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Il Novecento di Raffaele Romanelli, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Lezioni di storia contemporanea: Novecento

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/05/2019

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giannox-rocchi 🇮🇹

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Scarica Il Novecento di Raffaele Romanelli e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! CAPITOLO 1 UNA GRANDE GUERRA Pochi mesi dopo lo scoppio della Grande Guerra, l’entusiasmo di parteciparvi svanì; nel primo periodo si era pensato a una “guerra lampo” della durata di pochi mesi, ma anche questa convinzione svanì presto e la guerra risultò essere una lunga ed intensa guerra di trincea. C’erano due schieramenti:  Triplice Intesa: Francia, Inghilterra e Russia  Triplice Alleanza: Germania, Italia e Austria La Germania decise di mettere in atto un piano militare molto dettagliato, il piano Schlieffen che prevedeva un primo fulmineo attacco a occidente per annientare la Francia in poco più di un mese, l’invasione del Belgio e la marcia su Parigi. Il Belgio fin dal 1839 aveva garantito la sua neutralità con l’obbligo di non impegnarsi al fianco di una potenza straniera; proprio per questo motivo, alla minaccia d’invasione da parte dei tedeschi, il sovrano belga, Alberto I, rifiutò l’aiuto inglese e francese. Il problema di fondo è che il paese non era minimamente preparato ad affrontare una guerra, ma con coraggio respinse l’ultimatum tedesco e iniziò la difesa dei suoi territori. Con l’arrivo dei tedeschi iniziarono le invasioni, gli incendi dei villaggi e molti civili furono colpiti. Uno dei fatti più tragici compiuti in Belgio da parte della Germania, è stato l’assalto a Lovanio, importante per la cultura europea; il cosiddetto “stupro di Lovanio” scosse l’opinione pubblica di tutta Europa e convinse l’Inghilterra ad entrare in guerra. Sull’avanzata in Belgio il capo di stato maggiore Von Molkte disse: “La nostra avanzata in Belgio è stata senza dubbio brutale, ma stiamo lottando per la sopravvivenza e tutto ciò che troviamo sulla nostra strada deve pagarne le conseguenze” Difendere e lottare per la sopravvivenza erano le motivazioni di tutti gli aggressori del 1914. I francesi riuscirono a respingere gli invasori; nei primi giorni di settembre, con gli aiuti britannici, le truppe francesi respinsero quelle tedesche fino al fiume Marna. Questo contrattacco segna la fine del piano Schlieffen. Sul fronte orientale la situazione della Germania non era migliore perché i russi riuscirono a lanciare un’offensiva contro la Prussia, il cuore del Reich; i tedeschi furono costretti a richiamare le truppe dal fronte occidentale e riuscirono a contrattaccare i russi sconfiggendoli in due grandi battaglie. Dopo l’insuccesso di queste rapide manovre i fronti si assestarono e svanì la convinzione di una guerra-lampo. IN TRINCEA In Galizia e in Serbia la paura e il disprezzo etnico provocarono la ferocia degli austriaci occupanti; non mancarono il lavoro forzato e le concentrazioni di prigionieri e civili in appositi campi, una tecnica già presente della guerra anglo boera e destinata a diventare un topos di tutto il secolo del Novecento. Ma il vero dramma della Prima Guerra Mondiale, non furono le violenze sui civili, ma si concentrò sugli spazi brevi di guerra in una lunga linea di oltre 2000 chilometri, dal Mar Baltico ai confini con la Svizzera. In tutto il territorio europeo venivano scavate buche strette e profonde per nascondere gli uomini e proteggerli dalle truppe nemiche. Il labirinto divenne la più esatta ed azzeccata metafora per le trincee che costituivano una barriera fortificata che ricordava il limes romano. La terra che separava le due trincee nemiche diventò uno spazio astratto, popolato di cadaveri e d’incubi. Le truppe si fronteggiavano nelle trincee in uno stallo, senza che nessuno prendesse il sopravvento, ripetendo all’infinito lo stesso schema: sanguinolenti e violenti attacchi per conquistare pochi metri di terreno. Questa situazione non mutuò per anni ed è proprio la durata che disegnò un nuovo mondo. Innanzitutto un nuovo orizzonte mentale; infatti la mitragliatrice aveva già cancellato l’idea che gli uomini si affrontassero a viso aperto, l’uno contro l’altro. Il nemico era invisibile e la morte collettiva e anonima. I singoli persero dignità e identità. La vita in trincea fu anche una fabbrica di fantasie e d’incubi arcaici; i soldati prestavano orecchio alle più strane dicerie e fantasie che si diffondevano con un’incredibile rinascita della tradizione orale. I soldati rimasero fortemente traumatizzati e nell’immobilismo delle trincee senza possibilità d’azione, i soldati furono costretti a confrontarsi con le loro parole; erano molto frequenti le esplosioni di follia, l’autolesionismo, i blocchi psicomotori, la depressione, la malinconia e ogni altra forma di trauma. vista avanzare una nube giallo-verdastra che precedette l’avanzata dell’esercito tedesco. I soldati iniziarono a combattere con le maschere antigas, un supplizio inutile perché dalle nubi di gas non ci si può difendere; è sufficiente applicare una combinazione calcolata di gas lacrimogeno e di fosgene: il primo costringeva i fanti a togliersi le maschere e a respirare il secondo. Le nuove armi con la loro potenza rendono la morte collettiva, anonima e cancellano l’idea eroica della guerra. LA GUERRA SUI MARI, LA GUERRA LONTANA I combattimenti si estesero ai mari e ai possedimenti coloniali. Siccome la Germania aveva accesso solamente al mare del nord e che per raggiungere l’Atlantico doveva passare per la Manica, ci fu un’opera di contenimento da parte inglese e un solo grande scontro navale, nel maggio del 1916, la battaglia dello Jutland, non fu uno scontro decisivo e ogni fronte se ne attribuì la vittoria. Nella guerra sui mari entrarono in campo i sottomarini, la Germania intendeva indebolire il nemico con la tecnica del blocco navale che avrebbe dovuto impedire i rifornimenti via mare, i tedeschi impiegarono gli U-Booten. Era una strategia di guerra molto efficace, ma estremamente vile e poco guerresca perché intesa a danneggiare indiscriminatamente i civili. Inoltre i sommergibili avrebbero attaccato in immersione ciò vale a dire senza rispettare le leggi del mare, per le quali un attaccante doveva avvertire un mercantile prima di affondarlo e fare in modo che i passeggeri potessero mettersi in salvo. Questa guerra sottomarina era una guerra senza regole e proprio per questo motivo poteva creare seri incidenti diplomatici con i paesi neutrali. Nel maggio del 1915 venne affondato il transatlantico britannico il Lusitania sul quale erano a bordo circa 130 passeggeri americani. L’opinione pubblica americana rimase molto colpita dall’accaduto. Nel frattempo in superficie la sfida tedesca alla Royal Navy fu presto persa. La capacità di intercettare i messaggi telegrafici giocò un ruolo fondamentale nella sorte degli incrociatori che s’inseguivano negli spazi oceanici. La flotta inglese subì una sconfitta davanti al porto cileno di Coronel, ma poco tempo poté restituire il colpo alle isole Falkland ponendo fine alla’attività di alto mare della marina tedesca. La guerra non si combatte solamente in Europa o sui mari, ma anche nei territori coloniali. UK e DE si batterono per i possedimenti africani che la Germania aveva da poco conquistato. Il piccolo Togo cadde subito, il Senegal e l’attuale Namibia vennero occupati, la Tanzania seppe resistere a lungo. Caddero anche i possedimenti tedeschi in Estremo Oriente e nel Pacifico. La guerra non solo era Grande, ma era anche Mondiale. (Pag 21-22 tralasciate) MOBILITAZIONE TOTALE Tutte le maggiori potenze europee si erano dotate di robusti apparati militari e industriali, e la guerra poteva essere vista come l’esito inevitabile di quegli investimenti. Le riserve di materiale si esaurirono e il rapporto tra produzione e consumo si invertì. Fu necessario moltiplicare lo sforzo, organizzando non più solo alcuni settori della produzione ma l’intera economia nazionale degli stati. Ciò significò sottoporre al controllo e alla direzione dei comandi militari l’intero comparto industriale, che produceva unicamente per lo Stato. L’uso e la distribuzione delle materie prime e dei beni ritenuti necessari allo sforzo bellico furono sottoposti a controlli. La guerra stessa divenne una macchina organizzativa complessa, una guerra tecnica, una guerra senza odio. La distruttività della guerra sembrava contraddire la produttività della società industriale. Invece era invece l’aspetto estremo: si produceva per distruggere e l’immediata distruzione dei prodotti dilatava la domanda all’infinito. L’economia di guerra avrebbe potuto essere applicata all’amministrazione di un’economia socialista. Nacque il fascino dell’economia pianificata che avrebbe avuto grande fortuna nei decenni seguenti. In Italia il capo di stato maggiore generale Cadorna stabilì che ogni soldato doveva essere convinto che il superiore aveva il “sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi”. L’obbligo impartito a tutti i comandanti di mantenere una rigida disciplina era assoluto e indeclinabile, e il dovere di estrarre a sorte gli indiziati di reati e punirli con la pena di morte. Dopo aver allineato le truppe, uno ogni dieci doveva uscire dalla fila per essere fucilato. Per convincere le persone ad entrare a far parte dell’esercito, la propaganda fece leva sui sentimenti familiari e su angosce sessuali; alcuni manifesti dicevano “impedite che le vostre case e le vostre donne siano invase e violate da un nemico assetato di sangue”. Molte donne sostituirono gli uomini al fronte e l’ingresso in settori lavorativi che erano preclusi comportò un’emancipazione civile e politica. A SAN PIETROBURGO Il governo dello zar aveva creduto che la guerra sarebbe stata molto breve e aveva concentrato le sue energie nella mobilitazione iniziale. Pur avendo la Russia l’esercito più grande mai visto, le strutture industriali non erano così sviluppate. Il completo successo di un’offensiva austro tedesca nel maggio 1915 fece perdere le province occidentali dell’impero. L’aspetto multinazionale dell’impero creava non pochi problemi, infatti fu presto percorso da una grande ondata di profughi e si temeva potesse fraternizzare con il nemico. Per questo motivo avvenne la deportazione degli armeni ottomani da parte turca, primo esempio di come la guerra potesse innescare delle politiche di sterminio etnico. Aumentarono i disertori, al collasso militare, umano ed economico si aggiunse quello dell’intero sistema politico e amministrativo. In questo clima di tensioni, il paese vide dissolversi la sua classe dirigente. Si giunse all’8 marzo 1917 e in quella data San Pietroburgo fu attraversata da colonne di dimostranti che protestavano contro i caroviveri, vennero assaltate le stazioni di polizia e liberati i prigionieri politici. Le truppe si rifiutarono di sparare sulla folla, e quando lo zar decise di sospendere il parlamento, la Duma, i deputati si rifiutarono di sciogliersi e costruirono un governo provvisorio diretto da Kerenskij. Quando la guardia imperiale fraternizzò con i manifestanti lo zar abdicò. Suo fratello non volle prendere il suo posto perciò, dopo diversi secoli, la Russia era senza zar, senza governo, senza autorità riconosciute. Il vuoto di potere lasciò spazio al Soviet degli operai e dei soldati. I rappresentanti dei soviet non osavano nemmeno immaginare che in un paese arretrato come la Russia si potesse far scoppiare una rivoluzione socialista. Ad aprile arrivò in Russia Lenin, che prima della guerra era stato tra coloro che avevano bollato come traditori i revisionisti e aveva formulato una teoria della rivoluzione che si allacciava a quella di Marx, ma la mutava sostanzialmente: la borghesia non aveva le energie per abbattere lo zarismo, ma la rivoluzione avrebbe potuto avvenire se il proletariato si fosse alleato con le masse contadine. Lenin era riuscito a tornare in Russia grazie all’aiuto dei nemici tedeschi, che facevano di tutto per destabilizzare l’impero. Non appena tornò scrisse le Tesi di Aprile, nelle quali dichiarò che la fase democratico-borghese della rivoluzione di era conclusa e i bolscevichi non dovevano più appoggiare il governo provvisorio, dovevano abbattere il capitalismo e la sua democrazia parlamentare e dare tutto il potere ai Soviet. Diaz il 4 novembre 1918 annunciava che la guerra contro l’Austria- Ungaria […] iniziata il 24 maggio 1915, dopo 41 mesi, è stata vinta”. Il 4 novembre divenne festa nazionale, giornata delle forze armate. Finalmente l’Italia aveva vinto una guerra. ARRIVANO GLI AMERICANI L’ultimo anno di guerra era stato meno cruento su tutti i fronti europei, ma risultò determinate. Gli Stati Uniti erano già coinvolti nell’impresa con i loro capitali e le loro industrie per sostenere l’impresa bellica dell’Intesa. Gli americani si sentirono tuttavia minacciati dagli attacchi dei sottomarini tedeschi; infetti già il 15 marzo furono affondati tre mercantili americani. Quando si scoprì del dispaccio con cui la Germania proponeva al Messico un’alleanza antiamericana con la prospettiva di fargli riconquistare territori perduti, il dado fu tratto. La guerra venne dichiarata nell’aprile del 1917. L’America aveva una flotta molto potente e grande, ma un esercito piuttosto piccolo e privo di esperienza bellica; per questo motivo fu introdotta la coscrizione obbligatoria che dette circa un milione di reclute. Nel mese di giugno i primi contingenti cominciarono ad affiancare gli Alleati su tutti i fronti, e il 4 luglio 1917 elementi del corpo di spedizione americano sfilarono in parata a Parigi. E il mese successivo i primi corpi dei marines combattevano in Francia, con un impegno crescente che li portò nel settembre 1918 a condurre sul fronte francese la prima grande offensiva solo americana. Il successo delle truppe americane fu in primo luogo dovuto al fatto che non avessero conosciuto il logoramento delle trincee erano per questo motivo più cariche e motivate. Nel territorio americano la propaganda fu ancora più intensa che in Europa, era ispirata non solo al bisogno di stringere la nazione attorno allo sforzo bellico, ma anche ai tratti spiccatamente ideologici che assunse il conflitto con il parallelo ingresso degli USA democratici e l’uscita dell’autocrazia zarista. A dare una nuova coerenza ideologica al conflitto fu il presidente Wilson il quale era principalmente contro ogni guerra, tanto da dichiarare che l’America era troppo fiera per combattere. Venne rieletto una seconda volta nel 1917, sulla base di una scelta di neutralità e trasformo quella scelta di pace in una dichiarazione di intervento volto a raggiungere una pace senza vincitori, a garantire al mondo un assetto pacifico e stabile. Nel gennaio del 1918 in un messaggio al Congresso fissò i 14 Punti per la pace. Nelle parole di Wilson si stava combattendo una guerra finale per la libertà umana che si muoveva contro il colonialismo, l’imperialismo e il protezionismo aggressivo all’origine del conflitto fra i vecchi Stati. La sfida americana assunse i tratti di una crociata liberale e liberalista. Con i 14 Punti, Wilson aveva fornito all’intero schieramento una sorta di manifesto ideologico che avrebbe dettato le regole della pace. Dopo l’entrata in guerra dell’USA si unirono allo schieramento alleato anche Panama, Cuba, Grecia, Siam, Liberia, Cina, Brasile, Guatemala, Nicaragua e Costa Rica. L’impero Ottomano firmò l’armistizio il 30 ottobre 1918; tre giorni dopo gli austriaci cessarono il fuoco sul fronte italiano; l’Ungheria e la Polonia reclamarono l’indipendenza; la Serbia, la Croazia e la Slovenia formarono un governo provvisorio degli slavi del Sud, la Jugoslavia. Anche il Reich tedesco era in disgregazione. Tra settembre e ottobre i comandi dovettero prendere atto che l’esercito e la popolazione erano stanchi di lottare e volevano l’armistizio. Il generale Ludendorff, uno degli autori del piano Schlieffen, considerando le proposte di Wilson inaccettabili, si rivolse all’esercitò invitandolo a continuare la resistenza. Ma fu costretto alle dimissioni. Alla fine di ottobre Berlino era in mano ai rivoluzionari. Il Kaiser si vide costretto a nominare cancelliere il socialista Ebert, e il 28 novembre non potè far altro che rimare l’atto di abdicazione e partire per l’esilio. In questo modo, non solo termina la Prima Guerra Mondiale, ma la Germania diventa una Repubblica. CAPITOLO 2 COMUNISMO IN RUSSIA UN COLPO DI STATO In un primo momento di operai di San Pietroburgo cantavano la Marsigliese e appena costituitosi il governo provvisorio avevano adottato alcune misure tipicamente liberalcostituzionali. Ma nell’arcaica immensità dell’impero russo il gioco costituzionale-borghese era solo una crosta sottile e non dava risposta agli enormi problemi della terra. Nella Russia del 1917, le tappe del costituzionalismo europeo furono saltate, ma non già per radicalizzarsi alla rivoluzione con il prevalere dei forze più avanzate in senso civile come in Francia. Nei mesi tra febbraio e ottobre ci fu invece un vuoto di potere, i governi si succedevano senza costrutto, nessuno governava il paese. Che cos’è luna rivoluzione? L’idea stessa di rivoluzione ha il significato di un’aggressione all’ordine tradizionale che gli toglie ogni valore e prefigura il futuro come luogo in cui giungerà a complimento un rinnovamento radicale e profondo, un ordine nuovo. L’idea di rivoluzione rappresenta