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La costruzione sociale delle identità popolari: da domande democratiche a domande popolari, Appunti di Filosofia

Teoria del PopulismoTeoria della Comunicazione SocialeSociologia della politicaTeoria delle Elite

La nozione di domanda sociale e la distinzione tra domande democratiche e popolari. La prima è isolata, la seconda è una pluralità di domande che attraverso l'articolazione equivalenziale costituiscono una soggettività sociale più ampia. I meccanismi che rendono possibile l'emergenza di una identità popolare, che richiede una divisione dicotomica della società in due fronti e la costruzione di un'identità globale a partire dall'equivalenza di una pluralità di domande sociali.

Cosa imparerai

  • Come si costruisce una identità popolare a partire dalle domande sociali?
  • Che cos'è una domanda democratica?
  • Come si distinguono le domande democratiche dalle domande popolari?

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 08/10/2019

Stefania80511
Stefania80511 🇮🇹

4

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4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La costruzione sociale delle identità popolari: da domande democratiche a domande popolari e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! Il populismo Significanti vuoti ed egemonia. Se ci troviamo di fronte a un insieme puramente differenziale, la sua totalità dovrà essere presente in ogni atto individuale di significazione: cogliere concettualmente questa totalità sarà un requisito indispensabile all’atto di significazione in quanto tale. Per cogliere concettualmente questa totalità, dobbiamo coglierne i limiti, cioè differenziarla da qualcos’altro. L’altro però potrà essere solo un’altra differenza e siccome si tratta di una totalità che abbraccia tutte le differenze, quest’altra differenza (che ci procura l’esterno grazie a cui potremo costituire la totalità) dovrà essere interna, non esterna alla totalità e quindi non si presterà ad alcun compito di totalizzazione. L’unica possibilità di avere un esterno reale sarà data dal fatto che l’esterno non sia semplicemente un elemento neutrale in più, ma un elemento escluso, qualcosa che la totalità espelle se stessa per costruire se stessa. (Per esempio: è attraverso la demonizzazione di una parte della popolazione che la società acquista un senso di coesione interna). In virtù di questo elemento escluso, tutte le altre differenze saranno equivalenti nel loro comune rigetto dell’identità esclusa. Questo è ciò che avviene anche nella formazione di un gruppo come sostiene Freud: tra i fattori che rendono possibile l’identificazione reciproca tra i membri del gruppo vi è l’odio comune per qualcosa o per qualcuno. Ma l’equivalenza è proprio che ribalta la differenza, di conseguenza ogni identità è costituita all’interno di questa tensione tra una logica differenziale e una logica equivalenziale. Dunque, al posto della totalità troviamo sempre questa tensione. Ciò che rimane è una totalità fallita, il luogo di una pienezza irrecuperabile. Una totalità che si presenta come un oggetto impossibile e necessario. Impossibile perché la tensione tra l’equivalenza e la differenza è fondamentalmente insormontabile. Necessario perché senza alcun tipo di chiusura, per quanto precaria, non ci sarebbe mai significazione e nemmeno identità. Non esistono strumenti concettuali per determinare appieno questo oggetto, ma vi è la necessità di rappresentarlo. E la rappresentazione dispone solo, tra i suoi strumenti, di differenze particolari. Vi è a questo punto la possibilità che una differenza, senza cessare di essere una differenza particolare, diventi comunque la rappresentazione di una totalità incommensurabile. Quest’opera di assunzione da parte della particolarità di un significato universale incommensurabile è chiamata egemonia. Dato che questa totalità o universalità incarnata è un oggetto impossibile, l’identità egemonica diventa qualcosa di simile a un significante vuoto, che incarna nella sua particolarità una pienezza irrealizzabile. La totalità