sorelle” (1901) e “Il giardino dei ciliegi” (1904); opere con cui Cechov si fa protagonista della transizione al Novecento. Egli stesso ha la consapevolezza di essersi avviato in un territorio al di fuori dei parametri della scrittura teatrale, incerto ma stimolante, territorio che incontra il Teatro d’Arte di Mosca di Stanislavkij, dando vita a un sodalizio in cui una nuova scrittura letteraria si coniugava con la nascente regia. Tutta la produzione “maggiore” di Cechov fu scritta per il “Teatro d’Arte”. La sua scrittura è costellata di puntini di sospensione che esprimono un disagio del dire; egli disarticola la dimensione rappresentativa del dramma dall’interno, lo essicca, ne inibisce lo sviluppo. Riduce, toglie, elimina, “evita”. La nascita della regiaàNella ridefinizione degli statuti linguistici della fase iniziale del ‘900, in maniera complementare alla messa in discussione della forma dramma agisce la nascita prima e l’affermazione poi della regia. Ciò che definiamo regia ha una forma di creazione che utilizza come materiali gli elementi della scena, ha una propria visione del teatro e una sua autonomia espressiva. Per quanto riguarda la data di nascita vi sono due ipotesi storiografiche: la prima tratta la regia come creazione indipendente, fenomeno relegato solo al ‘900; la seconda invece considera la regia come creazione dipendente individuando in essa la sua qualità di organizzazione e coesione progettuale dello spettacolo, retrodatando la sua nascita ai primi anni ’30 dell’‘800. Un dato di fatto è che negli anni Trenta dell’’800 si conia in Francia un termine nuovo per indicare l’allestimento scenico, mise en scène, che va a sostituire abitualmente il termine règie. La mise en scène indica un processo di messa in relazione dialettica tra pagina e scena e comincia ad essere usata abitualmente per degli spettacoli di autori romantici della Comèdie Francaise. Questa novità, però, è il momento inaugurale di un percorso ancora tutto da compiersi. Tra gli anni ’70-’80 i Meininger in Germania, introducono un modo di impostare la costruzione scenica dello spettacolo che amalgamava attori, scene ed oggetti, lasciando a bocca aperta chiunque assistesse alle loro tournèe itineranti (“Giulio Cesare”, Londra). La svolta della direzione della regia modernamente intesa si ha, però, a Parigi tra gli anni ’80-90 ad opera di due figure, Andrè Antoine e Aurélien Lugné-Poe, che pur schierati su fronti opposti, Il naturalismo e simbolismo, agiscono oramai esplicitamente in una direzione registica. Nel suo Theatre Libre, Antoine mise a punto una metodologia di lavoro che aveva come obiettivo deteatralizzare il teatro, evitando soluzioni accademiche ed optando per soluzioni più naturalistiche. Ben diversa la visione teatrale di Lugné-Poe, che con il suo Theatre de l’Oeuvre cercava una soluzione scenica che interferisse il meno possibile con l’ascolto, affidando la scena a teli di fondo con immagini stilizzate. Seppur in maniera opposta, dunque, l’esigenza di una regia che affronti il problema della messa in scena come scrittura e non solo come elemento di coesione e armonizzazione tra le parti, diviene sempre più forte. Questa nuova prospettiva viene espressa chiaramente nel 1903 in un testo di Antoine che parla della sua concezione di regia, individuando in essa un nuovo modello di teatro, al cui interno opera una distinzione fondamentale tra lavoro sulla materialità della scena e lavoro sull’identità del personaggio. L’inizio come fondamento teorico Agli esordi del secondo vengono prodotte una serie di formulazioni teoriche che rimettono in gioco il concetto stesso di teatro. Gli autori a cui possiamo assegnare un ruolo strategico nel discorso sono Appia, Craig e Fuchs. A monte c’è la nozione d’opera d’arte totale elaborata da Richard Wagner, il quale individua Coupeau e Vsevold Mejerchol’d. Stanislavskij muove i primi passi nella compagnia amatoriale di famiglia per approdare nel 1888, alla Società d’arte e letteratura, un circolo di intellettuali modernisti in cui vi iniziò come attore per assumere poi ben presto il ruolo di regista. Qui cominciò a sperimentare soluzioni nuove di messa in scena: egli voleva che l’azione fosse accolta dentro un ambiente scenico curato realisticamente nei dettagli e chiedeva agli attori la parte a memoria fin dall’inizio, che si provasse a voce piena e senza gli ingombranti abiti di tutti i giorni. Il 22 giungo 1897 è una data simbolica nella vicenda artistica di Stanislavskij e del teatro del Novecento poiché incontra Dancenko, con il quale conversò tutta la notte per definire e formulare nuove leggi per il teatro. Il primo problema che si posero fu quello di incidere sul mestiere, prima ancora di fare scelte di tipo estetico. A Stanislavskij fu affidata la direzione scenica, a Dancenko la responsabilità drammaturgica. La prima stagione del Teatro d’Arte fu una sorta di sintesi dell’evoluzione registica di Stanislavskij a partire dallo spettacolo d’esordio “Zar Fedor” di Aleksej Tolstoj sino ad arrivare a quello di chiusura “Il Gabbiano” di Cechov. Doversi confrontare con Cechov comportò un nuovo approccio alla regia e all’interpretazione del testo poiché secondo Stanislavskij bisognava partire dal sottotesto e “ridurre allo stesso denominatore tutti i membri della compagnia” per passare così da un realismo esteriore ad uno interiore, ad una verità emotiva. Per fare questo egli utilizzò tempi lunghi di prove riunendo gli attori in una tenuta nei pressi di Mosca, nel frattempo scrivendo un libro di regia che indicava battuta per battuta il movimento, l’intonazione e l’azione. La morte di Cechov fu un trauma: Stanislavskij capì che doveva intraprendere nuove strade. Da un lato cercò una nuova drammaturgia, dall’altro cominciò a interrogarsi con più sistematicità sul ruolo dell’attore. Nel 1909 egli ritornò al realismo con “Un mese in campagna” di Turgenev, in cui cominciò a mettere alla prova i primi esperimenti sulla recitazione interiore. Sul piano registico, c’è il passaggio da un atteggiamento autoritario a una maniera dialettica di relazionarsi all’attore. Ma il dato ancor più rilevante è che Stanislavskij riduce la produzione di spettacoli concentrandosi sulla ricerca sull’attore e con l’attore. Una ricerca concreta, senza utopici voli pindarici. “Ci serve una teoria sostenuta da un metodo pratico, sostenuta da una verificata esperienza” -S. Max ReinhardtàViennese, Max Reinhardt era stato scritturato giovanissimo da Otto Brahm, a Berlino, per il suo Freie Buhne (“Teatro libero”), costituito sul modello del Theatre Libre di Antoine. Ma il naturalismo cominciò presto a stargli stretto inducendolo a creare un piccolo cabaret (ribattezzato come Kleins Theatre) dove rappresentare sketches, improvvisazioni, numeri di varietà, canzoni. Reinhardt fu un’artista del fare, poco interessato alla dimensione teorica. In un breve testo del 1902, però, “Il teatro che ho in mente”, rivela un atteggiamento modernista, per quanto non ideologico, di concepire la regia. Per Reinhardt “il teatro ha un unico scopo: il teatro” ed il suo lavoro è riassunto in maniera efficace da un grande maestro della regia, Strehler quando dice che “egli concepì naturalmente l’opera drammatica come una partitura da valorizzare e la regia come la direzione di un’orchestra di voci”. Nel 1905 è chiamato a dirigere il Deutsches Theater, dove, dopo averlo rimodernato ne fa il luogo dove allestire i classici, Shakespeare in testa. Lo spettacolo emblema di questa stagione è “Sogno di una notte di mezza estate”, in cui viene modificato radicalmente l’impianto convenzionale della messa in scena dando largo spazio al bosco, rendendolo il vero protagonista della messa in scena. Accanto al Deutsches, nel 1906 Reinhardt apre un piccolo teatro in cui platea e palcoscenico facevano un tutt’uno, diviso solo da un paio di gradini. Lo chiamò Kammerspiele, “Teatro da camera”, e lo pensò come il luogo adatto ad accogliere la drammaturgia moderna che aveva bisogno di un contatto intimo con lo spettatore. Lo inaugurò con una versione di “Spettri” di Ibsen in cui come scrive a Munch (autore delle scene), gli interessava cercare ciò che sta “tra e dietro le parole”. C’era anche una terza via che interessava a Reinhardt: un teatro di massa che rievocasse la partecipazione popolare dell’antica Grecia. Acquistò, a questo scopo, il Circo Shumann dove rappresentò “Edipo re” (1910) e “Orestea” (1911). La sua curiosità intellettuale lo portò a confrontarsi anche con le esperienze più d’avanguardia, anche se non si può comunque annoverarlo tra i registi espressionisti: la recitazione restava misurata, il suo era solo l’ennesimo esperimento di adattare le sue doti registiche a forme drammaturgiche diverse. Gli anni ’20, caratterizzati in Germania da un difficilissimo dopoguerra, segnarono un momento difficile per Reinhardt, accusato di “inutile spettacolarità”, motivo per il quale egli ritornò in Austria dando vita ad un altro grande sogno: fondò il Festival di Salisburgo, continuando la sua frenetica attività di allestitore di spettacoli d’ogni tipo. L’avvento del nazismo lo costrinse, da ebreo quale era a trasferirsi negli Stati Uniti, dove morì nel 1943. Jacques CopeauàIl suo approdo al teatro è tardivo: dopo essere stato tra i fondatori nel 1908 della “Nouvelle Revue Francaise”, aprirà nel 1913 il teatro del “Vieux Colombier”, destinato a diventare modello per i piccoli teatri d’arte o teatri “d’eccezione” del ‘900. Regista, Copeau è una figura di intellettuale che si dedica al teatro riconducendolo alla sua natura di evento culturale e sottraendolo al mercantilismo: secondo Copeau il teatro deve in primo luogo rifondare il suo linguaggio e la sua tecnica. Il passaggio alla pratica avviene nel 1911, con “Fratelli Karamazov” di Dostoevskij per il Theatre des Ates diretto da Jacques Rouchè. Sarà proprio attraverso quest’ultimo che Copeau entra a contatto con la rivoluzione moderna del teatro e quando nel 1913 aprì il suo Vieux Colombier, lo fece in una prospettiva decisamente modernista. Il suo progetto partiva dall’esigenza di chiudere con l’industria dello spettacolo e restituire allo spettacolo la sua bellezza. Copeau non voleva tagliare i ponti col passato, ma ritessere il legame con una tradizione che riteneva tradita. Bisognava cercare la vita nei classici senza cadere, però, nei modernismi di maniera. Il motore di tale processo era il regista, in quanto guida di un processo creativo basato sull’accordo dei diversi elementi artistici indirizzati verso un unico scopo da un’unica intelligenza. Pur essendo in linea con quanto sostenevano i teorici nel Modernismo teatrale, Copeau guardava con sospetto a quello che gli sembrava un loro eccesso scenico. Il suo teatro si sarebbe affidato a una “scena nuda” che si metteva al servizio dell’attore, nel suo viaggio a ritroso verso la matrice originaria del testo drammatico. Al ritorno da un periodo negli Stati Uniti, dovuto alla guerra e alla chiusura temporanea del suo Vieux, Copeau realizzò la struttura di una scena architettonica fissa e priva di elementi rappresentativi per realizzare il suo concetto di “scena nuda”: una pedana aggettante accessibile su tre lati, sul fondo un arco ribassato con un ponte, una porta, un balcone uniti alla pedana con due scale. La scena “sgombra, spoglia al massimo” era assoggettata alla volontà dell’attore che sarebbe riuscito così ad esprimere al massimo le sue potenzialità espressive. Nonostante questo, Copeau non vuole un teatro serioso e cerca i fondamenti del linguaggio nella commedia, in particolare nel Molière farsesco, espresso soprattutto scenicamente attraverso il movimento. Nel 1913 il suo progetto si spostò sull’idea di formare una scuola che avesse come punto cardine la formazione di attori come persone prima che da un punto di vista tecnico. All’attore era richiesta una ricerca su di sé che introducesse tanto l’espressione del corpo che quella delle emozioni: di qui il lavoro sull’improvvisazione, sulla maschera neutra e su quei principi che lo lasciavano ancorato a quelli portati avanti dalla Commedia dell’Arte. L’esperienza dei Copiaus (così il nome assunto dalla comunità diretta da Copeau) fu abbandonata da Copeau una volta tornati in Francia. Egli non amava la parola rivoluzione. Per lui la regia era la costruzione delle condizioni perché la poesia tornasse a scrivere in prima persona il teatro. Il regista era una specie di supplente, un supplente a tempo, destinato però poi a durare un secolo. Vsevold Mejerchol’dàIl termine che meglio coglie la peculiarità registica di Mejerchol’d è eclettismo, in un’accezione diversa però da quella che si può utilizzare per Reinhardt. Non si tratta, infatti, di una regia che si rimodella a seconda del testo, ma di un eclettismo del percorso artistico che lo vede alternarsi tra fasi completamente differenti tra loro. Dopo aver abbandonato l’impresa di Stanislavskij, apre la sua prima stagione come regista indipendente definendola “teatro della convenzione”, dove la tecnica convenzionale lotta contro il metodo dell’illusione e dove, il termine stesso convenzione sta ad indicare il rifiuto del realismo e, viceversa, piena leggibilità della dimensione artificiale della messa in scena. Una componente fortissima è quella della dimensione visiva e pittorica: lo spettacolo è concepito come un quadro animato. Gli elementi che caratterizzano il “teatro della convenzione” sono l’antirealismo, la figuratività pittorica, una “statica tessitura gestuale”, l’assorbimento dell’attore nel quadro scenico. L’occasione di sperimentare questa ipotesi gli è offerta dall’attrice russa Vera Komissarzevskaja, che lo coinvolge come regista nella sua compagnia. Dopo numerosi spettacoli (tra cui “La baracca dei saltimbanchi” di Blok), Mejerchol’d venne licenziato e successivamente assunto come regista dei teatri imperiali, dove seguì una linea “tradizionalista” per la messa in scena di alcuni classici, inserendovi comunque elementi di stilizzazione modernista. Contemporaneamente, in teatri privati continuava la sperimentazione avviata con la “Baracca”. La rivoluzione del 1917 determina una cesura netta nell’attività di Mejerchol’d che non solo aderisce al progetto rivoluzionario ma si avvicina alle avanguardie. Inizia così un sodalizio con Majakovskij. Lo spettacolo più significativo era però tutt’altro che politico, e l’espressività dinamica del corpo si esaltò al massimo grazie anche alla nuova tecnica messa a punto da Mejerchol’d, la Biomeccanica. L’interesse verso una messa in scena modernista dei classici non era però una provocazione, era un’esigenza espressa perfettamente in sintesi ne “Il revisore” di Nikolaj Gogol’: dalla rilettura dei classici che ricorda il “tradizionalismo”, al ruolo centrale affidato alla scena, a una recitazione dinamica e straniata. Gli anni ’30 non furono facili per Mejerchol’d accusato di formalismo e successivamente ucciso dalle leggi del regime stalinista. Sviluppi e diffusione del teatro di regia Nei primi 30 anni del Novecento la regia si impone in Europa come un sistema con alcune costanti che variano, però, a seconda delle aree geograf.: l’affermazione autoriale del regista; la messa in scena come composizione unitaria e organica; un lavoro sul testo basato sull’interpretazione e l’invenzione scenica. RussiaàLa presenza di Stanislavskij e Mejerchol’d crea una condiziona particolarmente vivace sul piano della regia. La figura che, forse, meglio illustra l’insieme di questi fattori è Evgenij Vachtangov, “regista Amleto”; così definito per via dell’oscillazione tra l’adesione alla metodologia di lavoro sull’attore di Stanislavskij e l’ammirazione per le qualità inventive di Mejerchol’d. La sua attività inizia nel Primo Studio di Mosca, dove, sotto la guida di Suler, egli sperimentava un lavoro sulle capacità dell’attore di rivivere e non solo interpretare il personaggio. La sua aspirazione era “espellere dal teatro il teatro” per cercarne la dimensione autenticamente umana. Di quell’esperienza gli rimase la convinzione che l’attore dovesse sempre avere una motivazione autentica nel relazionarsi con personaggio e che dovesse riconoscersi in una comunità di lavoro basata su precise regole etiche e non solo sulla collaborazione professionale. Subito dopo lo spartiacque della Rivoluzione del 1917 subentrò la necessità, grazie al clima avanguardistico del momento, di superare il realismo. Spettacolo manifesto di Vachtangov fu “La Turandot” su testo di Gozzi, ripresa secondo la festosità dell’evento