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Il primo libro di estetica, Sintesi del corso di Estetica

Riassunto dettagliato dei venti capitoli del libro.

Tipologia: Sintesi del corso

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RiccardoAgon
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Scarica Il primo libro di estetica e più Sintesi del corso in PDF di Estetica solo su Docsity! Estetica: teoria generale della sensibilità e teoria delle arti. Aisthesis - Pietro Conte La somatoestetica, fondata da Richard Shusterman, studia il corpo, non soltanto come corpo fisico che mostra delle qualità sensibili ma come soggettività che esperisce tali qualità e affina le proprie capacità percettive. L’estetica è quindi innanzitutto teoria della percezione: percettologia, e si radica nella riflessione inaugurata da Alexander Baumgarten nel 1735 con il libro “Riflessioni sulla poesia”, seguito da “Estetica” del 1750. Estetica è un neologisimo che si riferisce alle parole greche aisthesis (percezione), aisthanomai (sentire) e aisthetikos (relativo alla sfera sensibile), sottintende episteme, cioè conoscenza. Baumgarten intendeva prospettare la possibilità di una “scienza del sensibile”. L’idea che del sensibile possa farsi una scienza non è scontata, molti pensatori del passato sottolineavano che il mondo dei sensi fosse troppo caotico per ricondurlo a concetti e leggi. Baumgarten, sapendolo, faceva riferimento a filosofi greci e padri della chiesa notando che entrambi avevano tracciato una distinzione netta tra: - rappresentazioni estetiche (aistheta): i dati delle sensazioni in atto e le immagini, le sensazioni che si sentono - rappresentazioni noetiche (noeta): operazioni che si indagano con la mente, intellettuali Per Platone il regno dell’estetica è quello in cui la forma pura delle idee si contamina con la materialità del corpo, ancorato alla mera opinione (doxa). (non vede la verità). La natura per Platone è intrinsecamente peccaminosa e anche i Padri della chiesa sono sospettosi verso il sensibile. Cartesio svilisce la dimensione dell’aisthesis (estetica) perché i nostri sensi ci ingannano. Baumgarten invece chiama in causa un’altra distinzione, quella tra sensazione e percezione. Sensazione è considerata passiva e soggettiva (sento caldo), nella percezione invece il soggetto ha un ruolo attivo. (percepisco il calore del fuoco). Baumgarten vuole dare un valore cognitivo alla percezione, rifacendosi alla tradizione filosofica di Leibniz in cui la costante attività percettiva del soggetto ha un ruolo decisivo. Leibniz sostiene che “l’anima” sia sempre attiva tra una miriade di “piccole percezioni” non sempre distinte tra loro. Per Cartesio i criteri della verità sono distinzione e chiarezza, secondo Leibniz la percezione, anche se manca di distinzione, può essere chiara: posso sapere che quel fiore è una rosa anche se non ne so elencare le caratteristiche distintive come farebbe un botanico, la cui conoscenza è intellettuale, mentre la mia (quel fiore è una rosa) è estetica. Kant recupera l’idea di una scienza del sensibile e nella “Critica della ragion pura” (1781) accoppia al neoligismo di Baumgarten, Estetica, il termine trascendentale. Trascendentale indica gli elementi a priori dell’esperienza, quindi Estetica trascendentale vuol dire la scienza di tutti i principi della sensibilità. Questi principi sono spazio e tempo, solo nello spazio e nel tempo gli esseri umani possono avere un’esperienza sensibile. Dopo Kant, scienziati e filosofi si impegneranno ad ampliare il campo di indagare la percezione di animali e piante. Se è il corpo che permette ad un essere vivente di essere nel mondo, a diversi corpi corrisponderanno diversi mondi. La conoscenza umana non è a - storica, anzi affonda le radici nel regno animale e si trasforma continuamente. L’estetica evoluzionistica, indaga le origini e lo sviluppo dell’attitudine