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Il papa fariseo e la lupa, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Intero riassunto del libro con parafrasi annessa

Tipologia: Sintesi del corso

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Caricato il 28/09/2021

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letizia-catania 🇮🇹

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Scarica Il papa fariseo e la lupa e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! IL PAPA FARISEO E LA LUPA. LETTURE DANTESCHE CAPITOLO 1: LA LUPA E L’ORSA. NICOLO’ IT, BONIFACIO VIII E IL CLERUS CARNALIS (If. XIX) Nelle opere di Dante i temi dell’avarizia, della cupidigia e della stupidità dei mortali, che fondano la loro esistenza sull’accumulare cariche e averi, si ritrovano intrecciati. Entrambi sperimentarono le malvagità della vita pubblica, dove il folle desiderio di onori e denaro rende gli uomini sordi e ciechi di fronte alle ragioni della pace e della giustizia. Il problema della simonia e della corruzione ecclesiastica non era nuovo nel panorama teologico e letterario medievale: già prima, alcuni autori mostrarono piena consapevolezza dell’intollerabilità dei traffici illeciti che avvenivano nei sacri palazzi. A queste questioni è dedicato il canto XIX dell’Inferno. ® Simon mago, o suoi miseri seguaci che, avidi, prostituite in cambio d'oro e d'argento le cose di Dio che devono essere spose della bontà, ora è necessario che per voi suoni la tromba, visto che siete nella III Bolgia. (1-6) Versi 1-6. La foga con cui il poeta esordisce ci fa comprendere la sua smania di flagellare il vizio oggetto costante della propria indignazione: la simonia. Nell’apostrofe (figura retorica che si ha quando un personaggio, o la voce narrante, si rivolge a un uditore ideale, diverso da quello reale, al fine di persuadere meglio quest'ultimo) accusatoria, Dante punta il dito contro l’iniziatore del peccato punito nella terza bolgia insieme ai suoi seguaci. La simonia di cui parla consiste in tutte quelle attività volte a sostituire nella Chiesa il bene comune con quello privato. Rientrano così in quest’ambito tanto il nepotismo pontificio (tendenza dei papi a favorire i propri familiari) quanto il prendere parte alle contese politiche determinando rovesci per interessi personali. Precisa Dante che “le cose di Dio” (cioè gli ordini sacerdotali e i benefici ecclesiastici) devono andare soltanto ai buoni, a coloro che mettono in pratica il bene. Giustizia e diritto si configurano come fondamenti del vivere, che conferiscono senso e dignità alla vita umana e il cui opposto Dante individua nella cupiditas. Posto che la giustizia e la cupidigia si annullano a vicenda e che la simonia è una forma di cupidigia, risulta logico e comprensibile che gli effetti perversi della corruzione ecclesiastica si manifestino in tutta la loro gravità proprio sul piano del diritto e dell’equità, in quel “calcare i buoni e sollevare i pravi” che rappresenta il culmine dell’esperienza del male. La Chiesa si trova a essere minacciata da pastori “rapaci” e infedeli alla sposa di Cristo. “Rapaci” è un aggettivo prezioso per Dante, denso di una forte valenza spirituale ed etica che deriva dal modello evangelico, nel quale si biasimano i falsi profeti, detti “lupi rapaces”. Molte di queste immagini e tematiche (pastori che si fanno lupi, Chiesa sposa di Cristo) vengono riproposte da Dante in diverse combinazioni. Per Dante, la lupa ha un peso determinante nelle sciagure dei mortali e perciò le assegna nella Commedia un ruolo centrale già a partire dal primo canto, dove lei è la più insidiosa delle tre fiere e si dice che sia all’origine dei mali di Firenze e dell’Italia, in quanto fonte di ingiustizie e inganni. E la Chiesa l’ha spesso ospitata, così che molti al suo interno hanno concepito dentro sé stessi un insano desiderio di onori e ricchezze. Si comprende così il motivo per cui il poema assume spesso l’aspetto di una condanna alla cupidigia che domina i cuori. I versi 5-6 costituiscono una transizione che conduce a una ripresa, temporanea e illusoria, della narrazione. Il poeta sembra incapace di trattenersi: è come se il Dante moralizzatore avesse preso il sopravvento sul Dante personaggio e viaggiatore. Si abbandona a una nuova apostrofe, stavolta però di segno opposto alla prima, in cui l’indignatio e l’ira cedono il posto a un senso di soddisfazione e di appagamento che non consente varchi. ® O suprema sapienza, quanta perfezione dimostri in cielo, in terra e nell'Inferno, e con quanta giustizia la tua virtù distribuisce premi e castighi! (10-12) Versi 10-12. Se in precedenza Dante si era dimostrato turbato di fronte alla natura inflessibile e rigorosa del flagello divino, qui invece allarga il suo orizzonte “alla contemplazione di una sfera d’ordine che si afferma universale”, prevale in lui un’ammirazione per il Creatore che, accoppiando arte e giustizia, contraccambia i suoi infedeli servitori. All’esaltazione di Dio segue la descrizione del luogo e del castigo dei simoniaci. Secondo Pagliaro, non vi è un rapporto tra peccato e pena. Dante però ha appena lodato la sapienza di Colui che distribuisce secondo giustizia in tutto l’universo: se qui non sussiste alcun contrappasso, l’elogio verrebbe smentito. Con questi versi, Dante obbliga da un lato il lettore a individuare delle precise corrispondenze, dall’altro offre a sé stesso uno strumento di distanziamento fingendo che la pena descritta non sia frutto della sua fantasia, ma dell’arte divina. * Io vidi la roccia scura, lungo le pareti e sul fondo della fossa, piena di buchi, tutti della stessa larghezza e di forma circolare. Non mi sembravano né meno ampi né maggiori di quelli che servono come fonti battesimali nel bel battistero fiorentino di San Giovanni; non molti anni fa ne ruppi uno per salvare una persona che vi stava annegando, e questa sia la testimonianza che corregga l'errore di chi è male informato. (13-21) Versi 13-21. Per farci capire la conformazione del luogo, Dante ricorre a un dato della realtà quotidiana che gli permette di tornare col pensiero ai luoghi cari dell’amata patria e non è un caso che ciò avvenga nel canto in cui condanna la cupidigia di colui che lo ha mandato in esilio: Bonifacio VIII. Compara i fori di cui l’intera bolgia è costellata a quelli presenti all’epoca nel battistero di S. Giovanni (dove Dante è stato battezzato), manifestando la speranza di un ritorno a Firenze. Resta da capire perché abbia scelto di introdurre qui quello che sembra essere un banale fatto di vita vissuta, di cronaca spicciola. Dante, infatti, fu sempre restio a raccontare di sé e delle sue vicende personali, come aveva già detto in un passo del Convivio, poiché “parlare d’alcuno non si può senza che il parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla”. Tuttavia, ammette che “per necessarie ragioni il parlare di sé è conceduto”. In particolare si può parlare di sé due casi: la prima è quando parlare di sé serve per far cessare un’infamia o un pericolo; la seconda è quando il parlare di sé funge da insegnamento pedagogico per gli altri. A questo punto resta da chiedersi: quale di queste due eccezioni giustifica i versi citati prima? La prima eccezione formulata