teatrale senza però risolverlo in puro gioco formale. La ricerca di una “nuova forma” è alla base anche del lavoro di Aleksandr Tairov. Quando nel 1914 fonda il Kamenyj Teatr (“Teatro da camera”) di Mosca la sua intenzione è di opporsi tanto al realismo psicologico di Stanislavkij quanto al teatro della “convenzione” di Mejerchol’d. “Bisogna restituire il teatro al teatro”. L’interesse di Tairov era rivolto a costruire una nuova figura di attore che definiva, in polemica con al Supermarionetta craighiana, superattore. Un attore che doveva essere capace di agire tanto sulla formalizzazione del gesto e del movimento quanto sulle emozioni. (specialmente le 4 primarie: collera, paura, gioia e sofferenza). All’attore non era richiesto di provarle o giustificarle ma di dar loro un’immediata visibilità esteriore. Modello era il corpo perfettamente allenato del ballerino. Un ruolo chiave lo aveva anche il costume, realizzato in base ai movimenti dell’attore, utile ad evidenziarne la forza espressiva. Il gesto come veicolo espressivo primario, il costume come elaborazione visiva del personaggio, la scenografia come tastiera tridimensionale, la parola come evidenza sonora, era questa la grammatica del Kamernyj, che si espresse lungo due direttrici complementari: l’arlecchinata e la tragedia. I due spettacoli che esemplificano al meglio questa duplice natura sono “La Principessa Brambilla” di E.Hoffmann e “Fedra” di Racine (1922). Quest’ultima sarà tanto spettacolare quanto fallimentare per Tairov che non riuscirà mai più a raggiungere quel perfetto livello di sintesi espressiva, mandando in crisi il Kamenyj. à1922 anche anno di “Magnifico Cornuto” di Mejerchol’d e “Turandot” di Vachtangov ß Nel clima di vivacità culturale che si respira in Russia tra il 1920 e il 1924 si svolge la pratica registica di S.Ejzenstein, che con “Sciopero” (1924) e “La corazzata Potemkin” (1925) sarebbe diventato uno dei maestri del cinema mondiale. L’incontro decisivo è con Mejerchol’d di cui fu assistente alla regia per diversi spettacoli. A differenza di questo, però, che vede l’azione risolversi nell’attore, per Ejzenstein dal punto di vista dell’efficacia c’è il montaggio da cui deriverà poi il “montaggio delle attrazioni”. Il linguaggio scenico è concepito come una serie di “numeri” da music-hall che dissolve la linea narrativa e l’identità drammatica dello spettacolo. Esso era un “montaggio delle attrazioni” che reinventava il testo e mirando allo stupore. Ejzenstein sentiva che per andare oltre doveva rivolgersi al cinema, espressione successiva del teatro. 3. LE AVANGUARDIE STORICHE Avanguardia: un nome, un concetto I primi decenni del Novecento presentano i segnali di un fermento culturale che riguarda le arti tutte. Tale fermento prende il nome di avanguardia, termine individua delle linee di tendenza che agiscono come programmatica frattura radicale rispetto al contesto artistico circostante, alla fase storica immediatamente precedente, ma anche alla storia nel suo complesso e alla stessa nozione d’arte. Le principali avanguardie di inizio ‘900, definite “storiche” (per differenziarle da quelle della seconda metà del secolo), sono il Futurismo, il Dadaismo, il Surrealismo, l’Espressionismo, il Costruttivismo: nella loro diversità presentano tratti simili come il fatto di essere gruppi organizzati che si riconoscono attorno a un progetto teorico che spesso assume la veste di un manifesto programmatico. I movimenti toccano trasversalmente tutte le arti mettendo in discussione la stessa nozione d’opera d’arte e la sua tecnica. Inoltre, cercano di porsi come obiettivo un’utopistica rifondazione del mondo nel suo tessuto sociale etico e filosofico. Il teatro avrà un posto importante in tale processo, facendo dei primi trent’anni del 900 un momento unico nella storia teatrale europea. Il Futurismo Dopo aver pubblicato nel 1909 “Manifesto futurista”, in cui gettava le basi del movimento (esaltazione della modernità, velocità come simbolo della nuova sensibilità moderna, rifondare l’arte attraverso un atto di drastica frattura); Filippo Tommaso Marinetti scrive il “Manifesto dei drammaturghi futuristi” ribattezzato come “La voluttà di essere fischiati”. Qui, tornano molti degli elementi fondativi del Futurismo come “Il disprezzo per il pubblico”, “la voluttà di essere fischiati” e “l’orrore per il successo immediato”, avendo un approccio solo teorico. Nel 1915, poi, con Corra e Settimelli scriverà il “teatro futurista sintetico” dove verranno enunciate delle linee guida operative: il teatro deve essere sintetico, alogico ed irreale (per cui si dovrà distruggere la struttura drammatica convenzionale) e, soprattutto deve essere “teatro evento”. Per le “sintesi” (ricordiamo la scena di “Non c’è un cane” dove si apre il sipario, passa il cane, fine) non vi fu nessuno che sposò l’idea come sua proposta rivoluzionaria. Mentre, per quanto riguarda il “teatro evento”, Marinetti esprime il suo apprezzamento per il teatro di varietà leggendolo come soluzione per la creazione di eventi unici e irripetibili, gli stessi che cercava di creare nelle sue serate. Esse sono leggibili in chiave di teatro nella misura in cui per teatro intendiamo ciò che è legato al momento, al qui e ora di un’azione pubblica. Il teatro dei pittori I. Il Futurismo C’è un terzo livello di teatro futurista, quello dei pittori che hanno una propria idea sul piano pratico e teorico. Nell’ambito futurista i tre più importanti sono Enrico Prampolini, Giacomo Balla e Fortunato Depero. Fra i tre, il più attivo è Prampolini che nel 1915 scrive il manifesto “Scenografia e coreografia futurista”, riproponendo un suo radicale ripensamento sul linguaggio teatrale tutto. A lui non interessa una riforma di natura tecnica ma estetica: è lo scenografo che deve dettare le regole della messa in scena, sottolineando la capacità attraverso la luce di esaltare la dimensione emotiva del colore. Nella parte finale del suo manifesto affermerà che la macchina dinamico-cromatica che ha in mente è un oggetto spettacolare in sé, in grado di farsi protagonista di un teatro astratto che fa a meno dell’attore. L’attività teatrale di Giacomo Balla è più circoscritta ma non meno significativa: a lui si deve nel 1917, il più compiuto esperimento di teatro astratto commissionatogli dalla grande compagnia di danza russa di Djagilev: uno spettacolo di danza senza danzatori; testimonianza fondamentale delle potenzialità di un teatro dei pittori a matrice astratta. L’ultimo è Fortunato Depero, il quale, dopo un esperimento fallimentare con i balletti russi di Stravinskij, nel 1918 dà vita ad un teatro di marionette, i “Balli plastici” (non le convenzionali, sono sagome di legno dai tratti stilizzati e geometrizzati). Immagini in movimento, colori, forma, astrazione: il teatro dei pittori futuristi è programmaticamente antinarrativo, come d’altronde lo è il complesso del teatro futurista, aspirando, viceversa, a un “meraviglioso moderno” in grado di stupire lo spettatore. Dada e Surrealismo Tra i movimenti d’avanguardia il più estremo è sicuramente il Dadaismo. Nasce a Zurigo nel 1916 come reazione alle forme consolidate di arte e, nel 1918, nel “Manifesto del Dadaismo” di Tristan Tzara rimarca una volontà di azzeramento che non risparmia neanche il nome del movimento, dato che quest’ultimo appunto non ha significato. Dada quindi si presenta come un’antiarte che mette in primo piano la vita, l’effimero, e un gesto distruttore che aggredisce la logica, il buon senso borghese e l’idea stessa di arte. La storia di Dada inizia con uno spazio aperto da Hugo Ball, il “Cabaret Voltaire”, in cui artisti di diversa provenienza si aggregano mossi da un comune spirito di contestazione totale, dando vita a delle “serate” (che ricordano quelle futuriste) in cui venivano declamati proclami, poesie dal linguaggio disarticolato etc etc.. Il 23 giugno 1926 Hugo Ball comparve sulla scena del Cabaret abbigliato in un costume che lo trasformava in una sorta di misteriosa figura meccanica, leggendo tre sue poesie di cui l’ultima era un puro insieme fonetico. L’evento poetico, pur senza averne intenzioni, si trasformò in una nuova forma di spettacolo teatrale. Finita la guerra la comunità zurighese si sciolse e il Dada migrò a Parigi, dove venne accolto con entusiasmo dal clima culturale avanguardistico del tempo. Essa fu protagonista nei primi anni Venti di una serie di serate provocatore, esplosive, irridenti costruite sul modello zurighese. All’interno di queste Tzara presentò il suo primo teatro teatrale dove la decostruzione del senso è alla base del testo teatrale, così come nei successivi, anche se in questi ultimi v’era una progressiva attenzione verso l’organizzazione formale. Il 1924 è un momento di frattura: in un processo di conflitto e continuità Dada si estingue e nasce ad opera di Breton, il Surrealismo (termine con cui, nei 1917 Apollinaire aveva definito il suo testo “Le mammelle di Tiresia”, dove v’era decostruzione narrativa e la trama era una donna che diventa uomo e l’uomo che partorisce 40mila bambini in un giorno). Divenuto ripetitivo e fine a sé stesso, Dada lascia spazio a questo nuovo fronte di sperimentazione che guarda alla dimensione originaria e inconscia dell’io liberandola dalla gabbia della ragione. Fondamentale fu la lettura degli studi sull’interpretazione dei sogni di Freud. Il sogno diventò uno dei valori chiave della nuova estetica, fuso con la realtà, diventando una “surrealtà”. (“Manifesto Surrealista”,1924). Il termine surrealtà in Breton assume diventa più complesso rispetto all’uso che ne fa Apollinaire: strumento per disarticolare la conoscenza razionale e arrivare a una rivoluzione complessiva della sensibilità e della stessa identità umana. Gli strumenti necessari sono l’automatismo psichico e l’accostamento di elementi incongrui in grado di creare associazioni libere. Tecniche queste che rimandando ai meccanismi del sogno individuati da Freud: la condensazione di segni diversi in un’unica immagine e lo spostamento di elementi da un contesto a un altro con la conseguente perdita di un senso logico. Breton riteneva che la poesia e la pittura fossero le arti in cui si potessi esprimere la scrittura automatica surrealista, mentre guardava con sospetto il teatro, bisognoso di un processo di costruzione. Questo non significa che non ci fu un teatro surrealista, anche se quest’ultimo fu considerato di “eretici”, ossia coloro che furono espulsi dal movimento ma rimasero di fatto con degli ideali surrealisti. I 2 più importanti sono Roger Vitrac e Antonin Artaud. Nel 1925 fondarono un teatro e lo chiamarono “Teatro Alfred Jarry”, rifacendosi al padre di tutti i dissacratori. Fu un esperimento durato dal 1927 al 1930, che rappresentò un momento importante nella storia teatrale del Novecento. Qui Vitrac rappresentò in chiave surrealista: “Veleno” (1920 pubblicato sulla rivista “Litearature”) “I misteri dell’amore” (1923-1924), “Victor o i bambini al potere (1928). Antonin ArtaudàL’altro surrealista “eretico” è una delle figure di spicco del Novecento, Artaud. E’ riduttivo però limitarlo a quel contesto a causa di una visione teatrale particolarmente complessa, visionaria e utopica che ne fa uno dei “fondatori” del Novecento teatrale e ha avuto importanti ricadute anche sul teatro del secondo novecento tanto che Grotowski parlerà di “teatro della crudeltà”. Dopo la frattura con Breton nel 1926, Artaud apre con Vitrac il “Teatro Jarry” i cui elementi programmatici sono espressi in una serie di importanti scritti teorici. Il primo elemento è il disprezzo per i mezzi teatrali correnti e la ricerca di una “necessità interiore” del teatro aspirando a “risuscitarlo totalmente”. Questa intenzione di fare del teatro il luogo di un perturbante che agisca sullo spettatore in modo dirompente si tradusse in un repertorio il cui testo sottoponeva quest’ultimo ad una “operazione vera”. L’attività pratica di Artaud si risolve, dopo il 1926, nella messa in scena nel 1935 di uno dei suoi testi “I Cenci” in cui cercava, di risolvere in maniera pratica, le teorie esposte in un suo libro “Il teatro e il suo doppio” (1972). La prima occasione per ripensare il teatro fu assistere ad uno spettacolo di danze balinesi dove il movimento e la Parola prima delle parole erano fondamentali. Di qui il rifiuto di Artaud di quel teatro che fa del dialogo il suo protagonista, optando invece per un teatro fisico, in grado di toccare i sensi più che la mente dello spettatore. “Crudeltà” intesa non come teatro di sangue e violenza quindi, ma come esperienza paragonabile a quelle mistiche orientali. Motore di queste è l’attore, “atleta del cuore” che mette in gioco tutto sé stesso in una sorta di sacrifico simbolico, per dar vita ad una rinascita che però, nell’autore, resta sospesa. Più che al come del linguaggio Artaud mette in campo in un modo visionario il cosa è del teatro, in grado di sostanziarne una nuova necessità interiore. E’ proprio questo aspetto, questa incompiutezza, paradossalmente, che gli assegna un ruolo strategicamente centrale nel processo di costruzione identitaria del Novecento. Majakovsij e le avanguardie in Russia I primi trent’anni del Novecento sono molto difficili in Russia poiché vedono il susseguirsi dei cambiamenti sociali e politici che furono radicali: dalla Rivoluzione bolscevica alla dittatura di Stalin. Negli stessi anni vi fu un proliferarsi di attività d’avanguardia che diedero vita a movimenti come il Futurismo, il Suprematismo, il Costruttivismo, il Raggismo che coinvolsero più le arti rispetto al teatro. Per comprendere però le dinamiche delle avanguardie russe è necessario tener conto di altri fenomeni come: la presenza di una regia innovativa, la presenza di fenomeni come l’agit-prop (agitazione e propaganda) o l’eccentrismo, che si integrano in una nuova idea di teatro; ed infine alcune figure isolate, fra tutte quella di Eivrenov. Il fenomeno con i più tipici tratti del movimento d’avanguardia è il Futurismo. Alcuni poeti nel 1912 (fra cui Vladimir Majakovskij), scrivono un proclama dal titolo molto marinettiano, “Schiaffo al gusto corrente”, in cui propongono di gettar via dal “Vapore Modernità” i grandi autori della tradizione russa. Il Futurismo Russo però non ammise mai l’affiliazione di quello italiano anche se alcuni suoi elementi hanno un peso rilevante nel definirne l’estetica. Uno dei tratti distintivi del gruppo era un gusto estremo per la spettacolarità. Il primo evento teatrale del Cubofuturismo si ebbe nel 1913 a Pietroburgo dove nei primi giorni di dicembre andarono in scena “La vittoria sul sole” di Kucenych e Vladimir Majakovskij di Majakovskij. Quest’ultimo è la figura che meglio incarna l’anima dell’avanguardia russa. Poeta, il suo contributo al teatro è fondamentale: protagonista del suo testo è l’autore stesso, circondato da una sorta di figure irreali. E’ una sorta di “monodramma” in cui tutto è estensione del protagonista (azioni, personaggi) ed in cui la dimensione narrativa è molto labile: l’azione è praticamente assente, il dialogo ridotto alla sovrapposizione delle battute dei personaggi e uno spazio rilevante lo hanno i monologhi: questa disarticolazione conduce ad un grado zero del racconto ed è portatrice di emozioni. Lo scoppio della rivoluzione del 1917 travolse letteralmente Majakovskij, il quale vi aderì con tutto sé stesso dando alla luce “Mistero Buffo”, testo più pragmatico della prima stagione rivoluzionaria. Rispetto al Majakovskij prerivoluzionario vi sono evidenti trasformazioni: il grado zero diviene un allegorismo di facile comprensione; il pessimismo che si esprimeva in una città plumbea si trasformò nella luminosità di una città ideale, moderna perché rivoluzionaria. E’ evidente però come lo stesso autore vuole piegare il linguaggio all’immediatezza della comunicazione. Lo spettacolo andrà in scena nel 1918 con la regia di Mejerchol’d e le scene di Malevic. Col l’avvento al potere di Stalin la situazione cominciò drasticamente a peggiorare per le forme d’arte innovative, tanto da indurre il teatro di Majakosvkij a trasformare il suo slancio positivo e rivoluzionario in sarcasmo critico. Il teatro dei pittori 2. Kandinskij e il teatro del Bauhaus In Germania l’avanguardia teatrale presenta due interessanti e differenti forme del teatro dei pittori. La prima, riguardante uno dei maestri dell’arte contemporanea, Kandinskij; la seconda la più importante scuola di architettura e arti applicate, il Bauhaus. Il progetto kandiskijano chiarisce