estetica nell’evoluzione animale e i passaggi storici che hanno condotto al suo sviluppo umano. Multisensorialità e storicità della percezione: Per fare la “scienza dei sensi”, molti si sono posti domande spinose: quanti sono i sensi? tradizionalmente 5: vista, tatto, udito, gusto, olfatto, ma alcuni dicono ci siano anche i sensi della temperatura, dell’equilibrio, del dolore, ma anche la propriocezione e la enterocezione (informazioni su quel che accade dentro di noi). Ci sono anche le stimolazione meccaniche dei recettori: le pressioni sulla pelle, le vibrazioni che avvertiamo come suoni. C’è poi il problema di stabilire un ordine gerarchico tra le percezioni fin dalle riflessioni estetiche più antiche. Aristotele, agostino, cartesio e kant propongono una gerarchia in cui i sensi distali, vista e udito, danno sensazioni più oggettive perché condivisibili da più persone contemporaneamente, i filosofi edonisti e materialisti del 700 privilegiano i sensi prossimali come gusto e olfatto, dando il primato al tatto. Alcuni come Nietzsche celebravano l’olfatto. Queste distinzioni si riflettono sulla teoria dell’arte: Hegel sosteneva che solo vista e udito contribuiscono alla fruizione contemplativa e intellettuale dell’opera d’arte. Questi dubbi sulla gerarchia dei sensi hanno senso solo se si considera ogni senso come un canale indipendente, che agisce in un compartimento stagno. Le recenti scoperte dicono che le aree fino a poco fa considerate unisensoriali sono sedi di processi di integrazione multisensoriale. La percezione umana è organizzata anche in modo storico - culturale: la percezione è vincolata ad un ambiente modificato dai dispositivi e dalle tecniche. La fotografia, il cinema, o i deepfake, sono esempi di come la tecnica influenzi le modalità stesse della percezione. A ciò si connette la questione dei tratti costanti all’interno dei processi percettivi, studiati nei primi decenni del novecento dall gestalt che intendeva la percezione come un processo attivo di costante organizzazione dei dati sensibili, un processo attivo. Percepire implica una continua costituzione di campi in cui le energie specifiche dei sensi, come le definiva Johannes Peter Muller, si intrecciano dinamicamente fino a produrre delle configurazioni. Il processo percettivo è una attività che struttura gli stimoli sullo sfondo di un orizzonte di senso e questo reca con sé una verità estetica. Esempio: illusione di Muller - Lyer (due linee della stessa lunghezza sembrano diverse se terminano con una punta di freccia che forma un angolo acuto o ottuso), l’affermazione che siano di diversa lunghezza matematicamente è falsa, esteticamente è vera. Questo funzionamento obbedisce a dei principi: le leggi della visione sono quelle della buona forma, della vicinanza, della somiglianza o continuità di direzione, secondo le quali gli elementi percepiti vengono uniti in forme con tanta maggiore coesione quanto più danno luogo a figure semplici, poco distanti, molto simili. Queste leggi si riferiscono a strutture percettive naturali, ma la naturalità della visione è messa in discussione dall’esperienza passata, secondo cui uniamo in forme coerenti gli elementi che abbiamo trovato già associati tra loro. Quindi sono importanti i costrutti simbolico - culturali. Da qui la proposta di Helmuth Plessner di considerare l’estetica una antropologia dei sensi, una estesiologia, perché le modalità di percezione (sensibili) possono cambiare molto a seconda delle latitudini spazio temporali. “Critica” ogni valore conoscitivo non potendosi dare una scienza oggettiva del bello (né artistico né altro). Max Dessoir (filosofo esteta tedesco) ha sistematizzato l’approccio funzionalista all’arte, identificandone alcune funzioni fondamentali: quella estetica, che fa si che l’arte si rivolga al godimento sensibile. Ma il godimento estetico non è solo dell’arte (paesaggio naturale). Un’altra