una spinta dal basso, come quella raffigurata dalla folla che assalta la Bastiglia. Anche nella Russia del ’17 la folla dette l’assalto al Palazzo d’Inverno, ma lo trovò vuoto. Come ha osservato Hannah Arendt mai nella storia la sedizione delle masse popolari è capace di avviare una rivoluzione se l’autorità dello Stato non è già minata. In sostanza dunque, le rivoluzioni sono la conseguenza, e non la causa del crollo dell’autorità politica. COMUNISMO DI GUERRA Il colpo di stato di Lenin riempì uno spazio vuoto e il suo successo stupì i rivoluzionari. Per questo motivo venne chiamato “il mago”; ma la magia fu non tanto nell’immediata riuscita del colpo di stato, ma nel modo in cui Lenin e suoi riuscirono a conservare il potere e a consolidarlo nei mesi e anni seguenti. In questo caso si trattò di una rivoluzione dall’alto, come dall’alto furono guidate molte moderne trasformazioni economiche. La rivoluzione bolscevica ha costituito un modello nuovo di rivoluzione, un modello proprio di un secolo come il Novecento caratterizzato da profonde trasformazioni imposte con la forza dei poteri pubblici. La violenza di Stato è un tratto tipico della modernità di cui il terrore giacobino Nel 1917 la Germania fu attraversata da una seria continua di grandi scioperi operai. Per quanto riguarda l’ammutinamento della base militare di Kiel, che dette inizio nel novembre del 1918 alla formazione dei Consigli operai e di soldati di tipo russo. L’imperatore Guglielmo II fu costretto ad abdicare e venne proclamata la repubblica sotto la guida del socialista Ebert. Nel gennaio successivo alla vigilia delle elezioni per una nuova assemblea nazionale, gli spartachisti (Comunisti della Lega di Spartaco) insorsero a Belino dichiarando caduto il governo di Ebert, e in aprile fu proclamata una Repubblica consiliare in Baviera mentre Amburgo era in mano operaia. Tutte queste insurrezioni in giro per l’Europa, furono stroncate con la forza. Di fronte agli scioperi del ’18 i grandi gruppi industriali tedeschi si erano espressi per la continuazione della guerra, mentre il comando supremo dell’esercito tuonava contro il tradimento del fronte interno inquinato dai rossi. Con l’appoggio del comando supremo furono organizzati gruppi paramilitari, i Freikorps, che nel gennaio ’19 soffocarono nel sangue la rivolta di Berlino. Accadeva che i socialisti sparassero sui comunisti, eredi della stessa tradizione. I Freikorps intervennero anche a spegnere nel sangue la Repubblica consiliare di Baviera. L’ondata rivoluzionaria di ritrasse. Nel 1919 fu fondata una nuova organizzazione, detta la Terza Internazionale, questa volta comunista/leninista, chiamata Cominter che sostenne la formazione di partiti comunisti distinti dai partiti socialisti. La vocazione internazionalistica del movimento operaio si traduceva nella difesa degli interessi nazionali di un altro paese. Da allora i comunisti dei vari paesi europei avrebbero anteposto agli interessi del proprio paese quelli dell’URSS. I “partiti fratelli” dovettero seguire le direttive dei dirigenti comunisti dell’Unione Sovietica, quali essi fossero, e quanto più apparissero incomprensibili e apparentemente lontane dallo spirito comunista, tanto più avrebbero messo alla prova la fede dei militanti e attinto forza dalla loro messianica fiducia nella guida suprema del partito di ciascun paese e di quello russo prima degli altri. Molti partiti di osservazione russa nacquero in vari paesi europei. In Italia il movimento socialista guadagnò sempre maggiori consensi e nel ’19 divenne il primo partito. Nel frattempo si consolidava l’indirizzo massimalista. Tra il 1919 e il 1920, una continua serie di scioperi paralizzò il paese, ovunque con rivendicazioni estreme, miranti al controllo e alla socializzazione. Se i grandi scioperi dell’industria erano consueti nella dinamica sindacale, ancor più impressionarono quelli nei servizi pubblici e nell’agricoltura, dove braccianti e contadini attaccarono la proprietà e paralizzarono la produzione. Fu un biennio rosso con i tratti di una strisciante guerra civile e un martellante attacco alle istituzioni borghesi privo di concreti sbocchi rivoluzionari. Il culmine di quest’ondata di lotte riguardò il settore metalmeccanico ora minacciato dalla riconversione. Alle rivendicazioni sindacali si oppose l’intransigenza degli industriali e gli operai del nord risposero occupando armati le fabbriche, innalzando la bandiera rossa e tentando di proseguire la produzione. Dopo un mese l’avventura terminò con un sostanziale successo sindacale, ma non si erano nemmeno intraviste le tappe da compiere per la presa del potere. Dopo essere stato rinchiuso nel carcere fascista, Antonio Gramsci, avrebbe dedicato le sue riflessioni alle radici storiche di quelle fratture. La linea dei consigli operai di matrice sovietica-russa sostenuta dal gruppo di Ordine nuovo, rivista di Gramsci, si presentava come un’alternativa radicale ai programmi politici e sindacali del Partito socialista. E siccome non sarebbe stato possibile conquistare il Partito, al congresso del Partito socialista svoltosi a Livorno nel gennaio 1921, l’estrema sinistra (Gramsci, Togliatti, Tasca, Terracini) uscì dal partito per costruire sotto la guida di Bordiga il Partito Comunista (PCd’I, poi divenuto PCI)! Svolta di Livorno GLI ANNI DELLE SCELTE Nel frattempo i bolscevichi avevano vinto la guerra civile. I contadini, che costituivano l’80% della popolazione, avevano acquistato la gran parte della terra e formavano il grosso dell’esercito. Dopo aver distrutto le aziende agricole create nello zarismo, durante le fasi della guerra civile, si erano levate rivendicazioni che chiedevano che fosse garantita la distribuzione della terra, la proprietà, la libera produzione, l’accesso al mercato (…). Questa era la rivoluzione fatta di rivendicazione comuni a quelle dei Soviet originari e dei gruppi industriali, ma divenne presto una lotta contro lo stato dei bolscevichi. Per quanto riguarda invece la nazionalità, nel 1914 Lenin aveva esaltato il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, precisando che in ogni nazione ve ne erano due: quella borghese e quella proletaria, il che avrebbe consentito di difendere l’una e reprimere l’altra a seconda delle circostanze. Nel Novembre del ’17 la Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia decretava il diritto alla libera autodeterminazione, fino alla separazione e alla costituzione di uno Stato indipendente, la soppressione di tutti i privilegi e di tutte le limitazioni nazionali e nazionalreligiose. Nel 1919 Lenin tracciò le linee di una politica basata sulla più grande attenzione nei riguardi delle tradizioni nazionali e la più stratta osservanza della parità della lingua e della cultura ucraine. Ma già alla fine del 1917 Lenin e Stalin avevano deciso l’invasione e la sottomissione della Repubblica ucraina. Fino alla fine lo Stato mantenne il nome di Unione di repubblica, ma le alleanze con le nazionalità e le politiche di tutela linguistica e d’indigenizzazione si avvicendarono alle più brutali repressioni, a politiche di russificazione o di denazionalizzazione. Per quanto riguarda la politica verso le rivendicazioni contadine, nel 1917 Trockij, di fronte alle sollevazioni antipadronali delle campagne, giustificava le barbarie rivoluzionarie dei contadini e Lenin l’appoggiò. Seguirono requisizioni, espropriazioni, lavoro obbligatorio e violenze. Nel 1919 il sistema divenne ancor più rigido e ogni comunità doveva versare allo Stato quote definite in anticipo di prodotti; alle requisizioni si aggiunsero anche le torture per estorcere il grano ai contadini che lo nascondevano. Visti i pessimi risultati economici di queste politiche, in alcuni momenti si scelse di andare nella direzione opposta. Si trattava di decidere se inasprire il controllo sociale e lo sfruttamento delle campagne per concentrare le risorse sullo sviluppo industriale, oppure stimolare le campagne a produrre di più attraverso opportuni incentivi. In poche parole se andare alla guerra civile contro la massa dei contadini […] oppure rafforzare attraverso l’accordo con esse la base sociale del potere sovietico. In realtà nel bolscevismo non si dava scelta. Le concessioni alla proprietà contadina, o alla libera espressione delle nazionalità e della società urbana, erano incompatibili con le imperiose necessità della guerra civile e con le strutture rigidamente militari e gerarchie che il regime si era dato. (Pag 53-54 tralasciate) CAPITOLO 3 IL PRINCIPIO NAZIONALE L’EUROPA DI WILSON L’8 gennaio 1918 le proposte complementari che accompagnavano il programma della pace nel mondo esposto in 14 punti affermavano che tutte le aspirazioni nazionali ben definite dovranno ricevere la soddisfazione più completa. I popoli e i territori non avrebbero dovuto essere oggetto di mercanteggiamento come fossero semplici oggetti o pedine di un gioco. Lo sviluppo autonomo delle nazionalità sarebbe avvenuto nel quadro liberale e democratico consentito dalla vittoria dell’Intesa sugli imperi autocratici e multietnici. Ponendo nazionalità, libertà e democrazia come fondamenti dei futuri assetti del mondo, Wilson ambiva a ridisegnare lo stesso sistema delle relazioni internazionali. I 14 punti invocarono la pubblicità dei trattati e a coronamento di questo nuovo assetto proponevano la costituzione di una società generale delle nazione che avrebbe regolato le relazioni tra Stati. Il progetto wilsoniano fu adottato come criterio guida dei trattati di pace. Il documento istitutivo della Società delle Nazioni, chiamato Covenant, aprì una serie di trattati di pace il 28 giugno 1919. La Società avrebbe avuto un’Assemblea di tutti gli Stati membri, sotto la guida di un Consiglio formato da cinque membri permanenti (vincitori della guerra) e quattro a rotazione, che avrebbero dovuto esprimersi sempre all’umanità. Il suo compito era quello di giuridificare i rapporti tra gli stati che s’impegnavano a sottropore ogni controversia a una corte arbitrale o a un regolamento giudiziario sotto l’egida della Società. La società delle nazioni, con sede a Ginevra, costituì un primo tentativo di regolamentazione formale del sistema internazionale a fini di pace. Voleva essere un rafforzamento a base democratica del sistema internazionale. Tuttavia fin dall’inizio fu evidente la debolezza della nuova istituzione. Innanzitutto poiché mancava l’adesione di alcune delle più importanti potenze: USA, il cui congresso giudicò eccessivo l’impegno europeo di Wilson e non ratificò il trattato; la Russia rivoluzionaria; la Germania; il Giappone. In questo modo la Società apparve dunque come uno strumento in mano alle potenze vincitrici europee. Inoltre mancava di strumenti operativi sia nei confronti dei propri membri, sia nei confronti di quegli Stati che avessero infranto le regole stabilite, i quali potevano al massimo subire sanzioni, o essere esclusi dalla società. La regolamentazione dei rapporti tra Stati nazionali era del resto un obiettivo molto difficile da raggiungere perché è in contrasto con il principio della statualità moderna e dunque con il carattere inevitabilmente anarchico del sistema internazionale. Ma secondo Wilson proprio quella regolamentazione avrebbe potuto far da contrappeso alla proliferazione di Stati indipendenti alimentata dal principio delle nazionalità. IL MEDIO ORIENTE L’impero Ottomano fu smembrato e degli antichi domini che si estendevano dal Nord Africa fino alla Mesopotamia, rimase solamente l’Anatolia turca. L’area chiamata Mediorientale, che si estende dalle coste del Mediterraneo fino ai confini con l’Afghanistan, era diventata economicamente rilevante fin dai tempi dell’apertura del canale di Suez, e lo divenne ancor di più negli anni Trenta con la scoperta di giacimenti petroliferi. Un altro elemento che attirava l’interesse degli europei era la Palestina, e in particolar modo Gerusalemme, città depositaria dei luoghi sacri delle tre religioni monoteiste. Fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento la Palestina aveva ospitato un’immigrazione ebraica che le autorità ottomane avevano debolmente contrastato e che le locali leggi sulla proprietà avevano favorito. A promuovere l’emigrazione aveva contribuito il progetto del giornalista austriaco Herzl che nel 1896 aveva dato alle stampe uno scritto intitolato Lo Stato ebraico e successivamente aveva fondato a Basilea un’Organizzazione sionista mondiale. Il termine sion rappresentava la terra promessa, la terra desiderata. Il sionismo era la manifestazione di una secolarizzazione della cultura ebraica che la avvicinava alla moderna rivendicazione di una patria territoriale nell’alveo della generale tendenza nazionalista. Era inoltre la reazione a una crescente pressione antisemita che stava percorrendo l’Europa. In risposta al congresso sionista del ’97, fu messo in circolazione un libello pubblicato in Russia nel 1903, Protocolli dei savi di Sion, in cui si presentava come autentico un piano ebraico di dominio del mondo da realizzarsi attraverso il controllo della finanza internazionale e la promozione di guerre e rivoluzioni. Successivamente fu dimostrato che i Protocolli erano un falso redatto dalla polizia segreta zarista. Dopo la guerra, i Protocolli cominciarono a circolare additando negli ebrei i responsabili oscuri del vortice finanziario e degli incubi bolscevichi che sconvolsero l’Europa. In fuga dall’Europa, molti ebrei stavano emigrando in Palestina, alimentando con la loro presenza i sentimenti antioccidentali di cui la penetrazione europea aveva gettata i semi fin dall’Ottocento. Mentre davano il loro appoggio agli interessi arabi, gli inglese si atteggiavano a protettori degli insediamenti ebraici. Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico trasmise alla Federazione sionistica una dichiarazione di simpatia per le aspirazioni ebraico-sionistiche nella quale si affermava che il governo di Sua Maestà vede con favore lo stabilirsi in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico; […] nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina. Per alcuni studiosi la presenza degli ebrei e la protezione loro accordata dagli ebrei, non potevano che rafforzare l’ostilità all’Occidente. I trattati di pace frazionarono l’area mediorientale in una serie di Stati sottoposti al regime dei mandati. Il mandato ad amministrare era un’ambigua formula istituzionale che in sostanza copriva un controllo di tipo coloniale. Il patto della Società delle Nazioni, volendo dare carattere universale ai suoi principi, si occupava delle colonie e dei territori che hanno cessato di essere sotto la sovranità degli stati che li governavano precedentemente e che sono abitati da popoli non ancora capaci di reggersi da sé. Ultimo dei trattati parigini, il trattato di Sévres firmato nel 1920, oltre ad imporre alla sovranità turca alcune limitazioni, riconosceva l’indipendenza del regno del Hijaz dove si trovavano la Mecca e Medina, con una rapida guerra ai suoi avversari, l’emiro Saud seppe unire a sé le tribù beduine adottando l’ortodossia wahabita, appoggiandosi sui custodi della religione, convincendo i beduini nomadi a farsi desentari e tessendo una rete di rapporti attraverso una politica matrimoniale, ovvero sposandosi e divorziando decine di volte. Nel 1927 raggiunse così l’unità della penisola alla quale nel 1932 fu dato il nome di Regno dell’Arabia Saudita. Il trattato di Sévres dava attuazione agli accordi cui erano giunti Sykes e Picot del 1907 spartendo la regione tra Francia e Gran Bretagna. Le due potenze ritagliarono degli Stati di nuova costituzione in base ai propri interessi.I francesi instaurarono delle repubbliche nelle loro aree e gli inglesi delle monarchie. Il modo in cui erano stati creati i nuovi Stati e il fatto che adottare una politica di annientamento delle minoranze armene, accusate di connivenza con la nemica Russia. Il 24 aprile 1915 a Costantinopoli venne dato l’ordine di arrestare tutti gli intellettuali, dirigenti, politici e religiosi della comunità, che furono imprigionati e giustiziati in tutto l’impero. Dopo un mese una legge di deportazione sradicò tutta la popolazione armena dell’Anatolia e la diresse verso il deserto siriano con una marcia forzata. Della vicenda l’opinione pubblica ebbe scarse notizie. Inoltre i rapporti dei tecnici tedeschi che lavoravano alla ferrovia Berlino-Baghdad furono tenuti segreti da Berlino. L’esito della guerra fu disastroso per l’Impero Ottomano come lo fu per gli Imperi Centrali. A fermare il disastro si levò un uomo forte, Kemal che era stato tra i Giovani Turchi e aveva combattuto prima contro gli italiani e poi nella Grande Guerra. Nella primavera del 1920 a capo del nuovo governo, non ratificò il trattato di Sévres e sconfesso il sultano che l’aveva firmato e avviò così una rivoluzione nazionale che promulgò una nuova costituzione. Nel 1922 abolì il sultanato e mandò in esilio l’ultimo sovrano. Kemal riconquistò Smirne e nell’ottobre proclamò la Repubblica. Il regime kemalista è un caso emblematico di occidentalizzazione riuscita di un paese mussulmano. Kemal riprese le riforme del Tanzimat. Dopo aver sciolto i partiti impose al paese una secolarizzazione forzata, destinata a mutarne anche i costumi e al morale comune. Adottando la separazione tra sfera civile e sfera religiosa, abolì il califfato, impose il pensionamento alla gran parte degli Ulama, fu introdotto il matrimonio civile. La legge coranica fu ammessa nella sfera privata, ma in quella civile prevalsero le leggi dello Stato