bene il concetto di teatro dei pittori: le sue “composizioni sceniche” sono delle vere e proprie partiture in cui dialogano la e scena e sulla possibilità stessa del teatro come rappresentazione. Altri due testi, che potrebbero costituire assieme a “Sei personaggi” una trilogia sull’argomento sono “Ciascuno a suo modo” (1923) e “Questa sera si recita a soggetto” (1929). Pirandello scrive “Questa sera” in Germania dove è andato dopo la delusione del Teatro d’Arte, che è un momento fondamentale della sua esperienza teatrale. (mentre “Sei personaggi” viene riscritto nel 1925 con una più dettagliata integrazione della scena nel progetto drammaturgico). Scritto in uno dei paesi in cui la regia è più presente, il testo si presta ad essere letto come una presa di posizione problematica verso la regia stessa: senza di essa non v’è teatro ma alla stessa maniera essa non può pretendere di essere autoriale in proprio. Il discorso sul teatro torna in più testo dell’ultima produzione pirandelliana (”Enrico IV” e “Giganti della montagna”, rimasto incompiuto per la sua morte). Nel suo testamento teatrale Pirandello riprende il suo argomento iniziale, l’impossibilità del teatro come contraddizione insanabile: il teatro dovrebbe esistere come pura manifestazione della vita immaginaria dei personaggi, ma non può, così come non può contaminarsi con il linguaggio materiale della scena e col materiale atteggiamento del pubblico. L’intuizione pirandelliana è di aver fatto della crisi del modello drammatico una scrittura forte sia sul piano drammaturgico che della riflessione sullo statuto del teatro. Un modello antagonista: il teatro epico di Bertolt BrechtàNella Germania del primo dopoguerra muove i primi passi Bertolt Brecht, una delle figure chiave del teatro della prima metà del ‘900. Scrittore di drammi, la sua visione del teatro ha un respiro più ampio che mette in gioco tutti gli aspetti dell’opera d’arte teatrale. Assieme a quella di Pirandello, quella di Brecht è la riformulazione più compiuta della nozione di drammaturgia nel primo ‘900. Nella prima fase della sua produzione c’è la ricerca di un proprio approccio alla scrittura che, pur risentendo del contesto (la sua figura è infatti associata in parte all’Espressionismo), ha tratti personali. Il motivo aggregante è lo smarrimento dell’individuo nei confronti del mondo circostante e di sé stesso. In alcuni dei suoi titoli come “Tamburi nella notte” (1919), “Nella giungla delle città” (1921-24) e “Un uomo è un uomo”; i protagonisti sono il disorientamento del soggetto e lo spirito di sopravvivenza; ancora una volta la struttura narrativa tende a deformarsi scorporandosi in quadri separati. La svolta avviene nel 1928, con la stesura dell’ “Opera da tre soldi”, facendo riferimento all’ “Opera del mendicante” di John Gay (‘800). E’ il suo primo grande successo ma soprattutto il momento in cui mette a punto la sua grammatica drammaturgica: L’empatia emozionale dei primi testi si razionalizza, la compartimentazione dell’azione è rimarcata; il racconto ha l’andamento di un apologo e nel testo sono introdotti momenti di commento sull’azione. La novità maggiore dell’ opera, oltre al ritrovato scenario sociale che esprime il disagio dell’epoca, consiste nella struttura compositiva: ogni scena è introdotta da cartelli illustrativi così come le canzoni su musica di Kurt Weill. Durante le canzoni, inoltre, devono esserci le luci a vista a separare quel momento dagli altri e gli attori devono “uscire” dal personaggio. Si tratta di soluzioni sceniche che rappresentano le fondamenta della scrittura brechtiana in quanto servono a evitare il coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Nello stesso lasso di tempo in cui scrive l’ ”Opera da tre soldi”, Brecht si avvicina al marxismo ma non farà del suo teatro un veicolo di messaggi politici (per quello ci sarà una fase di scrittura di drammi cosiddetti didattici). Opponendosi alla nozione wagneriana di Opera d’arte totale, Brecht ipotizza una “radicale separazione degli elementi”, ognuno dei quali, è parte costitutiva dell’opera in una tensione dialettica così da evitare l’effetto di ipnosi introdotto dalla suggestione della sintesi. Si tratta di un impianto che riguarda la messa in scena oltre alla scrittura letteraria, in quanto il processo di straniamento coinvolge lo spettacolo oltre che il testo verbale e in primo luogo la recitazione. Gli anni dell’esilio, dal 1933 al 1947, quando lascia la Germania con l’avvento di Hitler, sono quelli delle opere più mature di Brecht: “Madre coraggio e i suoi figli”, “L’anima buona del Sezuan”, “Il cerchio di gesso del Caucaso”, “Vita di Galileo”. La grammatica del teatro epico è ormai pienamente padroneggiata diventando una lingua efficace sul piano della costruzione drammaturgica. Abbandonata definitivamente la composizione per atti, i testi sono strutturati per scene poste in una relazione non conseguenziale tra loro, così da istituire un dialogo tra momenti emblematici della vicenda. Non ci sono tesi preconfezionate ma problemi aperti alla cui soluzione si può giungere solo attraverso una presa di coscienza politica. Rientrato in Europa nel 1947, dopo aver peregrinato per l’Europa ed essersi rifugiato negli Stati Uniti, nel 1948 Brecht sistematizza un saggio dal titolo emblematico: “Il breviario di estetica teatrale”, il suo pensiero teatrale partendo da un concetto cruciale: il teatro nell’epoca scientifica. Non serve raccontare in un modo convenzionale, non serve il realismo ma una costruzione drammaturgica che modifiche l’atteggiamento dello spettatore. Lo straniamento, porre cioè cose note sotto una lente diversa, lo obbliga a prendere posizione, agisce sulla sua coscienza politica, non sulla sua emotività. Il teatro politico Quello di “teatro politico” è un concetto ricco di sfumature. Per Brecht il teatro doveva essere un mezzo per la diffusione di una coscienza politica non di un messaggio ideologico. Diversamente la pensava Piscator che del teatro politico aveva fatto una bandiera e credeva nell’importanza della propaganda. Nel ‘900 la questione è posta riguardando il rapporto del fatto teatrale con la realtà politica attiva attraverso una declinazione ideologica di matrice marxista che considera i processi di trasformazione sociale in una chiave rivoluzionaria. Alle spalle c’è il concetto di teatro popolare che si sviluppa in Francia a cavallo tra Otto e Novecento. Il teatro popolare era un luogo che serviva a rivitalizzare lo spirito sottomesso delle masse popolari, un atteggiamento in cui si leggevano le ascendenze umanitaristiche del socialismo non marxista. È con Piscator e Brecht che l’idea di teatro politico fa una svolta, analoga a quella che distingue il riformismo del primo socialismo dal marxismo. Il legame con i processi rivoluzionari diventa stretto: più organico quello di Piscator più problematico quello di Brecht. Ma il coinvolgimento politico lo abbiamo trovato già in Russia durante la stagione rivoluzionaria con Majakovskij, Mejerchol’d e il suo Ottobre teatrale. Il loro impegno politico fu la forza della loro proposta estetica ma anche la loro condanna. Altri casi nell’ambito delle avanguardie dimostrano l’importanza della dimensione politica: dall’Espressionismo di Toller, al Surrealismo di Breton, il quale appoggiò una rivoluzione di matrice comunista. Questa proposta creò una frattura all’interno del gruppo tanto che Artaud si allontanò dal movimento o fu espulso a seconda delle letture. L’ampiezza dei riferimenti dimostra il peso che la dimensiona politica ebbe nel teatro primonovecentesco. C’è però anche dell’altro: casi in cui il rapporto fra teatro e politica va considerato invertito, in quanto la dimensione estetica, passa in secondo piano. Luogo geminale di queste particolari forme di teatro è l’Unione Sovietica delle origini. Negli anni Venti, infatti, un movimento operaio, le “Bluse blu”, scelse il mezzo teatrale per diffondere il più possibile il messaggio rivoluzionario. Il loro era un teatro dichiaratamente di propaganda, fatto dagli operai per gli operai, basato sulla schematizzazione tra buoni, i rivoluzionari, e cattivi, i conservatori. Nella Germania della Repubblica di Weimar si assiste a un fenomeno analogo, conosciuto come agit-prop, teatro di agitazione e propaganda. Suo obiettivo è fare della propaganda non in termini di celebrazione ma di intervento attivo per politicizzare le masse proletarie. L’agit-prop cominciò a spegnersi all’inizio degli anni Trenta con la svolta restauratrice che avrebbe condotto Hitler al potere. Discorsi possibili della scrittura modernista per il teatro Strategie del realismoàNel primo trentennio del ‘900 c’è una presenza ricchissima di autori che operano una ridefinizione modernista del testo drammatico inteso come oggetto letterario. Proprio all’inizio del secolo il realismo, che aveva rappresentato uno degli elementi di forza del teatro ottocentesco, trova dei suoi singolari sviluppi in Georg Bernard Shaw e Maksim Gord’kij. Irlandese, Shaw si era formato sull’insegnamento di Ibsen e, come lui, il suo obiettivo era fotografare la società contemporanea con spietatezza guardandola, però, con un’ironia aspra, definendo esso stesso le sue “commedie sgradevoli”. Il testo che meglio rappresenta il suo atteggiamento è “La professione della signora Warren”, pubblicato nel 1898 ma messo in scena, a causa della censura, solo nel 1902. Di tutt’altra natura il realismo di Gor’kij, scrittore russo dalla forte matrice marxista. Il suo testo più rilevante è del periodo prerivoluzionario, “I bassifondi”, 1902. L’impostazione è cechoviana, uno spaccato sociale di persone paralizzate nella loro condizione, una drammaturgia di situazione in cui lo sviluppo narrativo è praticamente assente. A essere rivoluzionaria è l’ambientazione: Gor’kij non inserisce nessuno elemento melodrammatico né ideologico. Stanislavkij mise in scena “I bassifondi” facendone uno dei cavalli di battaglia della prima stagione del Teatro d’Arte di Mosca, e il testo ha avuto da allora una straordinaria fortuna scenica dovuta all’immediata crudezza della sua scrittura. Sempre legato al realismo ma in una maniera profondamente diversa è il teatro di Eugene O’Neill, l’autore con cui si fa iniziare la drammaturgia statunitense. Il suo interesse era rivolto soprattutto a uno scavo di natura psicanalitica all’interno dei personaggi, posti ad agire in un contesto reale ma in situazioni drammatiche particolari. Ciò che interessa O’Neill sono le motivazioni dei personaggi più che la vicenda: la tragedia è l’occasione dello scatenarsi delle pulsioni individuali. Finis AustriaeàUn ambiente particolare della produzione culturale e teatrale di inizio Novecento è quello di Vienna. E’ un momento storico cruciale che viene abitualmente definito Finis Austriae, caratterizzato dagli ultimi fuochi dell’Impero Asburgico prima della sua dissoluzione con la disfatta della Prima Guerra Mondiale. Il collasso storico è accompagnato da una intensa vita artistica che ha riflessi significativi nella produzione drammaturgica, grazie soprattutto a due figure: Arthur Schnitzler e Hugo von Hofmannsthal. Schnitzler rappresenta quasi una sintesi ideali dei temi che caratterizzano l’epoca: l’attenzione verso un contesto sociale vivace quanto inconsapevole della crisi. Il suo testo più emblematico è “Girotondo” dove vi rende, come riuscirà a fare altrove, l’immagine di un mondo chiuso in sé stesso, che gira a vuoto come una giostra tra rapporti personali che non riescono mai a superare la superficie. La dimensione della Finis Austriae è espressa in una maniera più chiara dalla parabola artistica di von Hofmannsthal, il quale si interessa a una più articolata dimensione drammaturgica, senza tradire la poesia e la tensione simbolica. Lo fa riattraversando testi e miti del teatro classico. Del 1903 è “Elettra” che rappresenta al meglio tale progettualità. Essa è l’occasione per l’incontro con Reinhardt, con cui darà vita al Festival di Salisburgo nel 1920, che si inaugura col suo “Ognuno” e che celebra il teatro come momento festivo, isola di poesia e spiritualità nei confronti della durezza del mondo. Nuovi modi della tragediaàIn un suo celebre libro Georg Steiner sostiene che, a partire da Ibsen, la tragedia sparisce dall’orizzonte teatrale come modello formale e filosofico. In realtà una dimensione riconducibile al tragico e alla tragedia è rintracciabile nel teatro novecentesco attraverso il teatro di poesia. Per William Buttler Yeats la forma poetica era un modo per inoltrarsi nel territorio di un immaginario mitico in grado di far rivive l’ethnos irlandese, proiettandolo in un mondo di suggestioni liriche e misteriche, Nel “ciclio di Cuchulain” questa intenzione si rivolge al massimo eroe della mitologia irlandese (scrive 5 tragedie tutte dedicate al personaggio fra il 1904 ed il 1938). Un dato di grande rilievo è che i personaggi indossano delle maschere o hanno i volti pesantemente truccati e che ci sono dei musicisti che suonano un tamburo, assumendo la funzione di cantori che commentano l’azione. Il risultato è una stilizzazione estrema che riguarda anche la vicenda, più suggerita che espressa. Il concetto di teatro di poesie assume, dunque, con Yeats un’accezione particolare che riguarda sì il verso ma anche le modalità compositive della scrittura scenica. Squisitamente letteraria è, invece, la concezione di teatro di poesia di Thomas Stearn Eliot. Teatro di poesia per Eliot è teatro in versi. In “Assassinio nella cattedrale” (1935) la versificazione si combina con la celebrazione rituale e la forma tragica. Il testo va considerato come un vero e proprio atto di letteratura poetica per il teatro. Nei testi successivi “La riunione di famiglia” (1939) o “Cocktail Party” (1950), Eliot tentò la scommessa di applicare la versificazione al dramma di conversazione ma la commedia borghese ebbe il sopravvento sulla forma poetica. Un terzo caso in cui si intrecciano poesia e dimensione del tragico è quello di Paul Claudel. Poetico è il taglio del linguaggio, il modo innaturale di comporre i dialoghi mentre il tragico si esprime attraverso il drammatico confronto che il personaggio ha con il festino. Simbolista di formazione, era un fervente ammiratore di Rimbaud, entrò in contatto con alcuni dei riformatori primonovecenteschi, come Copeau e Appia, da cui trasse il senso di stilizzazione e della rarefazione scenica. Nonostante tali rapporti la sua resta una drammaturgia sostanzialmente verbale, una complessa macchina di parole. I suoi testi più rappresentativi sono: “L’annuncio a Maria” (1912) e “La scarpina di seta”(1919-1925), testo lungo più di 500 pagine che voleva rappresentare una sfida estrema lanciata dalla parola alla scena, stessa sfida che tentò di fare Karl Kraus col suo “Gli ultimi giorni dell’umanità”, lungo più di 700 pagine. Un ulteriore aspetto del tragico si trova nella produzione di Gabriele d’Annunzio, il cui rapporto con il teatro data alla fine dell’ ‘800 ed è legato alla figura di Eleonora Duse. Con accurato lavoro di preparazione. Date queste premesse, inizia il lavoro sul personaggio. Stanislavskij distingue tre tipi d’attore: quello di mestiere che fa uso dei clichè ed è del tutto estraneo alla dimensione artistica; l’attore “rappresentativo” che approfondisce il personaggio durante le prove ma poi in scena si limita a riprodurre il lavoro fatto; infine, l’attore che “agisce come se per lui tutto ciò che accade sulla scena stesse capitando per la prima volta”, che rivive in scena ciò che ha vissuto durante le prove. E’ questo l’attore di cui Stanislavskij è in cerca e per trovarlo costruisce un sistema di lavoro. Con gli anni però il regista si accorso che il suo metodo, che aveva notevole efficacia da punto di vista pedagogico e psicologico sugli attori, richiedeva tempi lunghissimi. Provò allora ad invertire il procedimento ma il risultato doveva essere analogo: l’immedesimazione come creazione di un’autenticità che risulti credibile. Trasformazioni del sistemaàil Sistema non è qualcosa di statico. Abbiamo già visto le trasformazioni a cui lo sottopone Stanislavskij dimostrando così la sua vitalità e la capacità di permeare la cultura teatrale novecentesca. Cechov, per esempio, sente limitante il rapporto tra personaggio e vissuto dell’attore. L’autenticità emotiva, che resta il suo obiettivo, gli sembra più efficacemente raggiungibile se si parte da un lavoro di più libera immaginazione da parte dell’attore, che è chiamato a stimolare il proprio