funzione è quella spirituale, intesa come mondo cultura nel suo complesso; poi ci sono quella sociale e quella morale. L’arte non è separata dalle altre esperienze umane. Il mondo dell’arte: L’opera d’arte è situata in un contesto storicamente determinato. L’operazione materiale eseguita dalla cornice nei confronti del dipinto si accompagna a un’operazione di incorniciamento concettuale che in certe condizioni storiche determina che cosa sia ammissibile come artistico. E’ il mondo dell’arte che accoglie l’oggetto a determinata l’artisticità, non qualche specifica caratteristica. (lo dice Arthur Danto, nozione di artworld). A seconda della teoria atristica interi oggetti vengono inclusi o esclusi dal novero dell’arte. George Dickie elabora una “institutional theory of art”, definendo l’opera d’arte come “artefatto di un certo genere creato per essere presentato a un pubblico del mondo dell’arte”. E’ una pratica sociale condivisa (da critici, curatori, direttori di musei, artisti etc), che quindi esclude altre culture. Sotto l’etichetta di institutional critique si raccolsero gli artisti che negli anni 70 del secolo scorso hanno messo a nudo il ruolo economico, politico e ideologico delle istituzioni artistiche nel determinare la canonizzazione e il valore di un oggetto assurto a oggetto artistico. L’inizio: E’ naturale chiedersi quale sia l’origine dell’arte, a cosa serve? Ellen Dissanayake ha elaborato il concetto di making special, un processo di ritualizzazione che trasforma l’esperienza di vita ordinaria in qualcosa di straordinario attraverso l’arte (musica, storie, dipint). Nell’andare indietro, con l’influenza dell’evoluzionismo, ci si interroga sugli animali. Trovandosi innanzi il rituale di corteggiamento dell’uccello giardiniere ci si rende conto che egli dimostra sensibilità estetica, cioè produce un oggetto bello per la sua femmina e fa l’artista. In questo senso però verrebbe meno la teoria che vuole la definizione di oggetto artistico a seconda del contesto artistico di riferimento. Gli animali e i nostri antenati paleolitici non sapevano di fare arte. Le grotte dipinte di Altamira e di Lascaux sono state definite “cappelle sistine”, ma se arte è quello che viene considerato arte, dovremmo almeno poter disporre di una prova che tale designazione fosse disponibile e applicabile all’epoca del paleolitico. La fine: Se l’arte ha avuto un inizio può anche avere una fine. Hegel ha identificato il problema come “morte dell’arte”. Ciò non vuol dire che non si fa più arte, indica che, a differenza della cultura greca antica in cui la manifestazione artistica era adeguata per esprimere i concetti spirituali, con l’avvento del protestantesimo le apparenze sensibili (l’arte) non sono più adeguate ad esprimere la verità, che ha cessato di essere un bisogno dello spirito. Rimanendo sui temi di spiritualità, ancor più che la religione sarà la filosofia a rappresentare la più adeguata espressione di un’idea. Se poniamo una vanga in un museo definendolo oggetto artistico, vuol dire che ci vuole una teoria che la qualifichi come oggetto artistico, comprovando che “la propria filosofia sia ciò a cui l’arte mira, così che l’arte compie il proprio destino diventando, infine, filosofia.” Categorie estetiche - Giancarlo Grossi Un film, uno spettacolo, (esperienze estetiche) che attirano molte persone devote, si possono dire semplicemente belli? Ci sono altre categorie: il trash, il cult, il camp. Cosa spinge però ad attribuire una determinata qualità? secondo criteri soggettivi o oggettivi? Le categorie / qualità che attribuiamo all’esperienza estetica non sono proprietà misurabili dell’oggetto (le sei facce di un dado) ne caratteristiche che emergono a contatto con i nostri sensi (caldo / freddo), dipendono dal valore che noi stessi attribuiamo all’esperienza a partire dal nostro vissuto. Le categorie estetiche sono i predicati di cui si serve il