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Il pensiero musicale del Novecento - Enrico Fubini, Sbobinature di Estetica

Le radici dell'avanguardia nel XX secolo. Debussy e il simbolismo. Monsieur Croche antidilettante. il futurismo e la musica. Malipiero tra le due guerre. Esiste un'estetica di Stravinskij? Da Wagner a Stockhausen. Dodecafonia e religiosità in Schoenberg. Musica e redenzione. Il teatro di Schoenberg. Schoenberg in America. Quale estetica musicale dopo Adorno? Temi musicali ed ebraici in Jankélévitch. L'estetica dell'ineffabile. La musica delle sfere. Scuole nazionali, folklore e avanguardie.

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

In vendita dal 24/01/2023

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Scarica Il pensiero musicale del Novecento - Enrico Fubini e più Sbobinature in PDF di Estetica solo su Docsity! Capitolo 1 LE RADICI DELL’AVANGUARDIA NEL XX SECOLO È risaputo che le correnti di studio della musica del Novecento hanno privilegiato alcuni percorsi evolutivi particolari a spese di altri. Theodor Adorno In Europa è sempre stata predominante la visione di Theodor Adorno, secondo cui l’avanguardia musicale del XX secolo nasce con Richard Wagner, che ha messo in discussione i capisaldi del linguaggio musicale armonico-tonale tradizionale. L'armonia tonale è una tecnica di scrittura musicale, nata nel corso del XVI secolo con l'affermazione del sentimento dei toni nella musica. In precedenza, la musica era principalmente modale e basata sulla melodia Fino ad allora il contrappunto, tecnica di scrittura legata a questa musica modale, dava il primato alle linee melodiche e alla loro sovrapposizione. Senza integrare la nozione di accordo, le regole del contrappunto definivano gli intervalli armonici accettabili tra le diverse parti a due a due, tenendo conto dei loro movimenti melodici. L'armonia tonale mira ad unire questi principi di orizzontalità (la melodia) con i principi di verticalità (gli accordi). Riprende parte delle regole del contrappunto, e apporta arricchimenti specifici di questa verticalità con tre o più suoni. Viene poi Arnold Schönberg, considerato caposcuola delle avanguardie del Novecento per aver creato la dodecafonia, caratterizzata dall’assenza di tonalità. La dodecafonia, ideata da Arnold Schönberg ed esposta in un articolo del 1923, è una tecnica di composizione musicale in cui i rapporti che si determinano fra i suoni sono assolutamente indipendenti dalle relazioni con un suono fondamentale, ma dipendono soltanto dalle reciproche relazioni dell'uno con l'altro dei dodici suoni componenti la scala cromatica. Alla dodecafonia sarebbe seguita la serialità integrale della scuola di Darmstadt post Webern Wagner → Schönberg → Webern → Scuola di Darmstadt In sintesi: nel filone adorniano, considera la storia della musica degli ultimi cent’anni a partire da Wagner, per poi arrivare alla serialità integrale della scuola di Darmstadt, attraverso la dissoluzione del wagnerismo e della tonalità. Pierre Boulez Altri musicologi hanno indicato altre genealogie e altri percorsi per la musica d’avanguardia: il primo musicista e saggista che ha messo in forse la genealogia adorniana è stato Boulez. Debussy → Stravinskij → Webern → Scuola di Darmstadt È significativo che in questo percorso non compaia neppure il nome di Schönberg, sin qui considerato come il vero padre della rivoluzione musicale del Novecento. Questo perché, secondo Boulez, la dodecafonia di Schönberg si sostituisce alla tonalità ma per riconfermare la costruzione formale tradizionale secondo cui il tempo, il materiale sonoro, tutto deve essere sottomesso ad una rigorosa legge formale, qualunque sia il principio ordinatore (modale, tonale o dodecafonico). Con Debussy, invece, prende corpo la tendenza rivolta a «distruggere l’organizzazione formale preesistente all’opera». Oggi, in una prospettiva più equilibrata, possiamo riconoscere una doppia polarità nelle radici dell’avanguardia. Consideriamo Schönberg e Debussy come i due più importanti poli, diversi ma complementari. Differenze e somiglianze: Arnold Schönberg Claude Debussy scuola di Vienna scuola di Parigi genealogia adorniana genealogia bouleziana affidamento alla conclusività della musica distruzione degli schemi musicali preesistenti conservatorismo progressismo opposizione al wagnerismo rifiuto del gigantismo sinfonico > piccole orchestre rifiuto delle forme sonore troppo lunghe e complesse > brevità come mezzo di intensificazione dell’espressione preferenza per le sonorità del singolo strumento, pianoforte come strumento di punta. Esplorazione di nuove potenzialità timbriche del pianoforte valorizzazione del silenzio come parte della musica stessa antiretorica espressiva (concentrazione e condensazione)? asciuttezza dei mezzi, leggerezza di tocco alterazione del senso classico e romantico del tempo basato sull’enunciazione di formule melodiche e ritmiche che creavano un’organizzazione temporale della composizione, secondo un iter determinato tempo scisso in istanti più o meno lunghi ma caduchi e in un certo senso autosufficienti rottura radicale con la retorica della consequenzialità, con l’arco di tensione che segna l’inizio, lo svolgimento e la fine conclusiva del brano, sostituita con l’emergere dal nulla di un mondo di suoni e di immagini e lo sprofondare nel mistero del silenzio In sintesi, ciò che accomuna Debussy e Schönberg è il venir meno in entrambi del senso affermativo della musica, coltivato in vario modo dall’avvento dell’era tonale. Tutta la strutturazione della musica classica tendeva a produrre questo senso affermativo e progettuale. La forma sonata forse ha rappresentato un vertice in questo tipo di progettazione della musica, ed è proprio a questa concezione della musica che vuole sfuggire l’avanguardia. Il termine forma-sonata (prima metà del Settecento) si riferisce a una determinata organizzazione del materiale musicale all'interno di un singolo movimento (di solito il Per contro, Vladimir Jankélévitch ribalta l’interpretazione naturalistica di Debussy e descrive il compositore come un metafisico simbolista, che progetta l’opera musicale secondo un nuovo modo di concepire il flusso temporale. Per Jankélévitch la musica è per definizione ‘inespressiva’, in quanto il suo territorio è l’indicibile, l’inesprimibile, l’ambiguo. Ambigua