organo emotivo con suggestioni che non provengono immediatamente della sua esperienza personale. Fondamentale fu la scoperta dell’euritmia di Steiner che univa gestualità e manifestazione di uno stato d’animo spirituale. Cechov, unendo la sua visione personale del Sistema con l’insegnamento di Steiner, costituì un proprio metodo: il lavoro dell’attore consiste nell’individuare quello che Cechov chiamava il “gesto psicologico”, il gesto, cioè, in grado di risvegliare la vita interiore dell’attore. Oltre che per la trasformazione interna operata nel Sistema, l’esperienza di Cechov è importante perché è uno dei tramiti con cui esso arrivò negli Stati Uniti, dove però, essendo già presente il metodo Stanislavskij, subì ulteriori trasformazioni metodologiche. L’esito, a partire dal secondo dopoguerra, fu l’apertura dell’Actor’s Studio, destinato a diventare uno dei più importanti centri di formazione e specializzazione della recitazione. Lo straniamento ovvero Bertolt Brecht La seconda strada maestra della recitazione primonovecentesca è rappresentata dallo straniamento di Bertolt Brecht. Brecht specifica: “Chiamo così la raffigurazione che lascia bensì riconoscere l’oggetto, ma al tempo stesso lo fa apparire estraneo”. Ha la funzione di “dare ai rapporti umani l’impronta di cose sorprendenti”, dove la sorpresa scaturisce dalla messa in luce delle dinamiche sociali e di classe nascoste dietro lo schermo della psicologia individuale dei personaggi. Brecht definisce questa dimensione della recitazione anche storicizzazione, facendo riferimento al fatto che l’attore deve trattare il personaggio anzitutto come un soggetto storico. Nel 1940 Brecht affida le sue riflessioni sull’attore a due scritti: “La scena di strada” e “Nuova tecnica dell’arte drammatica”. Nella “Scena di strada” la recitazione è affrontata in quello che è definito un teatro epico naturale. Brecht ipotizza che un testimone sia chiamato a raccontare l’investimento di un pedone da parte di un’automobile. La sua funzione sarà quella di ricostruire dall’esterno la vicenda, dando spazio qui e lì a momenti in cui incarna le persone coinvolte mimandone i comportamenti. In “Nuova tecnica dell’arte drammatica” ha uno sviluppo di natura più tecnica: eliminare atteggiamenti empatici; rivolgersi allo spettatore in maniera diretta e , soprattutto, elaborare un tipo di gesti particolare, che chiama Gestus, definito come gesto sociale. Un gesto, cioè, attraverso cui l’attore mostra al pubblico il tratto distintivo del personaggio. Brecht, dunque, sposta il peso della recitazione dalle motivazioni interiori a una costruzione formale che non deve cedere alla stilizzazione né essere fredda ma “possedere la piena corposità di un gesto umano”. Per liberarsi dalla tentazione dell’immedesimazione egli individua tre accorgimenti a cui se ne aggiungerà poi un quarto: trasposizione del testo in terza persona, spostamento nel tempo passato, pronunciare ad altra voce didascalie e introdurre commenti all’azione. Infine, l’attore deve allungare il più possibile i tempi di lettura del testo, non deve precipitarsi a trovare la chiave del personaggio, non deve farsi adescare da lui. L’attore come corpo di scena La terza via della recitazione primonovecentesca è meno definita delle altre due e, più che un metodo definisce una categoria: la presenza scenica, il corpo come mezzo d’espressione, la dimensione visiva. Ubermarionette: l’attore secondo Gordon CreigàIl modello di intendere tale tipo di recitazione è l’Ubermarionetta teorizzata nel 1908 da Creig. Egli rimette in gioco il concetto stesso di recitazione in riferimento agli attori: “Oggi essi impersonano e interpretano; domani dovranno rappresentare e interpretare; e dopodomani dovranno creare”. Poi sostiene che l’uomo è di per sé inutilizzabile come materiale artistico in quanto “le azione fisiche dell’attore sono in balia delle emozioni”. Di qui l’idea rivoluzionaria di eliminare l’attore dalla scena per lasciar posto a una figura inanimata, definita Supermarionetta (che rimanda a Nietzsche), che non lascia trasparire la dimensione dell’oltre. Appare come una strategia teorica per ripensare il corpo in scena e l’idea stessa di corpo: in sospensione tra la vita e la morte, un corpo idealizzato che rimanda alla tradizione mistica. Negando il suo ruolo, Craig crea le premesse per una riflessione sull’attore e, ancor prima, sul corpo come veicoli di conoscenza. La BiomeccanicaàL’idea più articolata dell’attore come corpo di scena si ha con la Biomeccanica di Mejerchol’d, presentata come processo di costruzione: all’attore occorre prima di tutto “la capacità di analizzare ogni momento con i propri movimenti”, la recitazione è frutto di uno studio e deve essere sottoposta a un contino controllo da parte dell’attore (atteggiamento che potrebbe rispondere alla “Supermarionetta” di Craig). Il primo principio della Biomeccanica è che “il corpo è la macchina, l’attore è il meccanico” ed esprime l’idea che il corpo è un mezzo d’espressione che l’attore deve gestire in maniera consapevole. La grammatica della macchina dell’attore è il movimento. Il movimento della Biomeccanica si basa su due principi: la scomposizione e ricomposizione e il rapporto con lo spazio. Ci sono altri due elementi poi, che per Mejerchol’d sono fondamentali. Il primo è la reattività, la capacità di ridurre al minimo l’intervallo tra intenzione ed esecuzione; il secondo è la musicalità, il movimento va strutturato come ritmo; infine l’acrobatica, intesa come sapienza nella gestione del corpo. L’insieme di tutti questi elementi conduce a una costruzione del personaggio dall’esterno che ne esalta l’artificialità. Lungo la direttrice aperta da Mejerchol’d si muove Sergej Ejzenstein, che era stato allievo dei suoi corsi di Biomeccanica. La sua teoria del “movimento espressivo” parte dal presupposto che il materiale linguistico di base dell’attore sia il movimento, solo che questo, per essere in grado di esercitare un’azione emotivamente efficace deve eliminare ogni possibile retaggio della quotidianità, recuperando l’organicità originaria. L’esigenza di rivivere le emozioni del personaggio viene meno perché il movimento espressivo è comunicativo di per sé. Forme del movimentoà”L’Arte del Teatro” è nata dall’azione, dal movimento, dalla danza”, Craig - 1905. Teatro e danza, fino a quel momento soggetti spettacolari diversi, trovano un punto d’incontro ed è perché la danza subisce un processo di rifondazione attraverso lo sviluppo della danza moderna, che rifiuta i virtuosismi del balletto e torna al corpo in quanto tale, al movimento non al passo codificato. Isadora Duncan e Magdeleine G. sono due ballerine legate a Craig e Fuchs date le loro esperienze. Mente la prima, fondatrice della danza moderna, aiutò Craig a sviluppare la sua idea di movimento come elemento centrale di una definizione di linguaggio teatrale (attraverso i suoi movimenti ed il suo danzare scalza); la seconda fu decisiva per Fuchs per rappresentare il suo modello ideale d’espressione libera e non condizionata. Gli intrecci linguistici tra danza e teatro assumono, nel primo ‘900, anche delle configurazioni operative: è il caso dei Balletti Russi, cui massimo esponente è sicuramente Sergej Djagilev. I suoi erano spettacoli di grande virtuosismo coreografico del taglio modernista, con un vivacissimo impianto visivo. Quando Djiagilev viene a contatto con il mondo delle avanguardie ed è nel 1917, col suo “Parade” che riesce a sintetizzare uomo e spazio, attraverso una serie di numeri semplici, in cui la danza interagiva con altri elementi scenici senza la consueta primazia. C’è un altro aspetto del corpo come linguaggio che ha un grande rilievo agli inizi del secolo: la nascita del mimo corporeo. Con esso indichiamo una linea di cesura con l’aspetto della pratica teatrale analizzata sino ad ora, intendendo una concezione e un uso del corpo come mezzo d’espressione indipendente dalla dimensione rappresentativa della pantomima. Promotore di questa nuova concezione è Etienne Decroux, che si era formato nella scuola di Copeau al Vieux Colombier dove all’espressività del corpo era affidato uno spazio rilevante. L’uso della maschera neutra imponeva all’attore di esprimersi attraverso il solo corpo. Decroux pensava ad azioni astratte e al corpo come una statua in movimento. Egli mise a punto una tecnica che poi tradusse in una pedagogia che è alla base degli sviluppi più recenti del mimo. Riteneva che il corpo per essere espressivo dovesse essere perfettamente disciplinato e dovesse giocare su di un equilibrio messo continuamente in discussione. L’attenzione verso il movimento determina anche dei fenomeni che intercettano il teatro ma non nascono con intenzionalità specificatamente artistiche. E’ il caso di Emile Dalcroze, che abbiamo già incontrato parlando di Appia. Il suo interesse era per una “ginnastica ritmica” intesa come strumento di investigazione delle potenzialità espressive del corpo attraverso musica e movimento. Lungo la stessa linea si muove Steiner, teorizzatore dell’euritmia del corpo: attraverso la liberazione di comportamenti derivati dal quotidiano, bisognava raggiungere un’armonia che comprendesse gesto e movimento. Quello di Steiner e Dalcroze sono atteggiamenti che non riguardano direttamente il teatro, ma una cultura del corpo in modo più ampio. Il corpo trasfiguratoàQuando, nel 1924, Felix Emmel pubblica “Il teatro dell’estasi” (frontiera estrema dell’espressionismo tedesco), una parte rilevante del suo ragionamento è dedicata all’attore. Obiettivo polemico è l’attore realistico con le sue pretese di imitazione letterale della realtà (attore di nervi) a cui viene contrapposto un “attore del sangue” che fa maturare la sua immagine attingendola ad una radice spirituale. Il corpo dell’attore deve diventare un corpo che rinasce, condizione raggiungibile ribaltando le abitudini: parlare con il corpo, muoversi con la parola. Intimamente connesso a quanto tipo di tematiche è il discorso sull’attore di Artaud. Fin dal suo saggio sul teatro balinese la sua attenzione è orientata verso un teatro in cui il corpo ribalti il primato occidentale della parola. Non il corpo di tutti i giorni ma un corpo trasfigurato, un geroglifico, associato alla dimensione della trance in cui si superano i limiti organici e si entra in contatto diretto con una dimensione spiritual, saltando ogni passaggio di rielaborazione logica e razionale. Un altro aspetto che interessa Artaud è la parola, veicolo inadatto ad esprimere completamente il senso rispetto all’intonazione, quando diventa corpo attraverso la voce. Negli ultimi anni della sua tormentata esistenza Artaud estremizzò il suo pensiero. L’organicità gli sembrò un limite e nel secondo “teatro della crudeltà” formulò l’idea di un “corpo senz’organi”. Il corpo senz’organi di Artaud rimanda per certi versi alla Ubermarionette, istituendo le polarità cronologicamente estreme di un modo di ripensare il corpo per ciò che è e non per ciò che rappresenta. Il recupero della Commedia dell’ArteàNel quadro generale del ripensamento dell’attore, Maurice Sand nel 1860 provò ad espletare nel libro “Maschere e buffoni” il significato di Commedia dell’Arte, non riscontrando però il giusto interesse. All’inizio del ‘900, una serie di artisti si interessò invece alla vicenda, tanto che via via si determinò in Russia un notevole interesse per le maschere a partire dal 1914. Un caso particolare è quello di Jacques Copeau. Ciò che più gli interessava del lavoro sull’attore erano le inedite potenzialità offerte dall’improvvisazione. Quando si trasferì in Bretagna sperimentò un teatro che avesse lo stesso tasso di improvvisazione, spontaneità, vivacità e popolarità della Commedia dell’Arte. Nel corso del ‘900 tale interesse si è andato sviluppando anche in artisti come Dario Fo, riproponendo la Commedia dell’Arte come modello antico di un moderno modo di concepire il teatro. Le pratiche basseàCon il termine “pratiche basse” si intendono quelle forme teatrali legate alla dimensione popolare e allo spettacolo come intrattenimento. Il ‘900 è pieno di pratiche basse che hanno interessanti elementi di interrelazione con quelle considerate “alte”: si pensi, ad esempio, al rapporto fra Avanguardie storiche e teatro di varietà. Nella Germania di inizio secolo ci fu una vera e propria esplosione di teatri di cabaret tra cui spicca l’esperienza di Karl Valentin, il quale aveva costruito una vera e propria maschera, paragonabile allo Charlot di Chaplin. Gli spettacoli di Valentin, tra gli anni 10 e gli anni 20, erano skecht, a volte rielaborati in forma di brevi commedie mirando all’inverosimile comico e non alla negazione dell’arte. Se quella di Valentin è, pur con tutte le sue varianti, una maschera, Ettore Petrolini, invece, di dell’Assurdo in Ionesco rimbalza dentro il linguaggio, qui tende a tematizzarsi in lunghe conversazioni. L’assurdo si risolve non tanto in quello che i personaggi dicono e fanno ma nel contesto narrativo in cui lo fanno. Diverso l’ambito culturale in cui si muove lo svizzero di lingua tedesca Friedrich Durrenmatt. La Svizzera aveva preservato la sua neutralità durante la guerra, Durenmatt, però, non si sente estraneo al disagio che pervade il mondo postbellico. Paradossale nella veste scenica, il suo è n modo alla rovescia, in cui l’Assurdo è la veste moderna del tragico. Jean GenetàSe Ionesco rimette in gioco la questione del teatro agendo sulla destrutturazione del dialogo e delle situazioni drammatiche, più radicale è la posizione di Jean Genet. La sua drammaturgia si presenta come “teatro sul teatro” nel senso che la tematica più intrinseca della sua scrittura ha il teatro, nella sua complessa natura di doppio, come oggetto privilegiato. La prima produzione genetiana consiste in romanzi in cui la memoria della vita vissuta sul lato sbagliato della strada si traduce in oggetto poetico. I suoi testi sono cerimonie in cui una situazione drammatica si manifesta in un atto esplicitamente rappresentativo, denunciandosi come artificiale. In “Le serve”, 1947, l’Immagine e il Riflesso, che prendono il posto della realtà, indicano il nostro lato d’ombra che conosciamo benissimo senza osare ammetterlo. E’ un atteggiamento molto artaudiano e in effetti i testi di Genet sono tra i pochi a cui si possa adattare la definizione di “teatro della crudeltà”. In Genet, il rifiuto del realismo crea situazioni che appaiono assurde ma sono tragiche. Un secondo tema genetiano è la dimensione claustrofobica. Un terzo è l’uso del linguaggio. Rispetto al processo di asciugamento della lingua che caratterizza una parte consistente della drammaturgia contemporanea, Genet usa lunghi periodi, metafore, toni barocchi, una costruzione ellittica e a volte involuta della frase. Non per un gusto estetico né per rendere complicata la comprensione, ma per spostare la parola dal piano di realtà e condurla in una zona poetica dove anch’essa si gioca come Immagine e Riflesso, decostruendo, ma senza negarla fino in fondo, la sua funzione comunicativa. Samuel Beckett: un punto di svoltaàIl 5 gennaio 1953 è una delle date chiave del ‘900. Al Theatre de Babylone di Parigi, il regista Roger Blin mette in scena “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Beckett lo aveva scritto in francese perché l’inglese era troppo facile ed il francese lo obbligava ad un atteggiamento analitico e freddo nei confronti del linguaggio che la lingua nativa non gli richiedeva. “Aspettando Godot” è il luogo in cui le dinamiche della sua drammaturgia si esprimono in piena evidenza. Il tema dominante è l’attesa: essa rappresenta nel primo Beckett la forma del tragico. La tragedia non è un evento straordinario, consiste, invece, nella riduzione dell’individuo umano all’inerzia, alla replica, a una solitudine disperata. Ma il tragico, pur nell’innegabile clima di disperazione, non assume mai una tonalità seriosa, traducendosi viceversa nel grottesco attraverso la contaminazione con il comico. Lo spettatore viene posto da Beckett nella stessa posizione dei suoi personaggi: non sa perché sia lì ma non può non starci. E’ questo che ha indotto Esslin a fare di Beckett uno dei protagonisti del Teatro dell’Assurdo. Beckett appare, però, come un fenomeno a parte: oltre a una visione del mondo che gioca sull’attesa come fine della speranza, è interessato a smontare la macchina drammaturgica. Nei testi successivi egli scarnifica ulteriormente la forma teatrale. Dal punto di vista tematico c’è un dato che emerge con sempre