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Il papato nel Medioevo - Claudio Azzara, Sintesi del corso di Storia della Chiesa

Riassunto del libro "Il papato nel Medioevo" di Claudio Azzara. Storia della chiesa medievale, Riccardo Parmeggiani, Alma mater studiorum Università di Bologna.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 04/02/2021

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Scarica Il papato nel Medioevo - Claudio Azzara e più Sintesi del corso in PDF di Storia della Chiesa solo su Docsity! IL PAPATO NEL MEDIOEVO – CLAUDIO AZZARA CAPITOLO PRIMO – IL PAPATO NEL TARDO IMPERO ROMANO 1. Gli sviluppi dell’istituzione papale nell’impero romano cristiano In seno alla giovanissima chiesa cristiana, già a partire dal II secolo, alla sede episcopale di Roma veniva riconosciuta una primazia onorifica fra le diverse, sempre più numerose, diocesi, pur in concorrenza con altri centri di grande tradizione e di rilievo quali Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e, soprattutto dal IV secolo, la nuova Roma Costantinopoli, la città nella quale aveva finito con il trasferirsi la stessa capitale dell'impero. Con l'editto promulgato a Milano nell’anno 313 dagli imperatori Costantino e Licinio le comunità cristiane, che in precedenza erano state a più riprese vittime di persecuzioni perché accusate di infedeltà verso il potere imperiale, furono rese libere di professare la propria fede. La chiesa cristiana non solo non subì più alcuna violenza, ma divenne persona giuridica fisica secondo la legge dello Stato, conseguì precisi diritti in ambito patrimoniale e privilegi quali l' esenzione dai gravami pubblici e dalla giurisdizione dei tribunali imperiali in materia di fede e di disciplina ecclesiastica. Nella città di Roma, in particolare, sotto Costantino si ebbe anche un forte impulso edilizio in relazione alle esigenze del culto. Costantino donò pure alla chiesa della città, oltre a cospicui quantitativi di arredi sacri in materiali preziosi, notevoli proprietà fondiarie, situate non solo in Italia (in particolare nelle regioni centrali e in Sicilia), ma anche al di fuori della penisola, dalla Gallia meridionale fino all'Africa. All’inizio il vescovo di Roma era solo il depositario e l'amministratore dei beni a lui concessi dalla munificenza imperiale o dai benefattori privati (a mano a mano che il cristianesimo si diffondeva tra i ceti più agiati e colti), ma tra il IV e il V secolo egli seppe progressivamente acquisire la piena disponibilità di tali ricchezze. Trent'anni dopo l'editto di Milano, il concilio di Serdica del 343 riconobbe a sua volta, seppure in forma generica, una funzione primaziale al vescovo di Roma, in quanto si considerava gli perpetuasse la memoria di San Pietro come suo successore nella medesima sede. L’ascesa della fede cristiana e delle istituzioni ecclesiastiche si perfezionò con l'editto di Tessalonica emanato nel 380 dall'imperatore Teodosio, che proclamò il cristianesimo unica religione ammessa. Nel nuovo quadro politico ed ecclesiastico generale, e anche in risposta alla ricordata crescita del prestigio della sede patriarcale di Costantinopoli, i vescovi di Roma, a partire dalla fine del IV secolo almeno fino alla metà del V, cioè grosso modo tra il pontificato di Damaso (366- 384) e quello di Leone I (440- 461), si impegnarono in una vasta azione di consolidamento istituzionale e organizzativo delle proprie strutture e, parallelamente, in un’incisiva messa a punto concettuale del proprio ruolo specifico e delle proprie prerogative. La sede romana si dotò, innanzitutto, di scrinia, cioè di uffici, modellati su quelli imperiali, presso i quali operavano notarii specializzati, con archivi che conservano tutta la documentazione prodotta e la corrispondenza emessa e ricevuta. Contestualmente avanzo l'opera di precisazione teorica del ruolo dei pontefici. Papa Damaso fu il primo a denominare la Chiesa di Roma sedes apostolica, in quanto fondata dagli apostoli Pietro e Paolo che a Roma avevano trovato il martirio, facendo discendere da ciò una posizione di primato della propria sede episcopale, dal momento che nessun altra chiesa poteva vantare un'origine altrettanto eccellente. Con simili argomenti, espresso in un Concilio tenuto a Roma nel 382, veniva assunta e formalizzata in seno alla dottrina ufficiale della sede romana la tesi petrologica. Damaso si fece anche promotore della traduzione della Bibbia in latino, affidando questo compito a San Girolamo; l'esito fu la Vulgata. Si affermava che Cristo aveva conferito in termini giuridici a Pietro dei poteri che passavano poi di diritto, come un'eredità, ai legittimi e unici successori di costui, cioè i vescovi di Roma. Il successore di Damaso, Siricio (384-399), per comunicare con le autorità ecclesiastiche situate al di fuori di Roma, introdusse un tipo di lettera denominata decretale perché modellata sui decreta, o responsa, che l'imperatore inviava ai funzionari provinciali per trasmettere loro le direttive del governo. Con questo genere di scritti il pontefice intendeva fornire un giudizio di autorità definitiva e di valore universale sui casi che di volta in volta gli venivano sottoposti. Un'ulteriore fortunata metafora entrata in circolazione all'incirca in questo periodo, sempre con l'intento di affermare il primato di Roma sulle altre chiese, fu quella elaborata sulle parole di San Pietro per cui il Papa erede di Pietro, stava alla chiesa universale come la testa sta il corpo umano; oppure si diceva anche che il pontefice era la fonte dell'intera cristianità. Il lungo processo di definizione concettuale del primato del Papa conobbe il suo perfezionamento per quest'epoca (chè altri sarebbero stati gli sviluppi futuri) durante il pontificato di Leone I, o Magno (440-461). Leone coniò infatti la formula per cui il pontefice era l' indegno erede di San Pietro, il che significava che il vescovo di Roma succedeva come erede all' apostolo nella totalità dei suoi poteri, nel suo ufficio, anche se non nello status personale, che era evidentemente irriproducibile (e rispetto al quale il Papa restava dunque indegno). Nella stessa prospettiva, a tutto quanto concerneva la sede romana si applicava l'attributo apostolicus, apostolico, e non apostolo. Venne introdotta pure la fondamentale distinzione fra l'ufficio, oggettivo, e il suo detentore, soggettivo, per cui le caratteristiche personali del singolo papa erano irrilevanti rispetto all’ufficio da lui ereditato da San Pietro, e ciò significava che l'eventuale indegnità morale di un pontefice non incideva sull’istituzione. Per divenire Papa non occorreva (e non occorre) nemmeno essere un sacerdote. L’insieme dei poteri di discendenza petrina fu espresso con la locuzione plenitudo potestatis. Principatus si distingueva da quello dell'imperatore poiché quest'ultimo era frutto del divenire storico e delle azioni umane, pur discendendo anch’esso da Dio, mentre quello del Papa scaturiva da un atto divino unico ed irripetibile, posto al di fuori della storia. In campo ecclesiastico, l'autorità dei Papi si esercitò in modo alquanto debole nelle regioni orientali dell'impero, dove Roma doveva subire la concorrenza di altre grandi e prestigiose sedi, a cominciare da Costantinopoli. A tentativi come quello esperito nel Concilio di Efeso del 431 di proporre il motivo della primazia petrina del vescovo di Roma, in quanto successore e locum tenens di Pietro, fu risposto, ad esempio nel Concilio di Calcedonia del 451 (ma analoghe puntualizzazioni si erano avute già nella sinodo di Costantinopoli del 381), Con l'enunciazione del principio secondo cui il rango politico di una città ne determinava anche quello ecclesiastico. Anche un pronunciamento dell’imperatore Valentiniano III (425-455), teso ad equiparare al reato di lesa maestà il mancato riconoscimento del primato giurisdizionale del Papa di Roma, rimase in Oriente lettera morta. Ancora ad un’età più tarda come il VI secolo, l'imperatore Giustiniano, pur concedendo alla Chiesa di Roma un generico primato onorifico e dottrinale, la computava come una delle 5 sedi episcopali che condividevano il rango apostolico (le altre erano Costantinopoli, Gerusalemme, Alessandria e Antiochia). Del resto, più in generale, lascia della chiesa del tardo impero appariva spostato decisamente verso est, come dimostra pure la ridotta partecipazione dei vescovi occidentali ai concili ecumenici del IV-V secolo. Lo scontro di Roma con il patriarca di Costantinopoli, per ragioni di dottrina ma con sullo sfondo il problema della primazia, conobbe a più riprese momenti di particolare asprezza, come in occasione della reciproca scomunica nel 484 fra il papa Felice III (483-492) e il patriarca Acacio, dopo che quest'ultimo aveva suggerito all’imperatore Zenone un documento, l’Henotikon (o editto di Unione), tesò a congelare il dibattito cristologico per ingraziarsi i monofisiti, con un atto che Roma ritenne contrario al dettato del fondamentale