è la musica, come ambiguo e inafferrabile è il fluire del tempo. Questo discorso musicale e filosofico, anche se ha una portata generale e mira a delineare una vera e propria filosofia della musica, trova la sua esemplificazione più appropriata nella musica di Debussy simbolista: la sua musica mette in crisi un certo tipo di espressività, quella esibita e ricercata ad ogni costo, troppo fiduciosa e sicura di sé e delle proprie capacità affermative. Per Jarocinski uno dei caratteri più originali di Debussy è di avere aperto la strada al pensiero sonoriale, cioè alla pura ricerca sul suono scissa dai tradizionali parametri melodia-armonia. La sua musica, dunque, rappresenta un modello che a partire da Debussy attraverserà tutta l’avanguardia musicale. Capitolo 3 MONSIEUR CROCHE ANTIDILETTANTE: TEMPO E NATURA NEL PENSIERO DI DEBUSSY A partire dal 1901, Debussy offre una serie di articoli e recensioni sulle più importanti riviste culturali del tempo (firmandosi con lo pseudonimo Monsieur Croche). In alcuni di questi scritti emergono chiaramente gli aspetti essenziali della sua poetica. Debussy e la Sinfonia la Sinfonia è un brano orchestrale composto di più movimenti, di proporzioni abbastanza ampie e articolati secondo procedimenti ben precisi. Si basa sulla cosiddetta forma-sonata, per cui la sinfonia può essere definita la «sonata per orchestra» Per Debussy la Sinfonia è un genere che appartiene al passato. «mi sembrava che, dopo Beethoven, la prova dell’inutilità della Sinfonia fosse acquisita. Al punto che in Schumann e Mendelssohn essa non è più che una ripetizione rispettosa delle stesse forme, con diminuito vigore. Eppure, la ‘Nona’ rappresentava una geniale indicazione, un desiderio magnifico di ampliare le forme abituali, di renderle più libere, dando loro le armoniose dimensioni di un affresco». (da “La Sinfonia”, in Il Signor Croche antidilettante) A proposito della Sinfonia e della forma-sonata Debussy impiega l’eloquente espressione di “eleganza rettilinea”: in una linea retta diventa tutto prevedibile, non vi sono sorprese. Gli sviluppi della forma sonata quindi non aggiungono nulla al tema ma appartengono a quella rettilineità dove tutto è già stabilito e previsto in una struttura preesistente alla composizione stessa. Alla forma sonata Debussy contrappone “l’arabesco musicale o piuttosto quel principio dell’ornamento che è la base di tutti i tipi di arte”. Questi due termini “arabesco” e “ornamento” non sono da interpretare banalmente come puro decorativismo, ma sono da intendere come l’idea di ciò che procede in modo fantasioso, senza un preciso e preordinato piano di sviluppo. Siamo quindi al polo opposto della concezione sinfonica del classicismo viennese dove tutto è preordinato da un piano all’interno del quale la fantasia del musicista è limitata. La polemica di Debussy contro la sinfonia e la forma-sonata si accompagna alla polemica sotterranea contro la musica tedesca, colpevole di iper-organizzazione, e soprattutto di far uso di schemi preordinati. Alla musica tedesca, contrappone una musica scritta per essere eseguita all’aperto, tutta a grandi linee. Tempo musicale e natura Spesso nei suoi scritti compare il richiamo alla natura come maestra insostituibile per il musicista, da contrapporre all’insegnamento accademico e conservatoriale. Per Debussy la natura non cancella il contrappunto, ma lo rinnova e lo allontana dai suoi modelli accademici e schematici, per riportarlo alla freschezza originaria. Altro tema fondamentale che emerge dai suoi scritti è la sua concezione di tempo musicale. L’appello alla natura non ha niente a che vedere con un naturalismo, del tutto estraneo alla mentalità e alla musica di Debussy, ma rappresenta piuttosto un richiamo ad un tempo musicale che prenda a modello i ritmi della natura, le sue scansioni varie, imprevedibili, mutevoli. Ciò che Debussy rifiuta è un’idea dell’opera musicale concepita come un racconto in cui è ben individuabile l’inizio, lo svolgimento e la fine intesa come felice scioglimento della vicenda. Nasce così la poetica dell’aforisma, che proviene da una concezione non lineare del tempo. Capitolo 4 IL FUTURISMO E LA MUSICA I protagonisti del futurismo in musica sono: Balilla Pratella, l’unico musicista futurista, e il pittore Luigi Russolo, che ha contribuito in modo rilevante alla creazione di una musica futurista. Francesco Balilla Pratella (1880-1955) fu compositore e musicologo. Pratella fu con Luigi Russolo un padre della musica futurista e quindi un attore molto importante nell’avanguardia musicale europea. Con la sua esperienza di musicista di professione ha dato al movimento una certa credibilità e la possibilità di elaborare teorie musicali molto tecniche. Nel suo Manifesto tecnico della musica futurista del 1911 proclama l’atonalismo, l’enarmonia, la polifonia in senso assoluto e il ritmo libero. Si definisce atonalità la modalità di scrittura della musica, diffusasi all'inizio del XX secolo, secondo cui il compositore si allontana definitivamente dagli schemi del sistema tonale. Enarmonia: uso di intervalli di grandezza inferiore al semitono (es. il quarto di tono). La distruzione della tonalità per Pratella doveva andare di pari passo con la distruzione delle forme e dei ritmi tradizionali: libertà assoluta. Ma a che scopo? La liberazione della musica dalle forme in cui era rinchiusa nel passato avrebbe dovuto permettere all’artista di dare libero sfogo alla sua potenziale sensibilità e di tradurre in suono «il palpito più profondo della natura». Nella seconda parte della sua produzione, si allontana dal movimento futurista e trascorre la vita in Romagna dove pone le basi per studi sistematici sul folklore romagnolo. Luigi Carlo Filippo Russolo (1885–1947) è stato un compositore, pittore e inventore italiano. Russolo è importante per aver portato alle estreme conseguenze le idee di Pratella, arrivando a un futurismo più aggressivo e autenticamente avanguardistico. Si dedica alla ricerca dei suoni più dissonanti, più strani e più aspri per l’orecchio, avvicinandosi sempre più al suono-rumore. tradizione liberale. In tutta la sua opera di scrittore e musicista, è evidente il segno del rifiuto del suo tempo, dell’isolamento. Isolamento non come conseguenza di un’ipersensibilità ai problemi che ha vissuto nella sua vita, ma come conseguenza di una scelta di