maggiore insistenza: i personaggi sono dei vecchi, ombre degli uomini o delle donne che sono stati o si sono illusi di essere stati. Dal punto di vista strutturale risaltano due elementi. Il primo (presente da sempre) è la dialettica serrata e inscindibile tra parola e azione scenica, il secondo è il passaggio dal testo come costruzione drammaturgica al testo come partitura, nel senso musicale di una tessitura di azioni, gesti e parole. Con gli anni la scrittura beckettiana tende a una progressiva riduzione, fino a sfiorare il “grado zero”. La tragedia assume negli ultimi drammi una notazione astratta che mette in discussione cosa debba essere inteso per drammaturgia. Questo ne fa uno spartiacque nel teatro del ‘900: c’è una scrittura drammatica prima e una dopo Beckett. Gli “arrabbiati” inglesi e due voci dall’AmericaàIn area anglofona la drammaturgia del dopoguerra assume i toni di diverse sfumature di realismo, che ricorrono, dal punto di vista formale, a soluzioni drammaturgiche di natura convenzionale. Il discorso è diverso tra Inghilterra e Stati Uniti ma c’è un tratto che distingue le drammaturgie di quei paesi e riguarda una scrittura teatrale che gioca sulla “tenuta drammatica” rispetto alla disarticolazione che abbiamo incontrato precedentemente. Il debutto nel 1956 di “Ricorda con rabbia” di John Osborne al Royal Court Theatre di Londra segna la data di inizio di un fenomeno che fu definito dei “giovani arrabbiati”, scrittori, cioè che esprimevano il disagio sociale di una nazione tra collasso dell’Impero coloniale e difficoltà dei ceti popolari. Quello degli “arrabbiati” non è un teatro politico: essi forniscono uno spaccato impietoso di frammenti di vita. La stagione degli arrabbiati durò poco. Agli inizi degli anni ’60 può dirsi conclusa. Osborne continuò a scrivere ma la sua importanza è limitata a quel suo primo testo, Wesker, altro autore interessato ad evidenziare il crollo dell’illusione del comunismo, si dedicò all’organizzazione culturale per diffondere arte e teatro presso le classi lavoratrici. Diverso il sentimento della realtà che viene dall’America. Il realismo americano è privo delle implicazioni sociali tipiche di quello inglese, E’ un realismo interiore, un racconto di anime e della loro sconfitta. Nel teatro di Tennessee Williams questo aspetto si colora di toni tragici, in cui il dettaglio degli ambienti fa da cornice a personaggi chiusi tragicamente nell’ossessione di chi, avendo perso la partita della vita, si rinserra in un mondo tutto suo destinato a esplodere quando la realtà, nella sua brutalità si affaccia alla porta. Non c’è spazio per i sogni. Ancora più cruda questa realtà in “Un tram che si chiama desiderio”, testo perfetto per la leva degli attori che si stavano formando in quegli anni e che portò al successo Marlon Brando. Quello di Tennessee è il ritratto di un’umanità che vive in un tempo tragicamente sospeso la cui frattura interna nasce da una sconfitta non sanata e non sanabile. Di natura diversa il rapporto con la realtà di Arthur Miller, che parte da un impianto di matrice ibseniana che non consiste, però, solo nella tematica ma nella gestione del tempo. La tragedia, quando il sipario si alza, si è già compiuta: il dramma è la catena di eventi inevitabili e irrimediabili che ne derivano, il passato governa il presente. La seconda vita di Brecht Finita la guerra per gli esuli tedeschi si pose un problema: restare o rientrare? Piscator e Brecht vivevano da anni negli Stati Uniti. Entrambi scelsero la via di casa: Piscator optò per la parte occidentale, Brecht per quella orientale. Brecht vedeva nella Germania comunista la possibilità di far germinare una società diversa, Piscator, viceversa, voleva continuare a giocare la sua partita nell’ambito delle democrazie occidentali. Quando tornò a Berlino Ovest, Piscator non era più il regista delle macchinerie sceniche degli anni Venti. Le sue regie sono adesso analisi puntuali dei testi, inserite all’interno di cornici sceniche sempre significative ma non dominanti con uno spazio particolare affidato alle luci (dedicandosi soprattutto alla promozione di drammaturgia documentaria). Diversa la vicenda di Brecht. La scelta dell’Est ebbe implicazioni sia politiche che teatrali. Sul primo livello mise a confronto le aspirazioni di Brecht con una censura particolarmente feroce. Sul piano teatrale, invece, ebbe per la prima volta la possibilità di avere un teatro dove sperimentare le sue idee: il Berliner Ensemble, destinato a diventare una delle grandi istituzioni europee, a tutt’oggi ancora pienamente attivo. Qui agì sia come regista in prima persona che seguendo da vicino il lavoro di altri registi, sostituendo di fatto questa attività a quella di scrittore. Ma il Berliner era anche altro: fondato nel 1949 con Helene Weigel, voleva essere un gruppo di lavoro in cui sviluppare la ricerca sulla mesa in scena. Questa seconda fase di Brecht appare come una vera seconda vita, breve ma intensa: la sostituzione della produzione drammaturgica con la produzione registica non testimonia l’esaurimento di una vena creativa ma l’uso di una diversa modalità di scrittura. Brecht, dunque, intendeva con le sue regie investigare, attraverso la cultura materiale della scena, la sua idea di teatro. Non gli interessava la “confezione” ma rimettere in moto la potenzialità espressiva del teatro inteso come arte dialettica. Fino ai primi anni ’50 Brecht non era ancora Brecht. Lo diventò negli anni ’50 grazie a una serie di passaggi culturali che lo elessero a punto di riferimento al punto che, a un certo punto, si parlò di “moda brechtiana” a indicarne la centralità. Il luogo in cui si manifestò con più clamore tale svolta fu la Francia, ma anche l’Italia non fu da meno anche se in prospettiva diversa. Brecht è letto come colui che rimette in gioco la categoria di teatro, bloccata da una falsa coscienza dentro uno statuto dato come eterno e oggettivo. Ma l’approdo del Berliner Ensemble, con “Madre coraggio”, a Parigi dette origine anche a un altro tipo di riflessioni. Roger Plancon coniò un termine per quella drammaturgia che avrebbe avuto un ruolo strategico nel ‘900: scrittura scenica. Gli elementi nella scena assolvono alla funzione di un’autonoma responsabilità espressiva. Il teatro come servizio pubblico Jean VilaràIl 1947 segna una data importante nel teatro del secondo dopoguerra. Jean Vilar inaugura il Festival d’Avignone, una delle più importanti istituzioni teatrali, e Giorgio Strehler e Paolo Grassi aprono a Milano il Piccolo Teatro, un’istituzione altrettanto importante. Sono due eventi apparentemente diversi che hanno un tratto unificante: l’idea che il teatro debba ripartire, dopo il disastro bellico, non come impresa commerciale ma come progetto di una nuova socialità, il teatro deve essere per tutti e soprattutto per chi non ha mai avuto modo di avvicinarvisi. Importanti ora due concetti cruciali: il teatro è un servizio non una merce; il teatro deve diventare parte del sistema pubblico, dell’organizzazione statale, condizione imprescindibile a che non scada in mercato. Allievo di Dullin, Jean Vilar comincia giovanissimo una carriera d’attore e regista che si rivela subito promettente. Luogo delle rappresentazioni, ad Avignone, era il cortile del Palazzo dei Papi, uno spazio non teatrale che venne lasciato nella sua architettura essenziale: è una scelta non solo estetica. Il teatro deve spogliarsi per mettere al centro la dialettica tra testo poetico, attore e spettatore. Il repertorio del festival è rappresentato sostanzialmente dai classici, Vilar non cerca la novità ma la possibilità di ricreare un rapporto nuovo e autentico tra dramma e spettatore. Giorgio StrehleràIl 4 maggio 1947, dopo una non facile fase di gestazione. Veniva inaugurato il Piccolo Teatro di Milano, nato all’insegna di un nuovo umanesimo sulle cui basi far ripartire la cultura e la società italiane dopo il fascismo. Nasceva, così, il primo teatro pubblico italiano che avrebbe dato vita al fenomeno dei Teatri Stabili che ha rappresentato una delle ossature portanti del sistema teatrale nazionale. Strehler fu l’anima creativa del Piccolo. Il teatro italiano ripartì proprio dalla regia e Strehler non fu il solo. Nel 1945 Luchino Visconti debutta alla regia teatrale. Fin dagli esordi Visconti dimostrò un’attenzione particolare alla ricostruzione quasi maniacale dei dettagli. E’ con lui che il regista assume una centralità autoriale. Nell’arco di un pugno di anni non solo l’Italia ebbe la sua regia ma un sistema teatrale basato su essa. Il Piccolo come teatro di un regista va pensato, allora, all’interno dello sforzo che sta facendo il teatro italiano per scrostarsi delle vecchie abitudini. Strehler è tra i primi a compierlo: nella sua attività è stato un regista particolarmente prolifico ed il repertorio toccato è vastissimo, ma ci sono dei filoni che rappresentano l’ossatura del suo progetto registico. Uno, ovviamente, è Brecht, un secondo è Goldoni. La modalità di lavoro che mette in gioco una riflessione articolata sull’autore e sull’opera, è stata definita da Claudio Meldolesi “regia critica”, in quanto “è al posizione intellettuale a costituire il centro” dell’operazione scenica. E’ una definizione che ha fatto scuola identificando un’intera generazione di registi che si è opposta allo spettacolo come confezione e al tempo stesso ha preso le distanze da pretese autoriali in proprio. Un attore di transizione Nel passaggio tra le due metà del secolo Jean-Louis Barrault ha un interessante ruolo di congiunzione. Nei primi anni Trenta entra nella scuola di Dullin e ne assorbe il magistero relativo alla formazione dell’attore. Ciò che colpisce maggiormente è il lavoro sul corpo come mezzo espressivo privilegiato, l’elaborazione creativa dell’improvvisazione. Barrault si collega a Copeau ma soprattutto a due figure che avranno, per lui un passo determinante: Decroux e Artaud. Egli ne assorbe l’insegnamento e lo pone alla base del suo teatro anche se non farà mai spettacoli di mimo puro, affidando, però, alla partitura gestuale un rilievo strategico. Lo scontrò con i tempi si manifestò in maniera clamorosa quando, durante il maggio 1968, il suo teatro, che è nel cuore del Quartiere latino, venne occupato dai rivoltosi e vi ebbe luogo una memorabile edizione di “Paradise Now” del Living Theatre, la formazione più radicale politicamente ed esteticamente del momento, in una sorta di ideale passaggio di consegne. Barrault si dimise, continuando altrove il suo personale teatro totale. per la resa del suo spettacolo: egli rimette in gioco il codice della rappresentazione in nome di un “teatro necessario”; in cui a contare è l’evento che si crea tra attore e spettatore. E’ questo un tratto distintivo forte che lega tra loro i primi tre fondatori del Nuovo Teatro e li rinvia, per strade diverse, ad Artaud. Nel 1962 nacque un teatro laboratorio con Charles Marowitz, il “Teatro della crudeltà”. Il laboratorio non avrebbe dovuto produrre spettacoli ma sperimentare le potenzialità espressive dell’attore al di là dei parametri convenzionali della parola e dell’interpretazione del personaggio. Gli esperimenti riguardavano soprattutto la comunicazione non verbale attraverso la messa in relazione dei corpi tra loro. La ricerca delle qualità primarie dell’espressività attorica non allontana però mai Brook dal rapporto con la drammaturgia e con Shakesperare in particolare: nel 1970 “Sogno di una notte di mezza estate” è un punto d’equilibrio tra costruzione scenica, autenticità della recitazione e lettura sottile del testo. Due anni prima, nel 1968 Brook scrive un saggio, “Lo spazio vuoto”, in cui riflette sullo stato del teatro, distinguendo tra un livello ripetitivo e meccanico (mortale); uno testo alla spiritualità più pura (sacro); uno ruvido, cioè capace di colpire lo spettatore in modo semplice e diretto; uno immediato (che è il suo) in cui l’aspirazione spirituale deve sapersi confrontare con la concretezza del mestiere. Brook ha raggiunto la maturità: è il momento di cominciare altrove e lui sceglie per un breve periodo l’Africa. Tornato in Europa Brook fonda il CIRT (Centro internazionale di ricerca teatrale), dove attori di diversa cultura si confrontano instaurando uno scambio di tecniche che Brook stesso chiama cultura dei legami. Per Brook il teatro è narrazione, comunicazione, scambio diretto tra esseri umani che scelgono di condividere lo stesso luogo per un momento importante del tempo della loro vita. L’Odin Teatret di Eugenio BarbaàEugenio Barba, italiano trapiantato in Norvegia prima e poi in Danimarca, è un regista di seconda generazione, perché la sua iniziazione al teatro avviene in Polonia, dove tra il 1962 e il 1963 sceglie di lavorare con Grotowski, ma l’impatto del suo teatro sulla scena internazionale lo lega ai fondatori del Nuovo Teatro. Barba riunisce un piccolo gruppo di attori, tutti scartati dall’accademia di recitazione, e fonda l’Odin Teatret, un teatro che si fa “da un’altra parte” rispetto alla convenzione, che lavora ai margini del sistema. Da Grotowski Barba ha ereditato il rigore, la ricerca sull’attore, l’investigazione sulla natura più intrinseca del teatro, una drammaturgia basata sulla scena. La grammatica espressiva dell’Odin riconosce: gli attori, sulla base degli stimoli di Barba, improvvisano da soli e poi coralmente partendo da proprie motivazioni interiori; Barba, a questo punto, intervien aggiustano, giungendo a un montaggio che rielabora i segni scenici prodotti dall’improvvisazione. L’impostazione di una scrittura basata sulla dialettica tra improvvisazione e composizione è alla base degli spettacoli dell’Odin. La produzione di questi non risolve l’attività di Barba: per lui il teatro è ricerca su piani diversi. A partire dagli anni Settanta sviluppa delle pratiche chiamate “baratto”: il gruppo entra in contatto con piccole comunità, presentando spettacoli con maschere, giochi con bandiere, musica; stimolando le comunità a barattare i loro saperi. Ancora più rilevante il lavoro sull’attore, alla ricerca di qualcosa che non solo vada oltre la dimensione interpretativa convenzionale ma cerchi una sorta di matrice archetipica della recitazione che taglia le culture. Nel 1980 Barba fonda l’ISTA (Scuola internazionale di antropologia teatrale) in cui si riuniscono attori di culture diverse e studiosi di teatro per analizzare la recitazione nei suoi fondamenti creativi, al di là delle forme e delle tecniche che sono intese non solo come strumenti. Carmelo Bene o della decostruzione del linguaggioàLa forzatura del codice teatrale avviene in Carmelo Bene secondo canali diversi ma non meno estremi, fissati sostanzialmente attorno a due concetti chiave: lo “squartamento del linguaggio” e la “disarticolazione del discorso”. E’ possibile distinguere l’attività di Bene in due gradi fasi: la prima, da lui stesso indicata come “scrittura scenica”, una seconda, a partire dai primi anni ’80 che lo accompagnerà fino alla morte precoce nel 202, che battezzerà come “macchina attoriale”. Negli anni ’60 Bene affronta il teatro con un atteggiamento radicalmente decostruttivo e provocatorio che lo ricollega alle Avanguardie storiche. Appellato come l’ “Artaud italiano”, nei suoi spettacoli dona una componente visiva caratterizzata da un trucco molto marcato e da costumi che sono spesso drappi di stoffa che gli attori indossano e si tolgono continuamente. Lo spettacolo più estremo in questa direzione è “Nostra signora dei Turchi”, 1966, tratto da un romanzo dello stesso Bene. La sua strategia linguistica consiste nel non creare mai una sovrapposizione di tipo rappresentativo tra ciò che accade nell’azione drammatica e quanto accade in quella scenica. Oltretutto l’azione drammatica viene sistematicamente decostruita, vengono, cioè, smontati i collanti che sostengono la coerenza narrativa, depotenziando il racconto fino a renderlo irriconoscibile. Un simile procedimento emerge con forza quando il testo drammatico è altrettanto forte. E’ il caso di Shakesperare che diventa l’autore di riferimento di Bene. Nel “Riccardo III”, 1977, a dominare è il gioco scenico: Bene/Riccardo III che compie piccoli gesti senza senso, inciampa negli oggetti, perde l’equilibrio, indossa e si toglie protesi che rimandano alla deformità fisica e morale del personaggio. Lo spettacolo più complesso, da questo punto di vista, è “Amleto” di cui Bene ha realizzato numerose edizioni, ognuna diversa dalle altre. A partire dagli anni ’80 all’idea che la scena si a una