da Dante è relativa all’esigenza di discolparsi da un’accusa malevola. E sembrerebbe questa l’ipotesi più ovvia e naturale: in tempi di feroce contesa politica, le malelingue avrebbero avuto facilità di speculare sull’evento mettendo Dante in cattiva luce, dipingendolo come un profanatore di luoghi sacri. La seconda eccezione nasce invece da esigenze di carattere dottrinale, per cui le vicende personali acquistano valore di esemplarità per il lettore. Tuttavia, sembra che entrambe le teorie pecchino, l’una per eccesso di biografismo, l’altra per eccesso di astrattezza, attribuendo al fatto un valore puramente morale. È possibile comunque tentare una conciliazione fra di esse: da un lato non bisogna necessariamente negare fondamenta storiche all’episodio, né d’altro canto gli si può negare un valore etico. Dante sta infatti per scagliare una terribile invettiva contro i pontefici del suo tempo, ed è la prima volta che lo fa in maniera così esplicita. Celestino V, “colui che fece per viltade il gran rifiuto” (aveva ciò rinunciato alla tiara/al papato), era stato indicato soltanto con una perifrasi (figura retorica che può essere usata per evitare una ripetizione ravvicinata dello stesso termine, per rendere meglio comprensibile un concetto complicato dal punto di vista tecnico, oppure per evitare termini che possono essere percepiti come non rispettosi); quanto a papa Anastasio (iniziatore dell’eresia monofisita, secondo la quale la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina e dunque in lui era presente solo la natura divina), questi era morto ormai da 800 anni ed era una figura poco nota, così la sua inclusione fra gli eresiarchi (fondatori di un’eresia) non avrebbe suscitato condizione in cui si trova. È lui uno dei dannati del tutto privi di coscienza e di scrupoli morali. Secondo Brezzi, Niccolò III non sarebbe il protagonista del canto, ma l’autore si servirebbe di lui come pretesto per lanciare accuse contro i suoi veri avversari: Bonifacio e Clemente V. L’intera storia della Chiesa fra il XIII e il XIV secolo fu contrassegnata dalle sciagure degli orsatti. Senza dire poi che la superba caratterizzazione del personaggio, la sua umanizzazione, ne fanno una delle più originali e bizzarre invenzioni di tutto il poema. Non si fatica a comprendere come, dopo i rivolgimenti politici e le contese che il pontificato di Bonifacio VIII aveva prodotto, l'elezione di un papa umile e modesto come Benedetto IX sarà apparsa a coloro che avevano più a cuore le sorti della cristianità l’alba di un nuovo giorno. Successivamente alla scomparsa di questo papa, venne eletto Clemente V; costui è per Dante “di più laida opra” perfino di Bonifacio VII. Il poema è pieno di accuse contro il papa, dove Dante prende in considerazione di volta in volta aspetti differenti del suo malgoverno, senza per questo nominarlo mai espressamente. Anche al di là delle subdole macchinazioni messe in atto contro la pace e i disegni della Provvidenza, la sottomissione della Curia alla Francia e il trasferimento ad Avignone della sede papale rimangono i suoi crimini più gravi. Siamo all’arringa conclusiva e all'emissione della sentenza da parte del poeta-giudice. Dante ha un momento di esitazione in ragione dell’alta dignità già ricoperta in vita dall’Orsini (versi 100- 103). Assai meno gravi risultano invece le parole che rivolge ad Adriano V nel XIX canto del Purgatorio, l’atteggiamento nei suoi confronti è più umile. Ciò dipende certamente dalla diversità tra lui e Niccolò III: pur essendo entrambi avari e avidi, Adriano si era ricreduto nei suoi ultimi giorni terreni, constatando l’inconsistenza dei beni mondani; in Niccolò non vi è accenno di pentimento o rimorso. È proprio quest’insensibilità morale che porta Dante ad ammonirlo. Con una sfilza di citazioni strutturali, il viaggiatore (laico) ammonisce il dannato (un religioso), riferendo i passi biblici a comportamenti comuni fra i pontefici del tempo. Versi 90-96, 106-111. La domanda con cui Dante esordisce è ovviamente ironica. Quella di “oro” e “argento” è un’associazione topica di origine evangelica, che qui risulta appropriata in relazione alla compravendita della tiara di cui si rese responsabile Clemente V. La menzione del “Vangelista” è un locus classicus della cultura mediev ale; Dante fa qui riferimento a un passo dell’Apocalisse. Secondo un’interpretazione allora diffusa, nella meretrix magna si riconoscerebbe la Roma cristiana, nelle sette teste i Sacramenti e nelle dieci corna i comandamenti. Non è tuttavia una visione pessimistica: gli empi trionfano della loro malvagità e i fedeli cristiani vengono perseguitati, ma arriverà la vittoria finale dell’Ecclesia spiritualis e la punizione della meretrix magna. La conclusione dell’allocuzione dantesca ci riporta infine alla vexata quaestio della donazione di Costantino, ampiamente sviscerata nel III libro della Monarchia (versi 115-117). * Ahinè, Costantino, quanto male ha causato non la tua conversione, ma quella donazione che da te ebbe il primo ricco papa (Silvestro)!» (115-117) Versi 115-117. Nel suo trattato politico, Dante dimostra con argomentazioni giuridiche l’illegittimità della donazione e la malafede di quei decretalisti che di essa si servivano per avvalorare l’opportunità di riunire nelle mani del vicario di Cristo il potere temporale e quello spirituale. La donazione è illegittima sia per l’indisposizione della Chiesa ad accettare i beni mondani, sia per l'impossibilità dell'Imperatore di scindere l’Impero, in quanto ne comporterebbe la 5 distruzione. L’utilizzo del termine dote ha indotto alcuni studiosi a ritenere che, secondo l’autore, Costantino non avrebbe voluto dividere l’Impero dando a Silvestro I il potere su Roma, ma assegnare ad essa una dote, l’usufrutto di un patrimonio destinato al sostentamento del clero e dei poveri. L'impiego di questa parola andrebbe ricondotto nell’ambito della metafora della Chiesa sposa di Cristo. Certo è che il poeta fa salva la buona fede di Costantino. Nel XX canto del Paradiso, la sua anima si ritrova addirittura nell’occhio dell’aquila (versi 58-60). ® E mentre io gli rivolgevo tali parole, il dannato scalciava forte con entrambe le gambe, o perché adirato o per rimorso di coscienza. Io credo che il mio maestro approvasse, visto che ascoltò il mio discorso veritiero con volto sempre sereno. Allora mi prese con entrambe le braccia; e poi che mi strinse tutto al suo petto, risalì per la via da cui era sceso. Non si stancò di tenermi stretto finché non mi portò sul punto più alto del ponte, che unisce il quarto al quinto argine. Qui pose dolcemente a terra il carico, che era dolce da portare attraverso la roccia ripida e scoscesa e che sarebbe un duro sentiero anche per le capre. Da lì mi fu mostrata un'altra Bolgia. (118-133) Versi 118-133. Lasciati i toni severi dell’invettiva, Dante torna a un tono e a un lessico “comici”, registrando la reazione del simoniaco: di fronte alla forza degli argomenti esposti dal viaggiatore, all’altra moralità e religiosità da cui essi traggono alimento, questi replica nell’unico modo possibile, muovendo per l’ennesima volta le zanche, ciò che ribadisce l’inconsistenza della sua dimensione umana ed etica. Virgilio, in quanto pagano, non può