e i nuovi codici (penale=scuola italiana; Civile=scuola svizzera; Commerciale=scuola tedesca). La capitale fu spostata da Costantinopoli (Istanbul) ad Ankara; il copricapo maschile e il velo per le donne furono banditi. Il caso della Turchia mostra come la creazione di uno Stato nazionale dal seno dio un antico impero multinazionale potesse richiedere una fortissima azione di intervento e di disciplinamento sull’intera società, nonché un’opera di purificazione etnica che poteva implicare persecuzioni e violenza di massa. Già durante le guerre balcaniche centinaia di migliaia di persone furono messe in fuga, massacrate e deportate. E per la prima volta venne firmato un accordo tra due stati per lo scambio delle rispettive popolazioni di confine. Gli accordi che consentirono di arrivare a un trattato di pace cancellarono la questione armena dall’agenda internazionale, e il popolo armeno divenne un popolo di senza patria, di apatrides. La loro condizione è un’altra condizione tipicamente moderna, prodotta dal processo di costruzione nazionale che finisce con generare la categoria dei profughi. La tragedia armena viene oggi intesa come il primo e clamoroso esempio di queste vicende. EGITTO, AFGHANISTAN, PERSIA Fermenti nazionali e tentativi di ammodernamento europeizzante coinvolsero anche altri Stati indipendenti dell’area arabo-mussulmana. È caso dell’Egitto, all’epoca il paese più vivace e ricco di fervore che ospitava sul suo territorio in canale di Suez, passaggio decisivo per il traffico internazionale. Ancora prima della guerra, gli inglesi avrebbero voluto trasformarlo in protettorato e deposero il viceré. Passata la guerra, gli egiziani inviarono una delegazione alla conferenza di Versailles nella speranza di vedere accolte le proprie speranze di autonomia. Gli inglese arrestarono il capo della delegazione e dl movimento nazionalista. Dopo tre anni di fermenti e proteste, nel 1922 gli inglesi cedettero e unilateralmente dichiararono l’Egitto una monarchia indipendente sotto il sovrano Faud. Da allora e fino al colpo di stato, l’Egitto ebbe un governo semiliberale, non confessionale, ma all’ombra della tutela inglese e retto da un regime autocratico: la costituzione del 1923, che per qualche tempo fu anche sospesa, dava ampi poteri al sovrano. Il figlio di Fauf, Faruk rappresentava bene un tipo di reggenza postcoloniale poco illuminata e filoccidentale. Interessato agli svaghi europei, inteso a governare senza il parlamento, Faruk mostrava una certa insofferenza per la tutela inglese e si atteggiava a protettore laico dell’islam con vaghe prospettive panarabe coltivando qualche simpatia per la Germania nazista. Nel partito del Wafd come al governo, contavano anche i cristiani copti, gli eredi dell’antica élite prearaba. La fragilità del regime e la sua subordinazione coloniale alimentavano l’effervescenza degli ambienti arabo-mussulmani, che si facevano portavoce di un diffuso desiderio di rigenerazione religiosa e morale. Nel 1928 fu fondata in Egitto la Fratellanza musulmana, fautrice di pratiche spirituali rinnovate, d’ispirazione salafita. Rifacendosi alla Salaf, i salafiti rappresentavano insieme al wahabismo un orientamento purista risalente all’Ottocento. Il movimento promuoveva un intenso impegno nel campo sociale che aveva immediati esiti politici: il fondatore sosteneva che il Corano doveva diventare la costituzione dello Stato Islamico. L’Afghanistan e la Persia erano entrambi collocati in un crocevia strategico che univa la Russia a Nord e il subcontinente indiano a Sud. Per questa posizione l’Afghanistan era stato oggetto di un’interrotta pressione britannica costata all’Inghilterra anche la cocente sconfitta subita nella prima guerra anglo afgana nel 1839-42. Dopo una seconda guerra nel 1878-80 gli inglesi si accordarono con i russi per disegnare i confini del regno e ne controllarono la politica estera. Rimasto neutrale durante la Prima Guerra Mondiale, nel 1919 provocò ai confini dell’India una terza guerra angloafgana che consigliò agli inglese di rinunciare alla loro ingerenza diretta. Cominciò sotto il regno di Khan un ammodernamento del paese che espressamente richiama le riforme kemaliste ma incontrò una tenace opposizione nel paese. Maggiore successo incontrò l’ammodernamento della Persia. Per le caratteristiche della dottrina il clero sciita esercitava nel governo del paese un ruolo maggiore di quanto non avvenisse nel resto dell’islam. E il clero persiano era nella maggioranza ostile a ogni innovazione, a riforme occidentalizzanti. D’altra parte la casa regnante e i grandi proprietari suoi alleati apprezzavano dell’Occidente il lusso e la facilità con cui dispensava crediti in cambio di concessioni. I governanti persiani avevano accettato forti ingerenze straniere, inglesi soprattutto. Le proteste dei ceti mercantili, i bazar, si saldarono con quelle degli intellettuali e dalla parte più attiva dello stesso clero sciita. Dopo anni di forte instabilità politica le proteste erano sfociate nella rivoluzione costituzionale del 1905-08, quando un vasto movimento d’opinione riuscì a limitare il potere assoluto della monarchia e a ottenere la concessione di una costituzione di stampo europeo. L’esperimento ebbe breve durata, anche per la debolezza della dinastia di fronte ai poteri dei capi tribali e alle interferenze delle potenze straniere, i cui interessi evitarono dopo la guerra il regime mandatario. Agli inizi del Novecento, si può far risalire la nascita di un movimento che forse dava voce a una più profonda vocazione dell’animo indiano contrapposta agli schieramenti occidentalizzanti. Ne fu iniziatore K. Gandhi, detto successivamente Mahatma. Dopo aver studiato legge a Londra fu mandato in Sudafrica per una causa proprio quando gli indiani furono privati del diritto di voto. Gandhi abbandonò il Sudafrica e la sua professione per dedicarsi alla lotta contro tutte le discriminazioni e contro gli aspetti più crudi del razzismo bianco. Il rifiuto di Gandhi di sottomettersi alle discriminazioni può essere considerato l’atto di nascita del movimento nonviolento, un metodo di lotta inteso a esprimere una condanna radicale del rapporto coloniale e della stessa civiltà occidentale. Al suo primo incontro con Ali Jinnah, avvocato di Bombay e presidente della Lega Musulmana, Gandhi lo interruppe pregandolo di abbandonare il suo forbitissimo inglese per i gujarati. Da allora non perse occasione per differenziarsi dall’élite politica occidentalizzante anche con lo stile di vita austero. La sua immagine è legata all’abbigliamento da lui scelto da quando nel 1921 propagandò la filatura manuale di un tempo. La nonviolenza e la testimonianza personale furono per decenni strumenti di una battaglia che Gandhi seppe condurre ben addentro l’intreccio delle relazioni politiche che correvano tra il Congresso, la Lega Musulmana, il raj britannico e il governo di Londra. Con l’obiettivo di conquistare l’indipendenza, lanciò varie campagne di non cooperazione con gli inglese studiando le forme più varie di boicottaggio. Dopo la prima guerra mondiale, le lotte contro gli inglesi guadagnarono nuovi adepti e all’interno del Partito del Congresso si formò un gruppo che sosteneva la richiesta di indipendenza con forti accenti antimperialisti di sapore socialista. Gandhi fu allora incaricato dal partito di guidare una campagna di disobbedienza civile e per protestare contro l’odiosa tassa sul sale guidò una celebre marcia che lo portò fino al mare. Gandhi finì a lungo in carcere, dove minacciava il potere rischiando la sua stessa vita con lo sciopero della fame. Nel 1933 un intellettuale di Cambridge che studiava legge, unendo alcune iniziali delle province dell’India occidentale a maggioranza musulmana coniò la parola Pakistan, nome di particolare efficacia perché in urdu la parola pak vuol dire puro: il Pakistan sarebbe stata la terra dei puri. Jinnah utilizzò quest’idea per tornare alla ribalta dopo vari insuccessi politici: nel 1940 formulò la proposta di costituire uno Stato musulmano separato sostenendo che musulmani e indù appartenevano non solo a due religioni diverse, ma anche a due diverse nazioni. CAPITOLO 4 DEMOCRAZIE E ANTIDEMOCRAZIA UNA PACE CARTAGINESE Grave fu l’instabilità cui dettero luogo i trattati di pace nel cuore d’Europa e in particolare in Germania, che la Francia voleva ridimensionata. Il trattato di Versailles fu durissimo e a leggerlo Lord Keynes in guardia dagli effetti disastrosi che potevano derivare da una simile pace cartaginese (ingiusta e umiliante). Il trattato era animato da uno spirito di punizione e quasi da vendetta da parte dei vincitori nei confronti della potenza imperiale tedesca. La Germania fu obbligata a riconoscere che essa e i suoi alleati erano responsabili, per esserne la causa della e a riparare tutti i danni causati alla popolazione civile di ciascuna delle potenze alleate; si richiese di perseguire giudiziariamente come criminali di guerra i responsabili, compreso il Kaiser. L’anno seguente fu stabilito che i pagamenti tedeschi sarebbero dovuti andare per il 52% alla Francia, per il 22% alla Gran Bretagna, per il 10% all’Italia e per l’8% al Belgio. L’Alsazia e la Lorena furono restituite alla Francia. Alcune province prussiane furono attribuire alla rinata Polonia, alla quale fu garantito l’accesso al mare creando in territorio tedesco un corridoio che separava la Prussia orientale dal resto della Germania giungendo alla Danzica, dichiarata città libera. Alla Germania fu imposto di mantenere una marina e un esercito di dimensioni ridotte e di abolire il servizio di leva. La valle del Reno, la Renania, doveva essere smilitarizzata. La volontà di penalizzazione economia si sovrappose alla rivincita nazionale delle regioni che erano state inglobate nel Reich; la Germania perse il 13% del suo territorio, incluse alcune aree industrializzate. RIFONDAZIONE COSTITUZIONALE Un’ulteriore fonte di instabilità fu il rinnovamento degli assetti politici e costituzionali che seguì la fine della guerra. Riprendendo i modelli politici ottocenteschi, i nuovi Stati si dotarono di costituzioni. Inoltre si dichiararono repubbliche. Le repubbliche non potevano essere che democrazie. Con la scomparsa delle autocrazie e degli imperi sembrava che fosse definitivamente cancellato quanto dell’antico regime fosse instaurato il governo del popolo. L’articolo 1 della costituzione tedesca si riaccesero in diverse città e si accentuò la polarizzazione elettorale delle forze politiche, con un’estrema destra e un’estrema sinistra sempre nemiche della repubblica. Il carattere parlamentare della costituzione rimase solo teorico, e accanto ai partiti continuarono ad avere un ruolo decisivo, l’alta burocrazia, le varie associazioni e le alte gerarchie militari. Durante i lavori dell’assemblea costituente si svolse la conferenza di Versailles e le dure condizioni imposte alla Germania infiammarono l’opinione pubblica. Il Reichstag e il governo di Ebert furono costretti a sottoscrivere il trattato incondizionatamente e ciò contribuì a diffondere l’idea di una repubblica figlia della sconfitta e del tradimento. In tutto il paese crebbe la propaganda antibolscevica e antisemita. In questa situazione bastò l’ordine di scioglimento di uno dei Corpi franchi perché la destra prendesse il potere a Berlino e proclamasse la dittatura militare. Ma il Putsch (colpo di stato) fu represso manu militari. Il Putsch indica qualcosa di diverso da una rivoluzione ed è opera di poteri statali e tende a sovvertire il regime illegalmente e con la violenza. Mentre i governi cercavano di rispondere al Diktat di Versailles, la situazione interna peggiorava drasticamente. L’anno decisivo fu il 1923, quando gli eventi si susseguirono a ritmo incalzante, reso febbrile da un’inflazione. Il rapporto tra il marco e il dollaro era di 1 a 4,2 bilioni. Quali furono le cause e gli effetti di questa tempesta? La Germania aveva finanziato la guerra attraverso crediti e la crisi coinvolgeva i rapporti tra gruppi sociali, banche e detentori di capitale finanziario. La caduta del marchio colpi la classe media della popolazione e consentì altri profitti all’industria favorendo azzardate speculazioni. Per gli stranieri la Germania divenne il terreno di ogni avventura, ma nello stesso tempo l’incertezza della vita quotidiana sovvertì valori e certezze. Furono anni di sommovimento sociale e culturale molto profondo, è impossibile distinguere quanto fu dovuto ai postumi della guerra o al trauma monetario. Nella dinamica del trauma finanziario, aveva un ruolo centrale il peso sostenibile delle riparazioni da pagare, mentre l’attacco ai redditi rendeva più visibile e scandaloso il debito. Il governo sospese i pagamenti del debito e a questo punto la Francia decise di assumere il controllo del distretto della Rurh. L’11 gennaio 1923 truppe franco belghe attraversarono il confine e si aprì la guerra della Ruhr, con appelli di resistenza, boicottaggi e scontri che si intrecciavano con agitazioni patriottiche e spinte secessioniste di vari Stati della federazione, al grido “Los von Berlin!” (Stacchiamoci da Berlino!). Il 24 giugno due ufficiali dell’esercito assassinarono Walter Rathenau, grande industriale ebreo antisionista che aveva negoziato con l’Unione Sovietica il trattato di Rapallo; era colpevole di essere ebreo e favorevole al negoziato con la Francia. Nel frattempo a Monaco gruppi di destra stavano preparando un colpo di stato diretto a conquistare il potere in Baviera e poi di marciare su Berlino. A organizzare il Putsch di Monaco, accanto a Ludendorff c’era anche Hitler che aveva combattuto la prima guerra e entrato a far parte di un piccolo Partito Nazionale di Lavoratori Tedeschi che a Monaco era in stretto contatto con lo stato maggiore e i Corpi Franchi; nel ’20 formulò il programma di un nuovo Partito Nazionalsocialista Tedesco (NSDAP). Hitler venne arrestato nel fallito Putsch e nel suo soggiorno in galera scrisse il Mein Kampf, un misto di biografia, riflessione ideologica e manuale di agitazione. Più che un programma era una visione che delineava uno spazio vitale necessario al Volk germanico per coltivare la sua purezza razziale estirpandovi gli elementi antinazionali. Una volta uscito di prigione, si dette a riorganizzare la galassia dell’estrema destra dimostrando carisma e capacità oratorie. Hitler si rese conto che non poteva conquistare il potere della Germania senza un vasto consenso popolare. Gettò le basi di un nuovo tipo di partito che faceva largo uso della violenza ma in forma pianificata, un partito che faceva abile uso della propaganda nel rivolgersi alle masse tramortite dalla crisi economica e si dotava di un proprio corpo militare (SA). Nel febbraio 1925 il presidente Ebert morì e tutti i maggiori partiti presentarono un proprio candidato alla carica, e nessuno raggiunse la maggioranza necessaria. Poiché al secondo scrutinio era possibile presentare nuovi candidati: i gruppi di destra presentarono Hindenburg che vinse larghi consensi. In realtà Hindenburg all’inizio del suo mandato agì con correttezza istituzionale e non fece uso eccessivo dei poteri presidenziali. Fu quella l’epoca d’oro di Stresemann, un periodo di continui miglioramenti e di parziale stabilità del sistema. La Germania di Weimar conobbe un’eccezionale fioritura intellettuale che vide giungere a maturazione il fermento culturale già vivo nell’ultimo periodo guglielmino. Era inoltre la stagione europea del modernismo e delle avanguardie culturali che tennero dietro agli sconvolgimenti della guerra. La Germania ne fu il primo punto di riferimento, tra i simboli di quella stagione fu il movimento del Bauhaus, la scuola di architettura e arti decorative di Walter Gropius. La Germania dette all’Europa il contributo di figure straordinarie nel campo artistico, musicale, della letteratura e del teatro. Intanto la situazione economica e politica del paese continuò a migliorare. Vennero ripresi i pagamenti di debiti di guerra. L’economia si riprese e si distesero i rapporti con la Francia. Nel 1922 vennero firmati a Washington gli accordi per la sicurezza del Pacifico e dell’Asia Orientale; nel 1925 fu firmato a Locarno un accordo che impegnava Francia, Belgio e Germania a non violare le comuni frontiere, Italia e Inghilterra se ne fecero garanti. In questo periodo la Germania ritornò sulla scena internazionale e fu accolta nella Società delle Nazioni. Nell’agosto del 1928 venne firmato a Parigi un accordo che impegnava i firmatari a non ricorrere alla guerra per risolvere conflitti o dispute. Nel 1929 venne formulato il piano Young per ridurre le riparazioni di guerra a carico dei tedeschi. Fu proposta una rateizzazione dei debiti, in base alla quale la Germania avrebbe pagato aliquote dilazionate fino al 1988. La Germania democratica sembrava avercela fatta. FASCISTI Il termine Fascio aveva ascendenti nella Roma classica. Fasci di verghe strette da una cinghia unite a una scure erano segno dell’autorità giudiziaria: le verghe evocavano la fustigazione e la scure la decapitazione. Nel 1918 un gruppo di deputati unitisi per reagire a Caporetto si era chiamato Fascio parlamentare. Fascio voleva dire associazione e non aveva particolare connotazioni ideologiche. Dopo aver già creato i Fasci di azioni rivoluzionaria a sostegno della causa interventista, nel marzo del 1919 Mussolini fondò l’organizzazione Fasci di combattimento. I “nuovi” fascisti erano di provenienza diversa, animati da uno spirito eversivo, elitario e socialistoide. La prima sortita fascista fu