scrittura interale, originale e autonoma Bene sostituisce in concetto di “macchina attoriale”: l’attore non è più inteso come parte di un tutto ma è il tutto della scena che deve sostenere l’attore. E’ un attitudine che ha fatto parlare del recupero del “Grande Attore” solista dell’800, in cui, però, la dimensione interpretativa è contraddetto dal lavoro di decostruzione. Come attore Bene lavora sulla sonorità musicale della parola, su di un ritmo che non asseconda il senso logico della frase, sull’alternanza tra momenti urlati e altri in cui viceversa bisbiglia fin quasi a rendere inudibile. La parola, che ha nel teatro di Bene un valore importantissimo, è tradotta così da un lato in un dato musicale dall’altro in corpo. Bene costruisce un modello che non è sistema, come può essere quello di Grotowski, quanto uno stile personale. La sua è una posizione quai sprezzante di grande isolato che ne ha fatto un’icona del tutto particolare del Nuovo Teatro. Il teatro dei pittori 3. Happening e Performance Art Negli anni in cui la rivoluzione dei linguaggi mette a soqquadro lo statuto estetico delle arti si afferma il superamento dell’opera in nome dell’evento, in quella che potremmo definire una “teatralizzazione dell’arte”. L’atto inaugurale è l’happening, che nasce a New York nel 1959, grazie a una “non mostra” di Allan Kaprow intitolata “18 Happenings in Six Parts”, in cui i visitatori erano trasformati in spettatori. Nel giro di pochi anni altri pittori produssero a loro volta degli happening e quello che era nato come un circoscritto fenomeno newyorkese si estese a macchia d’olio. L’happening, dunque, rientra a pieno titolo nella definizione di teatro dei pittori che abbiamo utilizzato precedentemente. Ha, però, una peculiarità: più che a un’attività va a collocarsi all’interno di una produzione pittorica “spettacolare”, un territorio ibrido che riguarda il teatro nella misura in cui esso sta ridisegnando i suoi statuti. L’happening è una forma di teatro in cui diversi elementi alogici, compresa l’azione scenica priva di matrice, sono montati insieme e organizzati in una struttura a compartimenti. Un genere spettacolare nuovo che non discende da una precisa teorizzazione intellettuale sul teatro. Gli happening erano azioni prive di un significato decodificabile, non riconducibili a una qualche forma di abilità artistica e apparentemente casuali. Negli stessi anni altri artisti si muovono nella stessa direzione. Nel 1954 in Giappone viene fondato Gutai, un gruppo di pittori che infrangono la cornice convenzionale del quadro affidando la propria operatività a interventi in cui è il corpo in azione a dipingere. Negli Stati Uniti Jackson Pollock stava sperimentando l’action painting in cui il quadro derivava dal gesto del pittore, una sorta di danza del pennello che attraverso il gocciolamento del colore componeva l’opera. Nel caso di Gutai questo procedimento è estremizzato: per esempio Shozo Shimamoto bombardava la tela con il lancio di bottiglie piene di colore che esplodevano al contatto con la superficie. Negli anni, ha reso più articolate e teatralizzate le sue azioni utilizzando oggetti di scena. L’idea che l’atto di dipingere possa teatralizzarsi è alla base anche di una stagione di lavoro di Yves Klein, artista francese famoso per i suoi monocromi blu. Dichiaratamente teatrale è la progettualità dell’austriaco Hermann Nitsch che intitola il suo lavoro “Teatro delle orge e dei misteri”. La dialettica tra pittura e teatro è nel suo caso più sofisticata e complessa. Non si tratta di una forma di spettacolarizzazione dell’atto pittorico, ma di una riflessione che riguarda specificamente il teatro. Egli è interessato a un’investigazione su meccanismi psicologici profondi della natura umana, investigazione che lo conduce nella direzione ancestrale del rito e del sacrificio animali. Negli anni ’70 c’è tutta una zona della produzione artistica che ha fatto della presenza in prima persona dell’artista e dell’evento la sua matrice linguistica, e la Performance Art, termine con cui si fa riferimento a esperienze anche molto diverse tra loro. La contaminazione tra arte e vita, che è uno degli elementi base del Nuovo Teatro, con la Performance Art si fa vero e proprio sistema linguistico: l’artista è soggetto e oggetto della sua operatività artistica. Un caso particolarmente esemplificativo è quello di Joseph Beuys che crea una sovrapposizione totale tra sé come persona, sé come artista e sé come opera, icona in termini teatrali di “maschera” di sé. Il fenomeno della Performance Art che presenta più eclatanti elementi di spettacolarizzazione è la Body Art. L’artista utilizza il suo corpo come mezzo di espressione forzandone i limiti, aggredendolo realmente: il sangue è sangue e il dolore è dolore. Il caso più paradigmatico è quello di Marina Abramovic, che si sottopone a prove estreme come in “Thomas Lips” (1975). Il contrasto tra sanguinamento e congelamento mette a rischio la vita dell’artista, che si salva solo grazie all’intervento degli spettatori che “tradiscono” il loro ruolo per agire sul piano di realtà. Negli ultimi anni la Abramovic ha riproposto alcune sue performance tradendone l’irripetibilità: tale scelta oltre ad indicare uno sviluppo nella sua poetica ne evidenzia una prossimità con il fatto teatrale di considerare il ripensamento radicale della sua nozione in quanto arte. Forme e modalità della scrittura scenica A partire dagli anni ’60 crescono in maniera esponenziale forme artistiche riconducibili alla scrittura scenica, facendo sì che il Nuovo Teatro appaia come il fenomeno meglio caratterizzante la seconda metà del secolo. Le modalità di applicazione della scrittura scenica quale sistema che si basa sulla primarietà, l’autonomia e l’indipendenza del linguaggio teatrale sono diverse, a testimoniare che si tratta di una trasformazione concettuale complessiva della nozione di teatro e non di un’applicazione di natura stilistica, formale o solo tecnica. America, terra di fermentiàGli Stati Uniti tra gli anni ’60-’70 sono una fucina artistica, politica e sociale. All’origine c’è il Living Theatre, ma più in generale bisogna tener conto di un fervore diffuso che va dalla Factory di Andy Warhol, luogo di contaminazione di forme espressive diverse, alla nascita di spazi alternativi che diventano la casa delle più diverse forme di sperimentazione teatrale. In questo contesto si afferma una linea operativa che si riconosce in un “vocabolario artaudiano”, basato sulla negazione della rappresentazione e del testo letterario, sul corpo come veicolo privilegiato di espressione e sull’idea del teatro come forma per eccellenza della diversità sociale. Nel 1959 Joseph Chaikin entra come attore nel Living e fonda poi l’Open Theatre, che ebbe vita breve (1963-1973) ma rappresenta il primo tentativo americano di dare corpo ad una pedagogia alternativa dell’attore. L’Open Theatre attraverso le figurazioni fisiche cercava un contatto fisico con il pubblico cosicché gli spettatori non si sentissero cosa altra rispetto allo spettacolo. Il 1968 è l’anno di un altro spettacolo che segna in maniera fortissima questa impostazione della scrittura scenica: “Dionysus in 69” del Performance Group. Leader e fondatore del gruppo è Richard Schechner, teorico tra i più autorevoli del secondo ‘900. La sua idea è che il teatro sia un sistema di relazione tra individui che si trovano a condividere uno stesso spazio e uno stesso tempo senza distinzioni, se non tecniche di ruolo. Schechner formula una “teoria della performance”, in cui propone uno schema di riferimento che vede ai due estremi la forma tradizionale della rappresentazione e all’altro gli atti sociali, come le manifestazioni di piazza in cui si giocano ruoli e tipologie relazionali. Oltre a quella artaudiana c’è una linea diversa che caratterizza il Nuovo Teatro americano, orientata in una direzione formalista. E’ il caso del Bread and Puppet Theatre, fondato nel 1963 da Peter Schumann, giovane scultore tedesco che si trasferisce negli USA a seguito dell’incontro con Cage. Di lì parte un’attività di sperimentazione che introduce la dimensione visiva come elemento primario di scrittura: la visività si traduce nell’uso di maschere e burattini, spesso di enormi dimensioni, che prendono il posto degli attori. Le maschere del Bread and Puppet o sono straordinariamente stilizzate o assumono configurazioni grottesche (Uncle Fatso, pupazzo simbolo del capitalismo). Nella loro poetica ha un peso rilevante l’impegno politico. La strada diventa uno dei loro palcoscenici preferiti, perché mette in contatto il teatro con la gente. L’attività del Bread and Puppet non si limita, però, al teatro di strada, si svolge anche al chiuso, con spettacoli dotati di una drammaturgia, fondamentalmente visiva, in grado di evocare un clima emozionale e di porre questioni soprattutto a Giuseppe Bartolucci il quale, ha avuto il ruolo strategico di concorrere a formare l’identità poetica delle diverse fasi che si succedevano, declinandole in termini di tendenze che si aggregavano attorno a dei concetti guida. Le principali tendenze del Nuovo Teatro italiano hanno ruotato attorno alla dimensione visuale della scrittura scenica. A metà degli anni ’70 e fino alla metà degli anni ’80 questa linea della visività si affermerà con la Postavanguardia, in un primo momento attraverso un minimalismo di natura concettuale e poi attraverso la trasformazione di tale grammatica in una intensa spettacolarità. Da questa premessa parte Federico Tiezzi con il Carrozzone per proporre un teatro il cui obiettivo sia scomporre il linguaggio, in una maniera analitica: sperimentare le modalità di relazione fisica di un corpo all’interno di uno spazio. Tiezzi disarticola la struttura dello spettacolo in “studi per ambiente”, singole sezioni staccate e poi montate insieme in relazione allo spazio. Del teatro, inteso come azione di un corpo nello spazio, si investiga la dimensione fonematica, vale a dire quei segni minimali, pre-rappresentativi, di cui parla la linguistica, che costituiscono il fondamento del linguaggio. A questa fase fredda della Postavanguardia ne segue una più calda, nel senso che la grammatica astratta della fase analitica si carica di una valenza significativa che trae ispirazione dal confronto con la dimensione dei media e dell’iconografia metropolitana. Tre spettacoli ne rappresentano in modo più evidente le caratteristiche fondanti: “Crollo nervoso” (1980) dei Magazzini Criminali (ex Carrozzone); “Tango glaciale” (1982) di Falso Movimento per la regia di Mario Martone; “Cuori strappati” (1983) della Gaia Scienza. Questi furono identificati come il teatro postmoderno per eccellenza perché si prestò più attenzione alla spettacolarizzazione che alla costruzione analitica del linguaggio e al senso di alienazione che, a distanza di tempo, risulta oggi più facilmente percepibile. Al di là della dominante visiva ci sono, nel Nuovo Teatro italiano, anche realtà in cui la scrittura scenica viene declinata in una maniera diversa. E’ il caso di Leo de Berardinis. Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 il suo è un feroce processo di disgregazione della materia teatrale, operata in scena da lui e Perla Peragallo. Il suo “teatro dell’ignoranza” vuole sradicare il teatro, anche quello d’avanguardia, senza alcuna intenzione politica o pedagogica, da un contesto intellettuale. L’autorialità è sempre quella della scena, ma gli spettacoli nascono come montaggi di frammenti drammaturgici e poetici in cui si mescolano momenti di straordinaria intensità lirica e deviazioni verso la comicità con le luci a creare un tessuto di trame luminose. Un teatro “altro”àEugenio Barba introduceva in occasione del Festival teatrale di Belgrado (BITEF) del 1976, la riflessione su un universo teatrale tanto sommerso quanto diffuso: lo definiva Terzo teatro quel modo di vivere il teatro più come esperienza del vissuto che come pratica artistica. Si tratta di un fenomeno dai forti risvolti sociologici che rende palese quanto la pratica teatrale sia un termine di riferimento forte per una generazione che si presenta, negli anni ’70, antagonista e alternativa rispetto al modello borghese ma anche rispetto a quello politico della sinistra istituzionale. Non è un caso che il fenomeno abbia avuto la sua diffusione più ampia in Italia e in Sud America, contesti per ragioni diverse altamente politicizzati in quegli anni. Alla base c’è la cultura di gruppo, in cui si cerca di sviluppare un piano creativo grazie a un lavoro comune il meno possibile gerarchizzato nei ruoli. Le modalità espressive del Terzo teatro ripercorrono molto la fase del teatro di strada dell’Odin, nel recupero delle pratiche circensi, nell’azione diretta con le comunità a cui ci si rivolge, in un certo uso del corpo e nell’idea di allenamento dell’attore come elemento tecnico, ma anche di formazione personale. E’ un teatro che conta in primo luogo come esperienza, interna al gruppo e poi condivisa, e corrisponde, in questo, all’esigenza di rifondazione linguistica che abbiamo visto caratterizzare in maniera forte la fase storica che va dagli anni ’60 agli ’80. 9. L’ATTORE: DAL SAPER FARE AL SAPER ESSERE I discorsi sull’attoreàNella seconda metà del secolo affrontare la recitazione mette in gioco che cosa debba intendersi per attore, quale debba essere il suo sapere, la sua identità, la sua tecnica. La questione, dunque, si sposta in maniera decisa verso una dimensione identitaria: accanto al problema di che cosa l’attore debba saper fare si presenta quello di cosa debba essere. Già in precedenza c’erano stati segnali in questa direzione. E’ il caso di Artaud ma anche dello Stanislavskij sperimentare dei Teatri studio o del Craig della Supermarionetta. L’Actors Studio Nel 1947 Elia Kazan, Robert Lewis e Cheryl Crawford aprono a New York quello che è probabilmente il più noto centro di formazioni per attori: l’Actors Studio. Il suo principio base era che non si trattava di una scuola di teatro ma un centro di specializzazione di attori già avviati nella professione. Il termine metodologico di riferimento era lo Stanislavskij “americanizzato” ma, con la direzione di Strasberg, le procedure metodologiche si modificarono sensibilmente: il problema che si pose era partire da questi metodi per sviluppare altro: gli interessavano i problemi messi sul tappeto da Stanislavskij non le sue risposte. L’attore, afferma Strasberg, “deve affrontare le cose profonde e solide che sono all’interno di sé”. Il lavoro si sposta, dunque, decisamente verso l’interiorità tanto che Strasberg fu accusato di fare della psicoanalisi più che della recitazione. La motivazione di tale spostamento però è tecnica: solo così l’attore riesce a costruirsi un proprio archivio emotivo da utilizzare con personaggi diversi tra loro e da lui. Il lavoro sull’interiorità però da solo non basta: c’è anche il problema della creatività in pubblico risolto da Strasberg con un esercizio chiamato “momento privato” che consiste nel superare il blocco psicologico sciogliendo l’inibizione verso il pubblico; elemento che mette in gioco l’essere dell’attore prima ancora del fare. Per un attore “altro” Nel “Nuovo Testamento del teatro” Grotowski pone una distinzione radicale tra l’attore prostituta, che vende al pubblico la sua arte per denaro, e l’attore santo, che offre il suo corpo in sacrificio per condividerlo col pubblico. Totalità e santità, però, sono condizioni cui si accede attraverso un lavoro quotidiano che coinvolge in primo luogo il corpo pensato come uno strumento di conoscenza, il tramite che consente di superare le costrizioni a cui siamo sottoposti dai modelli comportamentali. Grotowski definisce questo procedimento “via negativa”: processo che passa attraverso una personalizzazione del corpo e quella che potremmo definire grammatica espressiva. Il concetto di “via negativa” come sblocco delle inibizioni espressive sembra ricordare quanto sosteneva Strasberg; ma ci sono due fondamentali differenze: l’introspezione riguarda, per Strasberg, il piano della psicologia individuale, per Grotowski un attraversamento del vissuto per raggiungere un territorio il cui piano emozionale è sì individuale ma riguarda anche l’essere umano in sé. Le modalità di manifestazione espressiva dello sblocco emotivo, poi, sono diametralmente opposte: per S. si muovono all’interno del codice della rappresentazione realistica del personaggio, per G. agiscono totalmente al di fuori del comportamento quotidiano. A questa