pronunciarsi su questioni di ordine strettamente religioso e si limita ad accompagnare il discepolo. CAPITOLO 2: IL PAPA FARISEO, IL “CORDIGLIERO” FRAUDOLENTO E IL DIAVOLO “LOICO”.IL MONDO ALLA ROVESCIA DI GUIDO DA MONTEFELTRO (If. XXVII) Dante è un autore teatrale nel senso etimologico del termine per la sua innata capacità di dare agli episodi un rilievo plastico che induce nel lettore una composizione visiva delle immagini. Che ciò sia vero lo attesta il canto di Guido da Montefeltro, che potremmo suddividere in un prologo, tre atti e un epilogo. La scena si apre nella bolgia ottava, quella dei consiglieri fraudolenti, la stessa che aveva visto Ulisse narrare ai due pellegrini il suo “folle volo” e che qui prende le mosse, col singolare dialogo tra il poeta fiorentino e Guido, una commedia degli equivoci “vivacissima, forse la più geniale dell’intero poema”. Nel racconto del dannato si possono individuare tre atti, il primo dei quali si svolge nel palazzo apostolico, dove ha luogo il drammatico colloquio tra il Romagnolo e papa Bonifacio VIII, una scena che si configura come una delle più alte attestazioni dello spirito tragico dantesco. Nel secondo atto vi è la contesa dell’anima di Guido tra il diavolo “loico” e san Francesco. Col terzo atto scendiamo dalla terra agli inferi, dove si consuma la tragedia finale con la condanna del Montefeltro da parte di Minosse. Il breve epilogo ci riporta al quadro iniziale, senza più però quello spirito di commedia che animava il prologo, ma è contrassegnato da un’amarezza che ispira sentimenti di commozione al lettore-spettatore. A più di un critico è sembrato che il vero protagonista di questo canto fosse Bonifacio VIII, riducendo così la figura di Guido a un pretesto per introdurre il personaggio del pontefice. Sembra tuttavia che tale interpretazione contrasti col fine rilievo psicologico ed emotivo che contrassegna lo stratega romagnolo, la cui presenza all’interno dell’episodio supera la mera funzione strumentale. Per capire la presenza di questo personaggio bisogna rispondere a due domande: perché, dopo aver dedicato un intero canto ai consiglieri di frode, Dante sente l’esigenza di introdurre un altro dannato macchiatosi della medesima colpa? Quale ruolo egli assegna a Guido in relazione a Bonifacio VII? Alla prima questione, Carli e altri dopo di lui hanno risposto sostenendo che la figura eroica di Ulisse non sarebbe stata “atta ad incutere quel salutare terrore del peccato che è negli intendimenti morali del 6 poeta”, quindi per controbilanciare l'ammirazione e la simpatia suscitate da questi, Dante avrebbe stabilito di far convergere lo sdegno e l’avversione dei lettori per l’infamante colpa punitiva nell’ottava bolgia su una figura ben poco degna di riverenza. Riagganciandoci alla prima domanda, sembra sia lo stesso Dante a rispondere implicitamente in quanto definisce “fiamma antica” quella che avvolge Ulisse, antica e perciò assai lontana dall’orizzonte civile e culturale di Dante, che, non a caso, si astiene dal dialogare con esso lasciando tale compito al suo maestro. Con Guido veniamo a un ambito ben più noto al poeta, quello delle lotte all’Italia. Per quanto riguarda il ruolo assegnato al Montefeltro in relazione a Bonifacio, è difficile non vedere come queste figure risultino del tutto complementari: se l’uno è un uomo d’armi fattosi “cordigliero”, l’altro è un chierico che si atteggia a uomo d’armi. e La fiamma (di Ulisse e Diomede) ormai era dritta e ferma, dato che non parlava più, e si allontanava da noi con il permesso del dolce poeta (Virgilio), quando ecco che un'altra, che veniva dietro di essa, ci indusse a rivolgere lo sguardo alla sua punta per un suono confuso che ne fuoriusciva. Come il bue siciliano, che muggì per la prima volta coi lamenti di colui che l'aveva forgiato col suo lavoro (e questo fu giusto), muggiva con la voce del torturato, tanto da sembrare trafitto dal dolore anche se era fatto di rame; così le parole misere si convertivano nel linguaggio del fuoco, perché all'inizio non trovavano una strada per uscire. Ma dopo che ebbero trovato una via d'uscita attraverso la punta, facendola muovere come la lingua al loro passaggio”. (1-18) Versi 1-18. All’inizio del canto, dopo che il “dolce poeta” mantovano ha congedato Ulisse, l’attenzione dei due viaggiatori si sposta su un’altra fiamma da cui fuoriesce un “confuso suon”, che è la manifestazione della volontà del dannato di parlare. Dante si sofferma maggiormente sui tentativi di costui di articolare la voce, più di quanto non abbia fatto nel canto precedente. Si può comunque intendere lo sforzo di Ulisse grazie all’utilizzo del verbo faticare: “mormorando pur come quella cui vento affatica”. Posto dunque che non si possono cogliere reali differenze né nella pena né nella capacità di proferire motto dei due consiglieri di frode, rimane da capire perché l’autore abbia voluto documentare in maniera dettagliata le complicate modalità espressive del secondo spirito, ricorrendo alla preziosa comparazione mitologica del toro di Perillo. Nel descrivere le pene che affliggono i dannati dei vari cerchi, il poeta ricorre sistematicamente a delle comparazioni di tipo naturalistico o di tipo storico-mitologico. Tuttavia, nel caso specifico, ci sembra che il mito di Perillo si configuri più come un fine che come un mezzo, che cioè la lunga dissertazione sul complesso sistema di comunicazione di Guido sia servita piuttosto da pretesto per introdurre il racconto classico. I versi 7-12 fanno riferimento alla diceria per cui Falaride, tiranno di Agrigento, avesse fatto costruire all’artigiano Perillo un bue di rame dentro al quale venivano posti i condannati a morte. Sia Perillo che Guido da Montefeltro sono due personaggi ugualmente colpevoli, proprio perché hanno fatto un uso sbagliato della ragione agli occhi di Dio. La ragione è il dono di Dio diretto esclusivamente agli esseri umani, ciò li distingue da tutti gli altri animali della terra e quindi essi ne hanno fatto un uso assolutamente distorto; lo scopo di questi personaggi era quello di provocare dolore, sofferenza e morte nel prossimo e quindi hanno compiuto un uso distorto e agli occhi di Dio inaccettabile della ragione umana. Quindi giusta è in questo senso la punizione di Perillo, che dopo la fabbricazione del bue viene condannato a morte da Falaride e sarà il primo a sperimentare l’orrido marchingegno che egli stesso ha ideato e giusta è anche la condanna di Guido da Montefeltro. ® Sentimmo dire: «O tu a cui io rivolgo la voce, e che poc'anzi parlavi italiano dicendo "Adesso va' pure, non ti stimolo più", non dispiacerti di trattenerti a parlare con me solo perché sono arrivato un po' dopo; vedi che a me non dispiace, e tuttavia brucio tra le fiamme! Se tu sei finito in questo mondo oscuro poco credibile sia stata la sua svolta spirituale. Guido ritiene di non poter vantare altro che la fama di geniale ideatore di frodi, tratto umanissimo fondato sull’illusorio convincimento che la morte corporale possa essere, se non vinta, almeno attenuata dalla memoria di sé. L'errore di Guido è duplice: da un lato dichiara implicitamente di confidare “nella vana gloria delle capacità umane”, verso la quale il disprezzo è tra i fondamenti della morale