rifiuto di adesione ai valori che non poteva condividere. A questo proposito, è significativo il suo atteggiamento di fronte alla guerra: nonostante la sua ammirazione verso personaggi come Casella o D’Annunzio, egli non condivise mai i loro entusiasmi bellici. Così nelle sue opere, come la Terza sinfonia o nei suoi Inni (1932), si ritrova il tema del rifiuto della retorica, della guerra, della violenza, del vuoto nazionalismo. Concludere definendo Malipiero un musicista e un intellettuale isolato non sarebbe del tutto corretto: il suo recupero del passato musicale italiano non coincide con un estraniamento dalle avanguardie europee, così come la sua originalità non va confusa con una totale estraneità al suo tempo in una dimensione astorica e atemporale. In realità Malipiero ha recepito perfettamente le sollecitazioni della cultura estetica e filosofica italiana del Novecento, ma personale e originale è stata la sua reazione a queste sollecitazioni. Capitolo 6 ESISTE UN’ESTETICA DI STRAWINSKIJ? Igor' Stravinskij (1882-1971) è stato un compositore e direttore d’orchestra russo. I suoi primi successi risalgono agli anni ’10 al periodo di collaborazione con i Balletti russi di Sergej Djagilev. Ha scritto musica per ogni tipo di organico, spesso riutilizzando materiali e forme del passato (es. Neoclassicismo), ma si è dedicato anche alla dodecafonia. Con Neoclassicismo musicale ci si riferisce a una corrente di compositori, che fra gli anni ’20 e ’30 del Novecento, rifiutarono di comporre musica dodecafonica, e si rifecero a modelli compositivi precedenti l’Ottocento romantico. Fra i compositori neoclassici, oltre a Stravinskij, possiamo citare Paul Hindemith, Alfredo Casella. Possiamo ricostruire il pensiero estetico di Stravinskij attraverso i suoi scritti:  Cronache della mia vita (1935): autobiografia  Poétique musicale (1942): raccoglie le sette lezioni tenute ad Harvard nel 1940.  Colloqui con Robert Craft (1959) Il formalismo musicale Il formalismo è una teoria estetica che si basa sul principio di asemanticità della musica. Il padre del formalismo è considerato Eduard Hanslick (1825-1904), critico, storico della musica. Secondo Hanslick la musica non rimanda a nulla se non a sé stessa; dunque, la sua componente materiale, formale e tecnica costituisce ed esaurisce anche il suo significato profondo. Infatti, il titolo Il bello musicale (trattato di Hanslick del 1854) allude al fatto che esiste un bello solo specificatamente musicale, non confondibile con le altre arti. L’estetica formalista di Stravinskij Fubini a proposito di Stravinskij parla di volgarizzazione dell’estetica formalista: secondo Stravinskij la musica non esprime alcunché. Con le sue affermazioni, pare radicalizzare totalmente l’estetica formalista. «Io considero la musica, a cagione della sua essenza impotente a esprimere alcunché: un sentimento, un’attitudine, uno stato psicologico, un fenomeno naturale ecc… l’espressione non è mai stata proprietà immanente della musica» [da Cronache della mia vita] Stravinskij non crede che tra i sentimenti e le emozioni del compositore ci sia un collegamento diretto con la partitura (es. Vivaldi, primavera). Pensa che la musica esprima sé stessa e ogni ascoltatore può associarla a qualsiasi cosa diversa. La musica è impotente a esprimere una qualsiasi cosa > LA MUSICA ESPRIME SÉ STESSA. È diretta contro il concetto che un brano di musica sia in realtà un’idea trascendentale espressa in termini musicali, non nega l’espressività musicale. Ad un primo sguardo si può notare un nesso tra la poetica formalista di Stravinskij e le sue teorie neoclassiche. Tuttavia, questa sua lettura storica potrebbe sfociare in un riduttivismo della sua figura. Un’analisi poco attenta potrebbe sfociare nella banalizzazione del formalismo, nonché del pensiero di Stravinskij stesso. Il formalismo di Stravinskij è più complesso e prende come punto di riferimento, più che Hanslick, una tradizione culturale francese del primo Novecento in cui si è sviluppata un’estetica che ha arricchito il formalismo hanslickiano di nuove prospettive (es. lo spiritualismo bergsoniano, il formalismo di Gisèle Brelet o di Boris de Schloezer). I due punti centrali del suo pensiero vertono sulla:  concezione poetica dell’arte: idea di “arte come fare”, come “costruire”.  concezione della costruzione musicale come organizzazione del tempo: “un ordine fra l’uomo e il tempo”. Tempo psicologico e tempo ontologico Per quanto riguarda il concetto di tempo ontologico e tempo psicologico, bisogna risalire a Hegel. In particolare, nel passo dell’Estetica sul tempo e la musica Hegel crea un’opposizione tra i due tempi:  il tempo come durata psicologica: riguarda i fenomeni mentali e affettivi, i nostri sentimenti. Segue il loro svolgimento, il loro sorgere e dileguarsi.  il tempo come durata ontologica: riguarda la nostra interiorità più profonda. Per Hegel la musica è legata sia al tempo psicologico sia a quello ontologico, o meglio la musica rappresenta la relazione tra i due tempi inclinando, a seconda della personalità del compositore, più verso uno e più verso l’altro. Metro e battuta Nell’argomentare la relazione tra la musica e il tempo ontologico, Hegel si riferisce ai concetti di metro e battuta.  metro: ricorrenza di accenti forti e deboli.  battuta successione regolare di accenti forti e deboli. «la battuta appare come qualcosa fatto puramente dal soggetto, cosicché nell’ascoltarla abbiamo la certezza immediata di avere in questa regolazione del tempo solo qualcosa di soggettivo […] Per questo la battuta risuona nel più profondo dell’anima e ci tocca in questa peculiare soggettività […] Per questo aspetto quel che ci parla nei suoni non è il contenuto spirituale, né l’anima concreta del sentimento; egualmente non è il suono come tale che ci commuove nel più profondo intimo, ma è questa unità astratta, collocata nel tempo dal soggetto, a trovare risonanza nell’eguale unità del soggetto» [da Estetica, Hegel] Musica espressione del tempo ontologico Alla luce di queste riflessioni, Stravinskij evidenzia questo meccanismo di relazione tra il tempo e la musica. L’idea di opera musicale come forma inespressiva acquista un altro senso: non espressiva soltanto del tempo psicologico, ma del tempo ontologico. «il fenomeno della musica ci è dato al solo scopo di stabilire un ordine nelle