concezione se ne affianca un’altra, integrandola, che è un altro paradigma importantissimo: il training. L’obiettivo è superare i blocchi espressivi attraverso l’allenamento fisico, lavorare sugli stimoli e sulla reattività e passare, progressivamente, da un modello generico a uno personalizzato: è l’attore che costruisce il proprio training, montando gli esercizi in una sequenza che corrisponde alle proprie motivazioni interiori. Nel secondo ‘900 si sviluppa, dunque, un lavoro sulle potenzialità espressive dell’attore che va ben oltre il suo rapporto con il personaggio. Luogo privilegiato di questo lavoro è il laboratorio dove ci forma e dove germina lo spettacolo. Un ulteriore elemento caratterizzante è il gruppo che diventa una forma di comunità creativa. La questione dell’essere rispetto al fare si presenta anche in una maniera diametralmente opposta: come dice Michael Kirby v’è un attore che deve “non recitare”: chi sta in scena deve essere quello che è. Questo livello di recitazione mette in gioco un elemento di fondamentale importanza: la presenza, il comunicare attraverso l’esserci (il caso di Marina Abramovic). C’è un terzo aspetto dell’attore novecentesco che Meldolesi definisce attore-artista. Il suo riferimento è, nel contesto italiano, a quella che definisce la “stranierità teatrale”, vale a dire l’estraneità” di un certo tipo di attore sia al sistema organizzato della regia che a quello dell’interpretazione drammaturgica: è il caso di Carmelo Bene. La sua è una “scrittura su” e una “scrittura a partire da”, nel senso che il suo intervento è destrutturante rispetto alla coerenza logica della narrazione drammatica e della psicologia del personaggio. Agente di tale processo è l’attore inteso come “macchina attoriale” che si esprime attraverso la disarticolazione del gesto e della mimica. E’ l’attore che crea e lo fa attraverso la sua presenza scenica. Stessa cosa vale per Carlo Cecchi, che recita “giocando la parte”. La seconda vita del mimo Nella seconda metà del ‘900 l’insegnamento di Decroux si traduce in un’ulteriore elaborazione attraverso due figure, Marcel Marceau e Jacques Lecoq, che ne rappresentano opposte modalità di applicazione. Il primo sviluppa un vero e proprio genere spettacolare. Il volto coperto di biacca e le mani diventano il principale veicolo d’espressione, toccando vertici di alto virtuosismo. Con Marceau il mimo diventa un genere. Del tutto diverso l’approccio di Lecoq, la cui attenzione si rivolge soprattutto alla scuola. Il mimo non esiste come cosa in sé ma come mezzo per accedere a una più completa comprensione del teatro. Ciò che interessa a Lecoq è il “mimismo”, la capacità cioè di assimilare l’osservazione del reale e rielaborarla attraverso l’espressione fisica. Alla base del suo metodo vi è un’improvvisazione che parte dall’osservazione del reale, dall’immaginazione e dalla liberazione dei cliché. La grammatica è rappresentata dalla scomposizione del movimento, individuando gli elementi di base del gesto per assumerne piena consapevolezza. L’assunto pedagogico di Lecoq è che l’apprendimento dell’espressività mimica è la condizione prima per accedere a ogni forma di teatro e a ogni tipo di personaggio. 10. IL TEATRO DI REGIA Il regista come mediatore Nel Nuovo Teatro la regia è uno strumento (tecnico e autoriale) per mettere in gioco una questione che sta a monte: la ridefinizione del codice linguistico. Nel moderno teatro di regia, viceversa, è posta al centro una diversa articolazione delle modalità di composizione dello spettacolo, che utilizza l’apparato della scrittura scenica senza, però, mettere in discussione la “forma teatro” specie su due piani: il rapporto con il materiale letterario e la recitazione. Il testo, nel Nuovo Teatro, diventa parte di una scrittura che lo ingloba. E’ un segno tra i segni. Nel caso del teatro di regia il testo è il dato su cui si modella la scrittura scenica, che ha come obiettivo agire su di esso soprattutto in quanto macchina narrativa. Un secondo dato è affidare allo spazio una funzione drammaturgica. Infine, c’è la questione della recitazione. Pur presentando forti elementi di modernizzazione dei codici espressivi, il teatro di regia si muove dentro il perimento della “forma teatro” senza aspirare a sostituirla con qualcosa d’altro. All’interno è possibile distinguere due modalità operative: una regia intesa come costruzione, in cui la scrittura scenica predispone una macchina drammaturgica parallela al testo, e una regia intesa come interpretazione, in cui conta maggiormente il processo di lettura o approfondimento del materiale letterario. Registri di costruzione Luca RonconiàLa figura di regista più prossima al Nuovo Teatro è quella di Luca Ronconi che ha affermato di sentirsi “un ordinatore di materiali piuttosto che un autore”. Al centro del suo lavoro vi è, dunque, il testo: la sua metodologia, che privilegia l’analisi delle strutture drammaturgiche rispetto alla trama, prevede lo smontaggio e il rimontaggio del materiale letterario, senza per questo negare, anche nei casi più estremi, la coerenza della narrazione. Dopo un brillante esordio come attore, all’inizio degli anni ’60 Ronconi inizia a dedicarsi alla regia. La sua idea di messa in scena come viaggio dentro una drammaturgia e le sue dinamiche costruttive grazie ad ambientazioni sceniche che ne spiazzano la coerenza narrativa, una recitazione molto scandita e una dinamica relazionale tra i personaggi basata più sulla dislocazione spaziale che sullo scavo psicologico rappresentano il “metodo Ronconi”, definizione che lui ha sempre rifiutato sostenendo di elaborare processi di lavoro e risultati formali diversi a seconda delle necessità del testo ma che, in una qualche misura, emerge dalla struttura degli spettacoli. Il lavoro di Ronconi è stato caratterizzato da una vera e propria bulimia registica, non solo per la quantità delle produzioni ma anche per la diversità di testi e autori. All’interno di queste ci sono delle linee progettuali coerenti, ma ce n’è una, più strutturale che tematica, che merita una particolare attenzione: la traduzione teatrale del romanzo e la messa in scena di testi considerati “irrappresentabili”. A Ronconi non interessa la riduzione in forma dialogica del romanzo, intende teatralizzarlo in quanto tale lavorando sullo smontaggio e rimontaggio del materiale narrativo. E’ lo spazio a scrivere in primo luogo lo spettacolo, determinando l’impianto visivo ma anche la disposizione scenica degli attori, la cui recitazione è sempre innaturale, caratterizzata da una dizione scandita e da un’emissione vocale forzata. nel tempo che determina una creazione condivisa in cui, però, la dimensione scenografica, per quanto importante sul piano creativo, non è indipendente ma va a integrare la scrittura registica. Ogni regola ha, però, la sua eccezione ed è quella che va fatta per lo scenografo cecoslovacco Josef Svoboda (collabora con regista Otomar Krejca). Pur non avendo una formazione teorica Svoboda si riallaccia idealmente alle affermazioni di Craig e Appia per quanto riguarda la centralità dello spazio e della luce nel processo di interpretazione del testo e il movimento come fattore espressivo primario. Obiettivo è una scenografia cinetica in grado di rendere visivamente l’atmosfera emotiva del dramma, utilizzando strutture tridimensionali, complessi effetti luminosi, proiezioni multimediali. La ricerca di Svoboda, partendo da una pratica artigianale del mestiere e delle sue tecniche, si rivolge ben presto alla tecnologia, con risultati sorprendenti, praticando le potenzialità “multimediali” con grande anticipo rispetto alla sensibilità dell’epoca. La scenografia diventa una scrittura a tutti gli effetti che assume su di sé l’autorità autoriale affidando, di fatto, al regista il ruolo di coordinatore. 11.LE VIE DELLA DRAMMATURGIA LETTERARIA Scrivere il teatro, scrivere per il teatro Nel secondo ‘900 il termine “drammaturgia” è ricondotto all’etimo di costruzione dell’azione nel senso più ampio del termine (il lavoro delle azioni in uno spettacolo) e si introducono espressioni come “drammaturgia dello spazio”, “drammaturgia dell’attore” o “drammaturgia della luce”. Si tratta di un modo per sintetizzar il concetto che scrivere il teatro significa scriverlo come scena nel senso più ampio del termine: tutto ciò che accade nello spettacolo, il quale, così, assume la funzione di vero e proprio testo, il “testo spettacolare”. Date queste coordinate, bisogna capire come agisce la scrittura letteraria per il teatro all’interno del nuovo contesto che si è venuto a determinare. Dal reale al reale Edward BondàIl 1965 debutta al Royal Court uno spettacolo che suscita un immediato clamore per la crudezza con cui è rappresentata la violenza: “Salvo” di Edward Bond. E’ uno spaccato del quotidiano banale, in cui l’uccisione di un bambino priva di senso, va a toccare il tabù dell’intangibilità dell’infanzia. Quest’azione violenta non ha alcun risconto sulle vite dei personaggi nell’opera che prosegue come se nulla fosse, sottolineando una specifica intenzione politica: “la letteratura è un atto sociale”, e quella di “Salvo” è una realtà al di là del realismo, che pone di fronte allo spettatore i dati di fatto nella loro crudezza. Questo è il testo più radicale di Bond, i cui lavori successivi hanno un’argomentazione più articolata e ideologicamente dichiarata ma meno incisiva sul piano della scrittura, anche se il nucleo resterà la violenza. Harold PinteràOpposta la presenza della realtà in Pinter. Il mondo, nei suoi drammi, assomiglia al mondo ma in realtà è altro: una superficie credibile e verosimile dentro cui si aprono delle crepe che ci mostrano come l’immagine che noi abbiamo delle cose sia solo una finzione dietro cui traspare dell’altro, restando enigma. La prima produzione è di fine anni ’50. Tra il 1957 e il 1960 Pinter scrive una serie di testi che hanno come comune denominatore il senso di una minaccia che viene dall’esterno e va ad inquinare il nido in cui i personaggi si sentono sicuri. Il primo testo, “La stanza”, porta già nel titolo l’essenza del modello pinteriano di questa stagione: stanza-porta-minacciosa presenza esterna. E’ un modello narrativo che ha riferimento in Kafka. Oltre a Kafka, forte è la lezione di Beckett. Il secondo testo di Pinter, “Il calapranzi”, ricalca, in qualche modo la struttura di “Aspettando Godot”: due uomini attendono un ordine che non arriva mai. Se la situazione drammatica ricorda Beckett, la differenza sostanziale è che il non-mondo in cui si muovono i suoi personaggi, in Pinter ha, invece, sempre la parvenza di un luogo verosimile e riconoscibile. I lavori più compiuti di questa prima stagione pinteriana sono “Il compleanno” (1957) e “Il guardiano” (1960). La struttura narrativa si fa più articolata e complessa ma la dinamica rifugio-minaccia resta la stessa. Stanco di lavorare sempre su quest’ultima, a partire dagli anni ’60 Pinter modifica gli assetti strutturali ma non la dialettica tra parvenza e mistero che caratterizzano il suo rapporto con la realtà: l’intreccio delle situazioni che un effetto di progressivo disorientamento, smarrendo l’identità. Peter WeissàLa distinzione politica tra le due Germanie è un dato di fatto ed il dibattito politico, a livello teatrale, ritorna con forza: a Est l’influenza di Brecht (anche se c’è anche ad Ovest), a Ovest Piscator è il tramite per permettere a Weiss di sostenere il teatro documentario, che prende materiale e lo restituisce immutato nel contenuto. Weiss si dichiara programmaticamente postbrechtiano nel senso che ne assume l’insegnamento traducendolo però in un piano di scrittura diverso. Nel suo primo testo il “Marat/Sade”, assume a pieno la struttura del teatro epico ma ne deforma la logica razionale. La macchina verbale tradisce spesso la struttura discorsiva per affidarsi a deviazioni liriche, l’azione è percorsa da un’eccitazione fisica che si esprime attraverso le numerose pantomime. Questo aspetto della scrittura ha un suo riferimento in Artaud a cui Weiss dichiara esplicitamente di guardare, figura opposta a Brecht. Vero e proprio manifesto del teatro documentario, però, è “L’istruttoria” (1965), in cui degli atti processuali vengo rappresentati con una scansione degli a capo dall’anomalo andamento poetico. L’attore-autore Eduardo de FilippoàNell’ambito della drammaturgia ‘900esca si determina una nuova “anomalia italiana”. Qui è presente il fenomeno degli attori-autori e due figure diverse per impostazione e provenienza sono: Dario Fo e Eduardo de Filippo. In quest’ultimo la sua autoricità è talmente tanto forte che fino a poco fa era difficile pensare a dei testi scritti e non rappresentati da lui. Come già evidenziato, testo lancio è “Napoli milionaria” che, nella maggior parte delle sue opere, ha un clima pirandelliano ma con un tono filosofico che sfocia in moralismo. Eduardo costruisce i suoi drammi con un procedimento di “naturalezza calcolata”, non rinunciando al dialetto napoletano e riuscendo comunque ad assumere un tono nazionale. Quello di Eduardo è un vero e proprio “teatro piccolo borghese” che ritrae, tra macchiettismo e denuncia, le trasformazioni della società italiana e di Napoli in particolare con un certo rimpianto, senza rinunciare al tema familiare che si traduce in forma drammatica o grottesca. Le conflittualità familiari sono denunciate da Eduardo concludendosi però con una sorta di pacificazione consolatoria. Dario FoàSe Eduardo lavora su una “tradizione ereditaria”, Fo lo fa su una “tradizione reinventata”, quella di un Medioevo giullaresco, marginale alla cultura ufficiale, irridente e trasgressivo. Evento chiave è “Mistero buffo” (1969), tutolo “rubato” a Majakovskij, per uno spettacolo nato come montaggio di scene giullaresche legate assieme da un racconto quasi didattico in cui Fo si rivolge direttamente al pubblico. La sua è una drammaturgia corale, i personaggi sono tanti, ognuno con una propria fisionomia, un proprio tic che Fo realizza attraverso le battute ma soprattutto grazie alla partitura attorica. Succede così che la fusione tra scrittura letteraria e scrittura attorica sia praticamente totale e che la sua sia una drammaturgia ibrida. Fondamentali nella scrittura di Fo: la scelta della lingua, il comico, la capacità di proporsi come racconto vivo. Uno spazio particolare, nel gioco linguistico, lo ha il grammelot, espressione orale non traducibile in forma scritta in cui il gesto, l’interazione vocale e la mimica hanno una funzione drammaturgica insostituibile. Quello dei monologhi è il teatro più noto e innovativo di Fo. La sua storia artistica è però più articolata grazie all’incontro con Franca Rame che sarà compagna di Fo per tutta la vita. Nel 1967 Fo e Rame abbandonano gli spazi istituzionali e avviano una compagnia che condurrà nel 1970 all’apertura del collettivo teatrale La Comune, schierato ideologicamente a sinistra del PCI e punto di riferimento politico oltre che artistico di movimenti di contestazione. E’ un legame, che finita la stagione degli anni ’70, Fo porterà sempre con sé, attribuendo al teatro un ruolo di denuncia e pronunciamento ideologico che trovano nella dimensione della comicità giullaresca il loro momento ideale di sintesi. Ancora del teatro politico Il teatro di Fo rende palese un discorso incontrato in diversi momenti del secondo ‘900: una nuova identità della dimensione politica del teatro. Nel nuovo contesto caratterizzato da un antagonismo politico al sistema diverso da quello marxista, la politica di Brecht appare obsoleta e le si oppone Artaud nel suo essere antipolitico. Il caso più emblematico di questa nuova stagione è quello del Living Theatre che sposta la causa anarchica e trasforma la dimensione politica da messaggio a comportamento creativo ed esistenziale. Ci sono, infine, situazioni in cui il teatro si fa atto politico in prima persona. E’ il caso delle sfilate del Bread and Puppet. C’è, inoltre, un fenomeno che è il “teatro di guerriglia”: il teatro deve agire in forma di azione diretta nella distinzione tra sfera del pubblico e sfera del privato. La questione della politicizzazione ci conduce in un territorio altro del teatro che è specificatamente novecentesco: la fuoriuscita dalla dimensione estetica. Del teatro si applicano le potenzialità per obiettivi diversi dalla produzione artistica che possono essere direttamente politici ma soprattutto sono sociali e terapeutici. Nel pieno fervore politico italiano degli anni ’60 si cominciò a pensare di scrivere