cattolica; dall’altro nemmeno si rende conto di quanto indegne di essere celebrate siano le sue gesta “di volpe” e la sua arte, che sono quanto di più contrario alle leggi d’onore e ai precetti del cristianesimo. Ma in cosa consiste la “tema d’infamia” di Guido? Certamente non è effetto di pentimento morale, in quanto egli sembra vantarsi delle proprie imprese, incurante del fatto che la frode è una grave colpa agli occhi di Dio. Ora, posto che il suo “lascito” alle generazioni future consiste nell’aver affinato tale arte, il timore del Romagnolo è che ne venga compromessa la reputazione col racconto di raggiro compiuto da papa Bonifacio, che non ha esitato a falsare la dottrina pur di conseguire l’effetto desiderato, determinandone così, almeno in parte, la dannazione. Solo in parte perché l’origine di essa andrà individuata nel troppo repentino e scarsamente meditato passaggio da “uom d’arme” a “cordigliero”. ® Il principe dei nuovi Farisei (Bonifacio), mentre combatteva una guerra vicino al Laterano (contro i Colonna), e non contro Saraceni o Giudei, poiché ogni suo nemico era cristiano, e nessuno di questi aveva assediato Acri o aveva mercanteggiato nella terra del Soldano; non ebbe riguardo né per il suo supremo ufficio, né per gli ordini sacerdotali, né per quel cordone francescano che era solito rendere magri quelli che lo indossano. Al contrario, come Costantino chiamò a sé papa Silvestro dal suo rifugio sul monte Soratte per guarire dalla lebbra, così lui chiamò me per guarire dalla sua terribile febbre: mi chiese un consiglio e io tacqui perché le sue mi sembravano le parole di un pazzo. Egli mi disse: "Il tuo cuore non abbia timore: io ti assolvo fin d'ora, purché tu mi mostri come devo fare per abbattere la rocca di Palestrina. Io posso chiudere e aprire il cielo (condannare e assolvere), come ben sai; infatti due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V) non ebbe care". Allora gli argomenti autorevoli mi convinsero, specie pensando che il tacere mi avrebbe procurato gravi conseguenze, e dissi: "Padre, dal momento che tu mi assolvi da quel peccato nel quale debbo ricadere, promettere molto e mantenere poco ti farà trionfare nel trono pontificio" (85-111). Versi 85-111. Quando Dante introduce personaggi che ricoprono o hanno ricoperto importanti cariche pubbliche, per restituire al lettore l’idea della gravità delle loro mansioni occupa un intero verso (o anche più) per designarli. Nel caso di Bonifacio VIII, non essendo ancora morto, l’indicazione proviene da un dannato che ha molto da accusare nei suoi confronti e che appunto per questo a lui si riferisce nel modo più infamante per un pontefice, accusandolo non solo di essere fariseo egli stesso, ma di essere a capo di una Chiesa divenuta ormai una congrega di nuovi farisei. Ma quale valore Dante assegnava a questo termine? Sulla scorta di quanto si legge nei Vangeli, esso è inteso come sinonimo di ipocrita e non c’è dubbio che tale attributo ben si adatti a chi con la frode ha cercato di carpire ad altri una frode, ma l'impressione è che qui il suo esser fariseo si riferisca più alla condotta anticristiana di cui ha dato prova in ogni frangente: il muover guerra contro altri cristiani per il conseguimento di beni mondati, la falsificazione della dottrina, la menzogna e l’inganno. Il colloquio tra Guido e Bonifacio VIII si configura come una parodia, in cui il pastore invita il penitente a tornare il peccatore di un tempo, garantendogli un’assoluzione anticipata che non solo è teologicamente insostenibile, ma che si rivela essere uno strumento di frode volto a ricevere un consiglio fraudolento. Lo stesso argomento delle due chiavi sembra introdotto per sottolineare il rovesciamento completo delle funzioni pontificie operato da Bonifacio, che interpreta la potestas solvendi et ligandi conferita da Cristo a Pietro come un esercizio dell’autorità arbitrario, 10 sganciato dalla morale evangelica che rende del tutto inefficace tale potere come pure, di conseguenza, la preventiva remissione del peccato promessa a Guido. Non che il papa ignori la reale funzione delle chiavi ereditate dai suoi predecessori, ma non sa distinguere il potere spirituale da quello temporale. Egli è perciò consapevole dall’inizio di quanto fantasiose e assurde siano le promesse fatte allo sciagurato interlocutore, eppure non esita a falsare la dottrina pur di perseguire il suo obiettivo. La gravità della condotta del malvagio pastore viene rafforzata e ribadita grazie anche alla comparazione del dialogo fra costui e Guido con quello che avvenne a suo tempo fra Costantino e Silvestro. Il primo colloquio determina la conversione del regnante pagano e apre la strada alla sua salvezza, mentre il secondo è all’origine della dannazione del neoconvertito; nell’uno il pontefice assolve al suo compito, nell’altro il suo successore persegue fini esclusivamente temporali. Si rifletta su un dato: la donazione di Costantino è ritenuta da Dante “madre” di tutti i mali della terra. Ora, se dal gesto dell’imperatore si sono originati tanti mali, com’è possibile che egli non solo si sia salvato, ma che ne abbia ricevuto in cambio un posto d’onore nel cielo di Giove, mentre il povero Guido, per un semplice consiglio estortogli con l’inganno, ne abbia ricavato una così triste ricompensa? Per rispondere bisogna richiamarsi al significato della giustizia e della misericordia nell’ottica dantesca: la sentenza divina prescinde dalla considerazione delle conseguenze delle scelte operate dagli uomini e si appunta invece sulle loro intenzioni; così, se Costantino agì con buone intenzioni ma ne ricavò cattive conseguenze, Guido era cosciente che il suo consiglio sarebbe stato fonte di sofferenza per altri, tradendo il senso stesso del cristianesimo, che è amore per Dio e il prossimo. “Lunga promessa con attender corto ti farà triunfar ne l’altro seggio”, l’espressione si traduce con “prometti a lungo, mantieni per poco tempo”. Ciò consisteva sostanzialmente nel far buon viso ai Colonnesi, ma chiudere loro le porte nel momento in cui bisognava mantenere ciò che si era promesso. Questi versi sono stati molto dibattuti, perché molti studiosi si sono domandati se questo episodio avesse un appiglio alla realtà, cioè se effettivamente vi sia stato un incontro tra Guido da Montefeltro e Bonifacio VIII. ® Non appena morii, poi, san Francesco venne a prendere la mia anima; ma un diavolo gli disse: "Non portarla via: non farmi torto. Egli deve venire giù tra i miei dannati, perché diede il consiglio fraudolento per il quale, da allora a oggi gli sono stato alle costole. Infatti non può essere assolto chi non si pente, e non è possibile pentirsi e voler peccare al tempo stesso, perché è una contraddizione in termini". Ah, povero me! come mi scossi quando mi prese, dicendomi: "Forse tu non pensavi che io fossi filosofo!" (112-123) Versi 112-123. L’anima di Guido diventa qui motivo di contesa tra due entità sovrannaturali, cioè un diavolo e San Francesco. Ad ispirare il poeta per questo episodio hanno contribuito suggestioni di origine non soltanto iconografiche (ad esempio i cicli pittorici medievali), ma anche letterarie. Ciò che manca a questi precedenti è la capacità di dipingere una scena che, pur appartenendo a