nell’aprile 1919 e si trattò dell’assalto e della distruzione della sede dell’ ”Avanti”, giornale socialista che aveva diretto Mussolini. Il movimento era figlio della guerra, i suoi adepti indossavano la camicia nera degli arditi. I fascisti si vantavano di picchiare gli avversari con il manganello e di costringerli a bere olio di ricino; avevano la pistola e non esitavano ad utilizzarla. Agivano in squadre, viaggiando in camion scoperti come le truppe, e chiamavano le loro scorrerie “spedizioni punitive”. Inizialmente raccolsero illimitati consensi, ma il ricorso aperto alla violenza antisocialista e agli appelli nazionalisti promettevano loro una platea molto più ampia. Di fronte a queste tensioni e violenze, la classe dirigente italiana non seppe trovare una linea d’azione condivisa e risoluta. sull’Aventino”, protesta che ricordava l’opposizione della plebe romana nel 404 a.C. Il 3 gennaio Mussolini disse alla Camera che si assumeva tutte le responsabilità di quanto accaduto. Alla legge elettorale del ’24, ne seguì un’altra, approvata nel 1928, che creava un collegio unico nazionale e un’unica lista di 400 deputati, che l’elettore poteva solo approvare o respingere il blocco. Si trattò di un meccanismo plebiscitario che negava al regime una legittimazione popolare. Le elezioni plebiscitarie dovevano avere un significato politico, dovevano sollecitare l’adesione corale al regime, dovevano essere una periodica acclamazione la cui eventuale mancanza non avrebbe inciso sulle sue sorti, come si voleva precisare riproducevano le vecchie procedure elettorali per organizzare un’adesione che in realtà assai meglio si esprimeva nelle adunate di massa nelle quali Mussolini usava l’arma retorica dell’interrogativo e otteneva entusiastici consensi. Fin dal 1922 ampi poteri legislativi furono delegati al governo, e anzi al capo del governo, primo ministro e segretario di Stato, come fu denominato Mussolini. Nel 1928 fu istituzionalizzato un organo non previsto dallo statuto, il Gran Consiglio del Fascismo, operativo già dal 1923. Benché l’organo avesse scarse funzioni la sua costituzionalizzazione segnalava la compenetrazione di Stato e partito, l’unico partito ammesso era il partito nazionale fascista (PNF). LA VOLONTÀ TOTALITARIA Nella primavera del 1923, di fronte ai primi provvedimenti del governo un oppositore liberale, Giovanni Amendola, aveva accusato il governo di avere delle pretese totalitarie. La nuova parola era piaciuta a Mussolini, che parlò con compiacimento di feroce volontà totalitaria del fascismo. Da quel momento il fascismo si definì totalitario, e Gentile ne formulò la dottrina, che doveva sostenere le politiche autoritarie del fascismo e il suo costante appello all’autorità dello Stato, uno Stato etico di ascendenza spiritualiste entro il quale soltanto si doveva affermare la libertà dell’individuo, quella dell’uomo reale e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo. Una pretesa totalitaria caratterizzava il fascismo. Questa pretesa ebbe molti limiti: lo statuto del 1848, benché svuotato di contenuto, non fu formalmente abrogato. Né fu abolita la monarchia, cosicché il re continuò ad essere il capo dello Stato. Le sue prerogative statutarie furono però profondamente compromesse e si andò creando una sorte di diarchia tra i due vertici dello Stato, diarchia che fu sottolineata allorché con la proclamazione dell’Africa Orientale Italiana il duce e il re furono elevati a una carica nuova, quella di primo maresciallo dell’impero. Il fascismo non volle, o non poté, realizzare appieno le sue aspirazioni rivoluzionarie e alienarsi l’appoggio degli ambienti più conservatori o reazionari. Un segnale ancor più forte di questa ambivalenza lo fornirono i rapporti con la Chiesa cattolica, il cui conflitto con lo stato liberale era tutt’ora irrisolto. La chiesa rappresentava un potere diffuso e autorevole, radicato nella cultura e nelle articolazioni più profonde della società italiana. Il secolare conflitto tra Chiesa e Stato fu risolto con lo strumento classico del concordato, in questo caso i Patti Lateranensi. I patti furono firmati l’11 febbraio 1929 a poche settimane dalle elezioni politiche al cui successo plebiscitario la Chiesa dette un contribuito decisivo. Con i patti veniva formalmente costituito lo Stato della Città del Vaticano, con le prerogative di soggetto indipendente di diritto internazionale, e garantito alla Chiesa il libero esercizio del potere spirituale con un’ampia autonomia che si estendeva a fondamentali opere di associazione, apostolato e formazione. La conferma del dettato statuario per il quale la religione cattolica apostolica romana era religione di Stato, il cui insegnamento obbligatorio nelle scuole era di esclusiva pertinenza della Chiesa. Con questi patti Mussolini aveva dovuto stemperare in senso conservatore tradizionalista le componenti laiche-rivoluzionarie del suo messaggio. Venuto a patti con la Chiesa e dichiarando di rispettare nel cattolicesimo la religione dei padri perché in essa era il collante profondo della società italiana e dunque una garanzia di stabilità e di ordine, per altri versi il fascismo presentava i tratti di una religione. I teorici del regime affermavano che il fascismo era una religione dello Stato, di uno stato che ripudiava la neutralità in materia di valori e credenze che connotava i processi di secolarizzazione. Quella fascista era una politica integrale, la quale non si distingue così dalla morale, dalla religione e da ogni concezione della vita. Lo stato fascista è educatore e promotore della vita spirituale. Vuole disciplina e autorità. In concorrenza con la chiesa, il regime plasmò il suo partito, di volta in volta indicato come un seminario, una chiesa, un ordine religioso militare consacrato al mito mussoliniano sul modello della Compagnia di Gesù, fino al punto che nel 1923 fu decretato che ogni Casa del Fascio dovesse avere una torre littoria mutica di campane da suonare in occasioni di riti del regime. Con questi caratteri il fascismo divenne un modello di riferimento per altri movimenti simili in tutta Europa:  Ungheria (con il regime di Miklòs Horthy)  Germania (con il regime di Hitler)  Polonia  Finlandia  Estado Novo in Portogallo  Spagna (con il regime di Franco) 1929. GLI STATI UNITI DALL’EUFORIA ALLA DEPRESSIONE Gli Stati Uniti erano stati determinati nelle sorti della guerra mondiale. Gli USA non dovevano ricostruire né riconvertire la loro struttura produttiva rimasta intatta, e potenziata dall’impegno bellico, cosicché le loro risorse poteva orientarsi su nuovi investimenti e sull’innovazione. Il centro dell’economia mondiale aveva attraversato l’Atlantico. L’America vittoriosa ritrovò il suo spirito isolazionista. Nel 1920 gli Stati Uniti non ratificarono né il Trattato di Versailles né l’adesione alla Società delle Nazioni. Dopo il mandato di Wilson i repubblicani vinsero le elezioni e si aprì una fase di chiusura e anche di paura di contaminazione. Al protezionismo industriale si accompagnarono restrizioni all’immigrazioni e discriminazioni verso le minoranza. Appartengono a questo periodo sia la rinascita del Ku Kulx Klan, il movimento razzista bianco che praticava la violenza verso i neri. Dal 1919 al 1933 fu poi in vigore il proibizionismo, che vietava la fabbricazione e la vendita di alcolici, sul quale fiorì una industria clandestina. distribuzione del reddito che favoriva i ricchi e i ricchi investivano o i beni di lusso o in beni capitali, gonfiando l’attività della borsa. Negli anni Venti il mondo degli affari americano aveva spalancato le porte a una selva di finanzieri, promotori di società, sacerdoti della moltiplicazione. I grandi profitti dell’intermediazione finanziaria e l’iperattivismo della borsa impresse ritmi vertiginosi agli acquisti e alle vendite. Quando un giorno dell’ottobre 1929 alla borsa di New York i prezzi iniziarono a calare, molti decisero di vendere, il giro di titoli trattati si fece vorticoso, si diffuse il panico. Tra il giovedì 24 ottobre 1929 e il martedì successivo le quotazioni sprofondarono. In pochi giorni il crollo della borsa si trasmise alle banche e alla produzione industriale. Gli investitori ebbero perdite pesantissime. Nei tre anni seguenti due ondate di fallimenti bancari coinvolsero circa 9.000 istituti americani. Le imprese diminuirono, il blocco del credito colpì i mutui immobiliari, il prezzo delle case cadde rapidamente. Si verificò una crisi di deflazione, ovvero una caduta generalizzata dei prezzi, con il crollo del commercio internazionale e della produzione interna. Un più grave punto critico dell’economia americana riguardava la sua bilancia commerciale e dei pagamenti, cioè il rapporto tra importazioni ed esportazioni, di merci e di capitali, e dunque la collocazione internazionale della sua economia. In Europa gli Stati Uniti erano i maggiori dispensatori di aiuti, è del 1924 il piano Dawes che avviò a soluzione la questione dei debiti di guerra tedeschi. Ma con gli aiuti che arrivavano gli europei acquistavano prodotti americani mentre non potevano esportare i loro. Con la crisi, USA rallentò il flusso di aiuti, i capitali investiti in Europa furoo ritirati, le esportazioni diminuirono. Nel maggio del 1931 il fallimento di Credit-Anstalt fu il segnale di un collasso generalizzato che presto raggiunse drammaticamente la Germania. Se prima della guerra il mercato era incentrato su Londra, ora non era più così; alla conferenza economica mondiale del 1933 fu chiaro che UK aveva abbandonato il ruolo di guida mondiale, scegliendo di gestire il Commonwealth e di amministrare liberamente la sterlina, lasciando in gran parte all’USA la responsabilità di fornire al mondo un programma. USA non era attrezzata e non seppe assumere quel compito. Uno degli elementi che emergono nella crisi riguarda la congiuntura di transizione da un sistema incentrato su Londra e su una sterlina ancorata all’oro a un altro che si sarebbe affermato attorno a New York e Washington e al dollaro. Il crollo del ’29 mise in modo una discesa profonda, che durò tre lunghi anni, sconvolse la società americana e raggiunse un’Europa che stava attraversando una fase di grave incertezza e da lì si propagò in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, il prodotto nazionale crollò di un terzo. La produzione industriale si ridusse a meno della metà e gli investimenti privati a un settimo. L’intero paese fu segnato dalla desolante miseria dipinta nel 1939 da Steinbeck nel suo romanzo The Grapes of Wrath. Tutto il popolo americano fu colpito dalla crisi, chi perse il posto, chi vide dimezzare il proprio salario. Per riscaldarsi le persone utilizzavano il frumento perché meno costoso del carbone. In trenta Stati fu legalmente introdotto il baratto. Nel 1931 fu inaugurato l’Empire State Building, l’edificio più alto al mondo, segno dell’ardimento e della ricchezza americana poiché venne costruito in poco più di un anno. Prima in USA era esplosa l’euforia e ora la depressione, entrambi i termini indicano due disturbi mentali. Il presidente Hoover disse che ciò di cui l’America aveva bisogno era una risata, ma nessuno riusciva a ridere. L’ONDA D’URTO Fenomeni simili avvennero in tutta Europa, dove crollarono le borse e si contrassero i depositi bancari. La trasmissione della crisi e dello scenario di delazioni tra le due sponde dell’Atlantico, derivò anche alla decisione di mantenere l’ancoraggio all’oro, che era stato ripristinato dall’Inghilterra nel 1925. Tutto ciò generò in vari paesi tensioni sociali e politiche che alla fine impressero alla storia del continente una svolta radicale con la diffusione di regimi dittatoriali e l’avvio verso una nuova grande guerra. In Francia la cristi tardò un paio d’anni a farsi sentire, grazie alla solidità dell’economia, ma anche a una certa stagnazione come è testimoniato dagli scarsi investimenti, dal basso volume delle esportazioni. Quando arrivò, nel 1931 la crisi colpì duramente, la produzione diminuì del 20%. Il disagio sociale esplose attivando energie e stati d’animo latenti nella storia della Terza Repubblica ed esasperandone i toni. L’instabilità politica caratterizzata una costituzione che per allontanare gli spettri del cesarismo conferiva forti poteri all’Assemblea. La crisi moltiplicò i gruppi ostili al governo l’Action française in testa a tutti, con il suo discorso antisemita, nazionalista, antidemocratico, ma anche un Fronte contadino di sapore fascista, un partito nazionalsociale di simpatie hitleriane. Nel 1932 vinse le elezioni un’alleanza di sinistra e nei due anni seguenti vi furono ben sei diversi governi di impronta radicale. Agli inizi di febbraio del ’34 a Place de la Concorde si concentrò una gran folla di monarchici, fascisti, ma anche comunista e disoccupati, ciascuno per un conto sdegnato per gli scandali, minacciato dalla crisi economica, deluso dalla democrazia. Gli scontri con la polizia, gli attacchi e i contrattacchi durarono fino a notte inoltrata. Fu appiccato il fuoco al ministero della Marina dove morirono 15 persone e Deladier, il primo ministro, diede le dimissioni. Anche in UK soffiavano venti di destra, nel 1929 vinse le elezioni il Partito laburista guidato da MacDonald che formò una maggioranza con i residui dei Partiti liberali ma non aveva un programma per combattere la crisi. Uno dei suoi viceministri Mosley con l’aiuto di Keynes elaborò un programma d’interventi pubblici che avrebbe rivoluzionato la tradizionale concezione non interventista condivisa da MacDonald con tutti i liberalisti del tempo che induceva a pensare che non si potesse far nulla d’incisivo di fronte alla crisi. La disoccupazione cresceva e bisognava sanare il bilancio e nel 1931 MacDonald annunciò l’aumento delle tasse, la riduzione dei salari. Il suo partito minacciò di toglierli il consenso e andò a presentare le sue dimissioni al re, ma ne tornò con l’incarico di formare un governo di unità nazionale; tuttavia i sindacati rifiutarono i sacrifici proposti dal suo governo, MacDonald abbandonò il Partito laburista. Fu la fine della sua vita politica. Mosley fondò con la benedizione di Mussolini una British Union of Fascists e si mise ad organizzare marce e affollati raduni. Il 7 giugno del 1934 raccolse 12.000 persone. In Italia si era anticipata la svolta autoritaria e non fu sconvolta politicamente. Ma gli effetti economici furono pesanti. Il governo fascista aveva infatti adottato una politica economica liberalista di sostegno all’impresa privata alleggerendo le tasse sulle imprese. Nel 1925 un nuovo ministro delle Finanze, Volpi, adottò una politica di segno opposto, fondata sul protezionismo. Un inasprimento del dazio sui cereali fu accompagnato da un’appariscente campagna. Il panorama dell’Italia fascista fu segnato dalle strade, le ferrovie, gli edifici pubblici. A sostegno dell’industria colpita dalla crisi fu allora creato un apposito Istituto per la ricostruzione Quella di Hitler fu una rivoluzione generazionale e insieme a una rottura di civiltà senza precedenti. Il NSDAP si propose come forza giovane, come la generazione del fronte. Benché Hitler si fosse ispirato anche al fascismo italiano, il regime instaurato in Germania se ne differenziò per molti aspetti, offrendo una più profonda incarnazione del totalitarismo che era stato formulato nella lingua italiana. La distruzione alla radice dell’ordine democratico di Weimar fu opera di pochi mesi: Hitler fu nominato cancelliere il 30 gennaio 1933, il 1° febbraio fu sciolto il Parlamento che venne incendiato il 27 febbraio e il 28 febbraio furono sospesi i diritti costituzionali, comunisti e oppositori furono arrestati e il 21 marzo fu aperto Dachau, il primo campo di concentramento (Konzentrationslager). In aprile venne creata la polizia segreta di stato, la Gestapo (Geheim Staatpolizei) che era incaricata di trovare gli oppositori da imprigionare. Una legge del 24 marzo conferì al governo i pieni poteri legislativi, ordinari e costituzionali e può essere considerata come l’atto di fondazione del Terzo Reich. La Germania abbandonò il diritto, il Führer (Hitler) divenne la fonte suprema del diritto. Ottenuti i pieni poteri Hitler, procedette al coordinamento di tutti i gangli della vita politica e sociale, con gli scopi nazionali del popoli. In NSDAP fu l’unico partito riconosciuto e i suoi membri furono sottratti alla legislazione ordinaria. Stato e Partito si identificarono e nel marzo 1933 fu deciso che accanto alla bandiera nero-bianco-rosso del Reich dovesse essere issata la bandiera con la croce uncinata. TOTALITARISMO Il Terzo Reich era un regime dominato da un partito unico che aveva penetrato i poteri statali, trascendeva ogni precedente assetto giuridico e costituzionale, non riconosceva alcuna realtà associativa. Comuni a bolscevismo e nazismo furono l’arbitrio, la violenza di massa, lo sterminio d’interi gruppi nazionali o sociali, la lotta alle Chiese, la pretesa di costruire un ordine interamente nuovo che seppellisse per sempre l’odiato regime borghese, con le sue logiche individualistiche, il suo appello al diritto, alle procedure, all’eguagliante formale, alle libertà, alle logiche del mercato. Il concetto di totalitarismo rinvia a quei fenomeni di coinvolgimento totale degli individui e della società intera nei processi di trasformazione, mobilitazione o rinnovamento che possono essere visti come intrinseci alla modernità sin dalla rivoluzione francese. A quella stagione rivoluzionaria possono essere fatti risalire anche altri aspetti totalitari della modernità. Possiamo