cose, ivi compreso e soprattutto, un ordine fra l’uomo e il tempo. Per essere realizzato esso esige pertanto necessariamente e unicamente una costruzione. Fatta la costruzione, raggiunto l’ordine, tutto è detto. Sarebbe vano cercarvi o aspettarsi altro. E proprio questa costruzione, questo ordine raggiunto che produce in noi un’emozione di carattere del tutto particolare che non ha niente in comune con le nostre sensazioni correnti e le nostre reazioni dovute a impressioni della vita quotidiana» [da Cronache della mia vita, Stravinskij] Due tipi di musica Stravinskij giunge alla conclusione che esistono due tipi di musica:  una si evolve parallelamente allo svolgimento del tempo ontologico e lo compenetra, facendo nascere nello spirito dell’ascoltatore un sentimento di euforia (e di “calma dinamica”)  l’altra supera o contrasta questo svolgimento, senza aderire al momento sonoro. Si stabilisce nell’instabile, il che la rende adatta ad esprimere gli impulsi emotivi del suo autore. L’estetica di Stravinskij La musica legata al tempo ontologico è generalmente dominata dal principio di somiglianza. La musica legata al tempo psicologico procede per contrasto. Per Stravinskij la musica legata al tempo ontologico ha un maggior valore, una maggiore solidità: «il contrasto produce un effetto immediato, la somiglianza ci soddisfa solo col tempo. Il contrasto è un elemento di varietà, ma disperde l’attenzione; la somiglianza nasce da una tendenza all’unità […] Il contrasto è dovunque ed è sufficiente prenderne atto. La somiglianza è invece nascosta, si tratta di scoprirla, e la scopro soltanto al limite del mio sforzo. Se la varietà mi tenta, sono turbato dalla facilità che mi offre, mentre la somiglianza mi propone delle soluzioni più difficili, ma dei risultati più solidi e dunque, a mio parere, più preziosi» [da Poetica della mia musica, Stravinskij] Ordine e disciplina Importantissimo è stato l’avvento dell’armonia tonale del 1600. Col Novecento e l’introduzione della dodecafonia, è accaduto un progressivo abbandono della tonalità e una messa in discussione dell’armonia e della tonalità stessa. La demitizzazione della tradizione occidentale del sistema tonale proviene da quelle interpretazioni che solo gli stessi inventori del sistema dodecafonico hanno potuto donarci. Schönberg e la dodecafonia Arnold Schönberg è il musicista inventore della dodecafonia. Fu uno tra i primi del ventesimo secolo a scrivere musica uscendo completamente dalle regole del sistema tonale. Il suo metodo dodecafonico, ovvero il suo Metodo di composizione con dodici note, è basato su una sequenza che comprende tutti i dodici suoni della scala musicale cromatica temperata, ovvero tutti i dodici semitoni dell’ottava (tale sequenza è detta “serie”: da qui il termine “musica seriale”). La dodecafonia prevede che tutti e dodici i suoni appaiano lo stesso numero di volte, senza che nessun suono prevalga sugli altri. Le composizioni quindi non si basano sulla tonica e non presentano più la struttura gerarchica tipica del sistema tonale. Il principio di sequenza dei suoni prevede che nessuno di essi si ripeta prima che tutti gli altri siano comparsi; per questo motivo viene stabilita una serie, fissando così l’ordine in cui le note devono succedersi. Per evitare un’eccessiva uniformità, si utilizza:  la versione retrogradata della serie originale  l’inversione della serie originale (con tutti gli intervalli disposti per moto contrario)  l’inversione della versione retrogradata È possibile anche trasporre la serie originale e le sue tre “versioni” su tutti i restanti undici gradi della scala cromatica. Capitolo 8 DODECAFONIA E RELIGIOSITÀ NELLA MUSICA DI SCHOENBERG Schoenberg inventa la dodecafonia intorno agli anni ’20. Nello stesso periodo riscopre l’ebraismo. A partire dagli stessi anni la maggior parte delle sue composizioni (almeno in quelle per voce, dotate di un testo poetico) rivela un substrato etico ebraico. Dopo gli anni ’20 Schoenberg scrisse perlopiù composizioni vocali, su testi propri. Moses und Aron La prima grande composizione d’ispirazione ebraica di Schoenberg è “Moses und Aron”: è un’opera per le scene, su testo e musica di Schoenberg, rimasta però incompiuta (consta di due atti e un intermezzo. Del terzo atto resta solo il testo verbale). Alla base dell’opera vi è un progetto religioso e ideologico su cui si regge il libretto e anche la costruzione musicale. Mosè e Aronne sono i due personaggi chiave dell’opera. rappresentano:  Mosè rappresenta l’amore per l’idea, pura, astratta e non raffigurabile  Aronne rappresenta l’amore per il popolo che ha bisogno della raffigurazione di quest’idea. Questi due aspetti non trovano alcuna possibilità di conciliazione nell’opera di Schoenberg. Il contrasto tra i due personaggi si manifesta anche musicalmente, per esempio nello stile di canto:  Mosè canta nello stile dello Sprechgesang, con un cadenzare monotono e severo. Ricorda la cantillazione biblica, per la funzione della musica, in cui l’intonazione melodica non sovrasta la parola ma, al contrario, la sottolinea nel suo valore intellettivo e sintattico.  Aronne canta con voce spiegata tenorile, in uno stile operistico tradizionale. Qui la musica tende invece a mostrare il suo potere nei confronti della parola, che viene indebolita del suo potere concettuale ma esaltata nelle sue potenzialità musicali. La creazione artistica (dodecafonia) Dai testi di Schoenberg si può capire quale rilevanza etica (oltre che musicale) lo stesso musicista avesse attribuito alla dodecafonia. Un saggio chiave è “Stile e idea”, che riprende il testo (Composizione con dodici note) di una conferenza tenuta a Los Angeles nel 1941. In quell’occasione Schönberg insiste quasi più sull’aspetto etico, che su quello estetico, della creazione artistica (in particolare della dodecafonia): sottolinea più volte che l’opera d’arte nasce da una forte necessità interiore, quasi da un imperativo morale. «il metodo di composizione con dodici note è nato da una necessità» [da Composizione con dodici note, in Stile e idea] Il termine “necessità” va chiarito: nel suo scritto Schoenberg allude ad una necessità di carattere storico. La differenza tra consonanza e dissonanza non risiede nella natura e neppure in una supposta gerarchia di bellezza; la differenza anzi può scemare grazie all’acquisizione di una maggiore