una sfera oltremondana e dunque astratta, assume una concretezza plastica d’impressionante evidenza grazie ai contorni netti con cui è disegnata. Guido chiama i diavoli “neri cherubini” perché sono angeli che, a seguito di Lucifero, si ribellarono a Dio e vennero fulminati cadendo così nelle viscere dell’Inferno. I diavoli all’interno della Commedia sono generalmente personaggi osceni, detestabili e disgustosi anche nel modo di esprimersi, qui invece siamo davanti ad un diavolo che è logico, un esperto di filosofia. Del resto, nel momento in cui uno spirito viene condannato, il diavolo finisce per essere anche lui uno strumento della giustizia divina e quindi proprio per questo San Francesco si trova in una posizione scomoda, nella quale non può fare nulla, perché sa benissimo che gli argomenti del diavolo sono inoppugnabili. Perché San Francesco va in salvo a Guido allora? Lo fa per spirito di bontà, perché si tratta di un suo fratello e vorrebbe che tutti gli uomini fossero salvi. Egli non può andare contro la giustizia 11 divina e quindi l’anima di Guido viene portata dal diavolo all’Inferno. Il luogo nel quale si svolge questo episodio non viene indicato dal poeta, avviene in una sorta di “terra di mezzo”, non si trova sulla terra, ma nemmeno nell’aldilà. In una sorta di terra indefinibile, grigia, nella quale l’anima di Guido si è già liberata dal corpo, ma non è ancora scesa nell’Oltretomba. * Mi portò davanti a Minosse; e quello attorcigliò la coda otto volte attorno alla schiena dura; e dopo essersela morsa per la gran rabbia, disse: "Questo deve andare tra i peccatori del fuoco che li sottrae alla vista"; ed ecco perché sono perduto qui dove mi vedi, e avvolto così dalle fiamme mi dolgo camminando». Quando il dannato ebbe finito di parlare, la fiamma si allontanò dolorante, torcendo e sbattendo la punta aguzza. Noi (io e la mia guida) andammo oltre, su per il ponte fino al successivo che sovrasta la Bolgia in cui sono puniti quelli che, seminando discordie, si gravano di peccato. (124-132) Versi 124-132. Nell’ultimo atto (terzo) della tragedia di Guido lo scenario cambia nuovamente e con rapidità, facendoci piombare nuovamente nell’Inferno al cospetto di Minosse, una sorta di guardiano al cui sguardo indagatore nulla sfugge, che giudica i dannati e le sue sentenze che, essendo legittimate dal potere divino, sono infallibili. Egli avvinghia il dannato e decreta il numero del girone compiendo dei giri con la coda attorno ad esso. Nel caso specifico di Minosse, gira la coda otto volte intorno all’anima di Guido e stabilisce che deve andare nel cerchio ottavo e precisa che costui appartiene ai “rei del fuoco furo”, letteralmente il fuoco ladro, il fuoco che toglie le fattezze agli spiriti, perché la fiamma li avvolge talmente tanto che è impossibile distinguere i loro tratti, quindi è come se il fuoco “rubasse” la loro identità. Dopo aver decretato il cerchio nel quale collocare l’anima di Guido, la reazione di Minosse è singolare, egli si morde la coda per la rabbia. Su questo verso sono stati scritti innumerevoli saggi con differenti interpretazioni di questo particolare gesto. Possiamo ridurle a due interpretazioni principali: da un lato ci sono coloro che ritengono che questa rabbia sia sprigionata dal fatto che Minosse individua il vero colpevole delle sventure di Guido da Montefeltro in Bonifacio VIII e quindi, siccome non vede l’ora di agguantarlo, ma non può averlo perché è ancora vivo, per la rabbia si morde la coda; un’altra ipotesi invece è quella che Minosse indirizza questo gesto esclusivamente nei confronti di Guido, cioè riconoscendo in lui un peccato gravissimo e per la rabbia si morde la coda. Entrambe le interpretazioni risultano poco persuasive: la prima è poco convincente perché, anche se è vero che all’Inferno tutti aspettano Bonifacio, replicare questa attesa sembra un po’ eccessivo; la seconda poco probabile perché all’Inferno vengono puniti peccati ben più gravi e non risultano gesti analoghi da parte di Minosse. Sarebbe opportuno tener conto del fatto che questa scena viene raccontata da Guido, quindi da un punto di vista non oggettivo, il che non vuol dire che nella realtà dei fatti le cose si siano svolte necessariamente così. È probabile che Minosse e il suo gesto non siano altro che una sorta di proiezione delle emozioni di Guido; il gesto altro non è che lo specchio della rabbia, della rancura di Guido. La rancura è una cosa più profonda del rancore, indica un tormento, qualcosa che inesorabilmente lo lacera dall’interno e non gli dà tregua. CAPITOLO 3: LE SIRENE DELLA “VITA BUGIARDA”. ADRIANO V E IL ROGO DELLA VANITA’ (Pg. XIX) La struttura del Purgatorio è diametralmente opposta a quella dell’Inferno. Dante e Virgilio, man mano che scendono nella voragine infernale, incontrano dei peccati che sono sempre più gravi, quindi vanno dal limbo (che è il primo girone infernale), fino all’ultimo girone che è quello dei traditori della Chiesa e dell’Impero. Attraverso la natural burella, Virgilio e Dante escono dall’emisfero opposto e tornano a rivedere le stelle e lì cominciano la loro scalata sulla montagna 12 trasformazione della femmina balba, seconda trasformazione in sirena e terza ritorno in femmina balba. Analizziamo separatamente questi due momenti, si può rintracciare una fonte nella poesia comico-realistica toscana, parodia del dolce stilnovo, sia per gli argomenti che per lo stile. I comici toscani descrivono delle donne che sono orribili, mostruose, arroganti, che si configurano come la perfetta antitesi della celeste e perfetta creatura, tanto cara agli stilnovisti. Il lessico nella poesia stilnovista è elegante, raffinato, mentre al contrario lo stile dei comici toscani è pieno di verbalismi. Si pensi al sonetto di Rustico Filippi, in cui il ribrezzo per la donna descritta non è soltanto di tipo visivo, ma anche olfattivo. Lo conferma un altro componimento del duecento, nel quale si descrive la donna amata come una personificazione della povertà. Un ritratto di questo tipo si può prestare ad una lettura di tipo allegorica, come lo stesso Dante fa. Inoltre, com’è possibile che egli descriva il mito di Ulisse e della sirena se non conosceva l'Odissea? Egli aveva conosciuto, anche se per sommi capi, il celebre episodio grazie alle opere di Cicerone e Seneca. Secondo Cicerone, ciò che ha spinto Ulisse ad ascoltare il canto delle sirene, non era la curiosità del potere del canto di esse, ma perché le sirene erano depositarie di grandi conoscenze di cui Ulisse voleva appropriarsi. Inoltre la figura della sirena è presente ai tempi della letteratura di Dante. Nei bestiari medievali (nei quali venivano descritte le caratteristiche degli animali) la sirena viene descritta come una creatura nuova, divisibile in tre categorie: metà pesce e metà donna, metà donna e metà uccello, metà donna e metà cavallo. La fonte a cui si avvicina maggiormente è il Bestiario moralizzato di Gubbio, nel quale ogni bestia ha un valore morale preciso, le sirene vengono descritte come animali che cantano assai dolcemente, facendo addormentare i naviganti, uccidendoli e mandandoli all’inferno. In sostanza la descrizione morale che ci viene qui data della sirena è molto vicina a quella di Dante, poiché si capisce