però solamente parlare di totalitarismo soltanto per il XX secolo, quando nuove tecniche di intervento massivo sull’intero corpo sociale già sperimentate nella prima guerra mondiale consentirono di applicare concretamente e capillarmente un progetto totalitario a milioni di individui, senza controllo o possibilità di resistenza, classificando i singoli come i gruppi sociali, di genere o generazionali inquadrandoli e indottrinandoli. A ciò si aggiunga che i totalitarismi del Novecento nacquero al di fuori del nucleo originario della civiltà borghese-liberale e si proposero ad edificare il loro ordine nuovo proprio sulle ceneri dell’universo individualista- liberale e democratico, egualitario, pragmatico e materialista. Le visioni che del totalitarismo mettono in primo piano la portata coercitiva, l’aggressione all’ordine sociale, tendono a trascurare il consenso di cui i regimi totalitari godettero e di cui furono anche espressione. Ci fu un bisogno di totalitarismo, una fuga dalla libertà presso società che avevano visto andare in pezzi l’ordinamento sociale antico. A esprimere questo concetto fu nel 1930 José Ortega che la considerava una ribellione contro il destino, proprio dell’uomo, di essere guidato, diretto da istanza superiori. Ortega non apprezzava questa ribellione e avvertiva che avrebbe portato a sottomissioni ancor più profonde e irrazionali. Anche per questo i regimi poterono sviluppare in profondità in profondità la pretesa totalitaria inizialmente vantata dai teorici del fascismo e poi dei numerosi regimi che vi si ispirarono. Molti storici esitano a includere i regimi spagnoli e portoghesi nel novero dei totalitarismi sottolineando che essi ebbero un progetto non tanto totalitario, quanto piuttosto autoritario nel senso più tradizionale e tirannico. Molti centri di potere tradizionali seppero resistere a quella pretesa, o vi si allearono, traendone vantaggi. D’altra parte la complessità raggiunta dall’azione pubblica nel Novecento richiedeva un’articolazione dei poteri che difficilmente corrispondevano all’ideale unicità del comando centrale. Più forte fu l’energia distruttiva del nazismo. Eppure Hitler venne a patti o si alleò con diversi centri di potere, sia all’interno del suo movimento sia nella società tedesca. Dopo aver sciolto i partiti, il NSDAP fu dichiarato unico partito legale, ma per evitare che costruisse un potere a sé, presto non ebbe altro compito che quello generico di promuovere l’educazione nazionale organizzandone la liturgia pubblica, e furono scoraggiate le stesse adesioni. Si parlò del movimento che lo comprendeva e al quale facevano riferimento anche tutte le altre organizzazioni di massa. All’interno stesso del partito rivendicavano uno spazio proprio le SA, guidate da Röhm, che si consideravano depositarie dell’orinario spirito socialisteggiante ed erano ostili all’esercito e ai grandi potenti industriali e finanziari. Benché subordinati al regime, esercito e gruppi industriali mantennero ampia libertà d’azione. Era una linea simile a quella di Mussolini e che non aveva corrispondenti in Unione Sovietica. I rapporti tra i veri poteri rimanevano carichi di tensione. Nella rivalità che in Germania opponeva le SA e i grandi centri di potere s’inseriva anche il corpo di guardia personale di Hitler, le SS, inizialmente poche decine d’uomini sotto il comando delle SA, ma presto cresciute di effettivi e di importanza. Nella notte del 30 giugno 1934, la notte dei lunghi coltelli, Röhm e i suoi seguaci furono massacrati. Con loro furono eliminate alcune centinaia di quadri del partito. Soddisfatti così gli alti comandi militari e i dirigenti industriali, il controllo della vita del paese diventarono prerogativa delle SS, il nucleo razzialmente puro della missione nazista. Il potere senza limiti dei membri delle SS deriva personalmente da Hitler, così come accadeva a ogni funzionario o capo subordinato, il cui operato fino a prova contraria era inteso come emanazione del volere del Führer. Il dispotismo hitleriano era attraversato da cupe faide di potere, da conflitti e accordi informali tra i vari livelli del partito, delle SS e dell’alta burocrazia. Fin dall’inizio, sono state proposte tante diverse formule per descrivere questo assetto. Considerando la duplicità di Stato e Partito si è parlato di Doppio Stato e o policrazia. C’è chi si è domandato se si potesse parlare di Stato nazista, mancandovi ogni ordine legale - razionale. E poiché il nazismo propugnava l’affermazione del sangue e della razza contro la ragione, del Volk contro l’individuo e contro la massa, per questo qualcuno l’ha qualificato come neofondale. Il nazismo non ebbe una particolare dottrina economica. Anche l’economia era finalizzata a costruire la potenza del Volk, il che significò l’abolizione di ogni rappresentanza operaia. Un primo piano quadriennale consistette nell’obiettivo, indicato dal Führer, di raggiungere in breve tempo il primato militare mondiale. La soluzione definitiva del problema tedesco essendo nell’ampliamento dello spazio vitale rispettivamente delle basi di materie prime e di alimentazione del popolo. Sotto la guida di Schacht un tecnico, ministro dell’Economia con i pieni poteri per l’economia di guerra un Neuer Plan consentì il pieno impiego e fece crescere la produzione industriale, che nel 1936 era già tornata al livello del 1929. Hitler ordinò la costruzione di uno stabilimento statale che fabbricasse un’utilitaria tedesca a basso prezzo, la Volkswagen, la vettura del popolo. Palme. Vi si esprimeva una condanna per l’idolatria pagana, per la sedicente concezione precristiana dell’antico germanesimo. Le SS ebbero l’ordine di sequestrare tutte le copie. Tra i fedeli andarono crescendo la partecipazione alle celebrazioni. Il regime non ebbe la forza di combattere questi comportamenti e rispose con l’arresto di pastori e sacerdoti e con campagne denigratorie. INQUISIZIONI Nel 1934 Stalin dichiarò che la linea del partito “si è imposta e il socialismo è stato costruito”: non c’era più nulla da dimostrare, né più nessuno da battere. Stalin indirizzava il malessere popolare verso i dirigenti burocratici, funzionari di partito, e come prima cosa ordinò una verifica a tappeto delle tessere di partito, che andava ripulito da iscrizioni indebite o indegne. L’idea di ripulire, di purificare la società da elementi ostili aveva accompagnato tutta la lotta per il potere in Russia. Ora l’idea di forze oscure minassero la nazione con intenzionali azioni di sabotaggio poteva rispondere a diffusi bisogni materiali e psicologici. Nel 1936 Stalin dichiarò che il comunismo era stato costruito. Proprio allora cominciarono le grandi purghe. La purificazione rituale prese la forma di una serie di grandi processi penali che si svolsero a Mosca tra il 1936 e il 1938. L’assassinio di un dirigente comunista fu l’occasione per imputare di complotto e tradimento pressoché l’intera dirigenza bolscevica che aveva attorniato il despota. Scomparvero praticamente tutti i quadri superiori del Partito comunista e dell’economia sovietica. Le persecuzioni adottavano la procedura processuale classica: esisteva un tribunale, dei capi d’imputazione, delle prove e testimonianze, ed infine c’era la sentenza. Il diritto applicato dalla corte non consisteva nella ricerca di una verità giudiziale, ma era un monito diretto al pubblico, alla società intera. I capi d’imputazione erano tanto più efficaci in quanto poco credibili. Il fulcro dell’intera procedura era nella confessione dell’imputato, che si dichiarava colpevole di tutto. E poiché i più importanti processi erano pubblici, riprodotti dalla stampa, era essenziale che l’imputato apparisse sincero nell’addossarsi la responsabilità degli atti. Un’obbedienza negativa che risultasse frutto di costrizione e non intimamente creduta dall’imputato, non raggiungeva l’obiettivo. Sotto le forme del processo penale si svolgeva una rappresentazione scenica culminante in una profonda conversione. Mentre in Germania non fu varata alcuna costituzione e si affermò l’idea di un diritto libero, in Unione Sovietica la costituzione ricalcava struttura e contenuti delle costituzioni democratiche occidentali. Prevedeva vi fossero due Camere, il Soviet dell’Unione e il Soviet delle nazionalità, elette ogni quattro anni a suffragio universale, eguale e segreto, e garantiva tutti i diritti fondamentali. In sostanza la civiltà giuridica in Unione Sovietica era riconfermata, ma svuotata di ogni contenuto reale. Era in atto una ritualità sacrale, tanto più necessaria in quanto regime aveva promosso una scristianizzazione sistematica cancellando solidi e radicati punti di riferimento. Nel caso sovietico non si contano i segnali di questa religiosità civile. Alla morte di Lenin era stata istituita una Commissione per l’immortalità della memoria di Ul’janov. Cinque anni dopo Stalin fu dichiarato il più eminente teorico del leninismo e genio dalle immense qualità. In questi anni e proprio in seguito alla purificazione, una grande quantità di persone scomparve silenziosamente nei campi di lavoro, in quel vasto sistema concentrazionario che il romanzo di Solzenicyn avrebbe reso celebre con il nome di Arcipelago Gulag, essendo gulag l’acronimo della direzione generale dei campi. Negli oltre cinquecento campi sarebbero state rinchiuse fino a due milioni di persone. Il confronto tra i Gulag e i Lager è inevitabile. Inizialmente i nazisti consideravano lo sterminio e l’annientamento attraverso il lavoro una barbarie propria dal bolscevismo. Sui muri dei Gulag si leggeva la frase “Il lavoro è un questione di eroismo e disciplina”, mentre all’ingresso dei Lager c’erra scritto “Arbeit macht frei”. Il Gulag non aveva finalità di puro sterminio, ebbe una finalità economica. L’ECONOMIA GOVERNATA. CORPORATIVISMO I provvedimenti presi dai diversi paesi per affrontare la crisi variano in relazione alle diverse condizioni economiche e politiche, ma avevano pur sempre alcuni tratti comuni. In un primo momento la smobilitazione aveva riportato in auge le politiche liberaliste con misure ortodosse in una visione neoclassica, puntando all’equilibrio dei bilanci statali e al mantenimento della convertibilità delle monete. Questo tipo di misure non sarebbero state sufficienti ad affrontare la crisi. Infatti presto si diffuse la sfiducia verso le forze del mercato e il pendolo tornò a volgere verso l’intervento pubblico nell’economia. L’Unione Sovietica stava sperimentando una statalizzazione e una pianificazione assolute. Si fece strada il convincimento che l’economia non dovesse essere lasciata ai suoi meccanismi autoregolatori e che andasse governata. Alcune frange del movimento socialista furono attratte dalle nuove proposte di pianificazione. L’accostamento tra i vari casi evidenzia una questione industriale e alla finanza nell’ambito di un’economia a direzione statale. Il problema non si poneva all’Unione Sovietica anche se là si poneva il problema dei criteri in base ai quali indirizzare le politiche economiche e finanziarie dello Stato in assenza di mercato. Nell’800 capitalistico si profilava l’ipotesi che dovessero essere incoraggiati gli accordi tra i maggiori protagonisti della produzione. Era uno schema proposto nel 1919 in un Pamphlet firmato da Rathenau. Bisogna capire la differenza tra i termini il “corporatismo” inglese e il “corporativismo” italiano. I due termini riflettono percorsi storici diversi. Corporatism ci riferisce a un sistema di governo in cui hanno un ruolo preminente gli enti e le grandi corporations, ma anche i sindacati. Si vuole infatti distinguere un corporatismo sociale (predominano i sindacati) a un corporatismo liberale (predoni mano gli imprenditori). Si tratta dunque dei soggetti collettivi, degli interessi organizzati. Basti pensare che la codificazione civile non trattava allora né delle imprese né del rapporto di lavoro, e tantomeno dei sindacati. Nella realtà sociale ed economica del capitalismo avanzato corpi e soggetti collettivi avevano acquistato rilievo sempre maggiore. Rispetto al modello individualistico la società era diventata corporata e pluralistica. Ma pluralistiche erano anche le istituzioni pubbliche. Durante la guerra lo Stato aveva perso la sua natura monistica e si era disarticolato in una pluralità di ordinamenti. Vi furono alcuni giuristi che preferirono parlare non più di Stato, ma di ordinamenti giuridici, cogliendo anche la loro relazione con i fenomeni sociali in trasformazione. Keynes, in uno dei suoi scritti, sottolineava l’importanza di questi enti semiautonomi entro lo Stato. L’idea corporativa rifletteva la prospettiva di organizzare una società in cui sia lo Stato sia la produzione e la finanzia fossero riarticolati in una pluralità di ordinamenti. Un punto era tuttavia assai problematico e riguardava il rapporto tra questo assetto e la democrazia rappresentativa. Quale potesse essere la proiezione politico- costituzionale di un sistema corporativo, essendo evidente che gli interessi organizzati in quanto tali non avevano rappresentanza politica, e che il corporativismo avrebbe incentrato il potere sull’esecutivo come mediatore e centro di coordinamento. Nel 1935 fu creata una nuova agenzia, la Works Progress Administration, che impegnò fino a 3 milioni di lavoratori in opere pubbliche. Il New Deal di Roosevelt incarnò la rivoluzione Keynesiana. Keynes aveva ritenuto profondamente errata l’ortodossia deflazionistica seguita dai vari governi e riteneva necessaria una politica anticiclica, che contrastasse l’andamento del ciclo con una politica monetaria espansiva che attivasse una spesa pubblica indirizzata a rimettere in moto il meccanismo che muoveva salari, consumi e profitti. Fa parte del New Deal anche una nuova politica sociale ispirata al concetto di sicurezza sociale (social security). Nel 1933 fu istituita una Federal Emergency Relief Administration, e nel 1935, con il Social Security Act, fu istituita una copertura assicurativa obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia, i superstiti e la disoccupazione. Gli Stati Uniti si allinearono ai sistemi previdenziali europei. Il termine Social Security conteneva un principio forte e indicava l’ideale di garantire a tutti un’esistenza dignitosa. Ma la protezione sociale americana rimaneva residuale, ovvero era intesa a intervenire solo laddove non fossero sufficienti la famiglia e il mercato.A tutto ciò vanno aggiunti una politica di relazioni industriali e assicurazione pensionistica, fondi a favore di anziani bisognosi, disoccupati e invalidi. I fondi destinati alla ricerca, il flusso di scienziati, intellettuali in fuga dalla Germania nazista, contribuirono al massiccio trasferimento culturale tra EU ed USA. La politica di Roosevelt fu molto apprezzata in Europa dove si avvertiva una certa consonanza della presidenza americana con le leaderships carismatiche affermatesi in Italia e in Germania. Gli anni di Roosevelt videro una forte sindacalizzazione, accese lotte operaie e un convinto impegno politico degli intellettuali. Che vi fossero nel New Deal aspetti dirigistici e statalistici contrastanti non pare dubbio. Lo testimoniano le opposizioni che vennero dal mondo della grande impresa, da ciò che rimaneva del Partito repubblica, nonché dalla Corte Suprema. Composto di nove giudici nominati a vita, la Corte annullò la NRA e l’AAA sulla base del fatto che i singoli Stati e non il governo federale avevano competenza in campo economico. In base a questi principi, l’intero New Deal avrebbe potuto essere cancellato. Dopo forti frizioni tra poteri, la Corte ammorbidì il suo atteggiamento, il New Deal fu salvo e i poteri presidenziali ne uscirono ulteriormente rafforzati. ORDINE, SICUREZZA, FAMIGLIA La crisi seguita al giovedì nero di Wall Street non incise solamente sull’economia. Ebbe effetti devastanti su popolazioni che ancora recavano i segni del trauma sofferto dalla guerra. In questi anni fiorì la letteratura di guerra, quasi che le sofferenze di allora riaffiorassero ora che umiliazione e miseria erano diventate esperienze collettive. Per reazione si manifestò un bisogno di ordine e sicurezza che segnò sia i contenuti delle politiche dei vari Stati, sia le forme della comunicazione politica e delle leaderships. Ne trasse vigore il populismo, quella forma politica che idealizzava il popolo contadino contro la corruzione della modernità. In quegli anni di ribellione alla grande crisi si manifestarono sotto varie latitudini e da varie angolature un comune rifiuto del macchinismo che avevano connotato gli anni Venti. Ne fu ad esempio espressione il giovane scienziato austriaco e sincero nazista Lorenz. Si provò a incoraggiare gli agricoltori urbani, decentrando le città. Fece eccezione l’Unione Sovietica che combatté una guerra senza quartiere contro i suoi contadini e quando con Stalin tornò a metter l’accento sul popolo lo fece trasferendo l’esaltazione dei semplici sulle figure di vigorosi operai di fabbrica. Non si trattò solo d’ideologie e d’immagini, giacché il ruralismo ispirò anche politiche di sviluppo, grandi progetti e investimenti pubblici che segnarono la civiltà contemporanea, come le grandi opere in Tennessee. L’attrazione per la modernità, per le macchine, la velocità e il futuro si coniugava con un passato antico, vicino alle origini. La guerra era stata un’ecatombe di maschi, aveva prodotto vedove, donne emancipate e figli senza padri. Molti reduci erano moralmente e psicologicamente distrutti e certo non costruivano un riferimento paterno solido in un’epoca di sbandamento