giudizio di gusto. Da Kant l’estetica ha individuato proprio in questo valore soggettivo la fonte dei propri giudizi. Friedrich Schlegel distingueva, nel suo saggio sulla poesia greca, tra bello in senso lato e bello in senso stretto, come Lessing distingueva tra bello e grazioso, dove il grazioso sarebbe “la bellezza in movimento”, come la danza. Cos’è il bello? Bisogna risalire alla sua origine: oggettività o soggettività: nell’antichità grecia e romana il canone del bello era basato su consonanza, simmetria e proporzione delle parti. Il canone si fonda sull’identificazione tra valore estetico e qualità misurabili dell’oggetto. Per Platone la bellezza era l’unica idea a poter essere percepibile, l’anima ricordava di averla contemplata nell’iperuranio. La posizione che riconduce la bellezza al giudizio soggettivo ha i Sofisti tra i suoi antesignani, con l’idea sostenuta da protagora secondo cui “di tutte le cose è misura l’uomo.” La linea soggettivista sarà importante con Cartesio, secondo cui la bellezza non ha alcuna misura determinata ma deriva dalla relazione tra il nostro giudizio e l’oggetto esperito. Nel 700 l’estetica come disciplina si sistematizza e fa emergere una domanda: come evitare che il valore estetico diventi arbitrario? Kant eredita il problema, da una parte riconosce la soggettività del bello, dall’altra sostiene una condivisione universale della bellezza: Kant considera universale la presenza in ogni individuo di due facoltà: immaginazione e intelletto, che fanno si che quando viviamo il piacere soggettivo della bellezza, lo facciamo come se esso indicasse una caratteristica intrinseca dell’oggetto, comunicabile quindi in un’esperienza condivisa. Dal sublime al kitsch: Il sublime è fondato sul contrasto e non sull’armonia. Si manifesta a partire da una tensione irrisolta tra piacere e dolore, quiete e angoscia, che travalicano la comprensione umana. Edmund Burke lo associa al senso del terribile e alla paura della morte che si sprigionano di fronte all’immensità dell’oggetto contemplato. La paura non basta, è necessario che emerga un senso di piacere, come mostrato da Lucrezio nel De Rerum natura con il “naufragio con spettatore”. Il poeta descrive il piacere provato da chi, al sicuro sulla terraferma, osserva un’imbarcazione nel mare in tempesta. “t’allieta veder da quali affanni sei immune”. La tematica del sublime di Burke verrà ripresa da Kant nella “Critica della facoltà di giudizio”: il sublime si caratterizza come un tremendo sgomento frammisto a piacere che sperimentiamo in presenza di oggetti smisuratamente grandi (sublime matematico) o di fenomeni smisuratamente potenti (sublime dinamico). In quanto esseri sensibili (noi uomini), la natura ci appare inafferrabile, troppo grande e potente; in quanto esseri razionali, siamo noi a esserle superiori. Se a partire dall’influenza di burke e kant sulla cultura europea il sublime si impone come elemento cardine dell’arte romantica, esso ha avuto fortuna anche nella sensibilità contemporanea e postmoderna. Frederic Jameson ha coniato la categoria del sublime camp o isterico, il cui effetto euforico e terrificante è riscontrabile nelle nuove struttura urbane delle megalopoli tardocapitaliste. Zizek ha teorizzato il trash sublime per descrivere l’equilibrio che si crea tra la de - estetizzazione dell’arte e l’estetizzazione di merci, scarti, deiezioni. Nella postmodernità l’ultima arena del sublime è il kitsch, in virtù della dialettica tra elevatezza e banalità, ad esempio è kitsch un oggetto d’uso quotidiano con fattezze sacrali, come le bottigliette a forma di Madonna di Lourdes. Apologia del brutto: Nell’800 Karl Rosenkranz scrive “L’estetica del brutto”, in cui propone di considerare la bruttezza come un momento necessario per l’affermazione del bello. Il brutto emerge in contrapposizione alla compiutezza della forma, amorfo, asimmetrico. Nel brutto il ripugnante