Concilio di Calcedonia. Lo scisma tra le due chiese fu superato solo nel 519, durante il pontificato di Ormisda, grazie alla mediazione diretta dell'imperatore Giustino. Anche in occidente non mancavano peraltro episcopati che si proponevano quali concorrenti di Roma, o quantomeno non accettavano di essere subordinati, perché ridi di antiche e illustri tradizioni religiose (come nel caso del patriarcato di Aquileia) o come Ravenna. Soprattutto dopo la deposizione dell'ultimo imperatore d'occidente Romolo nel 476, il papato si trovò a patire una crescente dipendenza dall’aristocrazia senatoria. Papa Simmaco (498- 514) si preoccupò di far passare il principio secondo cui spettava al solo pontefice stabilire le regole per la gestione del patrimonio ecclesiastico. Il vescovo di Roma, così come quelli di tutte le altre sedi, veniva eletto secondo la formula tradizionale “dal clero e dal popolo” della sua diocesi (e con il concorso dei vescovi della provincia ecclesiastica romana che si trovavano in città al momento dell'elezione), ma un ruolo preponderante in tale scelta era inevitabilmente esercitato dalle famiglie ottenuto dall'imperatore le aperture che il monarca go to si attendeva, al proprio ritorno a Roma il pontefice venne accusato di tradimento e gettato in carcere, dove fu lasciato morire  vittoria dell'impero. In questo periodo scomparve in modo progressivo il Senato, come organo istituzionale e come ceto, e verso la fine del VI secolo non appare più menzionato nemmeno il praefectus urbi, il magistrato cui era affidato Il governo della città; tutto ciò Apri ampi vuoti in campo politico e amministrativo che dovettero essere riempiti dai Papi. allo stesso tempo, Roma subì gravi fenomeni di degrado infrastrutturale, urbanistico ed edilizio. La conclusione formale della guerra venne sancita dalla promulgazione, il 13 agosto del 544, della legge imperiale nota come Prammatica Sanzione, che ripristino il potere imperiale in Italia, reintegrando gli assetti istituzionali, sociali ed economici sconvolti dal dominio dei Goti e dalle vicende belliche. Il preambolo del testo normativo attribuiva in modo esplicito di diverse misure in esso definite all'interessamento del Papa Vigilio (537-555), assegnando così alla sede Pontificia un ruolo di spicco nel riequilibrio della penisola. Nel 537, in pieno conflitto, il pontefice Silverio (536-537) era stato deposto ed esiliato dal generale Belisario con la falsa accusa di tradimento per aver cercato di consegnare Roma ai Goti, mentre sembra che la vera causa di tale castigo fosse piuttosto da ricercare nell’opposizione del Papa al patriarca monofisita di Costantinopoli Antimio, protetto dall'imperatrice Teodora. Il successore di Silverio, il citato Vigilio (cui alcuni imputano di aver giocato un ruolo significativo nell’eliminazione del predecessore), fu a sua volta trascinato Costantinopoli nel 547 per sottoscrivere a forza l'editto imperiale di condanna dei cosiddetti Tre Capitoli, gli scritti di tre teologi invisi ai monofisiti e perciò vietati da Giustiniano che a quegli eretici intendeva riavvicinarsi per calcolo politico. Alla morte di Vigilio fu lo stesso Giustiniano a imporre il successore, Pelagio I (556-561), inizialmente ostile della condanna dei Tre Capitoli ma poi costretto ad accettarla. CAPITOLO SECONDO – IL PAPATO NELL’OCCIDENTE ALTOMEDIEVALE 1. I papi tra longobardi e bizantini L'assetto dato alla penisola italiana da Giustiniano fu sconvolto dopo appena un quindicennio dall’irruzione che in essa fece, nel 568 o 569, la stirpe dei Longobardi. Il progressivo consolidarsi della presenza longobarda portò alla formazione di un regno che comprendeva pressochè tutta l'Italia centro- settentrionale oltre a due Ducati separati a Spoleto e a Benevento. L’Urbe rimase sotto il governo imperiale, assieme alle linee costiere adriatiche e tirrena e a buona parte del meridione; le province conservato dall’impero furono riorganizzate sotto il comando di un esarca, di stanza a Ravenna, che riuniva in sé il potere civile e quello militare. Venne adottata la pratica della nomina di visitatores transitori per le sedi episcopali vacanti, soprattutto in quella porzione della metropoli Pontificia del centro- sud peninsulare più colpita dai combattimenti, fintanto che le comunità locali non fossero in grado di procedere a nuove elezioni canoniche. Il pontefice che fu chiamato a farsi carico di tali gravose incombenze fu in particolare Gregorio I, detto Magno, eletto nell’anno 590 è rimasto in carica fino al 604. La sua figura, una delle più insigni della storia del papato, fu successivamente canonizzata nell’agiografia come modello del Papa- Monaco, vale a dire di pontefice che pur non trascurando le incombenze del proprio ufficio, confrontandosi quotidianamente e con efficacia con gli affanni del mondo, seppe mantenere uno spirito sempre volto alla meditazione e all’ascesi monastiche. Gregorio Magno si produsse subito in un azione di tutela dai Longobardi innanzitutto di Roma, ma anche di altri centri della sua metropoli ecclesiastica, coordinando le difese militari in supplenza degli ufficiali dell'impero e negoziando con i nemici. In particolare, un suo accordo con il re longobardo Agilulfo, che giunto alle porte di Roma venne convinto dal Papa a ritirarsi senza attaccare la città dietro pagamento di un riscatto, per un verso diede vita, come ricordato, a un resoconto leggendario della vicenda modulato sull’esempio dell’incontro fra Leone I e Attila e teso ad esaltare il pontefice come unica fonte di salvezza per la popolazione romana. Anche l’avvio di un prudente dialogo dai contenuti religiosi con il re Agilulfo e soprattutto con la sua consorte Teodolinda, una cattolica orientata verso lo Scisma dei Tre Capitoli, che da molti è stato impropriamente interpretato addirittura come l’avvio di uno sforzo missionario del pontefice nei confronti dei longobardi (che erano formalmente ariani ma ancora legati alla loro cultura pagana tradizionale), ebbe piuttosto come scopo precipuo il rafforzamento del canale diplomatico per mantenere la pace. La progressiva acculturazione in senso romano e cattolico della stirpe dei Longobardi, fino alla sua totale conversione, fu un processo lungo che si completò solo nella seconda metà del VII secolo in cui il papato non giocò affatto un ruolo determinante. La conversione del re anglosassone del Kent Etelberto e della sua stirpe è stata tramandata come lato forse più notevole del pontificato gregoriano e sicuramente essa spicca quale prima consapevole iniziativa missionaria mai assunta dal papato; la diffusione del cristianesimo fra le gentes dell'occidente post-romano era stata infatti merito soprattutto del clero locale. Il papato il tempo di Gregorio Magno si preoccupò quindi di confrontarsi con le eterogenee realtà dell’occidente post-imperiale, che gli ponevano problematiche diverse e dalle quali un'autorità con fini universali con quella Pontificia non poteva prescindere, a maggior ragione nel momento in cui quelle abbracciavano la fede cattolica; ma non significa affatto che tra il VI e il VII secolo Roma fosse in grado di concepire la possibilità di distaccarsi politicamente dall'impero, di cui era parte integrante anche in senso ideologico e culturale, per ricercare implausibili sostegni occidentali. La condotta nei confronti degli scismatici tricapitolini, la cui roccaforte si trovava nell’Italia settentrionale attorno al patriarca di Aquileia, verso i quali il pontefice pretendeva una dura repressione che l'impero, per mero calcolo politico (c'era il rischio che gli scismatici delle aree di confine passassero ai Longobardi per evitare le persecuzioni), non era disposto ad esercitare. Un ultimo elemento di tensione fu rappresentato dalla polemica innescata da Gregorio contro il patriarca di Costantinopoli per l'uso di costui di fregiarsi del titolo di universalis. Durante il pontificato di Gregorio I si tentò anche di rendere più efficiente l'amministrazione dei patrimoni della chiesa romana. Dopo la morte di Gregorio Magno, per tutto il corso del VII secolo, la sede Pontificia patì una discontinuità d'azione dovuta al succedersi di ben 20 Papi diversi nell'arco di anni compreso fra il 604 e il 701, in un periodo assai difficile, segnato per un verso da una profonda trasformazione degli assetti territoriali, amministrativi e culturali della compagine imperiale e per un altro dalla virulenza ripresa delle controversie cristologiche. Un rinnovato interventismo del princeps, in larga misura per ragioni politiche, nel campo della definizione del dogma cristiano inasprì la conflittualità tra il Papa e il monarca. A partire dal regno dell'imperatore Eraclio (610-641) si produsse un estremo tentativo di riassorbire il secolare di senso monofisita, particolarmente vivo in regioni chiave dell'impero quali la Siria, la Palestina e l'Egitto. Nel 638 il patriarca costantinopolitano Sergio ispirò al princeps un documento, l’Ekthesis, Che cercava