familiarità con le dissonanze. «Una maggiore familiarità con le più remote consonanze, ossia con le dissonanze, eliminò gradatamente le difficoltà di comprensione e, alla fine, rese possibile non soltanto l’emancipazione dell’accordo di settima di dominante e degli altri accordi di settima, delle settime diminuite e delle quinte aumentate, ma altresì delle più remote dissonanze presenti in Wagner, Strauss, Musorgskij, Debussy, Mahler, Puccini, Reger» [da Composizione con dodici note, in Stile e idea] La musica pertanto non solo può prescindere dalla natura, ma il suo destino è quello di creare forme sempre più autonome e autosufficienti, sganciate da qualsiasi necessità naturale. La creazione artistica è governata da una necessità interna. La necessità assume dunque il valore di legge che organizza la coerenza e rende comprensibile il messaggio in essa contenuto. Dodecafonia migliore della tonalità? È chiaro che i due metodi hanno un significato ben preciso. La dodecafonia è un sistema rigido di organizzazione dei suoni che si fonda unicamente sulla volontà creatrice del musicista e da lui dipende interamente. Ogni elemento naturale viene sottoposto a una rigida organizzazione. Un pezzo dodecafonico risulta complicato da comporre (così come da ascoltare): è un metodo che richiede al compositore di svolgere un arduo compito: alla base vi è un’idea di elezione. La dodecafonia rappresenta il gradino più alto nella storia della musica: la sua difficoltà si giustifica per la sua maggiore astrattezza, per il suo rifiuto a venire incontro alla comune sensibilità uditiva. Quest’ultima si è modellata nel corso degli ultimi secoli su una base più naturalistica, ossia sul principio di una maggiore familiarità con i primi armonici. «L’adozione del mio metodo di composizione con dodici note non facilità la composizione: al contrario la rende più difficile […] Le restrizioni imposte a un compositore dall’obbligo di usare una sola serie per ogni composizione sono così rigide che soltanto una fantasia passata vittoriosamente attraverso molte avventure può superarle. Questo metodo non regala nulla; anzi priva di molte cose» [da Composizione con dodici note, in Stile e idea] La dodecafonia e l’ebraismo In questi concetti sono espressi in chiave metaforica alcuni principi cardine dell’ebraismo:  l’idea di elezione intesa non come privilegio ma come duro compito che può portare ad un più alto livello di coscienza.  il senso della legge, del suo rigore e della sua necessità. Quest’analogia tra i principi ideologici su cui si fonda la dodecafonia e alcuni principi chiave dell’ebraismo si ritrova in modo esemplare nel tessuto letterario e musicale del Moses und Aron. La serie dodecafonica nella sua forma originaria, su cui si basa l’opera, viene usata per designare la divinità nella sua forma più pura ed essenziale. Le mutazioni della serie originale, che generano quasi dei leitmotiv ricorrenti, compaiono invece nelle situazioni in cui si è in presenza di una distorsione dell’idea di Dio, di un suo abbassamento ad un livello inferiore. A livello musicale vi è una contrapposizione tra la serie dodecafonica, simbolo della divinità intesa come idea astratta e irrappresentabile, e la tonalità intesa come via più tradizionale, più facile, comunicazione musicale realizzabile ad un basso livello, simbolo di molteplicità e idolatria. Questa oscillazione tra dodecafonia e tonalità ha un preciso risvolto ideologico e religioso. Dodecafonia e tonalità rappresentano rispettivamente l’unità e la molteplicità e, metaforicamente, il mondo del divino e il mondo della natura e dell’umano. Tra essi vi è un rapporto di conflitto e di tensione reciproca (come nel canto di Mosè e Aronne). Schoenberg concepisce Dio come Unico, Eterno, Onnipresente, Irraffigurabile. Dio come alterità assoluta rispetto all’uomo, come ciò che è assolutamente al di là di qualsiasi possibilità dialogica. Questo radicalismo nel modo di concepire la divinità si ritrova nel suo modo di praticare la dodecafonia. Il mondo della dodecafonia è irraggiungibile dall’uomo, un ideologiche a un teatro in cui i personaggi appaiono come persone in carne e ossa, che vivono le loro passioni e sentimenti, in situazioni concretamente umane. I libretti di Metastasio rappresentano un po’ la chiave di volta in questo passaggio e solo con il teatro mozartiano abbiamo a che fare con personaggi veri nel senso moderno del termine, caratteri ben definiti, con un certo spessore umano, nelle loro complessità e nelle loro sfumature. Su sfondi culturali profondamente diversi si sviluppa il melodramma in età successiva, ma sempre mantenendo l’impegno di approfondire i caratteri dei personaggi. Questa tendenza sembra subire una brusca inversione con il teatro espressionista e soprattutto con il teatro di Schoenberg. Con Schoenberg si riaffaccia il personaggio simbolo, situazioni schematiche, tipiche proiezioni dell’inconscio, idee chiave che si scontrano con altre idee. È da notare che questo mutamento radicale nella struttura del teatro melodrammatico si presenta parallelamente alla crisi della tonalità e al nascere dell’atonalità e della dodecafonia successiva. Ma quale rapporto ci può essere tra i due eventi? Non a caso la nascita del melodramma coincide con la nascita del sistema tonale: l’armonia tonale sembra essere lo strumento perfetto per portare la musica sulla scena, per dipingere la varietà delle situazioni emotive ed affettive della vita, rendendole visibili e fruibili sul palcoscenico del teatro: le passioni diventano così figurativamente visibili e musicalmente udibili nello spettacolo melodrammatico. Il nuovo linguaggio atonale della musica di Schoenberg (1905-1915), invece, si presenta più adatto a situazioni limite, simboliche ed esemplari. Senza dubbio Schoenberg si era posto il problema dell’opera in relazione al nuovo linguaggio. Facendo un esempio pratico: il suo Moses und Aron rappresenta la messa in discussione della stessa possibilità di esistenza dell’opera, così come tradizionalmente concepita, nel linguaggio dodecafonico. Moses und Aron vuole proprio mostrare quanto risulti problematica l’azione teatrale, il movimento dei personaggi, il confronto e lo scontro dei caratteri, servendosi del linguaggio dodecafonico e abbandonando il vecchio linguaggio nato apposta per descrivere e per raccontare un’azione su palcoscenico. Moses und Aron si presenta apparentemente come un’opera tradizionale, ma sono molte le novità ed anomalie: 1. l’andamento di tutto il primo atto ha poco di teatrale Tutto è immobile e il contrasto tra i due protagonisti, Mosè e Aronne, si riduce ad un contrasto ideologico. L’andamento è quindi oratoriale e manca proprio quel movimento, quella dinamica degli eventi e dei personaggi tipica del melodramma classico. Il linguaggio dodecafonico sottolinea bene il senso di immobilità e il contrasto tra Mosè e Aronne viene evidenziato dal modo con cui cantano (Mosè recitar cantando, Aronne canta a voce spiegata, tenorile). 