e il volgare generano piacere invece che repulsione. Riflessioni c’erano già nel medioevo, con il corpo martoriato di cristo che costituisce uno dei temi principali dell’arte sacra. Hugo, Baudelaire, individuano il compito principale dell’arte nella commistione dell’idea con gli aspetti più bassi e respingenti della realtà. Adorno considera le implicazioni sociali del brutto, identificato con tutto ciò che è represso e rinnegato dall’ordine vigente. L’arte deve appropriarsi del brutto non più per conciliarlo col bello ma per denunciare, tramite la sua dissonanza, i rapporto di dominio che lo espellono dalla norma. Il brutto ha diverse varianti che sono categorie estetiche: il disgustoso, che oltre ad essere disarmonico è anche respingente, rifiutato tanto dalle nostre reazioni fisiologiche quanto dalla nostra cultura. Poi c’è il grottesco, elaborato da Michail Bachtin in relazione all’opera letteraria di Rebelais; analizza Gargantua e Pantagruel, una poetica incentrata sul mangiare, bere e defecare, espressione del ciclo vitale di nascita e morte. Il mostruoso, come disse Foucault, deriva dalla trasgressione dei confini naturali con l’ibridazione tra regni umani e animale, individui (gemelli seimesi), sessi (ermafrodito). Il perverso, (sade) in cui ogni trasgressione della legge naturale viene elogiata ed esaltata, il satanico, in cui gli ideali morali vengono ribaltati come nella poesia di Baudelaire. L’avvento della psicoanalisi che enfatizza il ruolo di dinamiche inconsce e pulsioni represse ha dato vita a nuove categorie estetiche, celebri grazie al lavoro di Freud, come quella del perturbante: sensazione di turbamento e mancanza di orientamento e l’osceno, come poetica dell’oltraggio al comune senso del pudore. Vi sono poi il pulp e lo splatter nel mondo postmoderno, il primo una rilettura ironica della violenza eccessiva e il secondo attrazione per il truculento e il disgustoso. Tragico e comico: Per Aristotele, la funzione della tragedia è suscitare sentimenti profondi di pietà e terrore così da condurre lo spettatore ad una catarsi di queste passioni, la maschera comica incarna la bruttura innocua del ridicolo. Nietzsche rilegge la tragedia alla luce dell’opera di Wagner, in cui vede l’articolarsi di 2 principi: dionisiaco, il flusso vitale che si esprime nella sua dolorosa insensatezza, e l’apollineo, equilibrio razionale e compiuto della forma. Per Nietzsche il tragico sopravvive finché la dialettica tra dionisiaco e apollineo rimane una tensione irrisolta, come in Eschilo e Sofocole, poi a partire da Euripide (e in filosofia dal pensiero socratico) trionfa l’apollineo, la razionalità, la positività vince sul caos (tragedia). Ma a quel scopo esiste la comicità? Ne ha scritto Henri Bergson: il riso è fenomeno prettamente umano che esprime insensibilità nei confronti della vittima di una situazione ridicola, avente anche una funzione di coesione sociale. Il riso ha la funzione di sanzionare, attraverso l’umiliazione, l’inadeguatezza sociale e dissolverla. Il tema dell’insensibilità del riso è attuale, basti pensare alla categoria del cringe: l’imbarazzo che si prova nei confronti del disadattamento a una determinata situazione, o Fantozzi. la lettera e. La genesi e la creazione non può essere attribuita solo all’individuo, ma sempre condivisa con altri “agenti” non solamente umani. Anche il caso ha il suo peso, come quando l’artista si pone alla ricerca di effetti non previsti, tentando di creare le condizioni per la serendipità, ovvero il trovare per caso mentre si cerca altro. Non si può cogliere il caso, ma solo accoglierlo. Un modo per accogliere un vincolo è per esempio la tecnica di automavision: nel girare un film la macchina da presa è comandata da un computer e stabilisce casualmente ottica e movimenti. A volte l’atto creativo è delegato totalmente alla macchina; Brian Eno ha usato degli algoritmi per creare musica con