generale. I regimi di massa degli anni Trenta adottarono misure a sostegno delle famiglie, della natalità e della maternità. Il fascismo, oltre a consegnare premi speciali allecoppie prolifiche impose una tassa sul celibato e precluse ai non sposati l’accesso ad alcuni ruoli direttivi. Nello stesso senso agivano le facilitazioni d’istinto e le sovvenzioni a favore delle famiglie. La concessione degli assegni famiglia al lavoratore maschio capo della famiglia era subordinata alla condizione non lavorativa delle donne a carico. La prevalenza dell’uomo sulla donna fu ribadita, e rafforzata, con la disparità salariale, ma anche sul piano istituzionale riservando per esempio agli uomini gli impieghi implicati l’esercizio di funzioni pubbliche. Fu inoltre consentito di limitare l’assunzione di donne nei bandi di concorso e le 1938 un apposito decreto stabilì che le donne non potessero superare il 10% degli organici negli impieghi pubblici e privati. Nell’insegnamento si precluse loro di diventare presidi. Le donne erano restituite alla sfera familiare, cancellando l’emancipazione che avevano da poco conquistata. Il rovesciamento delle precedenti politiche di emancipazione e di laicizzazione dell’istituto familiare fu particolarmente appariscente in Unione Sovietica. Negli anni Venti con la legalizzazione dell’aborto la struttura familiare era esplosa: i matrimoni duravano in media 8 mesi, per ogni nascita c’erano tre aborti. Negli anni Trenta in Unione Sovietica e nei regimi fascisti vennero proibiti gli aborti e furono aumentati gli assegni di maternità rendendo più difficile ottenere il divorzio. Alle donne tedesche il nazismo indicò il motto “Kinder, Küche, Kirche”. In Italia nel 1925 fu creata l’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia con il compito di assistere le madri durante la gestazione, il parto e l’allattamento; nel 1938 fu introdotto il congedo per maternità, retribuito per due mesi. I regimi autoritari tendevano ad allargare i benefici sociali a gruppi determinati secondo finalità politiche, e comunque nell’ambito di strategie di controllo e disciplinamento. Anche le industrie e i sindacati fascisti dettero vita ad organizzazioni assistenziali o polisportivi organizzate dal partito in un apposito ufficio centrale e nel 1925 assorbite da un’Opera nazionale dopolavoro, un ente parastatale che allargò l’originaria attività sportiva a ogni sorta di servizi ricreativi. GIOVANILISMO E PRATICHE SPORTIVE Particolare attenzione alla formazione dei giovani fu riservata dai regimi fascisti, che si definivano movimenti giovanili per eccellenza. Il fascismo italiano trasformò un inno goliardico di primo Novecento in inno trionfale del regime. Nel 1926 fu fondata l’Opera nazionale Balilla (ONB). Balilla fu soprannominato un ragazzo che nel 1746 lanciando un sasso contro le truppe austro piemontesi che occupavano la città avrebbe dato avvio a una rivolta popolare. L’ONB sostituì tutte le organizzazioni giovanili esistenti. L’Opera era finalizzata alla formazione paramilitare e ginnico-sportiva dei giovani dai 6 ai 18 anni, distinti in Figli della lupa, Balilla e Avanguardisti; mentre tra le femmine si distinguevano le Figlie della lupa, le Piccole italiane e le Giovani italiane. All’opposto la folla era invece imbrigliata, coinvolta e disciplinata nelle grandi masse d’uomini condotti ad ascoltare in pubblico i discorsi di Hitler e di Mussolini, che anch’essi sembravano dirigersi a ciascuno individualmente. Non era questa invece la pratica comunicativa del bolscevismo, che sviluppò l’arte della propaganda, un’arte alla quale del resto si dedicarono Goebbels, ministro del Reich per la Propaganda, e lo stesso Mussolini. Il mito romano modellò tutto l’immaginario fascista. Nel 1938 fu adottato il passo romano; l’Italia sembrava aver trovato la fonte d’ispirazione storica che mancava alle sue ideologie nazionalistiche. Il culto della persona raggiungeva l’apice nell’esaltazione dello stesso corpo fisico del capo, presentato come un fascio di energie, eroe egli stesso in ogni sorta di attività ginniche e sportive. Non solo in Italia i leaders affascinavano, erano oggetto di amore, di venerazione. Si parla di un culto della personalità. Il bisogno di orine e di sicurezza si ritrovava anche nei panorami e negli spazi urbani. Ovunque sorsero ardite programmazioni urbanistiche e architettoniche di palazzi, stazioni ferroviarie, complessi monumentali, scenografie gigantesche disegnate con lo stile neoclassico. Hitler disse che i suoi edifici erano una manifestazione visibile della volontà d’ordine. AFFINITÀ E AVVERSIONI Un intreccio di convergenze connotava il panorama di quei decenni. Ma non complesso era l’intreccio delle avversioni. Il regime tedesco e quello sovietico condividevano l’avversione ai fondamenti della democrazia. Ma non erano alleati, erano rivali e acerrimi nemici. I governi fascisti oltre che antidemocratici, si dichiararono campioni dell’antibolscevismo, anche se al suo esordio il fascismo aveva guardato con molto interesse all’esperimento bolscevico per i suoi tratti antidemocratici e sociali. I governi europei non fascisti e pure gli Stati Uniti, consideravano il comunismo sovietico la maggiore delle minacce e il fascismo il più forte degli antidoti. Non nascondevano la loro simpatia per il fascismo e per il nazismo, dei quali all’inizio trascurarono gli aspetti più violenti e totalitari. Il nazismo era il regime il regime anticulturale per eccellenza organizzando pubblici roghi di libri. Nacque l’antifascismo che considerava il fascismo la più grave delle monacce e il comunismo la più forte delle difese. CAPITOLO 6 TRE GUERRE L’ITALIA AGGREDISCE L’ETIOPIA Agli inizi degli anni Trenta Mussolini pensò di concretizzare nella guerra il disegno di dar vita al destino imperiale del suo regime. Fin da subito aveva indicato come obiettivo del fascismo il disegno imperiale stava a indicare la mobilitazione totalitaria, il sovvertimento delle istituzioni liberali e l’edificazione di un nuovo ordine, di una nuova grandezza che si esprimesse sul piano dell’impero. Le varie colonie italiane avevano natura diversa. L’espansione dell’Eritrea verso l’Etiopia si era fermata alla sconfitta di Adua. Quanto al Corno d’Africa, una serie di confuse imprese commerciali italiane sulla Costa dei somali aveva portato alla proclamazione di una non ben definita colonia. Con la guerra in Libia l’Italia aveva acquistato il controllo delle città costiere della Cirenaica e della Tripolitania. I governi del dopoguerra avevano favorito una politica di accordi con le autorità locali. Nel 1919 uno statuto libico aveva istituito una cittadinanza italiana della Tripolitania e un Parlamento locale a maggioranza araba. L’anno seguente un patto simile fu stretto in Cirenaica con la Senussia, la confraternita musulmana che guidava la resistenza. La tregua fu presto interrotta e la politica dei trattati abbandonata per l’azione militare volta a riconquistare la Tripolitania. Rodi e le isole del Dodecaneso avevano una funzione ornamentale, non costituendo più un avamposto verso i Balcani. Mussolini dette nuova e decisa enfasi, sia in Somalia (riconquistata da De Vecchi) sia in Tripolitania e Cirenaica (affidate a Badoglio). Al comando di Badoglio furono scatenate azioni militari moderne tali da sottomettere le zone interne con massacri, deportazioni che ridussero di un quarto la popolazione e l’11 settembre 1931 portarono alla cattura e alla pubblica impiccagione senza processo del capo della resistenza, al- Mukhtar. L’iniziale obiettivo di controllare i territori assumeva ben maggiore significato nella costruzione dell’Italia imperiale. Volendo manifestare all’interno del paese come segno di potenza e di dominio, nei non lunghi anni in cui fu sperimentato il colonialismo fascista non intese ricalcare le forme di britannico governo indiretto che semmai si erano delineate nel periodo liberale, ma dar vita a forme In questo senso i socialisti che collaboravano con i governi democratici dovevano essere considerati alleati del potere borghese, e della reazione fascista che di quel potere era l’estrema manifestazione. Erano perciò social fascisti. Il quadro internazionale mutuò presto. Rimaneva ben ferma l’idea che lo scontro con il capitalismo sarebbe stato inevitabile, un’idea che ispirò sempre le classi dirigenti sovietiche nel corso dei decenni, e che ha sempre reso puramente tattiche le loro alleanze. Ma l’ascesa al potere di Hitler fece vacillare la convinzione che ogni aggravamento della tensione internazionale favorisse la causa sovietica. Da qui i nuovi indirizzi della politica estera sovietica, già anticipati dalla firma di accorsi con i paesi confinanti e nel 1929, dallo stabilimento di rapporti diplomatici con la Gran Bretagna e nel 1932 con la Cina. Nel 1934 il ministro degli Esteri sovietico Litvinov espose le nuove linee di politica estera. Nel novembre di quell’anno si reco a Washington e ottenne il riconoscimento degli Stati Uniti e l’instaurazione di rapporti diplomatici fra i due paesi. Nel 1934 anche la Cecoslovacchia e la Romania riconobbero l’Unione Sovietica, e a settembre fu ammessa alla società delle Nazioni diventando subito membro permanente. Nel 1935 ci fu la firma di un patto franco sovietico di mutuo soccorso. I comunisti francesi furono inviati a ribaltare la loro posizione e votare il riarmo francese. Nel congresso del 1935 fu abbandonata la dottrina del socialfascismo e fu scelta una viga del tutto opposta, il cui obiettivo principale era quello di distruggere il fascismo. Non si trattava di una conversione dei comunisti alla democrazia: la nuova strategia mirava a combattere per il comunismo all’interno dei regimi democratici. La politica dei fronti popolari fu inaugurata in Francia nel 1934 con l’unione di socialisti della SFIO, comunisti e radicali, e fu rilanciata nel 1935 al VII congresso dell’Internazionale comunista. L’anno seguente nel 1936, il fronte vinse le elezioni francesi. Il nuovo governo adottò alcune riforme, come il prolungamento dell’obbligo scolastico a 14 anni, le quaranta ore settimanali nelle fabbriche e due settimane di ferie pagate. Fu ben presto attaccato dalla destra e lo stesso Blum fu oggetto di una durissima campagna semita. Caduto nel giugno del 1937, Blum tornò al governo nel marzo successivo ma fu messo di nuovo in minoranza. GUERRA CIVILE IN SPAGNA La Spagna aveva cominciato il nuovo secolo sotto il trauma del desastre del 1898 e della fine dell’impero. La stabilità del sistema politico era un piccolo e lontano ricordo. Ci fu una notevole crescita economica che aveva creato nuovi conflitti e nuovi partiti; ma le innovazioni riguardavano solo alcune fiorenti isole di modernità. Così era la Catalogna, con le sue industrie, lo sviluppo economico e culturale ben rappresentato dalla Barcellona modernista. Nelle regioni interne gli assetti fondiari rimanevano arcaici, con una grande proprietà terriera ancora dominante e una Chiesa cattolica tradizionalista. La Chiesa cattolica non aveva riconosciuto né la Riforma né l’illuminismo. Il Clero usava il confessionale come un sistema di sorveglianza, il pulpito come uno strumento di propaganda e il catechismo per condannare all’inferno tutti i progressisti (Brendon). Armato contro la chiesa, contro lo stato e contro ogni tipo di ricchezza, era forte un movimento anarchico di tipo millenaristico, che bruciava chiese e conventi, assaltava banche e lanciava bombe. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il paese attraversò una fase di turbolenza. Nel settembre del 1932 l’ennesimo pronunciamiento portò al potere l’ufficiale de Rivera che sospese la costituzione, sciolti i partiti e instaurato un regime a partito unico, la Union patriotica española, governò sette anni con l’appoggio dell’esercito. Costretto alle dimissioni Primo de Rivera nel 1930, fuggito il re Alfonso XIII che l’aveva appoggiato, fu eletta un’assemblea costituente e fu proclamata la repubblica. La repubblica ebbe una costituzione di carattere spiccatamente progressista e democratico, abbastanza simile a quella di Weimar nonostante le differenze: se quella era presbite perché guardava troppo lontano, questa era miope perché rifletteva i rapporti di forza del momento. Lo stato spagnolo era definito, repubblica di lavoratori di tutte le classi. Un’ampia dichiarazione dei diritti e della libertà era estesa a temi economici e sociali; il suffragio era universale maschile e femminile; si dichiarava la separazione tra Stato e Chiesa con un estato aconfesional, si riconosceva il matrimonio civile e il divorzio. Se fino ad allora la Chiesa cattolica, unica religione di Stato, era stata pilastro dell’ordine costituito, la costituzione del 1931 portava agli estremi lo spirito della secolarizzazione. L’articolo 26, nel garantire la libertà di fede e l’equiparazione delle varie confessioni di fede, ne faceva associazioni private senza sussidio pubblico, in alcuni casi ne stabiliva lo scioglimento e negli altri ne sottoponeva a controllo il patrimonio, impediva loro di esercitare l’industria, il commercio e l’insegnamento. Nel primo biennio repubblicano governò una coalizione di socialisti e repubblicani che impostò un audace programma di riforme comprendente la concessione dell’autonomia alla Catalogna, la riforma dell’esercito e dell’istruzione pubblica. Affrontò i due poteri forti; la Chiesa e la grande proprietà agraria, con provvedimenti drastici e aggressivi che generarono opposizioni violente. Venne sciolto l’ordine dei gesuiti, chiuse le scuole cattoliche; i simboli del culto furono rimossi da tutti gli edifici pubblici, e la loro esposizione da parte di privati sottoposta a un’apposita tassa; vennero proibite le manifestazioni pubbliche tradizionali. Nel caso della questione agraria, una riforma che prevedeva l’esproprio totale della proprietà assenteista quale ne fosse l’estensione e altri provvedimenti punitivi coalizzarono i latifondisti, mentre premeva per l’accelerazione delle riforme un vasto movimento di contadini poveri. Nel 1932 fallì un pronunciamiento militare. L’anno seguente, dimessosi il governo, le elezioni furono vinte dalla destra. Sostenuto da cattolici e proprietari, ottenne la maggioranza relativa un movimento guidato da un brillante avvocato, Robles, che grandi raduni paramilitari acclamavano al grido “Jefe, Jefe”. Robles dichiarò che la destra avrebbe raggiunto i suoi obiettivi se necessario prescindendo dalle istituzioni parlamentari. Già nei decenni precedenti le istituzioni parlamentari non godevano di gran prestigio nel paese. Ora, di fronte al governo di destra che si mise a smantellare tutte le riforme avviate dai repubblicani, le sinistre tentarono una sorta di rivoluzione preventiva. A Madrid si alzarono barricare, le Asturie insorsero, la Catalogna proclamò l’indipendenza. La destra di Robles non sfondò e una crisi di governo portò a nuove elezioni. Un raggruppamento elettorale di tutte le sinistre vinse le elezioni del 16 febbraio 1936, tre mesi prima della vittoria del fronte popolare in Francia. In Spagna entrambi i fronti si preparavano allo scontro. Ci fu l’ennesimo alzamiento militare. Il 17 luglio 1936 la guarnigione militare del Marocco si ribellò al governo repubblicano. Emerse la figura del generale Francisco Franco, che in settembre i suoi dichiararono capo del governo dello Stato. Appartenente a una famiglia di militari, franco aveva percorso una rapida carriera nella Legione spagnola, era divenuto generale a 33 ani, era stato nominato capo di stato maggiore da Robles. comunisti da una parte e gli anarchici e i comunisti di orientamento trockijsta dall’altra. La lotta senza quartieri tra Stalin e Trockij aveva raggiunto la Spagna. La guerra era combattuta in maniera tradizionale, ma il carattere di guerra civile si rivelò con tutta la sua crudezza fuori dalla linea del fronte, dispiegando un odio, una ferocia, una violenza assai diversi da quelli conosciuti durante la guerra mondiale. Il carattere ideologico, il carattere ultimativo dello scontro ne faceva una guerra di annientamento uno scontro di civiltà in cui si perdeva la distinzione tra militari e civili. Più spontanea e disordinata quella dei repubblicani, che spesso l’affidavano a tribunali popolari improvvisati, e più gerarchicamente programmata quella dei nazionalisti, i quali avrebbero proseguito lo sradicamento del nemico e la limpieza, la pulizia del paese, dopo la vittoria militare. Nell’agosto del 1936 il poeta Garcìa Lorca, colpevole di repubblicanesimo e di omosessualità, fu prelevato, condotto in un campo e passato per le armi. Da entrambe le parti caccia all’uomo, esecuzioni sommarie di nemici, massacro di detenuti. La denuncia delle atrocità altrui inaspriva gli animi e incitava a nuove rappresaglie. Il bombardamento di Guernica nell’aprile del 1937. Città simbolo dell’indipendenza basca, che non aveva rilevanza strategica né era sede d’installazioni militari, per un giorno intero fu attaccata dalla Legione Condor con bombe, ordigni incendiari e incursioni di mitragliamento. Picasso ricevette la commissione del quadro dal governo repubblicano e dopo la caduta della repubblica dispose che il quadro entrasse in Spagna solo una volta finito il franchismo. Nel marzo 1938 gli italiani sferrarono il primo bombardamento aereo di una grande città europea. Durante quaranta ore, tredici attacchi colpirono il centro di Barcellona. Era all’opera in campo repubblicano un’avversione collettiva e una speculare riproduzione degli orrori perpetrati dalla Chiesa dell’Inquisizione, o