di aggirare la formula calcedoniana delle due Nature di Cristo introducendo il concetto di un'unica volontà del Redentore. All’ Ekthesis si oppose decisamente Roma, che condannò come eretiche le posizioni dei cosiddetti monoteliti (cioè dei fautori della soluzione proposta dal documento imperiale), e nel 649 una sinodo convocato in Laterano respinse l'atto con cui il successore di Eraclio, Costante II, vietava ogni ulteriore discussione sull'argomento; per tutta risposta l'imperatore fece deportare in Crimea il Papa Martino I (649-654) che finì i suoi giorni in esilio. Nemmeno il superamento della controversia monotelita sancito nel VI Concilio ecumenico di Costantinopoli del 680- 681, con il pieno riconoscimento della formula di Calcedonia (nel frattempo Siria, Palestina ed Egitto erano state conquistate dagli arabi), pose però fine al conflitto tra il papato e l'impero. Quando il Papa Sergio I (687-701) rifiutò di accettare i deliberati di un nuovo Concilio celebrato in Oriente e noto come Quinisesto, l'imperatore Giustiniano II cercò di replicare il colpo di mano di Costante II contro Martino, ma i suoi piani furono sventati dall’intervento in difesa del pontefice dello stesso esercito dell'esarcato. Alla metà dell’VIII secolo, soprattutto durante il regno di Liutprando, la pressione dei Longobardi verso le regioni centrali della penisola aumentò, nel tentativo di procedere a conquiste che, spazzando via la residua presenza dell'impero nell'area, saldassero sotto il dominio unitario dei re Longobardi tutta l'Italia fino a ducati di Spoleto e di Benevento. Nel 750.751 un successore di Liutprando, Astoldo, prese in modo definitivo la città di Ravenna, da tempo posta sotto assedio, mettendo fine all’esperienza dell’esarcato. Il Papa Stefano II (752-757), nel timore che giunti a questo punto i Longobardi mirassero ad occupare la stessa Roma, non più difesa dalle truppe esarcali, e sapendo di non poter sperare nell’intervento di Costantinopoli, ormai incapace di agire con efficacia in occidente, si appellò al re dei franchi Pipino recandosi personalmente presso di lui a Ponthion nel gennaio del 754 per domandargli di strappare ai Longobardi Ravenna e tutti i centri appartenenti all' esarcato e di restituirli non a Costantinopoli ma al patrimonium beati Petri, cioè alla chiesa romana, presentata ormai come il sostituto dell'impero in Italia. Per la dinastia Franca dei pipinidi accogliere l'appello pontificio significa garantirsi un indispensabile legittimazione tanto più necessaria se si tiene conto che essa era appena salito al trono rovesciando con un controverso atto di forza l'antica famiglia regia dei merovingi. A Ponthion Pipino ricevette dal Papa l'unzione regia, un gesto di altissimo valore simbolico ispirato ai re biblici, che in occidente aveva precedenti solo presso i visigoti (ma senza la partecipazione del pontefice). L’invito ai franchi fu ripetuto anche dai Papi Paolo I (757-767) e Stefano III (768- 772). In alcune delle province imperiali rivendicate dai Papi si manifestarono resistenze contro Roma il nome di vecchie tradizioni di autonomia ecclesiastica, come accade per esempio nella prestigiosa sede arcivescovile di Ravenna. Ai vari appelli dei pontefici i franchi risposero per il momento con interventi militari limitati, che costrinsero i Longobardi a negoziare. Mentre si svolgeva l'avvicinamento politico tra il papato e il regno Franco, per ragioni sostanzialmente contingenti, la divaricazione fra Roma e Costantinopoli venne drammaticamente alimentata nel corso dell’VIII secolo non solo dal progressivo disimpegno di quest'ultima dello scacchiere occidentale ma anche da una nuova stagione di durissimi scontri religiosi, culminati, dopo lo stemperarsi della polemica sul monotelismo, nella tempesta dell'iconoclastia. Nel 726 l'imperatore Leone III Isaurico si pronunciò pubblicamente, per la prima volta, contro il culto delle immagini sacre, una pratica assai diffusa e profondamente radicata nel mondo cristiano, ordinando tra l'altro, con un gesto dal forte significato simbolico, la rimozione dell’immagine di Cristo che era posta sulla porta bronzea del sacro palazzo di Costantinopoli, la sua residenza. Dopo il pronunciamento del 726 egli si impegnò per affermare i propri convincimenti scontrandosi con dure opposizioni, a cominciare da quella del Papa Gregorio II (715-731) ed è lo stesso patriarca di Costantinopoli Germano. Nel 730 il culo delle immagini sacre venne proibito per editto e fu avviata la persecuzione degli iconoduli (cioè di coloro che perseveravano nell’adorare le icone). Germano di Costantinopoli venne deposto per non aver sottoscritto l'editto imperiale e il Papa fu minacciato dalla stessa sorte, ma in Italia vi fu una reazione corale a tutela del pontefice: gli eserciti imperiali distanza nella penisola respinsero gli ordini provenienti dalla capitale e, come segno di autonomia, si elessero duces locali, mentre gli stesso longobardi si schierarono con Roma. La crisi giunse al suo apogeo con il successore di Leone, Costantino V, il quale predispose (anche tramite un'opportuna sostituzione di vescovi iconoduli con altri iconoclasti) un Concilio che condannasse in via definitiva il culto delle immagini. La sinodo, che si svolse nel 754 presieduta dall'imperatore e in assenza della delegazione romana e di molte altre, si pronuncia ciò all'unanimità contro l’iconodulia i suoi deliberati vennero applicati con la massima severità, stroncando con la forza ogni resistenza. Tuttavia, dopo la morte di Costantino nel 775, il suo successore Leone IV si volse ad un atteggiamento più moderato e in seguito l'imperatrice Irene, reggente per il figlio minore Costantino VI, si adoperò addirittura per un reintegro dell’adorazione delle immagini sacre. Nel 787 il Concilio ecumenico tenuto a Nicea ripristinò la legittimità del culto delle icone. 2. Il papato nell’impero dei franchi Il timore dei pontefici per l'aumento della pressione longobarda sull'Italia centrale raggiunse il suo culmine dopo l'avvento al trono, nel 756, del nuovo re Desiderio, che rafforzò il proprio controllo dei Ducati di Spoleto e di Benevento e giunse perfino a intromettersi nell’elezione papale alla morte di Paolo I. Approfittando dei soliti contrasti fra le diverse fazioni dell'aristocrazia romana, Desiderio cercò di imporre un proprio candidato, di nome Filippo, facendo accampare le truppe longobarde dentro la stessa città di Roma. Il precipitare degli eventi Industrial re dei franchi Carlo (il futuro Carlo Magno) a dare finalmente piena soddisfazione alle reiterate richieste d'aiuto dei Papi: nel 674 scese in Italia, sconfisse Desiderio e inglobò nei propri domini l'intero regno longobardo (gli sfuggì solo il Principato di Benevento, che rimase indipendente). Carlo non mantenne la promessa, attribuitagli dal liber pontificalis (cioè dalla versione ufficiale pontificia) in ottemperanza dei vecchi accordi fra Roma e Franchi, di trasferire alla sovranità del Papa, che allora era Adriano I (772-795), le regioni già appartenute all' esarcato di Ravenna, la Venetia, l’Histria, l’ex Ducato longobardo di Spoleto e magari, in un prossimo futuro, anche Benevento. Mentre tutti questi territori divenivano franchi (tranne CAPITOLO TERZO – IL PAPATO E LA RIFORMA DELLA CHIESA 1. I presupposti della riforma L’alto clero era costituito in massima parte da soggetti sprovvisti di un’autentica vocazione, e quindi della necessaria formazione e di un adeguato spessore morale, i quali anche da ecclesiastici persistevano in stili di vita propri dell’aristocrazia laica: privilegiavano l’attività politica e magari militare rispetto alle occupazioni spirituali, si dedicavano agli svaghi nei banchetti o nella caccia, tenevano presso in sé delle concubine. Anche il clero di rango inferiore si dimostrava inadeguato, in genere talmente incolto da non essere capace nemmeno di leggere i testi sacri. Lo stesso papato, infine, si trovò, come s’è visto, a lungo ostaggio della competizione fra le grandi famiglie romane. Impellente urgenza di una profonda riforma della chiesa che al contempo emendasse i costumi del clero, rendendolo degno e attrezzato per svolgere il proprio compito, e ponesse le istituzioni ecclesiastiche al riparo dalle ingerenze e dai condizionamenti dei laici. La spinta per tale rinnovamento complessivo nacque in forme spontanee e in ambiti diversi, tutti mossi dalle medesime preoccupazioni, e che non ebbe, almeno all’inizio, il carattere di un progetto organico e coerentemente organizzato. Gli aneliti di riforma furono contrastati da tutte quelle forze che, nella chiesa e nella società laica, traevano i maggiori vantaggi dallo status quo: in particolare l’aristocrazia e la maggior parte dell’episcopato dei territori imperiali della Germania e dell’Italia centro-settentrionale. Esigenze di questo genere vennero elaborate ed espresse con particolare lucidità, fra gli altri, dal monastero di Cluny, in Borgogna, fondato nel 910 dal duca di