2. Aronne fa pensare a un protagonista di un’opera tradizionale , che dà libero sfogo ai suoi sentimenti, mentre Mosè rimane chiuso e ripiegato su sé stesso nel rigore del suo pensiero, volutamente privo di slanci emotivi, di sfumature psicologiche. 3. Nel libretto-romanzo tradizionale la vicenda psicologica che caratterizza il protagonista, progredisce, evolve per mezzo del conflitto con altri personaggi, con il confronto e l’interazione con altre situazioni psicologiche ed esistenziali. Qui ogni personaggio rimane chiuso in sé stesso e combatte unicamente con sé stesso, il coro fa solo da cornice e da commento. 4. Il terzo atto non è musicato . Il Moses und Aron ci porta ad alcune considerazioni più ampie sul teatro melodrammatico e sulla sua portata storica. Quest’opera, centrale e fondamentale nella produzione schoenberghiana, assume il valore di una riflessione sulla possibilità di esistenza dell’opera stessa nel mondo moderno e nell’esperienza musicale ed esistenziale di Schoenberg. Lo sfondo ebraico in cui si pone la riflessione etica di Schoenberg mette in luce per contrasto la natura del teatro musicale così come si è configurato nel mondo occidentale. Il personaggio di Mosè chiude il melodramma con queste parole «ed era tutto follia ciò che ho pensato / e non può né deve essere detto! / O parola, parola che mi manca!». Quasi a voler affermare che il contenuto del suo pensiero è indicibile nei termini tradizionali del melodramma. Perciò tutta l’opera di Schoenberg nel suo complesso esprime anche l’idea dell’impossibilità stessa della figurazione melodrammatica di un contenuto ebraico. E per contro si può avanzare l’ipotesi che il melodramma tradizionale è invece congeniale al mondo cristiano. Non per caso la parte dell’opera in cui ricompare la tonalità, anche se in forma stravolta e alterata, è nell’orgia attorno al vitello d’oro, la parte in cui anche Schoenberg si allontana dalla lettera del racconto biblico. In conclusione, si tratta della contrapposizione tra il melodramma tradizionale, con le sue forme e il suo linguaggio, le sue ampie possibilità comunicative contro un melodramma impossibile, irrealizzabile, non comunicabile, non raffigurabile e non dicibile. Capitolo 11 UN CASO FRA MILLE: SCHOENBERG IN AMERICA, STRANIERO DUE VOLTE? Arnold Schoenberg: musicista di fama internazionale, ebreo, fondatore di una nuova e rivoluzionaria scuola musicale, maestro di allievi prestigiosi quali Berg e Webern, costretto all’esilio negli Stati Uniti nel 1933. Ma cosa rappresenta l’esilio per Schoenberg? Sappiamo che nel 1898 si converte al protestantesimo. Le ragioni di questa conversione rimangono ignote, anche perché ebbe in seguito rapporti scarsi, se non nulli, con la chiesa protestante. E di certo non si tratta di una conversione opportunistica dal momento che, nella cattolicissima Austria, la carriera per un ebreo era facilitata da una conversione al cattolicesimo, piuttosto che al protestantesimo. Negli anni attorno alla Prima guerra mondiale, in Schoenberg nascono nuovi poli di interesse di natura religiosa e questo forte desiderio di conquista di una fede religiosa rappresenta una delle spinte decisive per il suo riavvicinamento all’ebraismo. Altra spinta importante è il noto episodio di Mattsee (1921), paesino di villeggiatura riservato agli ariani. Appena arrivato, Schoenberg, nonostante potesse dimostrare di essere protestante, decise di scegliere un atro luogo di villeggiatura, non proibito agli appartenenti alla razza ebraica Una serie di lettere successive testimonia la posizione assunta dal musicista, con orgogliosa fierezza nell’essere ebreo, e la progressiva presa di distanza da amici del suo passato che presentarono atteggiamenti nettamente antisemiti (Kandinsky). In una lettera all’allievo e amico Anton Webern, Schoenberg scrive: «sono deciso a non fare più nient’altro che lavorare per la causa nazionale dell’ebraismo […] non so quanto a lungo potrò lavorare qui». Il progetto di darsi completamente alla causa sionista ed ebraica è parallelo all’idea del suo progressivo distacco dall’Occidente. Le persecuzioni, le umiliazioni, la delusione nei confronti di molti amici del suo passato e, infine, l’esilio fanno maturare in lui l’idea di essere estraneo al mondo in cui è cresciuto. Al tempo stesso questo sentimento, quasi paradossalmente, gli fa sentire meno drammatico l’esilio americano: mentre molti suoi concittadini sognano la fine della guerra e la possibilità di tornare a casa, Schoenberg non sogna affatto la patria perduta, perché la Germania non è più sentita come tale, e d’altra parte neanche gli Stati Uniti rappresentano per lui una nuova patria. Questo senso dell’esilio, profondamente radicato nell’animo ebraico, esilio che assume una tonalità spirituale prima ancora che materiale, accompagnerà Schoenberg per tutta la sua vita a partire dagli anni ’20. Questo stato d’animo di Schoenberg si riflette bene nella sua musica: non è un caso che gli anni della riscoperta delle radici ebraiche, subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, e del crescente senso di estraneità al mondo in cui era nato e cresciuto, coincidano con l’invenzione della dodecafonia. La dodecafonia rappresenta la teorizzazione radicale della perdita del centro (centro tonale). Può rappresentare l’esilio della musica in quanto possibilità di comunicazione facile e banale, per lo meno secondo i canoni classici. In un altro importante saggio dal titolo “Assomigliare, dissomigliare” del 1964, Jankélévitch riflette ancora su quella condizione irrisolta che sta alla radice dell’esistenza ebraica, ma che al tempo stesso diventa una cifra universale dell’esistenza umana. L’ebreo è costantemente preso da due tentazioni opposte: essere come gli altri (assomigliare), oppure isolarsi nella propria specificità (dissomigliare). Si potrebbe universalizzare questa duplice tentazione affermando che una rispecchia il bisogno di vita sociale, l’altra il bisogno di solitudine. Tornando al discorso sulla musica iniziale, per la musica «l’equivoco è il regime normale» e perciò «essa non è tenuta a scegliere fra sentimenti contraddittori» ma anzi «compone con essi un solo stato d’animo complessivo, ambivalente e sempre indefinibile». La contraddizione non risolta e irresolubile è l’anima della musica, in particolare della musica autentica (come quella di Debussy). La musica di Debussy rappresenta il centro della speculazione estetica e filosofica di Jankélévitch: per lui la musica di Debussy è la più straordinaria incarnazione artistica di una concezione del tempo non architettonica e spaziale, ma piuttosto organica e vitalistica. Inoltre, Debussy incarna una delle più profonde ribellioni al “logos” come ragione dialettica, consequenziale, onnicomprensiva, di cui la forma sonata ne è la perfetta incarnazione. Al tempo stesso, indica una nuova via, alternativa, in cui tutti i valori affermativi della musica precedente vengono in qualche modo rovesciati a favore di una nuova poetica della marginalità e del silenzio. La musica, in quanto linguaggio defluente e incoerente, equivoco e discontinuo, spezza la coerenza verbosa del logos. Tale musica diventa, proprio come l’ebraismo, una cifra dell’esistenza umana, una spia per cogliere i lati più autentici e profondi della stessa condizione umana. Debussy ha sottolineato con la sua musica la condizione dell’uomo che rinuncia alla saldezza dell’esistenza, al suo significato univoco e affermativo. Ha sancito la condizione della perdita della terra e della patria. Infine, lo stato d’animo più consono al musicista ed anche all’ebreo è lo scherzo: così come l’ebreo non può che ironizzare sottilmente sull’ambiguità della propria situazione esistenziale, così il musicista, che ritrova un’analoga ambiguità nell’essenza stessa della musica, ricorre all’humor per esprimere il contenuto più profondo della musica stessa. Capitolo 14 VLADIMIR JANKÉLÉVITCH E L’ESTETICA DELL’INEFFABILE: DA DEBUSSY ALLE AVANGUARDIE “La musique et l’ineffable” è un saggio di Jankélévitch, la sua opera centrale per quanto riguarda la musica, scritta nel 1960. Secondo Jankélévitch, la ragione dialettica si lascia sfuggire gli aspetti più inafferrabili e “ineffabili” del reale e proprio per afferrare ciò che il logos non giunge a darci bisogna salire più in superfice. La musica diventa nel pensiero di Jankélévitch il linguaggio che per la sua particolare natura ci permette di sfiorare quella realtà, forse meno corposa e consistente, ma non certo meno importante e significativa per l’uomo. La musica può definirsi allora come un «(non) “essere” che è piuttosto divenire». Parlando di musica, Jankélévitch utilizza spesso il termine “inespressiva”, da non confondere con la visione stravinskiana secondo cui la musica non esprime nulla e che tende ad un’esaltazione della forma come gioco neoclassico. Per Jankélévitch la musica è inespressiva perché il suo territorio è l’indicibile, l’inesprimibile, l’ambiguo. La quadratura neoclassica della forma mira a immobilizzare e a fissare il fluire puro del tempo musicale che, per Jankélévitch invece, tende a sfuggire da ogni lato, a rendersi inafferrabile e “indicibile”. Jankélévitch ha dimostrato nei suoi saggi un atteggiamento di polemica nei confronti di un certo tipo di espressività, quella esibita, ricercata ad ogni costo. D’altra parte, l’inespressività di Jankélévitch non è certo la frigidità neoclassica ma la levità dell’espressione. Si può capire quindi perché il discorso musicale e filosofico di Jankélévitch trova la sua massima esemplificazione nella musica di Debussy e in altri musicisti che come lui hanno cercato vie alternative all’espressività dichiarata. Da qui si profila una concezione del tutto rivoluzionaria dell’idea stessa di opera musicale: Jankélévitch descrive la musica di Debussy come un susseguirsi di “flussi” istantanei: a questo proposito va visto il naturalismo di Debussy, che ispirandosi a certi fenomeni della natura (movimento del vento e del mare) ha rifondato l’armonia, il ritmo, la melodia su basi nuove. Con Debussy l’accordo perde il suo significato funzionale, infatti a partire dal musicista francese si comincia a parlare di “aggregazioni sonore”: si inizia a dare un nuovo peso al singolo suono, o anche a grappoli di suono che possono essere fruiti come entità in sé autosufficienti. Debussy spezzò il legame che univa da tre secoli la melodia all’armonia, lasciando libera la melodia. Le avanguardie (es. Webern) hanno ereditato da Debussy il rifiuto a ogni forma di retorica classica e alle forme delle macrostrutture, per poi scoprire il fascino delle microstrutture, radicalizzando però ciò che in Debussy era solo suggerito. Ciò che può unire queste posizioni è l’aspirazione ad un ideale di purezza, quasi di ascetico silenzio, che però ha preso forme diverse: la serialità delle avanguardie rappresenta il contrario dell’ingenuità come senso profondo del reale di Debussy. La ricerca della purezza, della delicatezza dell’appena sfiorato, dell’appena accennato, senza insistenza, senza amplificazioni retoriche, senza sovrastrutture intellettuali e formali che appesantiscano il dire, tutto ciò può appartenere all’eredità che Debussy ha lasciato a Webern, ma a cui quest’ultimo ha aggiunto quel rigorismo ascetico, quella esplicita volontà di autonegazione che ha portato al nichilismo dell’avanguardia e alla negazione dell’espressione come esplicita volontà autodistruttrice del linguaggio, di ogni linguaggio, in altre parole alla teorizzazione dell’incomunicabilità a tutti i livelli. Il silenzio Le pagine di Jankélévitch sul silenzio nella musica, e nella musica di Debussy in particolare, offrono una chiave interpretativa che investe uno degli aspetti più profondi della natura della musica in generale. Jankélévitch è contro l’eccesso di eloquenza: sostiene che la parola è impotente rispetto al mistero e all’ineffabile e predilige il silenzio della musica, che non è cessazione, ma attenuazione. Il silenzio è capace di farci intravedere i segreti dell’esistenza, in più ci permette di evocare il ricordo del passato