che la cultura popolare aveva fissato nella memoria collettiva come tali e che aveva tante volte rivissuto nella palese insensibilità della Chiesa spagnola verso le sofferenze e i disagi del popolo. Alle umiliazioni e alle uccisioni su unì ogni sorta di violenza alle immagini sacre e ai luoghi di culto nonché la profanazione dei cimiteri. Vero è che il regime franchista si volle definire totalitario e sindacalista, ma il suo vero obiettivo fu il rinnovamento della tradizione cattolica quale era stata vissuta nell’impero e di operare con abito militare, costruttivo e religioso per restituire agli spagnoli la Patria, il Pane e la Giustizia. L’alziamento franchista fu vissuto come una cruzada, una crociata della cattolica Spagna contro il sacrilegio degli infedeli. L’avanzata dei nazionali fu lenta e contrasta, ma costante. Espugnate le provincie del Nord a metà ’37, nella primavera seguente raggiunsero l’Aragona il Mediterraneo. Nel novembre le brigate internazionali lasciarono il paese e nel gennaio del ’39 cadde Barcellona. Il 1° aprile Franco annunciò la resa dell’esercito repubblicano. La Spagna di Franco avrebbe aderito all’asse d’Italia, Germania e Giappone, ma non entrò mai in guerra. In poco più di due anni la guerra civile aveva causato un milione di morti. UNA PIÙ GRANDE ASIA Grandi eventi scuotevano l’Estremo Oriente. Le sue vicende s’intrecciano con quelle dell’Occidente e del sistema internazionale. La vitalità delle provincie cinesi aveva accentuato la frammentazione del paese e l’indebolimento del governo imperiale di Pechino. Il problema di comporre a unità il paese ha sempre accompagnato la storia cinese. Il primo a unificare i regni, e dunque anche il primo imperatore, fui Qin Shi Huang, nel III secolo a.C. Fu lui che fece costruire la Grande Muraglia e l’esercito di terracotta. L’unità territoriale esprimeva una tradizione culturale nella quale l’entità statale era intesa come maestra di vita e centro morale della società. La mancanza di unità politica era tornata ad essere il maggior problema tra l’Otto e il Novecento, quando il paese era eroso dagli insediamenti occidentali. A ben poco era servita la fondazione della repubblica, che come regime rappresentativo dava ancora maggior potere ai potentati locali. Mentre il maggior esponente del movimento repubblicano, Sun Yat-sen, fondava il Partito nazionalista cinese, il Guomindang, il presidente della repubblica, Shikai, cercava di ripristinare il titolo imperiale. Tra le potenze straniere che premevano sul paese la più vicina e più pericolosa era il Giappone. Il Giappone aveva posto le basi di un vasto impero coloniale in Asia, vitale fonte di materie prime e mercato di esportazione di merci e capitali per l’industrializzazione del paese. Già occupata la Corea, nel 1894 i giapponesi avevano preso a pretesto una rivolta scoppiata a Taiwan per intervenire militarmente, e i cinesi ne erano usciti umiliati. Poco dopo il Giappone aveva partecipato alla spedizione internazionale contro la rivolta dei boxer. Mentre gli europei erano impegnati nella prima guerra mondiale, i giapponesi si erano fatti più aggressivi. Nel gennaio 1915 il governo cinese fu costretto ad accettare le ventuno richieste presentate dal Giappone, un vero e proprio ultimatum che imponeva il riconoscimento degli interessi giapponesi nella Mongolia interna e pretendeva che consiglieri giapponesi venissero collocati ai vertici dell’amministrazione e dell’esercito. Le fortificazioni tedesche in Cina, i giapponesi forzarono la Cina a entrare nella guerra europea: un accordo militare prevedeva la formazione di truppe d’intervento cinesi con l’assistenza d’istruttori giapponesi, un esercito che aveva la funzione di rafforzare il potere militare del primo ministro del momento, Duan Qirui. Sosteneva anche l’idea di contrapporsi al colonialismo occidentale sostituendosi a esso e facendosi tutore di una comune identità asiatica. I giapponesi sembravano riprodurre il rapporto coloniale e imperiale che gli europei avevano stabilito con vaste aree del mondo. Una politica espansionistica fu caldeggiata in Giappone dalle forze armate come soluzione sia alle difficoltà economiche del dopoguerra, sia ai fermenti politici dell’epoca. Le alte gerarchie militari avversavano la corruzione del mondo politico ma anche il potere degli zaibatsu, i complessi industrial- finanziari contrari ad avventurose politiche espansive. Nei diversi gradi dell’esercito si mescolavano atteggiamenti aristocratici, ostili all’occidentalizzazione dei costumi, e un più plebeo populismo anticapitalistico. Sono molti i parallelismo tra il militarismo nazionalista giapponese e i movimenti fascisti europei. Nella battaglia intrapresa nel corso degli anni Trenta dei militari contro le élites politiche ed economiche del loro paese, benché non priva di violenza, non si celavano conflitti di classe, né la reazione a sfide rivoluzionarie operai, come poteva dirsi per l’Europa. Nella società civile e nel sistema politico giapponesi non vi erano fratture che suggerissero soluzioni drastiche a una delle parti contendenti. Dal 1936, i politici furono estromessi dal governo, non vi fu una presa cruenta del potere, o un colpo di Stato. Del resto i militari non poterono mai eliminare il ruolo dei circoli imperiali e degli zaibatsu, che di fatto costituivano insieme a loro il blocco di potere dominante. L’attacco giapponese costrinse le forze cinesi in campo a un accordo e dunque a sospendere le campagne di annientamento dei comunisti. A quel tempo in Europa i comunisti stavano adottando la politica dei fronti popolari contro il nazifascismo. Ma l’accordo antigiapponese stilato nel 1936 tra il Guomindang e il Partito comunista cinese nacque da un misterioso incidente, nel quale Chiang Kai-shek fu arrestato per la sua scarsa decisione nel combattere gli invasori. L’alleanza era assai instabile: per Chiang Kai-shek la lotta ai comunisti rimaneva prioritaria, mentre la rinuncia dei comunisti alla propaganda rivoluzionaria era solo temporanea. Ritiratosi dalla Cina del Nord, l’esercito del Guomindang s’impegnò nella difesa della Cina del Sud dello Yangxi. Il 7 luglio 1937, usando come pretesto un incidente di confine, le armate giapponesi iniziarono l’invasione della Cina. Espugnata Shangai nel novembre, risalirono il fiume Yangzi e il 13 dicembre 1937 entrarono a Nanchino e fu un massacro, più di 260.000 civili furono uccisi. La presa della capitale non portò alla resa del governo nazionalista, che si ritirò nell’interno, spostando la capitale a monde dello Yangzi, a Chongqing. Di lì continuò la resistenza che ricevette rifornimenti militari attraverso l’Indocina francese e successivamente dalla Birmania. Mentre sul piano interno, con una legge per la mobilitazione delle risorse nazionali, il Giappone si accingeva alla guerra a oltranza e all’instaurazione di un rigido regime autoritario, il primo ministro offriva al governo del Guomindand gravose condizioni di pace, respinte da Chiang Kai-shek. L’antagonista di Chiang Kai-shek costituì a Nanchino un Governo riformatore della Repubblica cinese, di cui il Giappone si servì per porre sotto controllo le risorse economiche del paese. L’assenza di grandi operazioni militari, e l’abbandono delle campagne diedero ai comunisti l’occasione di radicarsi ancoro di più tra i contadini. CAPITOLO 7 GUERRA TOTALE BURRO O CANNONI L’espressione venne coniata all’epoca della grande guerra e pone l’alternativa tra i beni di consumo e gli armamenti. Goebbels disse “Possiamo fare senza burro, ma non senza cannoni”, Göring chiosava “I cannoni ci renderanno potenti, il burro grassi”. La rapida e vertiginosa ascesa delle spese militari, iniziata a metà degli anni Trenta coinvolse tutte le potenze europee. Tra il 1932 e il 1935, un’apposita conferenza internazionale convocata a Ginevra auspicava un graduale disarmo. Con la crisi economica, la presa del potere da parte di Hitler e il consolidarsi dello stalinismo, il clima era mutato. L’ordine internazionale era instabile, mancava un sistema delle alleanze simili a quello che aveva retto fino alla guerra mondiale. Nel 1935 fu varato un Neutrality act che proibiva la concessione di prestiti o la vendita di armi a qualsiasi paese belligerante o dove fossero in atto guerre civili. Agli europei non restò che mostrarsi pronti alla guerra, se non altro per dissuasione. Lo fecero tutti. La Germania iniziò violando i limiti impostile a Versailles: nel 1935 Hitler annunciò che avrebbe reintrodotto la leva e costituì le prime brigate. Nella primavera seguente la Wehrmacht (l’esercito) entrò in Renania. Riarmo significava aumento della pressione fiscale, nuovi prestiti pubblici, decifit di bilancio. I regimi totalitari non avevano da temere l’opposizione dell’opinione pubblica, ma nelle democrazie occidentali i contraccolpi politici e sindacali furono sensibili, e si aggiunsero al fermento politico provocato dalla crisi economica. E ovunque la popolazione era allarmata dalla prospettiva di una guerra. Diversamente dal 1914 il ricordo di una guerra era recente e si capiva che la prossima sarebbe stata diversa e peggiore. E nonostante tutto nel 1938-39 nessuno era pronto per una guerra totale. Tutti dovevano affrontare gravi problemi finanziari e di bilancio. APPEASEMENT In Europa i primi passi verso la guerra iniziarono nel 1938 con l’Anschluss (unione) dell’Austria alla Germania. L’ingresso della Wehrmacht in Austria fu richiesto dal governo austriaco e l’opinione austriaca era entusiasta della cosa. Dopo aver incorporato l’Austria, il Deutsches Reich prese il nome di Großdeutsches Reich, Impero Grande-Tedesco. Fuori dai confini del Reich, in Cecoslovacchia, c’erano ancora tre milioni di tedeschi. Nell’estate del 1938 Hitler lanciò un ultimatum, respinse ogni proposta di mediazione, preparò l’attacco militare. Il 28 settembre s’incontrarono a Monaco di Baviera Chamberlain (ministro inglese), Deladier (ministro francese), Hitler e Mussolini. Ne sortì un accordo, il patto di Monaco, che regolava il trasferimento della regione dei Sudeti dalla Cecoslovacchia al Reich. La guerra era stata ancora una volta evitata, la politica di appeasement aveva avuto ragione delle intenzioni bellicose di Hitler, che di malavoglia aveva dovuto cedere al concerto delle grandi potenze. To appease in inglese vuol dire placare con concessioni. GB e FR concessero molte, troppe, cose; avevano tollerato la Spagna franchista, la guerra italiana in Etiopia, l’Anschluss dell’Austria, la Renania e lo smembramento della Cecoslovacchia. Ma per il momento la pace era salva. Poco dopo GB e DE firmarono un patto, che con quello di Monaco era dichiarato simbolo del desiderio dei due popoli di non muovere guerra l’un contro l’altro. La politica di appeasement è stata vista come un esempio d’ignavia e di cecità. In questo modo l’intesero Hitler e Mussolini, come un prova di debolezza e di decadenza morale dei loro avversai che li incoraggiava ad osare. Ma per capire questa politica bisogna considerare la profonda ostilità per la guerra, la paura diffusa in tutta la pubblica opinione europea, la sensazione che sarebbe stata una terribile guerra e che nessuno era ancora pronto a combatterla, per questo motivo era necessario fare di tutto per evitarla. Per salvaguardare l’ordine internazionale e costruire una base di assetti duraturi la revisione degli assetti di Versailles avrebbe dovuto risultare da accordi multilaterali. Ben altra era la visione di Hitler. Nella sua visione dello spazio vitale tedesco il dominio del nucleo euroasiatico del sistema mondiale avrebbe fatto della Germania una potenza imperiale globale. Perciò l’appeasement distoglieva lo sguardo dal significato ultimo delle rivendicazioni contingenti della Germania, destinata a Si pensò successivamente alla Polonia come un contenitore degli ebrei e delle razze di sottouomini (Untermenschen), iniziando con il trasferire gli ebrei polacchi dai villaggi alle città e a concentrarli in determinate aree. I trasferimenti erano accompagnati dalle razzie di tutti i loro beni. Furono emanate disposizioni draconiane, e favorite le pratiche più vessatorie. A tanta furia concorsero anche i forti sentimenti antisemiti della società polacca, che provocarono attacchi spontanei alle comunità ebraiche. Un esempio di questa violenza fu il pogrom di Jedwabne, dove il 10 luglio 1941 1.600 ebrei furono inseguiti, uccisi a colpi di scure, annegati, bruciati vivi, mentre i nazisti assistevano scattando fotografie. Furono trasformate in ghetti le aree urbane già abitate da ebrei, allontanandone i non ebrei. Il primo ghetto fu quello della città di Lodz. Circondati a volte da cinte murarie, i ghetti erano comunità chiuse. Agli ebrei era vietato uscirne senza permesso, ai non ebrei entrarvi. Le persone erano costrette alla fame e alla schiavitù. Accanto ai ghetti, c’erano i campi di concentramento. Il più grande era quello di Auschwitz- Birkenau. I prigionieri lavoravano fino allo stremo. A suo tempo i nazisti avevano dichiarato che gli stermini attraverso i campi di lavoro erano una barberia degna dei bolscevichi. Le condizioni proibitive di vita provocarono l’indebolimento e la morte. Furono compiuti esperimenti scientifici estremi che normalmente non possono essere compiuti su corpi viventi, era favorito il decorso delle patologie come la tubercolosi e il tifo. L’impiego dei prigionieri come manodopera giustificava che la popolazione fosse selezionata in base alle capacità lavorative dei singoli, e che fossero soppressi per primi vecchi, donne e bambini. A durata media della sopravvivenza ad Auschwitz era di tre mesi. Accalcati nei ghetti, gli ebrei cominciarono a deperire nell’inedia, ad ammalarsi avvicinandosi sempre più all’immagine stereotipata di una popolazione inferiore. La loro morte poteva essere presentata come una soluzione più umana delle loro sofferenze. I ghetti furono progressivamente svuotati dall’invio ai campi di morte. Il ghetto era una soluzione provvisoria. Il progetto di purificazione razziale mirava a espellere definitivamente le popolazioni ebraiche dall’Europa intera, dirigendola a Est. Heydrich progettava di deportare 11 milioni di ebrei nella regione artica. LA GUERRA FARSA. UNA STRANA DISFATTA Di fronte all’attacco tedesco GB e FR avevano impiegato del tempo ad abbandonare la politica dell’appeasement. Dichiararono guerra il 3 settembre e ancora non si mossero. Il 14 dicembre 1929 la Società delle Nazioni espulse l’Unione Sovietica. Dopo l’invero le divisioni naziste mossero sui paesi scandinavi. La Danimarca cadde subito. La Norvegia venne invasa con diabolica efficienza. Truppe tedesche sbucarono dalle di navi mercantili ormeggiate da giorni dei più importanti porti, e mentre colonne di finti turisti e collaborazionisti norvegesi gettavano lo scompiglio, truppe e paracadutisti avanzarono su Oslo. A contrattaccare arrivarono gli inglesi che misero in campo un corpo di spedizione composto da inglesi, francesi e polacchi e sbarcarono nella Norvegia centrale, mentre le navi inglesi infliggevano pesanti perdite alla flotta tedesca. Si era arrivati a maggio del ’40, e la sconfitta incombeva sulla Francia. Il corpo di spedizione dovette essere reimbarcato. Mentre il re di Norvegia costituiva un governo in esilio a Londra, il potere fu assunto da un esponente fascista, Quisling, il cui nome divenne simbolo del collaborazionismo. Fino ad allora gli occidentali avevano continuato a non far nulla. Si parlò di drôle de guerre, guerra farsa. Fin dalla fine della guerra i francesi avevano vissuto un profondo senso d’insicurezza militare nei confronti della Germania. In Francia dopo la vittoria del 1918 aveva prevalso un atteggiamento difensivo e il simbolo di questo sentimento era stata la realizzazione di un progetto fortemente voluto da Maginot: la costruzione lungo tutta la frontiera nordoccidentale di una catena di fortificazioni lunga 150 miglia e larghe 7. La linea Maginot era il bastione più imponente mai costruito, era la più solida evoluzione delle trincee della grande guerra. Il 10 maggio 1940 i tedeschi sfondarono la Maginot e raggiunsero Parigi. Il 20 maggio le armate del Reich erano in vista della Manica. Il crollo della Francia ebbe aspetti singolari, si parla di una strana disfatta. Tra il 3 settembre 1939, quando era stata dichiarata la guerra, e il 10 maggio 1940, la Francia non combatté, non preparò alcun piano di attacco o di difesa e non completò nemmeno i lavori della linea Maginot. La politica interna subì una crisi; cadde un governo e con un solo voto di maggioranza se ne formo un altro, guidato da Reynaud. Nel precipitare nello stato d’emergenza, se gli imperi autoritari dell’Oriente europeo, quello tedesco e quello russo si dimostravano capaci di compattezza e di forza, nell’Occidente democratico le istituzioni rappresentative erano messe a dura prova. Giunto il momento fatale, il governo e la pubblica amministrazione non fecero altro che fuggire, abbandonando la capitale. I funzionari e gli impiegati lasciarono i ministeri, bruciarono gli archivi e di depositi di carburante; gli insegnanti furono invitati a mettere in salvo gli allievi. Nel giro di due giorni tre parigini su quattro abbandonarono la città. I tedeschi occuparono Parigi il 14 giugno 1940. Si ripeté l’affronto del 1870, e questa volta le truppe del Reich sfilarono lungo i Champs Elisè, con una prova di sopraffazione e vittoria. Mentre i parigini rientravano nella città governata dai tedeschi, il governo si ritirò a Bordeaux (per la terza volta in settant’anni). Lì si discusse