Aquitania Guglielmo ma presto capace di acquisire una significativa autonomia grazie all’immunità concessa dallo stesso duca e all’esenzione pontificia rispetto alla giurisdizione del vescovo locale. Oltre a proporre un modello monastico tutto centrato sul primato della preghiera e attivo nel rinnovamento della liturgia, Cluny sviluppò una peculiare forma di organizzazione generando una rete di monasteri, detti priorati, collegati fra loro e dotati di una base economica resa cospicua dalle donazioni delle famiglie aristocratiche, esenti dal controllo episcopale e sottoposti direttamente al papa. Rilancio della scelta di vita  tra l’XI e il XII secolo si ebbe la fondazione presso Grenoble di un monastero denominato la Grande chartreuse, nel quale i monaci pur vivendo in comunità trascorrevano la maggior parte del tempo ciascuno isolato in preghiera nella sua cella. Tale istituzione generò l’ordine dei certosini, le cui abbazie (le certose) si diffusero ovunque, analogamente a un altro ordine sorto quasi in contemporanea, quello dei cistercensi, che prese le mosse dell’abbazia di Citeaux ispirandosi ai primordi del movimento benedettino. Tra il X e l’XI secolo si svilupparono pure istanze di rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche e della vita religiosa in seno alla società laica. Tratto costante erano le critiche della ricchezza accumulata e gestita dalla chiesa e delle occupazioni secolari del clero. Movimento sviluppatosi a Milano sulla scia della predicazione del diacono Arialdo e chiamato patarìa, composto in larga misura da artigiani e mercanti, il quale si batteva per avere un clero istruito e degno e per una maggiore partecipazione dei laici alla vita religiosa fino a chiedere innovazioni sconvolgenti come processi pubblici contro i sacerdoti corrotti e l’accesso diretto dei laici alla Bibbia ogniqualvolta mancassero ecclesiastici all’altezza del loro compito pastorale. Prioritaria per tutti coloro i quali erano impegnati nello sforzo di trasformazione della chiesa appariva la lotta contro i due comportamenti più diffusi e fonte di maggior scandalo: la simonia, vale a dire la pratica della compravendita delle cariche ecclesiastiche per i vantaggi materiali che queste assicuravano, e il nicolaismo, cioè l’uso di molti preti di tenere presso di sé delle concubine. La procreazione di figli da parte dei sacerdoti comportava il rischio di disperdere, attraverso i lasciti ereditari a favore di costoro, i beni della chiesa. 2. Il papato e il moto riformatore Con la ricordata elezione di Clemente II per volontà dell’imperatore Enrico III, nel 1046, il papato aveva potuto avviare una stagione di consolidamento istituzionale, protetto dalla tutela imperiale contro le ingerenze dell’aristocrazia romana. Clemente II, subito dopo l’ascesa al soglio petrino, all’atto dell’incoronazione a imperatore di Enrico aveva conferito a quest’ultimo anche il titolo di patrizio romano, che assicurava formalmente al monarca un ruolo decisivo nelle future elezioni papali. La nuova alleanza fra impero e papato consentì di dare immediatamente il via a un’opera di rinnovamento, all’inizio ispirato al vecchio modello della chiesa carolingia, con il recupero della tradizione giuridica canonica (a cominciare dallo Pseudo-Isidoro) e con un collegamento assai stretto fra le due autorità universali contro ogni forma di particolarismo signorile ed ecclesiastico. I papi tedeschi (cinque da Clemente II a Stefano IX, cioè fino al 1058) seppero circondarsi di collaboratori di primissimo ordine. Il collegio cardinalizio fu rinnovato soprattutto ad opera di Leone IX (1049-1054), che vi fece affluire membri provenienti da tutto l’Occidente; i pontefici convocarono e presiedettero personalmente anche un gran numero di concili. Venne potenziata la rete dei legati pontifici. Il papato, insomma, dalla metà dell’XI secolo riuscì a guadagnarsi progressivamente una posizione se non ancora di guida, quantomeno di riferimento privilegiato per le multiformi pulsioni riformatrici. Quest’azione graduale consentì peraltro ai papi di affermare in modo sempre più consapevole il proprio primato (nel concilio di Reims del 1049 al pontefice romano fu attribuito il titolo di apostolicus, nel senso di unico successore degli apostoli) e di disciplinare poco alla volta l’intera chiesa occidentale sotto la propria autorità, riducendo sensibilmente la forza dell’episcopato. All’irrobustimento della posizione primaziale della sede di Roma contribuì in modo significativo in questo periodo lo strappo definitivo con Costantinopoli, avvenuto durante il pontificato di Leone IX, tra il 1053 e il 1054. Facendo precipitare rapporti come si è visto da lungo tempo deteriorati, il patriarca orientale Michele Cerulario non solo fece chiudere le chiese e i monasteri latini di Costantinopoli, ma avanzò contestazioni circa la validità dell’eucarestia impartita in Occidente (sostenendo la non canonicità dell’uso del pane azzimo per l’ostia). Una legazione latina inviata a Costantinopoli non riuscì a riavviare il dialogo con il patriarca e il 16 luglio 1054 si giunse alla reciproca scomunica che determinò la definitiva separazione fra la chiesa cattolica romana e quella ortodossa, ancor oggi vigente. Appare evidente, comunque, come al fondo dello scisma vi fosse la pretesa, sempre più consapevole e insistita, da parte del papa di veder riconosciuto il proprio primato sulla chiesa universale. Il pontificato di Leone IX contenne pure un evento di rilevante significato politico, specie in prospettiva futura: il confronto nell’Italia meridionale con i normanni. Anche per l’intensificarsi di scorrerie contro il patrimonio di san Pietro, Leone IX promosse nel 1053 una spedizione militare antinormanna in accordo con il catapano bizantino Argiro, che si risolse però in una grave sconfitta per l’esercito pontificio nella battaglia di Civitate; catturato e trascinato prigioniero a Benevento, il papa fu costretto a riconoscere ai normanni il possesso dei territori da loro occupati. Da quel momento i pontefici mutarono atteggiamento verso i normanni del Mezzogiorno intuendone la valenza di potenziale sostegno militare alla propria causa e perciò legittimarono la creazione da parte loro dapprima di formazioni politiche parziali e infine di un potente regno, fondato nel 1130 da Ruggero II e comprendente tutta l’Italia meridionale inclusa la Sicilia strappata agli arabi, che si legò vassallaticamente a Roma e che divenne il principale alleato di questa nelle lotte contro l’impero che contraddistinsero il corso del XII secolo. L' aristocrazia romana approfittò della morte di Enrico III nel 1056 per cercare di recuperare il controllo della carica papale. L’ultimo pontefice di nomina imperiale fu Vittore II al quale successe Stefano IX, a sua volta legato alla grande aristocrazia vicina all' impero in quanto fratello del duca di Lorena (che a sua volta marito di Beatrice di Canossa, esponente di una delle più prestigiose famiglie signorili dell'Italia). Alla scomparsa nel 1058 di Stefano IX, il Conte Gregorio di Tuscolo, con l'aiuto dei Crescenzi, provò invano a far eleggere suo fratello Giovanni, già vescovo di Velletri, ma i cardinali riuniti a Siena scelsero invece, con il consenso dell’imperatrice Agnese, reggente per il piccolo Enrico IV, e del partito lorense-canossiano, il vescovo di Firenze Gerardo di Borgogna, appoggiato dall’autorevolissimo monaco Ildebrando di Soana. Il nuovo pontefice, che prese il nome di Niccolò II e rimase in carica dal 1059 al 1061, garanti un poderoso sostegno all’azione di riforma della chiesa e di rafforzamento dello stesso ufficio papale. Trascorsi appena pochi mesi dalla sua elezione, Niccolò convocò in Laterano un concilio di fondamentale importanza, nel quale venne introdotto il principio, ratificato poi nel Decretum in electione papae, che da allora in avanti l’elezione del papa non dovesse più avvenire secondo l’antica formula dell’elezione episcopale “per clero e popolo”, ma fosse riservata in via esclusiva ai cardinali. Con tale innovazione si escludeva dunque di fatto la partecipazione del “popolo”, cioè dei laici, dalla scelta del nuovo pontefice, estromettendo le famiglie aristocratiche romane e riducendo il ruolo dello stesso imperatore. Il decreto conciliare conteneva in verità un cenno alla necessità di salvaguardare l’honor e la reverentia dell’imperatore, ma tale clausola rimaneva preliminarmente l’assenso dell’imperatore sul candidato espresso dai cardinali o se il monarca dovesse soltanto essere informato di quanto i cardinali decidevano in piena autonomia. Il mancato scioglimento di questo nodo fu subito causa di controversie, allorquando, morto Niccolò II nel 1061, venne eletto con la nuova procedura il vescovo di Lucca Anselmo da Baggio, Alessandro II (1061-1073), un deciso sostenitore della riforma, al quale l’impero, con l’aiuto degli aristocratici romani, oppose il presule di Parma Cadalo (Onorio II); costui riuscì momentaneamente