che la figura della sirena è quella della perdizione. Riguardo al significato allegorico della visione, non sono state riscontrate particolari perplessità da parte degli studiosi. D'altronde, la sua collocazione strategica come preludio della scalata della parte sommitale della montagna, dove sono puniti coloro che con un eccesso di vigore amarono le cose terrene, non lascia dubbi sul fatto che il poeta abbia voluto qui dare spazio ai temi della vanitas vanitatum e del contempus mundi: i beni mondani, piacenti e inebrianti se valutati superficialmente non tardano poi a palesare la loro natura imperfetta e ributtante una volta provati. Resta però da chiarire l’identità della donna santa e presta, cruccio intorno al quale si sono interrogati i commentatori senza mai pervenire a una conclusione unanimemente accettata. Va precisato un dato che troppo spesso sfugge a interpreti moderni: l’appellativo antica strega non è impiegato dal poeta in senso dispregiativo, ma è sostanzialmente sinonimo di “sirena”. Oggi i termini di fata e strega sono visti come due termini antitetici. In realtà, ai tempi di Dante, fata e strega erano sinonimi e simboleggiano una creatura femminile che ha rapporti con il demonio, dotata di poteri soprannaturali, che ha negato la fede cristiana. La mostruosità delle streghe non è dunque di tipo estetico, ma etico e religioso. Dante, quando vi si imbatte nel canto XX dell’Inferno, non fa mai cenno ad una loro presunta deformità fisica, ravvisando piuttosto in loro delle donne comuni colpevoli di aver rinnegato la fede e di essersi votate al maligno. Di conseguenza, la donna santa e presta rappresenta un antidoto al veleno instillato dalla strega. Ma chi si cela dietro le fattezze di donna santa e presta? Possiamo avanzare due ipotesi: che la donna santa e presta sia una figura allegorica (es: filosofia, ragione, verità, giustizia) oppure che si tratti di una donna reale. Nel secondo caso, con ogni probabilità non possiamo che ravviarvi una delle “tre donne benedette” che sono già intervenute nel viaggio di Dante, ossia la Vergine, S. Lucia e Beatrice. Nei sogni del Purgatorio, due di queste donne le abbiamo incontrate già, l’unico personaggio che manca è quello della Vergine. Dante dice della Vergine (ultimo canto del Paradiso) che è colei che per sua benignità non solo soccorre a chi richiede un suo aiuto, ma molte volte corre in aiuto prima ancora che questi possa invocarla (è quindi presta). 15 * Non appena mi trovai nella V Cornice, vidi anime che piangevano e che giacevano tutte col viso rivolto a terra. Sentivo che dicevano 'La mia anima si è attaccata al suolo, con sospiri così profondi che le loro parole si capivano a malapena. «O anime scelte da Dio, le cui pene sono rese meno dure dalla giustizia e dalla speranza, mostrateci la via per salire alla Cornice successiva». «Se voi camminate senza essere costretti a giacere e volete trovare la via più velocemente, procedete col fianco destro verso la parte esterna della Cornice». Così pregò Virgilio e così fu risposto poco lontano da noi; e poiché io capii che quell'anima voleva dire altro, rivolsi lo sguardo al mio maestro: egli mi disse con un lieto cenno che potevo fare ciò che chiedevo col mio sguardo. Quando potei fare come volevo, mi portai sopra quell'anima le cui parole prima mi avevano permesso di individuarla, dicendo: «O spirito, in cui le lacrime fanno maturare ciò (il pentimento) senza il quale non si può tornare a Dio, arresta un momento per me la tua maggior preoccupazione. Dimmi chi tu fosti e perché avete la schiena rivolta in alto, e se vuoi che io ottenga per te qualcosa nel mondo da cui, vivo, provengo». (70-96) Versi 70-96. Il sogno della “femmina balba” anticipa tanto il clima quanto i temi della rappresentazione che sta per avere inizio. La sconfinata distesa degli avari che si presenta agli occhi del pellegrino non è altro che la dimostrazione empirica di quanto siano false le promesse della sirena. In coro esse recitano un versetto del salmo 118 “’Adhaesit pavimento anima mea” e lo fanno in una posizione che interpreta alla lettera il passo biblico, ossia stesi bocconi al suolo, con mani e piedi legati. Insieme alle suggestioni bibliche, Billanovich ha riscontrato in questo castigo una reminiscenza della Satira II di Persio contro l’avarizia dei sacerdoti. Ora può benissimo darsi, data la celebrità di questi versi, che Dante abbia tratto qualche ulteriore stimolo da essi, ma non è più corretto qui ipotizzare una più pregnante suggestione visiva: come non pensare a quel momento dell’ordinazione sacerdotale in cui i candidai sono prostrati a terra in segno di umiltà e di totale sottomissione a Dio? Mai contrappasso fu più comprensibile di questo, eppure Dante fa finta di non aver inteso appieno il senso della pena e ne chiede conto ad uno spirito, ciò a primo acchito potrebbe sembrare alquanto superfluo. E non è la sola cosa apparentemente bizzarra nel comportamento dei due viaggiatori: nemmeno il tempo di addentrarsi in questo girone, che il loro primo pensiero sembra quello di dirigersi verso il cerchio successivo. Infatti decidono di interrogare la moltitudine di anime circa la via che li condurrà al prossimo cerchio, richiesta prontamente esaudita da un’anima con una precisione che non lascia dubbi. Tuttavia, lo scambio di battute tra Dante e Virgilio e l’ignoto avaro merita qualche riflessione supplementare: l’interrogativo posto dall’autore latino, preso alla lettera, risulta piuttosto futile dal momento che la legge purgatoriale impone di procedere avanti muovendo sempre verso destra. D'altra parte, nel poema nulla risulta mai inutile o immotivato. Ha probabilmente colto nel segno, dunque, chi ha ravvisato nella frase “drizzate noi verso li alti saliri” un messaggio morale che si potrebbe tradurre con “il cammino verso la redenzione risulta più breve e celere se si evita ogni forma di avarizia e se, le destre, cioè le mani, sono sempre di fori, pronte a donare a chi ha bisogno”. Perfettamente comprensibile, quindi, il desiderio di Dante, assecondato dall’approvazione della sua guida, di approfondire la conoscenza di chi si è fatto portavoce di tali verità. Le frasi che egli indirizza al cortese interlocutore costituiscono un elogio allo zelo con cui questi cerca di guadagnarsi la clemenza divina. Sono toni amorevoli, che lasciano trapelare la viva partecipazione del poeta alle sofferenze dello spirito. Tre cose chiede Dante all’avaro penitente: le prime due sono di natura conoscitiva (la sua identità e il perché si trova lì), mentre la terza vuole essere un segno di gratitudine per le risposte ai due quesiti precedenti e un escamotage per esplicitare la sua natura di uomo in carne ed ossa. 16 * E lui a me: «Saprai perché il cielo rivolge a sé i nostri dorsi, ma prima sappi che io fui successore di Pietro (papa). Tra Sestri Levante e Chiavari scende a valle un bel fiume (l'Entella), e la mia casata pone il suo nome sulla parte alta del suo stemma nobiliare. Io provai per poco più di un mese come pesa il manto papale a chi lo preserva dalla corruzione, tanto che ogni altra carica al confronto sembra leggera come una piuma. La mia conversione, ahime! fu tardiva; ma non appena divenni pontefice, scoprii quanto bugiarda