costituisce un orizzonte, non un fondamento. Retorica. C’è un dislocamento retorico ogni qualvolta un termine letterale è sostituito da uno figurato. Nella retorica classica, un termine figurato che non può essere sostituito da uno letterale era chiamato “catacresi” (per esempio quando diciamo le gambe della sedia). Questa tesi può essere generalizzata se facciamo nostra l’idea che ogni distorsione di significato abbia il compito di esprimere qualcosa che in termini letterali semplicemente non sarebbe trasmesso. In quest’ottica, la catacresi diventa qualcosa di più di un semplice accorgimento, diventa il comune denominatore della retorica in quanto tale. I significanti vuoti nascono dal bisogno di nominare un oggetto che è impossibile e necessario, ossia da quel grado zero della significazione che è la precondizione di ogni processo di significazione, l’operazione egemonica risulterà catacrestica. Proprio per questo la costruzione politica di un “popolo” è catacrestica. In una relazione egemonica una particolare differenza assume il compito di rappresentare la totalità che la eccede. Tutto ciò conferisce una chiara e netta centralità a una figura della retorica classica, la sineddoche (la parte che rappresenta il tutto). E sta anche ad indicare che la sineddoche non è un artifizio tra i tanti, ma ha una diversa funzione ontologica. Il popolo non ha la natura di un’espressione ideologica, ma è una relazione concreta tra agenti sociali e dunque sarà una via per la costruzione dell’unità del gruppo. Ma non sarà l’unica, perché all’interno del campo sociale rimangono all’opera altre logiche, che rendono possibili tipi di identità differenti da quella populista. Quale sarà l’unità minima dell’analisi? La più piccola unità è la “domanda sociale”. La nozione di domanda è ambigua in inglese, può indicare una richiesta ma può indicare anche un reclamo. Ed è nella transizione da richiesta a reclamo che vi è una delle prime proprietà caratteristiche del populismo. Viene definita domanda democratica quella che, soddisfatta o meno, rimane isolata. Viene definita domanda popolare una pluralità di domande che, attraverso la loro articolazione equivalenziale, costituiscono una più ampia soggettività sociale. Due sono i requisiti del populismo: il primo è la formazione di una frontiera interna antagonistica che separa il “popolo” dal potere; il secondo è l’articolazione equivalenziale delle domande che rende infine possibile l’emergenza del “popolo”. Più la catena equivalenziale sarà estesa, più varia sarà la natura dei legami che entrano a far parte della sua composizione. Qualora invece il confronto non sia solo episodico, le forze coinvolte nella sommossa dovranno attribuire ad alcuni componenti della catena equivalenziale un ruolo privilegiato di ancoraggio, grazie al quale i rivoltosi si possono distinguere da tutti gli altri. Il populismo, nelle sue forme classiche, presuppone un’ampia comunità, che consenta alle logiche equivalenziali di estendersi a gruppi sociali nuovi e più eterogenei. Se una domanda non entra in un rapporto equivalenziale con le altre domande, è perché essa è stata soddisfatta. Una domanda soddisfatta, non rimane una domanda isolata, è iscritta in una totalità istituzionale/differenziale. Così si hanno due possibili strade per la costruzione sociale: o attraverso l’affermazione di tante particolarità che corrispondono alle domande particolari i cui unici legami tra loro sono di natura differenziale; o attraverso un parziale venir meno delle particolarità, alla luce di un’accentuazione di ciò che tutte le particolarità condividono in maniera equivalenziale. La seconda strada è quella che porta a tracciare una frontiera antagonistica, cosa che la prima non fa. La prima modalità di costruzione del sociale è definita “logica della differenza” e la seconda “logica dell’equivalenza”. Non c’è totalizzazione senza esclusione e tale esclusione presuppone la spaccatura di ogni identità tra la propria natura differenziale, che la collega/separa dalle altre identità, e il proprio legame equivalenziale con le altre, in rapporto con l’elemento