a cacciare da Roma il rivale, ma fu poi abbandonato dai suoi stessi sostenitori e condannato da una sinodo tenuta a Mantova, che si pronunciò per Alessandro. Il papato strinse ulteriormente il proprio vincolo con i normanni: Niccolò II concesse a Roberto il Guiscardo i ducati di Puglia e Calabria in cambio di aiuto militare a tutela del Decretum in electione papae e di tutti gli altri decreti conciliari, che avevano stabilito anche il divieto per gli ecclesiastici di ricevere cariche da laici e l’obbligo del celibato del clero, oltre a condannare solennemente la simonia. A Milano egli conferì ai patarini il vexillum sancti Petri per sottoporli a una più diretta obbedienza papale. Il papato fu ben attento a fare in modo che l’impeto riformatore svolgesse sì la propria benefica opera di cambiamento, ma senza sconvolgere alla radice la gerarchia ecclesiastica (e sociale) e perciò ritenne prioritario fissare in maniera inequivoca il proprio primato, esclusivamente sotto la disciplina del quale potevano legittimarsi i vari movimenti. Nel marzo del 1065 l’imperatore Enrico IV raggiunse la maggiore età e, preoccupato di ricostruire le basi del suo potere che erano state minate dalla dispersione dei beni avvenuta negli anni della reggenza, distribuì svariate prebende ecclesiastiche allo scopo di crearsi una rete di vescovi e di abati fedeli. Tutte queste assegnazioni agli occhi del papato erano da considerarsi simoniache e ciò aprì inevitabilmente un nuovo conflitto. Alla morte di Alessandro II nel 1073 salì al soglio pontificio, con il nome di Gregorio VII, una delle figure di punta del movimento riformatore, Ildebrando di Soana. Con Gregorio VII la trasformazione delle istituzioni ecclesiastiche ebbe modo di esprimersi nella maniera più matura e incisiva, sia nelle forme dell’organizzazione interna sia nei rapporti verso l’esterno, con il potere politico. Durante il suo pontificato, che durò dodici anni, si affermò con un’evidenza senza precedenti il concetto dell’assoluto primato del papa di Roma nell’ambito della chiesa, tanto da disegnare, nella teoria e nelle strutture concrete, un nuovo modello del corpo ecclesiastico ordinato non più in senso “orizzontale” e collegiale (com’era stato nella chiesa più antica e come continuava a essere in quella ortodossa), bensì piramidale e gerarchico, con il papa come vertice unico e indiscusso. Con Gregorio VII il papato rivendicò pure la libertas ecclesiae, cioè la libertà delle istituzioni ecclesiastiche dalle ingerenze del potere laico. Gregorio VII esordì nel proprio scontro con Enrico IV, anche in risposta alla sopracitata serie di nomine episcopali compiute dal neoimperatore, con l’emanazione, nell’ambito di un concilio romano del 1075, di un decreto che condannava ogni investitura, cioè ogni concessione di diritti pubblici a un ecclesiastico da parte di un laico. Allo stesso tempo il papa scomunicò e depose molti vescovi, soprattutto in Italia settentrionale e in Germania. Per tutta risposta, Enrico non solo respinse il decreto, ma ne sfidò il contenuto facendo eleggere arcivescovo di Milano un proprio candidato contro il volere papale e investendo i vescovi di Spoleto e di Fermo. In due assemblee di vescovi a lui fedeli, riunite a Worms e a Piacenza nel 1076, l’imperatore fece condannare Gregorio VII per tradimento e lo dichiarò deposto; il pontefice pronunciò subito la scomunica di Enrico IV e sciolse dai vincoli di fedeltà nei suoi confronti tutti i suoi vassalli. Di fronte alle prime ribellioni, legittimate dalla scomunica, di aristocratici tedeschi a lui ostili, Enrico dovete dare pubblica dimostrazione di piegarsi al pontefice per indurlo a ritirare il provvedimento, a qualsiasi prezzo. Nell'inverno del 1076-77 egli scese così in Italia, raggiunse il castello appenninico della contessa Matilde di Canossa dovrei Gregorio era ospite insieme al potente Abate Ugo di Cluny e si umiliò restando per tre giorni davanti alla Fortezza in atteggiamento di penitente, fino a che il Papa non fu costretto, di fronte al clamore di un simile gesto, a proscioglierlo dalla scomunica. All’anno dell’avvio del contenzioso con Enrico IV, il 1075, viene fatto risalire un celeberrimo documento pontificio, noto come Dictatus papae, interpretato come l'indice di una perduta collezione canonica o come lo schema di una nuova. Il documento è articolato in 27 stringate proposizioni (quasi dei titoli, cui avrebbero dovuto evidentemente seguire testi esplicativi più ampi) che costituiscono la dichiarazione più Letta della nuova solida formazione giuridica. Nel corso del XII secolo l’autorità pontificia impose anche la propria attiva presenza fin nelle più remote regioni dell’Occidente, dall’Irlanda alla penisola scandinava, dove vennero introdotto la liturgia e il diritto di Roma e i legati pontifici poterono collaborare allo sviluppo delle scritture nelle chiese locali. Con l’ascesa al trono di Germania nel 1152 di Federico I Barbarossa, della casa sveva degli Hohenstaufen, incoronato imperatore a Roma tre anni dopo dal papa Adriano IV, per la sede petrina si aprì però un’ennesima stagione di aspra lotta politica e ideologica con il potere imperiale. L’imperatore, collocandosi sulla scia dei princeps romani, riaffermava la propria natura di monarca universale, perfettamente autonomo da ogni altra autorità, che riceveva il potere per via diretta da Dio. Dal 1158, anno in cui nella dieta di Roncaglia Federico, sostenuto dai giuristi bolognesi, rivendicò a sé i regalia iura usurpati dai comuni cittadini dell’Italia settentrionale, entrò in uso la denominazione sacrum imperium Romanum, a indicare l’eredità romano-cristiana e la missione divina dell’impero e il suo contenere al proprio interno le stesse istituzioni ecclesiastiche. Un simile sforzo di definizione teorica confliggeva inevitabilmente con la rappresentazione che della potestà imperiale era andato elaborando da tempo il papato, il quale aveva cercato di ridurre l’imperatore dell’Occidente (contrappeso di quello bizantino) a una sorta di funzionario, protettore della chiesa e strumento per il governo temporale della società cristiana, al quale il potere giungeva da Dio per il tramite necessario del papa. L’offensiva teorica di Federico I e la sua presenza in armi nell’Italia settentrionale (con la prima campagna militare contro le città comunali e la distruzione di Milano) spinse Adriano IV a cautelarsi, innanzitutto rafforzando l’alleanza con il re normanno di Sicilia Guglielmo, che in base a un patto stipulato nel 1156 si dichiarò vassallo del papa. Morto papa Adriano nel 1159 ed eletto quale successore Alessandro III, il noto giurista Rolando Bandinelli, il Barbarossa cercò di intromettersi spingendo parte del collegio cardinalizio a non riconoscere l’eletto e a sostenere un altro candidato, Vittore IV. Emulo di Costantino, Federico convocò un concilio a Pavia per risolvere la faccenda secondo il proprio gradimento, ma la deliberazione sinodale fu accettata solo nei territori dell’impero. Alla morte di Vittore, il monarca svevo nominò a succedergli Pasquale III, mentre imponeva vescovi a lui graditi (e contrari al papa Alessandro) in molte diocesi del suo dominio. Nel 1167 l’arcivescovo Rinaldo di Colonia e il cancelliere Cristiano di Magonza guidarono un esercito imperiale a Roma per insediare Pasquale, alla cui scomparsa l’anno dopo venne nominato un altro antipapa, Callisto III. Per Alessandro III era stato inevitabile in quel frangente, in aggiunta al solito appoggio dei normanni, garantirsi l’alleanza del principale nemico di Federico I, vale a dire la lega delle città comunali, e quindi il papa trasse un notevole beneficio dalla sconfitta militare che questa inflisse al Barbarossa nella celebre battaglia di Legnano del 1176. La pace stipulata a Venezia l’anno dopo fu l’occasione per sanare il contrasto che aveva opposto l’imperatore al papa: Alessandro III venne riconosciuto come unico e legittimo pontefice, ponendo così fine allo scisma, e revocò perciò la scomunica inflitta a Federico. Durante il pontificato di Alessandro III, che si concluse nel 1181, ebbe luogo anche un contenzioso con il regno d’Inghilterra. Il re Enrico II nel 1164 fissò nelle cosiddette costituzioni di Clarendon i diritti della corona sul clero inglese, tra i quali figuravano la limitazione dell’immunità ecclesiastica, l’obbligo dell’elezione episcopale sotto controllo regio, il divieto per i sacerdoti di ricorrere a Roma senza il consenso del sovrano. A tutto questo si oppose l’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, sostenuto dal papa, il quale finì con l’essere assassinato nel 1170 da sicari del monarca. Dopo un tale tragico esito Enrico aprì negoziati con il pontefice, fino a revocare una parte delle costituzioni contestate. Roma usciva sostanzialmente vincitrice dal grande scontro con Federico I (e da quello assai più limitato con Enrico II). Al tempo di Alessandro III ci fu pure un ulteriore, significativo, perfezionamento del