era la mia vita. Capii che in quella carica il mio cuore non trovava appagamento e non potevo aspirare a una dignità più alta; allora mi volsi con amore alla vita eterna. Fino a quel momento ero stata un'anima misera e del tutto separata da Dio, piena di avarizia; ora, come vedi, qui ne sconto la giusta pena. Qui la punizione inflitta alle anime convertite dichiara gli effetti dell'avarizia; e il monte non ha alcuna pena più amara di questa. Come il nostro sguardo non si levò in alto, restando fisso ai beni terreni, così la giustizia divina qui lo ha rivolto a terra. E come l'avarizia spense il nostro amore verso ogni bene spirituale, così che perdemmo la possibilità di ben operare, così la giustizia ci tiene stretti qui, legati nelle mani e nei piedi; e staremo qui immobili e stesi a terra tanto quanto piacerà al giusto Signore». Io mi ero inginocchiato e volevo parlare; ma non appena iniziai e lui si accorse, solo ascoltandomi, della mia riverenza, disse: «Per quale motivo ti sei chinato in questo modo?» E io a lui: «La vostra alta dignità mi impedì di restare in piedi». Rispose: «Drizza le gambe, fratello, alzati in piedi! Non cadere in errore: io sono soggetto a una stessa autorità, come te e tutti gli altri qui. Se hai mai compreso quel detto evangelico che dice 'Non ci si ammoglia', puoi ben capire perché dico questo. Ma adesso vattene: non voglio che ti trattieni oltre, poiché se resti qui ciò ostacola il mio pianto, con cui maturo ciò che prima dicevi. Io ho sulla Terra una nipote, chiamata Alagia, di grande virtù purché la nostra casata non la renda malvagia col suo cattivo esempio; mi è rimasta solo lei nel mondo». (97-145) Versi 97-145. Fedeli Romani ha individuato nell’inizio della risposta dell’avaro un apparente controsenso, in quanto essa “è tale che sembra che Dante abbia chiesto, prima di ogni cosa, perché il cielo rivolga a sé i diretri di quelli spiriti; ma il poeta ha cominciato col dire Chi fosti?”. In realtà l’avvertimento che fa l’anima è tutt'altro che superfluo, poiché mira a stabilire un ordine di logica consequenzialità a discorso, quali come se dicesse Solo dopo che avrai appreso chi fui e cosa ho fatto, potrai comprendere appieno il significato del castigo imposto a me. La sua vita assume così una chiara funzione illustrativa e didattica. Numerose e variegate sono le opinioni intorno all’uso del latino da parte del “successor Petri” per rivelare la sua alta dignità. Ora, è ben vero che in molti personaggi dell’inferno e del purgatorio si ritrova una minuscola parte dell’antico splendore, ma qui la formula curiale rientra piuttosto in un processo di penitenza, di umiliazione: il fatto stesso che il genitivo “Petri” faccia rima con “diretri” equivale a mettere implicitamente a confronto l’elevatezza della posizione raggiunta in vita con la mortificazione necessaria per purificarsi da tanta sfrenata ambizione. D'altra parte il verso combacia con quello pronunciato da Niccolò III “sappi ch’i fui investito da gran manto”, al punto che sembra quasi che Dante inviti il lettore a leggere i due canti parallelamente: evidenti sono le affinità sul piano narrativo (due papi divorati dalla medesima smania di potere), quanto su quello dottrinale (la condanna del clerus carnalis e di quella lupa che governa il mondo sotto le false spoglie dei pastori). Ma altrettanto palesi sono le differenze: concitato, attraversato da bagliori sinistri e violenti il primo, pacato e lento il secondo; l’uno dominato dai meschini sentimenti d’odio, l’altro del tutto decontaminato da passioni terrene. Riguardo all’identità del personaggio, ossia Adriano V, secondo Billanovich e Bosco il poeta avrebbe fatto confusione tra costui e Adriano IV. E poiché il medesimo equivoco si ritrova in 17 dell’inferno dove Virgilio ribatte le proteste di Pluto, il mostro posto a guardia del cerchio degli avari, in cui dice “taci maledetto lupo”. I maledetti in generale sono coloro che, come lupi voraci, accumulano ricchezze sacrificando il bene comune. Un altro esempio è il “maledetto fiore” (il fiorino) che si trova nei versi in cui parla di Marsiglia nel paradiso. Proprio le parole del provenzale sono le più correlate alle due terzine prese in esame: infatti si richiamano da un punto di vista strutturale, subito dopo parlano della requisitoria contro il clero e dopo della profezia di una prossima liberazione della Chiesa, si chiarisce anche il valore della condanna di Marsiglia. Marsiglia precisa che Firenze stessa produce ed espande il ‘maledetto fiore” e perciò è essa stessa fonte di corruzione. Virgilio stesso nel I canto dell’inferno disse che la lupa esiste da sempre e quindi Dante definisce maledette le ricchezze e maledetto l’avaro. La natura di questo male viene poi sviscerata nella Monarchia dove si individua nella carità la virtù contraria alla cupiditas. Questi sono dei concetti che tornano anche nella celebre lettera ai cardinali italiani. Quindi sarebbe logico aspettarsi dopo l’apostrofe alla lupa la rievocazione di avvenimenti in cui trionfano la giustizia e la carità. e Noi camminavamo con passi lenti e incerti, e io ero attento alle anime che sentivo piangere e lamentarsi in modo pietoso; per caso sentii: «Dolce Maria!», che di fronte a noi qualcuno invocava piangendo, come fa una donna che sta per partorire; e proseguì: «Tu fosti così povera come si può vedere dalla stalla dove hai partorito il tuo santo fardello». In seguito sentii: «O buon Fabrizio Luscino, tu preferisti essere povero e virtuoso piuttosto che ricco e vizioso». Queste parole mi erano piaciute a tal punto che mi spinsi più avanti per vedere meglio quello spirito che mi sembrava le avesse pronunciate. Questo parlava ancora della generosità di san Niccolò verso le fanciulle, perché potessero vivere onestamente la loro giovinezza (16-33) Versi 16-33. La leggenda di San Nicola indica che libertà e carità sono la stessa cosa; se libertà e carità sono uguali lo stesso si può dire anche di povertà e giustizia. Dante passa poi dal fortissimo dell’inventiva al pianissimo della ripresa della narrazione, accentuato da un ritmo “lento e scarso”, fino al momento in cui inaspettatamente si sente una voce che invoca la Vergine. “Dolce Maria” esclama uno spirito, sembra che stia implorando la madre del Redentore per la propria salvezza. Le sue, infatti sono espressioni di suppliche pronunciate tra le lacrime. Maria quindi diventa una donna che dà un’idea precisa della sofferenza (“donna che in parturir sia”) e anticipa e rafforza la successiva raffigurazione del presepe dove venne alla luce il “portato santo”. Secondo Ferruccio Ulivi, la madonna è una nobilissima accettazione della povertà. La sublimità di questo verso non si riscontra nei due successivi esempi, in cui secondo Varese soprattutto nel primo, quello del buon Fabrizio, non ritroviamo la sfera religiosa. Nel Convivio la morigeratezza del console romano veniva ritenuta da Dante una delle azioni della Provvidenza divina. Per quel che riguarda invece Nicolò, non si riesce a capire perché Zingarelli si sia scomodato così tanto per cercare un significato. * Io dissi: «O anima che parli così bene, dimmi il tuo nome e perché sei la sola a rinnovare queste degne lodi. Le tue parole non saranno senza ricompense, se io