escluso. La totalizzazione parziale che il collegamento egemonico riesce a creare non elimina questa spaccatura, ma al contrario deve operare sullo sfondo delle possibilità strutturali che ne derivano. Così, differenza ed equivalenza devono in qualche modo rispecchiarsi l’una nell’altra. Le equivalenze possono indebolire ma non addomesticare le differenze. Dunque, le equivalenze non puntano a eliminare le differenze. L’equivalenza e la differenza sono i per sé incompatibili ma si esigono a vicenda come condizioni necessarie per la costruzione del sociale. Il sociale non è nulla se non il luogo di questa tensione irriducibile. Da un lato, ogni identità sociale (cioè discorsiva) si costituisce nel punto di incontro tra differenza ed equivalenza, così come le identità linguistiche sono la sede sia di relazioni sintagmatiche (combinazione) sia di relazioni paradigmatiche (sostituzione). Dall’altro, però, il sociale non è mai uniforme né regolare, poiché la totalizzazione esige che un elemento differenziale giunga a rappresentare un intero impossibile. Una certa identità è prescelta dall’intero campo delle differenze per incarnare la funzione totalizzante. Differenza ed equivalenza sono presenti sia in una totalizzazione istituzionalista e in una totalizzazione populista, ma un discorso istituzionalista si sforza di far coincidere i limiti della formazione discorsiva coi limiti della comunità. Il principio universale della “differenzialità” equivalenziale in quanto tale. È solo quel momento di cristallizzazione a costituire il popolo del populismo. Ciò che era semplicemente una mediazione tra diverse domande, acquista una consistenza propria. Anche se il legame era originariamente subordinato alle domande, ora reagisce su di esse e, con un’inversione della relazione, comincia a fungere da fondamento, senza questa operazione di inversione, non ci sarebbe populismo. Per tradursi in un’aspirazione, la totalità deve innanzitutto differenziarsi dall’insieme fattualmente dato delle relazioni sociali, ciò perché il momento della frattura antagonistica è indispensabile. Non lo si può ricondurre a una positività più profonda, che lo trasformi nell’espressione epifenomenica di qualcosa di diverso. Ciò significa che nessuna totalità istituzionale può iscrivere al suo interno l’insieme delle domande sociali come un insieme di momenti positivi. Ecco perché le domande insoddisfatte e non-iscrivibili hanno la natura di un essere manchevole. Al tempo stesso però la pienezza dell’essere comunitario resta presente per loro, come qualcosa di assente, come qualcosa che in un pre-esistente e positivo ordine sociale deve restare irrealizzato. Il populus come insieme dei rapporti sociali che già esistono, si rivela una falsa totalità, una parzialità che è fonte di oppressione. Dall’altra parte, la plebs, le cui domande parziali sono iscritte nell’orizzonte di una totalità pienamente dispiegata, società che esiste solo idealmente, può comunque aspirare a costituire un populus universale che la situazione effettiva nega. Ed è perché le due visioni del populus sono incommensurabili che una certa particolarità, la plebs, può identificarsi col populus inteso come una totalità ideale. Abbiamo detto che la transazione dalle domande individuali alle domande popolari avviene attraverso la costruzione di legami equivalenziali. Bisogna quindi capire come questa pluralità di legami si trasforma in una singolarità, condensandosi in una precisa identità popolare. I materiali grezzi che entrano in questo processo di condensazione sono le domande individuali nel loro particolarismo. Ma se tra di esse si deve stabilire un nesso equivalenziale, si deve trovare una sorta di denominatore comune che incarni la totalità della serie. Dato che il denominatore comune deve provenire dalla serie stessa, non potrà essere altro che una domanda individuale, la quale, per ragioni circostanziali, acquisisce una certa centralità. Questa è l’operazione egemonica. Non c’è egemonia senza la costruzione di un’identità popolare a partire dalla pluralità delle domande democratiche. Due sono gli