meccanismo di elezione del pontefice introdotto con il concilio del 1059. In particolare, il III concilio del Laterano del 1179 prescrisse che l’assemblea elettiva, cui erano chiamati a partecipare vescovi, preti e diaconi cardinali, doveva scegliere il nuovo papa raggiungendo la maggioranza necessaria dei due terzi; prevedere una base di consenso più ampia per il neoeletto significava rendere più saldo il suo potere. Venne inoltre definitivamente negato qualsiasi ruolo al popolo. Il matrimonio tra il figlio di Federico I, Enrico, e la principessa normanna di Sicilia Costanza, figlia di Ruggero II, rappresentò una nuova e assai grave minaccia per il papato, lasciando intravedere una prossima riunificazione dei possesso imperiali con il regno dell'Italia meridionale, principe Vassallo di Roma proprio contro i monarchi tedeschi. Enrico VI, incoronato imperatore nel 1191 dal Papa Celestino III e re Di Sicilia dall’arcivescovo di Messina tre anni dopo, avviò subito negoziati con il pontefice per ottenere il riconoscimento della propria successione nella persona del figlio Federico (il futuro Federico II), per il quale si chiedeva l'unzione a re dei romani, un titolo che ne avrebbe legittimato il potere nella penisola italiana e che sarebbe risultato propedeutico a una sua quasi automatica ascesa alla carica imperiale. Celestino si dimostrò riluttante, non volendo consolidare il potere svevo In Italia. Tra il 1197 e il 1198 morirono, a distanza di pochi mesi l'uno dall'altro, sia l'imperatore sia il papa e al soglio di Pietro salì una delle figure che si sarebbe rivelata tra le più significative del papato medievale: Lotario dei Conti di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216). 2. Il trionfo della supremazia papale Poiché l'erede di Enrico, Federico, aveva solo tre anni d’età, in Germania si scatenò subito una lotta per la successione tra Filippo di Svevia, fratello del defunto imperatore, e Ottone di Brunswick; Innocenzo III, divenuto tutore del piccolo Federico e signore del regno di Sicilia per volontà di Costanza (a sua volta deceduta nel 1198), venne a trovarsi in una posizione di assoluta centralità nel gioco politico in corso. Innocenzo III (che aveva studiato diritto a Bologna, oltre che teologia a Parigi) fu anche il primo papa a pubblicare una raccolta ufficiale di diritto canonico. Nel 1210 Innocenzo fece redigere una collezione di testi normativi che integrava Graziano per l’intero periodo successivo alla pubblicazione di quello. Dopo un’iniziale cautela, Innocenzo si schierò con Ottone di Brunswick, in cambio dell’imperatore di costui di rinunciare ai diritti sull’Italia, e lo incoronò imperatore in seguito alla morte violenta di Filippo di Svevia; ma il nuovo monarca si sottrasse presto agli accordi e cercò anzi di occupare dei territori papali, in Romagna, nelle Marche e in Umbria. Il pontefice fu costretto allora a scomunicarlo e a mutare strategia, riconoscendo i diritti di Federico, che nel frattempo era stato eletto re di Sicilia e poi re di Germania e che si era impegnato con il suo tutore a non trasmettere a un unico erede i due regni e a garantire i territori del patrimonio romano. Nella battaglia di Bouvines, nelle Fiandre, del 1214, Federico e il suo alleato Filippo II Augusto di Francia sconfissero Ottone di Brunswick e il re d’Inghilterra Giovanni Senza Testa; nel 1220 lo svevo fu incoronato imperatore nella basilica di San Pietro a Roma del successore di Innocenzo, Onorio III. Con il re francese Filippo II Augusto il pontefice ebbe tensioni dovute alla scelta del monarca di ripudiare la prima moglie Ingeborg di Danimarca, che Innocenzo gli impose di riaccogliere. Un più aspro conflitto lo pose al re d'Inghilterra Giovanni Senza Terra, per la pretesa di questi di avocare a sé la scelta dell’arcivescovo di Canterbury e per il suo rifiuto di accettare il candidato indicato da Roma. Innocenzo scomunicò Giovanni, lanciò l' interdetto sul regno inglese e sollecitò un’invasione dell'isola da parte dei francesi, fino a piegare il monarca, che si fece Vassallo del Papa. Omaggio vassallatico il pontefice prestarono pure i re di Bulgaria, di Aragona, di Castiglia e del Portogallo. Nel 1204 Innocenzo III convince un buon numero di signore dell'occidente a impegnarsi in una crociata che finì con l'aggredire l'impero cristiano di Bisanzio, eretico dal punto di vista cattolico romano dopo lo scisma del 1054. L'esercito crociato, inizialmente raccoltosi per muovere contro L'Egitto, fu deviato da un insieme di interessi, tra cui quelli preminenti dei veneziani la cui flotta assicurava il trasporto delle truppe, contro Costantinopoli, che fu presa duramente saccheggiata. Gli occidentali si spartirono i territori conquistati fondandovi un impero latino d'oriente, mentre i greci furono costretti a riorganizzarsi in tre entità minori, a Nicea, a Trebisonda e nell’Epiro. La nuova creazione politica dei latini, che fu rovesciata nel 1261 dall'imperatore bizantino Michele VIII Paleologo, permise, per il periodo della sua durata, l'esportazione delle strutture ecclesiastiche romane e dello stesso primato del Papa anche sui territori ortodossi, malgrado le tenaci resistenze del clero e delle popolazioni locali. Il pontificato di Innocenzo III si caratterizza oppure per il grande impegno profuso contro ogni forma di dissenso religioso. Polemica contro la ricchezza della chiesa, il suo esercizio del potere temporale, l’indegnità morale di buona parte del clero e la pretesa di questo di essere l’interprete esclusivo della parola di Dio. Simili contestazioni si legavano spesso a una più generale insoddisfazione per gli assetti dell’ordine politico e sociale vigente. I papi si preoccupavano innanzitutto di stabilire che erano da considerare eretiche tutte le credenze e le condotte non conformi con quanto stabilito del papato, unico metro certo dell’ortodossia cristiana, e di pronunciare poi condanne ufficiali e solenni delle dottrine eretiche attraverso i deliberati dei concili ecumenici, come il III lateranense del 1179, o per mezzo di bolle quali la Ad abolendam di Lucio III del 1184. Quest’ultima condannò come eretico l’importante movimento pauperistico creato dal mercante lionese Valdesio (o Pietro Valdo), che inutilmente aveva cercato di guadagnarsi l’approvazione del precedente pontefice Alessandro III, e ne avviò la persecuzione. Innocenzo III e qui parola professione di un credo eterodosso al crimine di lesa maestà, punibile con la morte, e coinvolse in modo sistematico nell’opera di repressione le istituzioni laiche. Obbligatorietà, istituzionalizzata nel 1215, della Comunione e della confessione annuali, allestimento delle prime strutture del tribunale dell'inquisizione, incaricato di individuare e condannare gli eretici per poi consegnarli al braccio secolare, cioè alle autorità politiche, che rendeva esecutive le sentenze, molto spesso capitali. Il tribunale dell'inquisizione andò progressivamente affinandosi durante il XIII secolo, per poi funzionare a pieno regime nei secoli successivi, dotandosi di manuali di istruzioni per rendere più efficace il lavoro degli inquisitori, prevedendo l'uso regolare della tortura per estorcere le confessioni degli inquisiti e coinvolgendo largamente nella propria attività i nuovi ordini monastici dei francescani e dei domenicani. Papa Innocenzo impiegò nella lotta all'eresia tutti i mezzi a sua disposizione. Per un verso, egli si impegnò a recuperare all’ortodossia, e alle istituzioni, movimenti che si trovavano al margine estremo di questa, come quello degli umiliati, diffuso nell'Italia settentrionale, o quello dei poveri di Lione; nella medesima prospettiva, approvò il progetto di vita, anche questo a rischio di figurare come eterodosso, di Francesco d'Assisi, ma solo dopo aver ricevuto da costruire il giuramento di incondizionata fedeltà al papato. Il successore di Innocenzo, Onorio III, istituzionalizzò la comunità dei seguaci di Francesco in ordine (detto dei frati minori, o francescano) e ne accolse successivamente la regola, così come fece anche con un altro ordine, quello dei predicatori (o domenicani), fondato all'incirca nello stesso periodo dal castigliano Domenico di Guzman (o di Caleruega). I due nuovi ordini religiosi, detti mendicanti per lo stile di vita di assoluta povertà, proponevano un modello monastico innovativo per l'occidente, capace di rispondere ai diffusi bisogni spirituali ed ecclesiologici del tempo, e risultano perciò essere degli efficaci concorrenti rispetto alla predicazione ereticale. Nel 1208 bandì una crociata contro gli aderenti alla confessione catara, altrimenti detti albigesi. Negli ultimi mesi del suo pontificato, nell'anno 1215, Innocenzo III celebrò a Roma un Concilio, il IV del Laterano. L’assemblea produsse 70 decreti, che toccavano i punti più disparati: dalla repressione dell'eresia e dall’adozione di misure persecutorie contro gli ebrei (costretti a portare sugli abiti un segno di riconoscimento visibile quando si trovavano tra i cristiani) all'organizzazione degli ordini monastici, dalle disposizioni sul eucarestia e sulla confessione alla regolamentazione delle decime e delle indulgenze, dai criteri di convocazione delle sinodi provinciali al culto delle reliquie, dalla formazione del clero agli impedimenti matrimoniali fra consanguinei. 