il da farsi, se continuare a combattere o se firmare l’armistizio e arrendersi. La prima ipotesi, sostenuta dal presidente del consiglio Reynaud e dal sottosegretario di Stato alla difesa generale Charles de Gaulle, vedeva la dimensione internazionale del conflitto, che non sarebbe terminato con la sconfitta della Francia. Ma quando Reynaud dette le dimissioni gli subentrò Pétain e prevalse l’altra ipotesi, che cedeva al dominio nazista e cercava di salvare qualcosa della sovranità francese. La cerimonia dell’armistizio avvenne in una radura della foresta demaniale di Compiègne su un blocco di granito si poteva leggere «Qui l’11 novembre 1918 soccombette il criminoso orgoglio dell’impero tedesco, sconfitto dai popoli liberi che esso aveva cercato di rendere schiavi». In quel punto fu collocato lo stesso vagone ferroviario, dove nel 1918 era stata firmata la resa dei tedeschi, lì ora venne firmato l’armistizio. Era la guerra dei simboli dell’eterno conflitto francotedesco: dopo l’umiliazioni di Versailles del 1870 i francesi avevano trionfato nella Versailles 1919. E alla Compiègne vittoriosa del 1918 seguiva ora la Compiègne della sconfitta del 1940. Anche la Francia fu divisa in due zone, una comprendente Parigi sotto diretta occupazione tedesca, l’altra retta da un governo amico guidato da Pétain e installato a Vichy. Ma la Francia, diversamente dalla Polonia, non era destinata a far parte dello spazio vitale tedesco e a scomparire come nazione. I tedeschi lasciarono a Parigi la sua vita normale e godettero delle attrattive della ville lumière. Anche se vi fu in Francia un movimento di resistenza attivo e determinato (maquis) che univa nelle Forces française de libération partigiani repubblicani, cattolici, socialisti e comunisti, il nazismo poteva ben soddisfare alcune istanze reazionarie e antisemite da tempo presenti in Francia. Il governo di Pétain ebbe il consenso della popolazione, o per lo meno della parte che intendeva sostituire la triade storica di liberté, Nell’agosto 1940 la I armata italiana, comandata da Amedeo di Savoia- Aosta, marciò verso il Nord, in direzione dell’Egitto, mentre le truppe italiane occupavano le due Somalie. Intanto in Libia il governatore Italo Balbo faceva appello perché da Roma giungessero uomini e mezzi per attaccare le forze britanniche. Dopo che abbatté un aereo italiano, il comando passò a Graziani, e Mussolini dette ordini perentori di avanzata, sognando i entrare ad Alessandria. Graziani mosse 300.000 uomini dalla Libia verso Est, ma le truppe furono sopraffatte dagli inglesi. Nel frattempo, per celebrare l’anniversario della Marcia su Roma, il 28 ottobre 1940 200.000 soldati italiani avevano attaccato la Grecia dall’Albania. Dopo la Spagna e l’Etiopia, Mussolini era convinto di essere un grande stratega, e per di più pensava che si sarebbe trattato di una passeggiata. Fu lanciato un ultimatum alla Grecia la quale doveva lasciare entrare le truppe italiane. La Grecia si oppose all’ultimatum e poi la resistenza dell’esercito, anch’esso molto fragile, greco seppe fornire, allontanò gli invasori. Alla fine dell’anno i greci avevano respinto le legioni italiane a quasi 65 km all’interno dell’Albania, nella primavera successiva sarebbero arrivate le armate tedesche a risolvere la situazione. Per quanto riguarda i movimenti italiani in Africa, l’impero era stato lasciato a se stesso e gli inglesi avevano avuto la meglio, riuscendo a riconquistare il Kenya, poi il Mogadiscio e infine Addis Abeba. La guerra parallela degli italiani si era conclusa in modo sfavorevole. LA GUERRA SUI MARI E NEI DESERTI La Gran Bretagna e i suoi alleati avevano deciso di costruire attorno alla Germania un blocco commerciale e navale, ripetendo lo scenario della Prima Guerra Mondiale. Hitler aveva lanciato le sue navi corsare e i suoi sommergibili sugli oceani: in Atlantico, dove in un primo momento gli inglesi subirono gravi perdite, e sul mare del Nord, dove furono i tedeschi a subire un grave colpo. Lo scontro più spettacolare avvenne davanti alle coste argentine, dove la Graf von Spee combatteva una guerra corsara contro i mercantili inglesi rispettando le regole del mare che imponevano di salvare gli equipaggi delle navi affondate. Colpita, la Graf von Spee si rifugiò nel porto di Montevideo le poche ore consentite. Non potendo riprendere il mare, andò a lardo e si affondò e con essa il suo comandante si suicidò.La caduta della Francia avvantaggiò i tedeschi che ora disponevano dei porti atlantici. La flotta non aveva aderito alla Francia Libera di de Gaulle (solamente il Camerun e l’Africa equatoriale francese), cosicché le navi francesi nelle altre colonie africane costituivano un grande minaccia per gli inglesi. Dopo un ultimatum gli inglesi decisero di attaccare e affondare in porto gran parte delle navi francesi. Per mantener libere le acque del Mediterraneo e difendere Malta occorreva attaccare gli italiani. Il controllo del Mediterraneo centrale era il compito più importante della marina italiana. Ma ormai la guerra navale non si svolgeva più nello scontro tra grandi corazzate, bensì nelle battaglie dei convogli che garantivano il traffico di merci e il rifornimento delle armate sui vari fronti di guerra. Essenziali divenivano il controllo delle comunicazioni radio. I tedeschi avevano definito una macchina cifrante rapida e sicura, Enigma; mettendo a lavoro una squadra di tecnici, gli Ultra, gli inglesi riuscirono a penetrare Enigma. Nel novembre 1940, con un attacco nel porto di Taranto, metà flotta italiana fu messa fuori combattimento, e cinque mesi più tardi, nel mar Ionio, fu decimata. La guerra nel deserto aveva qualcosa in comune con quella sui mari: non richiedeva di conquistare territori abitati e di occupare villaggi. Era una guerra pulita, senza sofferenze di popolazioni civili, né di massacri. Era una guerra di movimento con lunghe corse negli spazi aperti e senza riparo. Nel febbraio 1941 prese il comando delle operazioni italotedesche Rommel. Da allora nei grandi spazi del deserto tra Libia ed Egitto, si svolse una serie di offensive e controffensive che alternativamente portarono gli inglesi ben addentro la Cirenaica italiana e le armate di Rommel verso Alessandria e Il Cairo. Tra 23 ottobre e il 4 novembre 1942, attorno alla città di El Alamein, le armate di Rommel, schiacciate dalla superiorità raggiunta dai britannici, subirono una sconfitta decisiva. Al comando generale Montgomery, i britannici erano arrivati ad avere il doppio degli uomini e dei mezzi. L’armata di Rommel fu praticamente distrutta. L’ATTACCO A EST Nella primavera del 1941 la Germania aveva sferrato il suo attacco ai Balcani, primo passo per l’aggressione all’Unione Sovietica, che costituiva l’obiettivo di fondo della politica tedesca. Nel marzo il principale reggente aveva firmato l’adesione della Jugoslavia al patto tripartito. Ma l’opinione pubblica era ostile al nazismo. Il reggente fu esiliato da un colpo di stato militare. Il paese per questo fu severamente punito. Il 6 aprile, Hitler attaccò la Jugoslavia mandandole contro 650.000 uomini da quattro fronti diversi. Con l’Operazione castigo Belgrado fu bombardata spietatamente. Il paese fu smembrato a vantaggio dei confinanti e secondo la logica dell’impero nazista. Insieme alla Jugoslavia le truppe tedesche attaccarono anche la Grecia, dove gli inglesi avevano appena cominciato a far affluire le loro truppe per difendere il paese. Ma in diciotto giorni la Grecia capitolò, e con una nuova Dunkerque gli inglesi riuscirono a evacuare. La svastica sventolò anche sull’Acropoli. La Germania proseguì le operazioni e invase Creta, con maggiori perdite ma di nuovo con pieno successo e nuovamente gli inglesi riuscirono a evacuare l’isola mettendo in salvo la gran parte delle loro truppe. Il nuovo ordine nazista sembrava realizzabile. L’avversario principale di Hitler rimaneva l’Inghilterra. La Germania doveva guardarsi alle spalle e liberarsi del pericolo costituito da una possibile saldatura tra Oriente e Occidente. Era stata questa, da parte tedesca, la logica del patto Malotov- Ribbetrop. Per Hitler era meglio disfarsi rapidamente dei sovietici e per questo fu deciso di dare inizio all’Operazione Barbarossa. Nel luglio precedente Hitler aveva ordinato di iniziare i preparativi per l’attacco a Est. Nei primi sei mesi del 1941 i preparativi erano palesi, ma ritenendo impossibile che Hitler intendesse combattere su due fronti, Stalin giudicò le informazioni opera di controinformazione del nemico per spingerlo alla guerra, e per questo motivo non si preparò alla difesa. Il 22 giugno 1941 i tedeschi varcarono la frontiera sovietica. Schierarono 12 armate per un totale di oltre 3 milioni di uomini. Altre 25 divisioni erano fornite dagli alleati. L’Unione Sovietica contrapponeva 15 armate per un totale di 5 milioni di uomini. Ma nessun piano di difesa o contrattacco era stato preparato. L’attacco tedesco era invece ben studiato e fu fulmineo lungo tre direzioni: a Nord verso Leningrado, al centro verso la Bielorussia, a Sud su Kiev e l’Ucraina. L’aviazione sovietica fu messa fuori combattimento. In pochi mesi lungo una linea che andava da Leningrado a Mosca fino a Odessa e alla Crimea, i tedeschi avevano conquistato enormi estensioni di territorio. Tuttavia i sovietici seppero opporre una resistenza determinata e già all’inizio di ottobre avevano raggiunto i due milioni di uomini. A prezzo di enormi sacrifici guadagnavano tempo. L’ordine era di fare terra bruciata attorno agli invasori: distruggere ogni cosa in una fascia di 40-60 chilometri dal fronte. L’avanzata divenne molto costosa per i tedeschi. Il 3 luglio Stalin, uscito dallo smarrimento iniziale, rivolse un appello al paese a unirsi per la difesa della patria. A settembre Kiev era caduta e Leningrado era stretta d’assedio. La città resistette per oltre 900 giorni, americani sbarcavano in Sicilia, mentre le truppe italiane combattevano sul Don. Nell’estate precedente Mussolini aveva mandato in Russia un primo corpo di spedizione chiamato CSIR che nel luglio 1942 fu denominato ARMIR. Fu un ulteriore disastro. La ritirata del Don e le sconfitte in Libia e in Grecia ripeterono la disfatta di Caporetto. L’insufficiente preparazione, le dotazioni inadeguate e la scarsa convinzione delle truppe hanno caratterizzato le guerre degli italiani lungo tutta la storia unitaria. DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO Nel frattempo in Oriente il Giappone faceva la sua avanzata. Dopo aver conquistato Pechino e alcune regioni della Cina, le truppe giapponesi si mossero verso l’Indocina, la Thailandia, la Birmania e la Malesia. I Giapponesi ripresero inoltre il progetto, abbandonato dagli inglesi di collegare la capitale thailandese a quella Birmana tramite una ferrovia; ma nemmeno loro riuscirono a portare a termine il progetto. L’impero Giapponese mirava a estendere i suoi domini fino all’Australia a Sud e a Est fino all’arcipelago delle Hawaii. Il Giappone aveva avviato un’impresa di dominio imperiale di cui non si vedevano i confini e che solo un forte contraccolpo avrebbe potuto fermare. Gli USA decretarono sanzioni economiche; l’industria giapponese dipendeva fortemente dalle materie prime è la lotta per il controllo del Pacifico divenne inevitabile. Tra il 7 e l’8 dicembre 1941, i giapponesi, con un’ardita operazione aeronavale, attaccarono a sorpresa con due ondate di 300 aerei la base americana di Pearl Harbour, nelle Hawaii. L’attacco fu un trauma per l’opinione pubblica americana, dovevano intervenire subito. Il Congresso superò tutte le resistenze ad entrare in guerra. Si diffuse la diceria che Roosevelt fosse a conoscenza dell’attacco ma che non avesse fatto nulla per poter entrare in guerra con facilità. Il giorno seguente Pearl Harbour, Roosevelt firmò la dichiarazione di guerra al Giappone. Si aprì così un nuovo fronte, nel Pacifico. L’11 dicembre Italia e Germania dichiararono guerra agli Stati Uniti. Nel gennaio precedente Roosevelt si era fatto paladino di una battaglia democratica, enunciando le quattro libertà (di parola, di culto, dal bisogno, della paura). Il 15 agosto 1941 Roosevelt incontrò Churchill e con lui concordò i termini dell’assetto mondiale futuro. Gli 8 punti dell’intesa ribadivano i diritti dei popolo, la loro intesa pacifica, la cooperazione economica internazionale, la rinuncia alla guerra, l’obiettivo del disarmo. Il documento fu chiamato Carta Atlantica che sarà alla base delle Nazioni Unite. Un mese dopo venne firmata dall’Unione Sovietica. Intanto i giapponesi continuarono la loro avanzata in Asia occupando le Filippine e l’Indonesia. Il 15 febbraio 1942 presero alle spalle Singapore, perno del sistema difensivo britannico giudicato imprendibile, ma che in realtà era fortificato solamente dal mare. A Est gli americani riuscirono a fermare i giapponesi in una serie di grandi battaglie navali. Nel maggio 1942 le squadre delle due potenze si scontrarono nella battaglia dei mari di Corallo, dove gli americani riuscirono a impedire lo sbarco giapponese in Nuova Guinea. Un mese più tardi gli americani riuscirono a decifrare i piani del nemico per un nuovo attacco alle Hawaii e tra il 4 e il 6 giugno affrontarono i giapponesi nell’arcipelago di Midway. Le truppe americane stavano anche aiutando gli inglesi a combattere contro italiani e tedeschi in Nord Africa. L’8 novembre 1942 americani e inglesi sbarcarono in Marocco e in Algeria in un’operazione congiunta alla quale si unì anche la Francia Libera di de Gaulle. All’inizio del ’43 in una conferenza svoltasi a Casablanca i rappresentanti del fronte antinazista decisero che avrebbero accettato dalle potenze del patto tripartito solo una resa incondizionata. GLI ALLEATI SBARCANO IN ITALIA A Casablanca Stalin non era andato, scrisse dunque una lettera a Churchill e Roosevelt ricordando loro la pressante richiesta sovietica di aprire un secondo fronte europeo. I piani angloamericani miravano a eliminare della guerra l’Italia, considerata l’anello debole dell’Asse, perché la ritenevano militarmente inadeguata e perché pensavano che il fascismo non avesse il pieno consenso della popolazione. Gli alleati miravano ad una pace separata. Gli alleati erano pronti a investire il continente nell’Italia meridionale. I sovietici, contrari all’operazione, accettarono purché vi partecipassero truppe di second’ordine. Il 10 luglio 1943 scattò l’Operazione Husky; dopo qualche giorno gli americani giunsero a Palermo. Il 19 luglio 500 bombardieri americani sottoposero Roma a un violento bombardamento. Colpire Roma aveva un forte significato simbolico, e gli Alleati ne avevano discusso a lungo, progettando anche di dichiarare Roma città aperta, non militarizzata. Il 6 agosto conquistarono la roccaforte di Troiana, nel cuore della Sicilia. In meno di un mese quasi tutta l’isola era conquistata. I bombardamenti alleati colpivano dove volevano, l’economia siciliana ara allo stramo, interi reparti disertavano. Il regime non resse. Il 25 luglio a Roma si era riunito il Gran Consiglio del fascismo e aveva messo in minoranza Mussolini, che all’uscita da un’udienza col re fu arrestato. Fu un colpo di stato morbido, con la parvenza di un voto di sfiducia. Il re Vittorio Emanuele III nominò un nuovo capo del governo, il maresciallo Badoglio. Ad apprendere la notizia che Mussolini era stato rimosso, le piazze esplosero di gioia; ma Badoglio si affrettò a dire che la guerra continuava. Pochi ci credettero e non ci credettero i tedeschi, che inviarono in Italia nuove divisione e consolidarono le proprie posizioni nella penisola. Il governo italiano non cambiò fronte, non si premunì contro i tedeschi e iniziò a trattare con gli angloamericani senza alcun piano, e chiedendo agli Alleati di sbarcare a Nord di Roma per proteggere il paese dalla vendetta tedesca. Né il re né Badoglio né il comando supremo dettero alcuna direttiva alle truppe. Nessuna intesa fu concordata e fra i tedeschi prevalse il disprezzo verso gli italiani. Il 3 settembre emissari del governo Badoglio firmarono un armistizio. Solo l’8 settembre gli italiani seppero di non essere più in guerra con gli angloamericani. Badoglio non diceva da che parte doveva stare, ordinava solo di reagire a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza. Le truppe inglesi di Montgomery raggiunsero la Calabria e un’armata americano sbarcò a Salerno. Eisenhower si appellò a Badoglio dicendo che tutto l’onore dell’Italia dipendeva dal ruolo che le forze armate italiane avrebbero giocato in quel momento. Nel frattempo un corteo di automobili di Stato aveva appena lasciato Roma alla volta di Pescara. I posti di blocco tedeschi lasciarono fare. A bordo c’erano i ministri, il re, Badoglio. Si trattava di uomini in fuga dalle loro responsabilità, a Pescara s’imbarcarono verso Bari. Fu anche deciso di non difendere Roma e subito dopo Badoglio confermò l’ordine di non attaccare i tedeschi, bensì di reagire vigorosamente alle loro aggressioni. Il 14 agosto Roma fu dichiarata città aperta, concetto non ben definito, che era inteso a rispettare simbolicamente la sede della Chiesa. Tutto il paese gioiva per l’arrivo degli Alleati, era strano che un paese gioisse delle proprie sconfitte, ma era il segnale di una dissociazione già avvenuta nelle coscienze degli italiani. Rimasto senza ordini, l’esercito si sbandò, i soldati seguirono gli ufficiali nella fuga, nella ricerca di abiti civili. Il 13 ottobre Badoglio dichiarò guerra alla Germania. In quel vuoto una
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