tornerò a completare il corto cammino di quella vita che corre alla sua fine». E 20 lui: «Ti risponderò, non perché io aspetti conforto dalle preghiere dei vivi, ma poiché in te riluce tanta grazia prima della tua morte. Io fui la radice della pianta maligna (i Capetingi) che fa ombra a tutta la Cristianità, cosicché raramente se ne colgono buoni frutti. (34-45) Versi 34-45. Compiaciuto dalle parole dello spirito, Dante cerca di capire chi è che parla e il motivo per cui solo lui ricorda quelle azioni virtuose. In cambio di queste informazioni egli promette di fargli ottenere dei suffragi in grado di accorciare il periodo della sua pena. L’anima, prima ancora di svelare il proprio nome (che fra poco si presenterà come Ugo Capeto), precisa di essere disposto a rispondere solo per assecondare il disegno della grazia divina (che consente a Dante, ancora vivo, di percorrere il mondo dei morti) e non per conforto. Secondo Buti, tale conforto indica un premio rifiutato dallo spirito, così si dimostrerebbe che le anime non si curano più delle cose mondane; Scartazzini, invece afferma che Dante vuole affermare che la purificazione di Ugo Capeto è compiuta e che quindi non gli occorrono suffragi dei viventi; Secondo Zingarelli invece la mancata presa di conforto deriva dalla coscienza dell’inefficacia delle preghiere dei prelati corrotti, però ciò contrasta col fatto che Dante crede nelle funzioni spirituali esercitate dal clero. Capeto sfiducia nelle pietas dei suoi discendenti, i quali non si ricordano più di lui. Qui si ha la consapevolezza di quanto poco durino, nel cuore umano, la memoria degli avi e la riconoscenza verso gli altri. C’è la certezza, da parte di Capeto, di essere stato egli stesso la causa di tanta indifferenza. Si è detto molto su questo personaggio. Innanzitutto bisogna eliminare l’idea che Dante abbia scritto questo canto perché aveva odio politico nei confronti della casa di Valois. Già si è constatato che nei confronti di Bonifacio VIII, l’astio personale non sia mai all’origine dell’ispirazione dell’ Alighieri. Quindi la definizione che Ugo Capeto (“fui radice della mala pianta...) dà di sé e della sua stirpe non va trasformata in una dichiarazione politica in base alla quale la monarchia francese sarebbe responsabile di tutti i guasti della società del tempo. Già Marco Lombardo ha detto che “era il cattivo esempio dei pontefici. I quali erano ghiotti dei beni mondani. E si rende colpevole di aver legittimato la corruzione sulla terra”, nel canto IV del Purgatorio; inoltre non si fa accenno alla Francia nell’elencazione delle cause della decadenza dell’Italia, ma si insiste sulla decadenza dell’Italia causata dal traviamento morale della Chiesa (VI canto del Purgatorio). Nella storia di Capetingi si riflette la storia di tutte le grandi dinastie. Un’unica differenza intercorre tra Adriano V e Ugo: Adriano già possedeva delle ricchezze, ma ne voleva di più; Ugo non possedeva ricchezze, ma ne voleva. Questo sta ad indicare come la lupa riesca ad appigliarsi a tutti gli uomini, sia che essi siano ricchi sia che siano poveri. Così il verso “maledetta antica lupa” assume un significato di denuncia di un fenomeno di portata universale. e Mase Douai, Lille, Gand e Bruges potranno, la vendetta avverrà presto; e io la chiedo a Colui (Dio) che tutto giudica. In vita fui chiamato Ugo Capeto; da me sono nati i Filippi e i Luigi da cui la Francia è stata governata di recente. Fino al giorno in cui la gran dote della Provenza non tolse ai miei discendenti ogni ritegno, la dinastia compì poche imprese ma nondimeno non commise 21 malefatte. Da quel momento iniziò la sua rapina con la violenza e l'inganno; e in seguito, per fare ammenda di ciò, si impadronì del Ponthieu, della Normandia e della Guascogna. Carlo I d'Angiò venne in Italia e, per fare ammenda, uccise Corradino; poi fece morire san Tommaso, sempre per ammenda. (46-69) Versi 46-69. Ugo Capeto, in quanto capostipite, sente di dover portare il peso di questa condotta. Subito dopo il suo nome, mette quello dei suoi nipoti, indistintamente designati come “i Filippi e i Luigi”, come se fossero tutti uguali da una generazione all’altra per i loro vizi o come se avessero una stessa anima che si trasmette al successore. Individua un momento di svolta nella storia della sua famiglia quando c’è stata l’occupazione della Provenza da parte degli Angiolini dopo il matrimonio fra Carlo I e Beatrice, Che inaugurò la stagione delle rapine compiute con la violenza e la frode. Dante assegna una centralità all’episodio che deriva dalla considerazione dell’ascesa politica del futuro re di Napoli, il cui governo sarà denunciato da Carlo Martello nel VIII canto del Paradiso. Sembra procedere con la storia del suo albero genealogico seguendo un criterio di tipo cronologico, questo metodo però ha delle deroghe: la discesa di Carlo I d'Angiò in Italia e la decapitazione di Corradino di Svezia precedono di circa trent'anni la presa di Ponthieu (Pontì) e della Guascogna. Inoltre la strage di Anagni si verifica due anni prima del matrimonio tra Beatrice (figlia di Carlo II lo Zoppo) e Azzo VIII d’este. Questo non deve far credere che Dante non conoscesse i fatti, ma in realtà queste cose sono state messe così solamente per scopi poetici e retorici. Di solito queste ammende si legano tra di loro, si crede che siano dipendenti tra loro. Sembra più sensato invece, accostare solo la prima ammenda all’invasione della Provenza e collegare invece le altre due alla conquista dell’Italia meridionale: ciò vuol dire che le terre sottratte con la forza agli inglesi sono una riparazione alla scellerata occupazione della contea occitana, mentre l’uccisione del monarca costituisce la modalità con cui Carlo I si fa perdonare per l’avvenuta sospensione delle terre. Ugo finge che l'Angioino abbia intrapreso un iter salvifico e purificatorio, così tutti gli omicidi diventano manifestazione di un’anima pia. Così si crede che Corradino si sia sacrificato per una nobile causa. Da questo momento in poi il poeta dà al discorso un ritmo ascensionale che tocca il suo apice nella scena dello schiaffo di Anagni. ® Vedo che tra non molto tempo un altro Carlo (di Valois) uscirà di Francia, per far conoscere meglio se stesso e la sua casata. Ne uscirà senz'armi, tranne che la lancia del tradimento con cui si batté Giuda, e la userà in modo tale da fare scoppiare la pancia a Firenze. Per questo non otterrà una terra ma peccato e vergogna, tanto più grave quanto meno grave egli considera tale danno. Vedo poi l'altro (Carlo II d'Angiò), che già fu catturato sul mare, che vende sua figlia e ne fa mercato, come i pirati fanno con le schiave. O avarizia, che cosa puoi farci più di questo, dopo che hai avvinto a te il mio sangue al punto che non si cura neppure dei propri congiunti? (70-84) Versi 70-84. Se la prima parte della requisitoria, relativa ai passati delitti dei Capetingi, era contrassegnata dall’epifora “per ammenda”, la seconda, incentrata sulle scelleratezze compiute dopo il 1300, è scandita dall’assidua iterazione del verbo “veggio”, che assume il valore di un’esclamazione di sdegno e di ripetuta meraviglia. Emerge la figura di Carlo di Valois, il finto 22
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