3. La vittoria sull’impero Con i successivi pontificati di Onorio III (1216-1227) e di Gregorio IX (1227-1241) esplose un nuovo conflitto fra Roma e l’imperatore, che era ora Federico II, l’ex pupillo di Innocenzo III. Un primo motivo di tensione fu offerto dallo scarso zelo imputato allo svevo verso la crociata che era stata bandita in occasione del IV concilio lateranense del 1215. La spedizione crociata partì solo nel 1227, ma un’epidemia scoppiata a bordo delle navi durante il viaggio la fece subito rientrare alla base. L’imperatore, accusato di essersi impegnato poco nell’impresa, subì la scomunica papale; due anni dopo egli riuscì a guadagnare il controllo di diversi territori in Palestina e il libero accesso a Gerusalemme per i pellegrini cristiani non tramite la guerra, ma grazie a un negoziato con il sultano, esito che peraltro, gli costò l’imputazione di connivenza con gli infedeli. Un’ulteriore ragione di contrasto fra l’imperatore e Roma fu l’elezione a re di Germania del figlio di Federico Enrico, già re di Sicilia, che lasciava prefigurare quell’unione dei due regni tanto aborrita dai papi. Un altro figlio del monarca, Enzo, divenne contestualmente re di Sardegna. Dimostratesi fallimentari le altre misure, papa Gregorio IX si preparò alla guerra dichiarando sciolti dal giuramento di fedeltà i vassalli imperiali e inviando un esercito, guidato da Giovanni di Brienne, a invadere il territorio di Napoli. Federico riuscì però a sbaragliare le truppe pontificie e Gregorio, non sostenuto dagli alleati su cui pure contava (tra cui i comuni cittadini dell’Italia settentrionale e molti principi tedeschi), dovette accettare, nel 1230, una pace che prevedeva il suo ritiro dal Mezzogiorno e la revoca della scomunica contro l’imperatore. Quest’ultimo si sforzò in quegli anni di sottoporre al proprio effettivo controllo tutta la penisola italiana e per questo si battè contro le città comunali, che sconfisse nella battaglia di Cortenuova. Nel 1239 egli subì perciò una nuova scomunica 2. I papi ad Avignone Già il successore di Bonifacio VIII, Benedetto IX, rimasto in carica solo per alcuni mesi, si adoperò per ricucire lo strappo con il regno di Francia, e perciò ritirò l’interdetto e la scomunica contro Filippo il Bello e si riappacificò con i Colonna. Alla sua morte venne eletto papa, con il nome di Clemente V (1305-1314), un francese. Filippo IV, che non desisteva dall’intenzione di voler condurre un processo postumo contro Bonifacio VIII, un’ipotesi cui il nuovo pontefice non poteva che opporsi a salvaguardia dell’istituzione e del principio dell’ingiudicabilità del papa, riuscì a coinvolgere Roma nel proprio disegno teso a provocare la rovina dell’ordine monastico cavalleresco dei Templari, che dopo la fine dell’impegno crociatistico era diventato una delle maggiori potenze finanziarie dell’Occidente. Il re, con l’obiettivo di accaparrarsi le ricchezze dell’ordine, accusò i Templari di empietà e ne confiscò i beni in Francia, mentre il papato avviava a sua volta un’indagine e convocava a Vienne un concilio generale, nel 1311, per prendere una decisione finale sul caso: il concilio decise lo scioglimento dell’ordine templare, le cui risorse vennero ridistribuite fra le varie istituzionali ecclesiastiche e quelle laiche. Una volta eletto, Clemente V, pur dichiarando di voler raggiungere quanto prima Roma, continuò a dimorare in Francia e nel 1309 pose la propria residenza ad Avignone; la città francese rimase sede principale per ben sessantacinque anni, fino al 1374. Nel periodo di Avignone i papi accentrarono molti poteri e funzioni nelle proprie mani e in quelle dei cardinali (tra cui numerosi erano i francesi), i quali introdussero, in occasione dell’elezione di Innocenzo VI nel 1352, anche i patti elettorali, o capitolari, cioè delle condizioni giurate che il pontefice neoeletto doveva impegnarsi a osservare e che ne limitavano le prerogative. Contro la curia avignonese si avanzarono diffuse, e persino eccessive, accuse di corruzione e avidità, fatte proprie anche da intellettuali di punta come Francesco Petrarca. I pontefici replicarono a tutto ciò continuando a utilizzare i modelli teorici elaborati lungo i secoli precedenti, con la pretesa, fra l’altro, di nominare il vicario imperiale per l’Italia e di rivestirne addirittura essi stessi la carica in caso di vacanza del titolo. Il papa Giovanni XXII entrò in conflitto con l’imperatore Ludovico il Bavaro, il quale senza attendere la conferma papale della propria elezione aveva ricevuto la corona ferrea a Milano da un vescovo scismatico e quella imperiale a Roma da un laico, Sciarra Colonna. Giovanni scomunicò l’imperatore dichiarandolo deposto, mentre Ludovico accusò a sua volta il papa di essere eretico e di abusare delle censure ecclesiastiche per scopi politici a vantaggio della Francia e per questo sollecitò un concilio generale che lo sottoponesse a giudizio. Nel 1328 l’imperatore cercò di alzare il livello dello scontro dichiarando deposto il pontefice per eresia e lesa maestà e creando un antipapa insediato a Roma, Niccolò V, il quale, tuttavia, di fronte a una sollevazione del popolo romano, fuggì, implorò il perdono di Giovanni XXII e finì i suoi giorni recluso nel palazzo papale di Avignone. Circa un trentennio più tardi, nel 1356, Carlo IV di Boemia, incoronato imperatore dal cardinale vescovo di Ostia su delega del papa, emanò il documento noto come Bolla d’Oro con il quale si introdusse il principio secondo cui il re di Germania aveva sin dal momento stesso della sua elezione il diritto di venire incoronato imperatore dei romani, negando quindi ogni ruolo significativo del pontefice in tale processo. Roma  Cola di Rienzo, un notaio fornito di buona cultura letteraria, che nel 1347 incitò il popolo a sollevarsi contro l’aristocrazia e a impadronirsi del potere. Condannato dai papi di Avignone e attaccato dalle famiglie aristocratiche, Cola cercò riparo presso l’imperatore Carlo IV, che lo fece invece arrestare e tradurre dal papa Innocenzo VI; quest’ultimo pensò di sfruttarne l’ascendente sulla popolazione romana per tentare di riconquistare il controllo della città e perciò lo rimandò a Roma in veste di suo emissario, ma una volta rientrato nell’Urbe Cola di Rienzo, ormai inviso a tutti e non più credibile, venne assassinato nell’ottobre del 1354. 3. Il rientro a Roma e lo scisma Il definitivo reintegro del papato nella città di Pietro avvenne nel 1377 con Gregorio XI (1370-1378), incalzato dal precipitare della situazione in Italia: nelle regioni pontificie erano scoppiate diverse rivolte, alimentate dalle principali potenze peninsulari (Milano, Napoli, Firenze) che miravano ad approfittare della situazione di instabilità per estendere la propria egemonia su quei territori. Con Firenze il papato era addirittura entrato in guerra aperta, la cosiddetta guerra degli Otto Santi. Nel 1378 il napoletano Bartolomeo Prignano, già arcivescovo di Bari, fu il primo papa a essere nuovamente eletto a Roma dopo la parentesi avignonese, prendendo il nome di Urbano VI (1378-1389). Forse anche per l’energia con la quale egli si mise a correggere i molti abusi di cui la chiesa si trovava gravata, il pontefice si guadagnò subito l’avversione dei cardinali francesi, che ripararono sotto la protezione della regina Giovanna a Napoli, dove si fecero raggiungere dal resto del collegio per procedere a una nuova elezione, sostenendo che quella di Urbano era nulla. I cardinali elessero Roberto di Ginevra, il comandante della guerra contro Firenze e della repressione a Cesena, che assunse il nome di Clemente VII e si trasferì ad Avignone. Papa e antipapa si scomunicarono a vicenda e la loro competizione produsse una grave spaccatura della chiesa e dell’intera società cristiana. I vari regni occidentali si polarizzarono: Francia, Lorena, Savoia, Scozia, Spagna e Napoli sostennero Clemente, mentre gli altri, tra cui in primo piano Inghilterra, Fiandra e Ungheria, appoggiarono Urbano, anche se in verità la trama delle alleanze era molto elastica. La chiesa venne così a trovarsi in una nuova condizione di scisma. Lo strumento adatto per poter ricomporre lo scisma era un concilio generale, ma la sua convocazione doveva essere iniziativa del papa e in questo frangente i pontefici erano due, uno a Roma e l’altro ad Avignone, e non si capiva a chi dovesse spettare la prima mossa. Il cosiddetto scisma di Occidente si trascinò anche oltre la morte di Urbano e di Clemente. A quest’ultimo, deceduto nel 1394, successe ad Avignone lo spagnolo Benedetto XIII, mentre al primo, spirato nel 1389, fecero seguito Bonifacio IX (fino al 1404), Innocenzo