aspetti importanti nella costituzione delle identità popolari. Il primo aspetto è dato dal fatto che la domanda che l’identità popolare cristallizza risulta spaccata al suo interno: da un lato rimane una domanda particolare; dall’altro la sua stessa particolarità giunge a veicolare qualcosa di molto diverso, la catena totale delle domande equivalenziali. Pur restando una domanda singola, diventa al contempo il significante di un’universalità più ampia. Ma questo significato più universale è subito trasmesso agli altri anelli della catena, che risultano così anch’essi spaccati tra il particolarismo delle domande e il significato popolare impartito loro dall’iscrizione all’interno della catena. Il che scatena a ruota una tensione: più debole sarà la domanda, più la sua formulazione dipenderà dalla sua iscrizione nella catena popolare; viceversa, più diverrà autonoma sul piano discorsivo e istituzionale, più tenue sarà la sua dipendenza da un’articolazione equivalenziale. La rottura di tale dipendenza può condurre alla fine, alla disintegrazione pressoché completa del fronte popolare-equivalenziale. Il secondo riguarda la produzione di significanti vuoti. Ogni identità popolare ha bisogno di condensarsi attorno ad alcuni significati (parole e immagini) che fanno riferimento alla catena equivalenziale come una totalità. Più estesa sarà la catena, meno questi significanti saranno ancorati alle loro originarie domande particolaristiche. La funzione di rappresentare la relativa universalità della catena prevarrà su quella di esprimere il particolare reclamo che è il portatore materiale di quella funzione. Cioè, l’identità popolare, da un punto di vista estensionale, diverrà sempre più piena, perché rappresenterà una catena di domande sempre più ampia; ma diverrà simultaneamente sempre più povera, dal punto di vista intensionale, poiché dovrà privarsi dei contenuti particolaristici per poter abbracciare domande assai eterogenee. L’identità popolare funziona tendenzialmente come un significante vuoto. Ma vuoto non coincide con astrazione, poiché nel rapporto equivalenziale, le domande non condividono nessun contenuto positivo, se non quello di restare tutte insoddisfatte. Esiste cioè una negatività specifica, che è inerente solo al legame equivalenziale. In una situazione di radicale disordine, la domanda chiederà un ordine di qualche tipo, mentre sarà di secondaria importanza il dispositivo sociale concreto che potrà soddisfarla. Poiché nomina una pienezza indifferenziata, questo termine non ha nessun contenuto concettuale, non si tratta di un termine astratto, ma vuoto, alla lettera. Ecco perché una catena equivalenziale deve essere espresssa con l’investimento oggettuale di un singolo elemento, non si tratta di un’operazione concettuale volta a scoprire una comune caratteristica astratta che sia soggiacente a tutte le proteste sociali, ma di un’operazione performativa che costituisce la catena in quanto tale. Il carattere vuoto dei significanti che danno unità o coerenza al fronte popolare non è il frutto di un sottosviluppo ideologico o politico; esprime invece il fatto che ogni unificazione populista ha luogo su un terreno sociale radicalmente eterogeneo. Questa eterogeneità non tende, sulla base del proprio carattere differenziale, a saldarsi attorno a un’unità generata dal suo interno sviluppo. Ogni tipo di unità deriva invece da un’iscrizione, la cui superficie (i simboli popolari) è irriducibile ai contenuti che poi vi si iscrivono. I simboli popolari sono l’espressione di domande democratiche che vengono messe assieme, ma il mezzo espressivo non può essere ridotto a ciò che esso esprime perché non è un mezzo trasparente. Quando si prova a costruire un’identità popolare più ampia e un nemico globale, attraverso l’articolazione di domande settoriali, l’identità delle forze popolari e del nemico diverrà più difficile da determinare. Ed è a questo punto che il vuoto si rivela necessario, dopo la fissazione dei vincoli equivalenziali. Quindi, vaghezza e imprecisione fanno parte della natura stessa del politico. La posizione soggettiva