il teatro a partire da queste: è il caso di Giuliano Scabia che trasformò il decentramento in animazione, termine che rimanda a rendere attivi e partecipi. Una sorta di sintesi tra atto politico, sociale e psicologico si ha con il Teatro dell’oppresso di Augusto Boal, nato in Brasile con l’intenzione di favorire la presa di coscienza degli oppressi, rendendoli soggetti attivi di atti teatrali che ponevano al centro problemi politici e sociali. Pier Paolo Pasolini: il teatro come agorà Uno spazio molto particolare, nel discorso sulla drammaturgia novecentesca, lo ha Pasolini, uno dei più importanti intellettuali europei tra gli anni ’50 e ’60. L’aspetto più interessante del rapporto di Pasolini con il teatro è la stesura di un testo teorico nel 1968 “Manifesto per un nuovo teatro”, che rappresenta una delle riflessioni più lucide sulla scrittura drammatica, la funzione della parola e la missione del teatro. Il testo nasce come una polemica risposta a distanza alle tesi avanguardistiche espresse a Ivrea un anno prima. La stessa definizione di Nuovo teatro nello scritto di Pasolini proviene da lì, ma completamente ribaltata: non una modalità compositiva basata sulla scrittura scenica e la rinegoziazione dei codici espressivi, ma una nuova missione filosofico-politica. Il teatro è un atto culturale, inteso come riflessione intellettuale sull’esistenza, e il tramite di tale atto non può essere che la parola. Un teatro di intellettuali e per gli intellettuali, dunque, che si interroga su un mondo in cui Pasolini vede con grande anticipo sfaldarsi valori non solo umani ma anche politici, a cominciare da quello marxista della lotta di classe. Smontare la macchina drammatica Decostruire Brecht: Heiner Mullerà Nel dopoguerra, quando le Germanie si separarono, Muller non esitò ad andare a Berlino est essendo un socialista convinto, ma al tempo stesso spirito critico. La sua scrittura non è pensabile al di fuori del dialogo continuo con la DDR, il regime post-staliniano, il concetto, le forme e i problemi della rivoluzione. In una sorta di simmetria, Weiss è il critico amaro del sistema occidentale che non volle trasferirsi ad est e Muller lo è di quello dell’est che non volle andare in occidente. La dimensione politica è, dunque, un dato centrale nella sua concezione del teatro fin dagli esordi, con “Lo stakanovista” (1954). Lo sarà anche in seguito in una maniera talvolta diretta, talaltra indiretta e, soprattutto, attraverso la continua trasformazione della forma drammatica. Il processo della scrittura di Muller si legge con grande chiarezza in quella che, pur non essendolo programmaticamente, è una trilogia: “Filottete” (1962), “L’Orazio” (1968), “Mauser” (1970). Un dato significativo della drammaturgia di Muller, già presente in parte nella trilogia, è la riscrittura dei classici. Dopo Beckett, il suo è il più radicale azzeramento della forma drammatica nella sua struttura e nella sua dimensione comunicativa. La parola come Africa: Bernand-Marie Koltès L’incontro con Patrice Chereau (teatro di Nanterre), nel 1983, porta all’attenzione del pubblico uno scrittore, Bernand-Marie Koltès con “Scontro di un negro contro cani”. La scrittura di Koltès si fonda su un risalto enorme dato alla parola, risolta nella forma istituzionale del dialogo ma delocalizzata dal quotidiano per aprirsi a un livello altro, da cui emergono valenze dalla forte carica simbolica. Questo processo, che è una forma di straniamento priva di alcuna intenzione distanziante, si affida in gran parte all’altra caratteristica fondante della sua scrittura: la sua è una drammaturgia di situazione in cui i personaggi si trovano a scontrarsi claustrofobicamente tra loro. Nella sua indiscutibile originalità egli rivela elementi di matrice pinteriana, così come il livello ridondante, spesso altamente poetico del linguaggio, nel conflitto tra maschera sociale e lato oscuro. Gli elementi simbolici che tornano insistentemente in Koltès rimandano alla macchina, caratterizzata da un complesso multimediale in cui si fondono proiezioni, luci, strutture scenografiche in movimento. Non si tratta, però, del puro effetto visivo: c’è una compenetrazione tra apparto tecnologico, attore e testo. E’ un modo di lavorare che anziché “nuovo” Lepage definisce “vecchissimo”, in quanto parte da un’idea organica dello spettacolo dimenticata perché “i letterati hanno assunto il controllo del teatro”. Sembra di ascoltare Craig, macchina scenica non coincide con scenografia ma è il materiale drammaturgico di un teatro che non cancella la narrazione né la parola, evitando di farne, però, un corpo a parte. Pur se presentata perlopiù per quadri separati c’è una linea narrativa riconoscibili. Racconto, recitazione e scenografia vanno a costituire la macchina drammaturgica della regia. Macchina scenica, montaggio, costruzione organica dello spettacolo, frammentarietà del testo e fisicità dell’attore caratterizzano la regia di Lepage, che integra nella scrittura scenica l’apparato multimediale, gestito in diretta dai tecnici per interagire in modo attivo con l’attore così da determinare un evento che si rigenera continuamente e non una partitura fissa a cui gli interpreti devono adeguarsi. La drammaturgia dei materiali naturali: Eimuntas Nekrosiusà Lituano, Eimuntas Nekrosius, si dispone lungo la linea della regia russa del dopoguerra. In quel contesto il rapporto tra avanguardie e tradizione non si caratterizza per la contrapposizione ideologica tipica del Nuovo Teatro ma per una sorta di complementarietà. Nella prima metà degli anni ’80, il suo lavoro è molto organico a quel modello, poi, dopo un lungo silenzio Nekrosius elabora un’idea di regia basata sulla scena come scrittura indipendente più di quanto non avesse fatto in precedenza. Ciò che la caratterizza è la dialettica tra elementi diversi: la dimensione narrativa, quella emozionale e l’uso, in una chiave drammaturgica, dei materiali naturali. Il suo è “un teatro dove si raccontano storie, si agitano sentimenti e passioni, agiscono personaggi, conflitti, senza però che questo flusso vitale si apparenti, neppure lontanamente, con il teatro convenzionale della messa in scena”. Nekrosius non parte dal testo ma chiede agli attori di eseguire delle azioni, osserva e dice se va bene e comincia a parlare della scena e del dramma. La regia, allora, è un processo drammaturgico che giunge al testo per sovrapposizione di elementi: una recitazione molto fisica espressa attraverso un movimento marcato, una vocalità che dà concretezza alla parola e la matericità della scenografia. Fuori dalla cornice: teatro performativo Identificare la “fine del ‘900” con il ritorno alla cornice sarebbe una svista storiografica. Bisogna imparare a fare a meno di un concetto, teatro “alternativo”, sostituendolo con quello meno ideologico di “teatro altro”, una presenza diversa ma affiancata alle altre. Il teatro performativo della fine del ‘900 è sicuramente più una lingua parlata che l’invenzione di un linguaggio, senza con questo nulla togliere alla sua importanza, in quanto agisce su una grammatica espressiva già in una qualche misura codificata leggendolo come un “genere”, come la classicità moderna di una certa procedura teatrale. Una drammaturgia del visibile: Jan Fabre, la Societas Raffaello Sanzio e il Théatre du Radeauà L’assunzione a funzione drammaturgica della dimensione visuale è uno degli aspetti che più caratterizzano il teatro performativo, in quanto nasce dalla contaminazione e non dalla sintesi di codici linguistici diversi. Jan Fabre definisce questa pratica consilience¸ la convergenza verso un unico obiettivo di elementi che vengono dalle fonti più diversi. La consilience si manifesta anzitutto nella molteplicità delle forme artistiche attraverso cui si esprime Fabre, la cui formazione pittorica è una componente importante della sua scrittura. Fin dagli anni ’70 la produzione visiva è accompagnata da momenti performativi di cui lo stesso Fabre è protagonista, con azioni ispirate alla Body Art in cui si sottopone il suo copro a pratiche estreme. E’ all’inizio degli anni ’80 che Fabre affronta il teatro in maniera specifica, grazie a due spettacoli, “E’ il teatro com’era da aspettarsi e prevedere” (1982) e “Il potere delle follie teatrali” (1984). La performance diventa teatro nel momento in cui l’effimero, l’uso esclusivo del corpo si risolvono in una struttura più articolata sul piano formale, nel lavoro sugli attori e sul rapporto tra corpo e segni scenici. Il tema dei due spettacoli è il rapporto tra azione reale e azione scenica. Il motivo ricorrente è una corsa estenuante sul posto che conduce all’esaurimento. La ripetitività, l’estenuazione dell’azione fisica sino allo sfinimento, la metafora dell’artista come “guerriero della bellezza” costituiscono la grammatica, operativa e teorica di Fabre. La dominante visuale negli spettacoli di Fabre è centrale ma in quanto la sua è una “drammaturgia del visibile” frutto di corpi, materie e segni iconici e simbolici, dinamismo fisico e parola. Attraverso questo tramite performativo il teatro “torna alle origini della tragedia” mostrando al pubblico “aspetti umani che ha dimenticato o respinto”. La Societas Raffaello Sanzio rappresenta una seconda generazione della Postavanguardia italiana. Nata all’inizio degli anni ’80 grazie a due coppie di fratelli, Romeo e Claudia Castellucci e Chiara e Paolo Guidi, i ruoli interni si sono presto definiti con l’autorialità registica di Romeo, lo studio sulla voce di Chiara e il lavoro suo e di Claudia su una scuola teatrale con un’attenzione particolare ai bambini. In una fase storica in cui le sperimentazioni più radicali hanno avviato un attraversamento del teatro determinando il rischio di una “capacità di assorbimento della scrittura scenica e del suo addomesticamento”, la Raffaello Sanzio rappresenta un principio di resistenza. Lo spettacolo che sancisce il passaggio alla maturità artistica del gruppo è “Santa Sofia. Teatro khmer” (1985). L’insieme di elementi caratterizzanti del lavoro della Societas trova un momento di sintesi nella “Tragedia endogonidia” (2002- 2004), progetto particolare che intende negare lo spettacolo come prodotto unico. Gli undici episodi che la compongono, per quanto indipendenti, sono parte di un’opera unica in continuo divenire nascendo ognuno dal rapporto con una città diversa che diventa, con la sua identità, un materiale drammaturgico. Nato in Francia alla fine degli anni ’70, il Théatre du Radeau ha una svolta nel 1982 quando arriva in qualità di regista Francois Tanguy. Dopo un “Don Giovanni” dello stesso anno e “L’Eden et les cendres” (1983) è il “Mystère bouffe” (1986) che ne mette a punto la scrittura. Mascheramenti circensi, come nasi e barbe finte, costumi cambiati continuamente, palloni che scoppiavano si organizzavano in scene prive di collante narrativo. Il risultato è un flusso combinatorio in cui una componente l’importante l’ha il sapore circense dei travestimenti e dei giochi scenici degli attori determinando un cortocircuito tra grottesco e poesia. Quello di Pippo Delbono (1987) non è “teatro sociale”. “Barboni” istituisce la grammatica del linguaggio teatrale di Delbono. Gli attori di Delbono non si limitano a essere delle presenze, sono delle persone che giocano dei ruoli. E’ una strategia attorica che dialoga con il corpo esausto ma perfetto di Fabre e con quello iconicamente difforme di Castellucci. C’è un altro elemento in comune che ritroviamo nei 3 autori: parlano tutti di bellezza, un termine che l’arte del ‘900 aveva cassato dal suo vocabolario e che ritorna, invece, a presentarsi anche se in una veste non convenzionale. La bellezza è una sorta di estremismo lirico della percezione. Nella partitura scenica un ruolo fondamentale lo ha Delbono stesso: introduce gli spettacoli con dei monologhi in cui parla in prima persona e vi interviene recitando frammenti poetici, letterari, filosofici, accompagnandoli con una gestualità disordinata a causa della quale il suo abito si scompone e i capelli si appiccicano. Corpo in nevrotica agitazione, Delbono ha una forte dimensione iconica che ne fa una sorta di Kantor ribaltato: non il regista che osserva la sua creazione ma l’autore che la realizza al momento. DOPO BECKETT: SCRIVERE PER IL TEATRO Un terzo aspetto della “fine del ‘900” è la posizione che vi ha la scrittura letteraria. La specificità della drammaturgia letteraria nella “fine del ‘900” consiste nel rimettere in gioco la dimensione testuale non come restaurazione del dramma ma come interrogazione su che cosa significhi scrivere e raccontare dopo Beckett e dopo la rivoluzione della scrittura scenica. In questo contesto storico ed estetico quale spazio hanno la parola, il racconto, il testo drammatico? Che cosa significa attribuire a Beckett un ruolo di spartiacque nel teatro del ‘900? Scrivere per il teatro, dopo Beckett, non è ciò che era prima: può significare cose molto diverse, esaminate attraverso 2 fenomeni antitetici che, oltre ad essere linguistici e culturali, sono anche nazionali: lo “In-Yer-Face Theatre”, in Gran Bretagna, e il teatro di narrazione, chiamato anche “perfomance epica”, in Italia. “In-Yer-Face” è un’espressione che viene dal lessico sportivo a indicare qualcosa di aggressivo e provocatorio (un approssimativo “sbattuto in faccia” indica ciò che ci fronteggia nella sua durezza). Il teatro si risolve nella parola, nel ritmo musicale dell’enunciato sottolineando un procedimento di scrittura che è corso precipitosamente verso un minimalismo vivido ed emotivo, che distorce la realtà perché la realtà è essa stessa storta. La nuova performance epicaà In Italia, alla metà degli anni ’90 si manifesta un fenomeno del tutto opposto, che con il precedente disegna le polarità estreme di un discorso sulla drammaturgia letteraria nella “fine del ‘900”. Si tratta di spettacoli realizzati da attori che raccontano storie. Di qui la definizione attraverso cui li si identifica, teatro di narrazione, a cui si affianca quella di performance epica. Le due definizioni si intrecciano a definire una scrittura che rifiuta la veste dialogica traducendosi in narrazione e quindi è epica nel senso in cui la definiva Aristotele opponendosi a quella drammatica. Il termine “epico”, dunque, che fa subito pensare a Brecht, ha una memoria più antica. La scrittura nel teatro di narrazione non consiste nell’attualizzazione scenica di una parola precostituita ma è una costruzione orale sia nella genesi che nel ritmo e nella struttura. A essere posta in gioco è la questione della scrittura del testo in stretta relazione all’attore. Il teatro di narrazione percorre due vie diverse, una legata al Laboratorio Teatro Settimo e l’altra a Marco Baliani. Il Teatro Settimo produce, per la regia di Gabriele Vacis, leader del gruppo, “Elementi di struttura del sentimento” (1985), tratto dalle “Affinità elettive” di Goethe. Non si tratta di un adattamento del romanzo ma di un’operazione drammaturgicamente più sottile: le serve, che nel romanzo neanche compaiono, si raccontano tra loro le vicende che succedono. Il caso di Marco Baliani è diverso. I suoi spettacoli di narrazione sono parte di un lavoro perlopiù di complesso ma è proprio il suo “Kolhaas” (1990), tratto da un racconto di von Kleist, il primo spettacolo di narrazione. Baliani prende il testo e lo riporta dalla forma scritta a quella orale. Il testo verbale è inscindibile dalla presenza scenica come è fondamentale il legame col pubblico che il narratore deve saper condurre per mano lungo i fili del suo racconto. La drammaturgia della performance epica si fonda su questa rete di elementi, mettendo in atto il racconto come fenomeno narrativamente composito. L’autore più rappresentativo della seconda generazione dei narratori è Ascanio Celestini. La sua presenza scenica è molto caratterizzata, iconica. I suoi testi hanno come riferimento, nella gran parte dei casi, argomenti civili. Caratteristica prima è un andamento fortemente ritmico, scandito dalla recitazione e ancor prima dall’organizzazione della frase. Il racconto ha un andamento incalzante che si combina con l’immobilità scenica creando un singolare cortocircuito. Quello di Celestini è una sorta di cantato organizzato sulla partitura musicale del materiale testuale. Un’affermazione di Baliani spiega bene questa nuova esigenza di narrazione: “il problema non è rompere il dramma, il dramma è già rotto. Il punto è come mettere insieme questi cocci”.
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