VII (fino al 1406) e infine Gregorio XII (rimasto in carica fino al 1417). Reiterati tentativi di riconciliazione fallirono immancabilmente. Alla fine sia i cardinali romani sia quelli avignonesi si convinsero che l’unico luogo in cui la frattura avrebbe potuto essere legittimamente sanata era un concilio generale. Il concilio si riunì a Pisa il 25 marzo del 1409, in assenza dei due pontefici, che furono dichiarati entrambi scismatici ed eretici e perciò deposti. L’assemblea procedette all’elezione di un nuovo papa, Alessandro V, il quale fu riconosciuto dalla maggior parte dei principi ma non certo da Gregorio XII e Benedetto XIII che non abdicarono: in questo modo si ebbero tre papi simultaneamente in carica. Alessandro V morì dopo un solo anno di pontificato e gli successe Giovanni XXIII, che convinse il re di Germania Sigismondo, non ancora imperatore, a convocare l’ennesimo concilio generale. Questo si aprì il 5 novembre 1414 a Costanza. Dei tre papi solo Gregorio XII accettò di farsi rappresentare da un legato, dichiarandosi pronto a rinunciare alla carica purchè lo facessero anche i suoi due contendenti. Il concilio affermò solennemente il principio secondo cui il potere risiedeva non nella figura del papa “monarca”, ma nella stessa chiesa rappresentata dal concilio generale stesso. Il pontefice era solo un rappresentante della chiesa, un funzionario, anche se il più importante di tutti; era la chiesa ad attribuirgli il potere, avendo facoltà di limitarlo o anche di revocarlo, e ad essa egli doveva rispondere del proprio operato. A Costanza venne espressa in maniera inequivocabile e lucidamente consapevole la dottrina “conciliarista” che come detto collocava nel concilio espressione della chiesa universale la fonte del potere (ed era il concilio a delegarlo poi al pontefice). Il concilio di Costanza, che si chiuse solo nel 1418, doveva dunque sanare lo scisma prima di affrontare le altre questioni all’ordine del giorno, dalla riforma complessiva delle istituzioni ecclesiastiche alla lotta contro l’ennesima ondata di eresie. Acquisite le dimissioni di Gregorio XII, l’assemblea depose d’autorità Giovanni XXIII e Benedetto XIII e procedette all’elezione di un nuovo, e unico, papa nella persona del cardinale Ottone Colonna, che prese il nome di Martino V (1417-1431), e inaugurò una serie pressochè ininterrotta fino a tempi recentissimi di pontefici italiani. I padri conciliari affrontarono quindi il nodo cruciale della definizione delle proprie prerogative. Venne ribadito innanzitutto che il concilio rappresentava la chiesa universale derivando i suoi poteri da Cristo e che a esso tutti, compreso il papa, avevano l’obbligo di sottostare. Si stabilì inoltre, con il decreto Frequens, che i concili generali dovessero essere convocati con periodicità regolare, in particolare che il prossimo avesse luogo dopo cinque anni, quello successivo a distanza di altri sette e quindi si tenesse un concilio puntualmente ogni dieci anni. Fu anche adottato in via definitiva un sistema di votazione per nazioni, cioè per rappresentanze nazionali. A Costanza le nazioni presenti erano Francia, Germania, Inghilterra e Italia, cui si aggiunse in un secondo tempo la Spagna. Si colpirono con atti di scomunica anche le principali eresie del momento, in particolare quella di John Wyclif, nel frattempo già morto, e di Jan Hus, che fu condannato alla pena capitale. La visione religiosa ed ecclesiologica di John Wyclif, professore dell'università di Oxford, che si espresse e diffuse in Inghilterra nella seconda metà del XIV secolo, oltre alla contestazione della ricchezza della chiesa comprendeva l'accesso diretto dei fedeli alla Bibbia senza la mediazione del clero e la negazione della validità sostanziale ai fini della salvezza dei sacramenti impartiti dagli ecclesiastici, poiché i cristiani erano dei predestinati e perciò il destino di ciascuno era già determinato un anticipo della volontà di Dio. Le teorie di Wyclif furono subito condannate da Roma ma i più radicali fautori delle stesse, i cosiddetti lollardi, proprio sul terreno della polemica contro il lusso della chiesa trovarono un immediata sintonia con il vasto moto di rivolta contadina che incendiò il regno inglese nel 1381, giungendo a vagheggiare il comunismo dei beni e l'uguaglianza sociale. Al principio del XV secolo, a Praga, Jan Hus, pure lui professore universitario, esaltò a sua volta la povertà di Cristo e degli apostoli quale modello cui tutti si dovevano ispirare. Avversato dal vescovo della sua città, che gli aveva proibito di esporre in pubblico le proprie tesi, Hus si recò a Costanza per partecipare ai lavori del Concilio, ma qui venne accusato di eresia, arrestato e messo al rogo. I suoi seguaci svilupparono in forme estreme le sue idee, chiedendo il ritorno della chiesa alla povertà delle origini e modifiche del rito che si rifacessero al primo cristianesimo, come l'assunzione della carestia per i laici sia con il pane sia con il vino, ma anche la libertà di predicare in lingua Ceca. CAPITOLO SESTO – IL PAPATO ALLA FINE DEL MEDIOEVO 1. Il papato nel Quattrocento Nel 1420 il papa Martino V potè fare ritorno a Roma. Il primo obiettivo fu pertanto quello di ricostruire la base territoriale e materiale dell’autorità del papato con una vigorosa azione a tutto campo e di rimettere ordine all’interno della chiesa. Martino riuscì ad avviare la ripresa economica e un nuovo sviluppo edilizio di Roma, a riprendere il controllo delle province del patrimonio e a ritagliarsi un preciso ruolo sullo scacchiere politico internazionale quale mediatore nelle contese fra i vari stati italiani. Rimasero invece aperte le grandi questioni relative agli equilibri interni alla chiesa, con in primo piano il fondamentale dibattito tra il principio della monarchia papale e le teorie conciliariste. Prima della sua morte, avvenuta nel 1431, Martino V convocò il concilio generale che era stato già previsto dai deliberati di Costanza e che venne fissato a Basilea. Il concilio di Basilea fu dichiarato ufficialmente aperto nel 1433, sotto il pontificato di Eugenio IV (1431-1447), per chiudersi solo nel 1449. Tra i numerosissimi argomenti ivi dibattuti particolare rilievo ebbe la proposta di unione fra la chiesa cattolica e quella ortodossa. Tale unione avrebbe significato per gli ortodossi riconoscere il primato di magistero e di giurisdizione di Roma, cioè sciogliere proprio il nodo che aveva prodotto nell’XI secolo lo scisma fra le due chiese, accettando la posizione pontificia. A Basilea emersero subito contrasti fra il concilio e il papa; quest’ultimo nel 1437 propose di sciogliere l’assemblea e di spostarla a Ferrara per indebolirla, con la motivazione che ciò avrebbe agevolato l’incontro con i delegati ortodossi, ma una buona parte dei padri conciliari si oppose alla richiesta accusando il pontefice di disobbedienza ai decreti del concilio e minacciando di sospenderlo dalla carica. Eugenio respinse la condizione che gli era stata posta di riconoscere la superiorità del concilio e venne perciò dichiarato deposto. Aprì ugualmente il concilio a Ferrara e dopo un po’ lo spostò a Firenze, dove fu discusso il tema dell’unione fra le due chiese cristiane con i rappresentanti ortodossi, fra i quali vi erano figure di spicco come Bessarione di Nicea e Isidoro di Kiev. Nel 1439 un decreto rese pubblica l’unione delle due chiese ma il documento fu subito contestato in Oriente e in ogni caso la conquista turca di Costantinopoli nel 1453 mutò drammaticamente la situazione e rese superate le ragioni stesse dell’accordo. L’eredità religiosa ortodossa venne allora raccolta, con quella politica di Bisanzio, dalla Russia. Proclamata la deposizione di Eugenio IV, il concilio di Basilea elesse un nuovo papa nella persona del duca di Savoia Amedeo VIII, che prese il nome di Felice V. Eugenio IV fu però capace di erodere l’apparente compattezza del fronte conciliarista recuperando poco per volta alle posizioni di Roma diversi padri conciliari. Il concilio, che in fondo non era mai stato una forza coerente al proprio interno, finì con il disgregarsi. La sede romana puntò a ripristinare la propria centralità nella chiesa universale non già, come altre volte in passato, assumendo la guida della riforma che pure era diffusamente avvertita come indispensabile e richiesta con urgenza, ma consolidando piuttosto la propria funzione di governo in accordo con le autorità laiche; fino a ragionare e a comportarsi, in ultima analisi, essa stessa come un potere principesco fra tutti gli altri, a partire dal proprio “stato” territoriale in via di costituzione nel centro dell’Italia. Impegnandosi nella politica italiana accanto alle altre realtà che vi erano coinvolte, dai principali stati peninsulari di Milano, Venezia, Firenze e Napoli ai regni stranieri interessati alle cose italiche come la Spagna e la Francia, il papato si ridusse a essere una potenza essenzialmente
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