popolare non esprime semplicemente un’unità di domande costituitesi prima e fuori di sé, ma è il momento decisivo di costituzione di tale unità. Se, data la radicale eterogeneità degli anelli che entrano a far parte della catena, la sola fonte della loro coerente articolazione è la catena stessa, e se questa esiste solo nella misura in cui uno dei suoi anelli assolve il ruolo di condensare tutti gli altri, allora l’unità della formazione discorsiva è trasferita dall’ordine concettuale (logica della differenza) all’ordine nominale. Ciò avviene soprattutto in situazioni in cui si assiste a un arretramento della logica differenziale/istituzionale. In questo caso il nome diventa il fondamento della cosa. Un assemblaggio di elementi eterogenei tenuto assieme in maniera equivalenziale solo da un nome è una singolarità. Meno la società è tenuta assieme da meccanismi differenziali immanenti, più essa dipenderà, per la sua coerenza, da questo momento singolare, trascendente. La forma estrema della singolarità è l’individualità. In questo modo, la logica equivalenziale conduce alla singolarità, e la singolarità all’identificazione dell’unità del gruppo col nome del capo. Due sono gli sviluppi contemporanei delle teorie di Lacan, Zizek e Copjec. Il punto di partenza è l’analisi, nella filosofia analitica contemporanea, nel modo in cui i nomi si relazionano alle cose. L’approccio classico (descrittivismo). Elaborato originariamente da Bernard Russel, afferma che ogni nome ha un contenuto dato da un grappolo di contenuti descrittivi. La difficoltà di questo approccio sta nella pluralità di descrizioni che si possono associare allo stesso oggetto. Invece, secondo l’approccio anti-descrittivista, il cui esponente è Saul Kriple, le parole si riferiscono alle cose non per delle caratteristiche descrittive comuni, ma in virtù di un “battesimo iniziale” che si sbarazza completamente della descrizione. I nomi in questo senso sarebbero dei disegnatori rigidi. Dunque, mentre i descrittivisti stabiliscono una correlazione fissa tra il significante e il significato; mentre l’approccio anti-descrittivista prevede l’emancipazione del significante dal suo asservimento al significato. Secondo Zizek, il punto di trapuntura il cui nome determina l’unità di una formazione discorsiva non ha una sua identità positiva, lo cercheremmo invano in una realtà positiva, poiché non ha una consistenza positiva, è solo l’oggettivazione di un vuoto, di una discontinuità aperta nella realtà dall’emergenza del significante. In sintesi, dal descrittivismo classico a Lacan, vi è un movimento di pensiero che va verso una crescente emancipazione del registro del significante. Una transizione che altro non è che una progressiva autonomizzazione del nome. Con Lacan vi è una svolta, l’identità e l’unità dell’oggetto sono per lui il frutto dell’operazione stessa di nominazione. Ciò è possibile solo a patto di non subordinare la nominazione né a una descrizione né a una precedente designazione. E per svolgere appieno il suo ruolo, il significante dovrà diventare non solo contingente ma anche vuoto. Senza il punto nodale di una identificazione equivalenziale, le equivalenze democratiche resterebbero meramente virtuali. Quando parliamo di significanti vuoti ci riferiamo al fatto che c’è un posto, dentro il sistema di significazione, che è costitutivamente irrappresentabile, nel senso che questo posto resterà sempre vuoto, ma di un vuoto che io posso significare perché dentro la significazione. La totalizzazione del fronte popolare, cioè la cristallizzazione discorsiva del momento di pieno/vuoto, può aver luogo solo se un contenuto parziale diventa la rappresentazione di un’universalità con cui è incommensurabile. L’articolazione tra universalità e particolarità, che è costitutivamente inerente alla costruzione di un “popolo”, non è qualcosa che ha luogo soltanto a livello di parole e immagini, è qualcosa che si sedimenta anche in pratiche e istituzioni. Ogni spostamento egemonico va visto come un cambiamento di configurazione dello Stato.
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