e al tempo stesso di presagire il futuro. La musica nelle manifestazioni più sommesse, meno chiassose e più tenui (es. la musica di Debussy, Ravel, Bartok) è la più vicina all’atteggiamento discreto e dimesso tipico della cultura ebraica. Capitolo 16 SCUOLE NAZIONALI, FOLKLORE E AVANGUARDIE Nel corso degli anni, l’attenzione di chi si è occupato di estetica musicale si è concentrata su certi temi, escludendone inevitabilmente altri. Temi centrali erano i problemi inerenti alla crisi del linguaggio musicale tonale, la Scuola di Vienna e la successiva Scuola di Darmstadt. Emblematica è la riflessione filosofica e musicale di Adorno, sviluppatasi nel ventennio 1940-1960, che s’incentra sulla dodecafonia e sull’asse austro-tedesco della storia della musica che ha il suo centro in Vienna. Si può parlare di un vero e proprio imperialismo musicale germanico. Le scuole nazionali Ai margini vi sono le scuole nazionali. Esse fioriscono nella seconda metà dell’Ottocento: frutto di una ricerca delle proprie matrici etniche, nonché di un desiderio di rivalsa rispetto all’egemonia musicale tedesca. La tradizione musicale occidentale ed eurocentrica, dal Rinascimento sino a oggi, ha privilegiato essenzialmente due parametri musicali: la tonalità e la costruzione formale. In fondo anche la dodecafonia, nella sua carica eversiva della tonalità, prosegue sulla stessa scia. Le scuole nazionali (es. russa, ungherese, iberica e altre) hanno rappresentato il primo tentativo di indicare vie alternative di sviluppo per la musica europea. Il ricorso al folclore si basa su di un presupposto filosofico essenziale: la pluralità dei linguaggi e la loro pari dignità, rompendo per la prima volta l’idea di un unico asse di sviluppo privilegiato. Da questo presupposto, le scuole nazionali sono riuscite a fondare la propria legittimazione con la rivalutazione di linguaggi un tempo ritenuti primitivi: la musica popolare era vista come ancorata ai suoi livelli di primitività propri di un’umanità contadina, le musiche esotiche erano giudicate proprie di popoli arretrati e non ancora giunti alla civilizzazione. La caduta di questi assunti ha prodotto il fiorire di nuove forme di espressioni artistiche in tutta Europa ma in particolare nelle zone periferiche, quelle rimaste escluse rispetto all’egemonia della scuola di Vienna. La novità delle scuole nazionali sta nel diverso modo di concepire la tradizione e l’idea stessa di rinnovamento di questa tradizione. La musica europea, fino ad allora, si era sviluppata come una tradizione che cresce, impermeabile ad altri stimoli, altre tradizioni musicali ed artistiche. Le scuole nazionali invece instaurano un nuovo rapporto con il folclore: attraverso le musiche e i ritmi propri della musica contadina, del folclore popolare, è possibile ritrovare un linguaggio perduto e dimenticato, che deve essere recuperato. Béla Bartók Figura fondamentale è Béla Bartók: compositore pianista ungherese. Studioso della musica popolare dell’Europa orientale e del Medio Oriente, fu uno dei pionieri dell’etnomusicologia. Raccolse e trascrisse musica popolare della sua regione. Spazia da trascrizioni fedeli dei canti popolari, a rielaborazioni, a libere ricreazioni. Crea un linguaggio originale che affonda le radici nella cultura popolare nazionale, per inserirsi però nel panorama della musica novecentesca come forza viva e aggiornata. In Ungheria spicca l’aspirazione all’indipendenza politica dall’impero austro-ungarico. Indubbiamente per Bartók la spinta nazionalistica è stata uno stimolo essenziale al rinnovamento linguistico, al recupero del canto popolare e ad un suo impiego originale. Le Danze popolari rumene Un esempio dei suoi lavori sono le Danze popolari rumene (1915): una suite di sei danze nate dalla rielaborazione di altrettante danze rumene, originarie della Transilvania, con cui il compositore era entrato in contatto. Scritte originariamente per pianoforte solo, nel 1917 furono trascritte per piccola orchestra. https://www.youtube.com/watch?v=wM_VPZII2RU Musica per archi, percussioni e celesta Una delle composizioni più note di Bartók è la Musica per archi, percussioni e celesta del 1936. Come indicato dal titolo, il brano è composto per archi, strumenti a percussione e celesta. L'organico comprende anche un pianoforte, che può essere classificato come uno strumento a percussione o a corda. https://www.youtube.com/watch?v=HGJcsTtJ188&t=1050s RIFLESSIONI SUL SILENZIO: FRA ADORNO E JANKÉLÉVITCH Nel saggio di Arbo sul silenzio vengono confrontate due posizioni opposte di Adorno e Jankélévitch. Per comprendere il pensiero di Adorno bisogna partire dal presupposto che secondo Rousseau la musica si differenzia dal cri animal (“grido animale”), in quanto partecipa al sentimento morale. Con il suo svolgersi ordinato nel tempo, nota dopo nota, la melodia si offre come strumento di imitazione dei sentimenti dell’essere umano. Vi è quindi una differenziazione tra istinto e sentimento. Citando Hegel, «la musica è un’interiezione articolata”, vale a dire che il pianto, l’urlo di dolore, di paura sono espressioni immediate di uno stato d’animo e la musica le organizza in una forma discorsiva, staccandosi dall’istintività. La critica di Adorno si concentra sull’esame dei caratteri tematici: nella sua prospettiva è tramite l’elaborazione di un’idea tematica (forma-sonata) che la musica si trasforma in quella specie di discorso che la differenzia dal rumore di natura. Partendo da questo principio (musica come linguaggio superiore all’istintività), Adorno si spinge verso l’autonomia della musica. Massimo esempio di musica autonoma è Beethoven: nelle sue opere si identifica una volontà di organizzazione della forma come se fosse un discorso concettuale, ciascun elemento assume significato nell’ordine della tonalità, nella successione, nello sviluppo del discorso. A eccezione del suo terzo periodo compositivo, in cui sembra allontanarsi da questa idea di linguaggio musicale autonomo (es. Op.111: sfaldamento del tema, attenzione agli aspetti timbrici sonoriali). In contrapposizione c’è la visione di Jankélévitch: egli sostiene che la musica e il linguaggio verbale non devono essere paragonate, perché la musica appartiene a un universo silenzioso, benché all’apparenza sonoro. Citando Jankélévitch: «la musica
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