infinite possibilità di combinazione. Oggi attraverso i processi computazionali delle reti neurali (GAN) è possibile realizzare ritratti di volti realistici di persone che non sono mai esistite. Alla base della “generative art” ci sono i meccanismi di machine vision messi in atto dal deep learning, che operano in relativa autonomia. Non dobbiamo dimenticare che alle spalle c’è sempre l’intervento umano. Esperienza estetica – Federica Cavaletti Quali tratti definiscono un’esperienza estetica? Il dark tourism (visitare luoghi dove ci sono stati massacri) dimostra che eventi collegati al dolore possono risultare piacevole. Già Aristotele parlava del concetto di “catarsi”. Lui parlava però di rappresentazioni e non di fatti reali. Il tema della distanza ricorre nelle riflessioni sull’esperienza estetica. La capacità dei fruitori di calibrare la “giusta distanza” rispetto all’oggetto della loro esperienza è cruciale affinché questa possa dirsi estetica. Nel 700 quest’idea di disinteresse è ripresa da Kant nella sua descrizione del “Giudizio estetico” nella “Critica della facoltà di giudizio”. Secondo lui il tratto che distingue questo tipo di giudizio è il fatto di essere svincolato da qualunque interesse riguardo l’esistenza dell’oggetto. Avvicinarsi con disinteresse ad un oggetto implica il non considerarlo alla luce di un ritorno di guadagno personale. (Se guardo delle belle arance in un’esperienza estetica ne apprezzo la forma, il colore, non mi interessa se esistono, a meno che non debba farmi una spremuta!) Schopenauer recupera la nozione di disinteresse estetico individuando come fondamento del reale ciò che chiama Volontà: una forza che assoggetta gli individui ai propri bisogni e desideri e che rende la sua rappresentazione del mondo obnubilata. Questa rappresentazione viene corretta dall’arte che ci restituisce il mondo per ciò che è. E’ davvero possibile però svincolare l’esperienza di un oggetto dal nostro interesse? E’ davvero necessaria la distanza per un’esperienza estetica? Potrebbe essere più proficuo un approccio che sappia combinare distacco e partecipazione. Una genuina esperienza estetica deve è tale quando coinvolge i fruitori e li spinge a uno sguardo autocentrato ma rivolto all’oggetto. Quindi bisogna rispettare l’oggetto dell’esperienza estetica. Moritz Geiger parla di una concentrazione “esterna” e una “interna”, solo la prima consente di accedere a un’esperienza genuinamente estetica. Adorno ha parlato “dell’ascoltatore emotivo”, che calpesta la specificità della melodia utilizzandola come pretesto per suscitare smodate reazioni soggettive. E’ un fruitore che non sa mantenere la giusta distanza. Walter Benjamin ha parlato dell’esperienza estetica nell’ “opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” e suggerisce che la modalità della distanza e della contemplazione rapita sono messe da parte dall’avvento della modalità di riproduzione meccanica, che negano l’unicità dell’oggetto estetico e lo consegnano a ciascun fruitore. Bejamin però non lo vede negativamente ma pensa sia un ascolto conforme allo “stile sensoriale” contemporaneo. L’esperienza estetica può derivare non solo da un oggetto ma anche da un’atmosfera che ci coinvolge affettivamente. (Passeggiamo per una città e ci viene la malinconia). Cosa sono questi stati d’animo? Dipendono da noi o dall’ambiente? Emerge il tema tra soggettivismo e oggettivismo, ma anche una terza via mediana; Secondo Georg Simmel la tonalità emotiva (Stimmung) che ci investe nella città / paesaggio si sprigiona sia da noi che da ciò che ci circonda. Al cuore dell’esperienza: Qual è la natura dell’esperienza estetica? Ci si rivolge ad un orientamento filosofico che ha le sue basi nell’esperienza, cioè la fenomenologia. Il fenomenologo Mikel Dufrenne (francese) si concentra sull’esperienza dell’opera d’arte. Egli considera l’opera solo un punto di partenza, un oggetto fisico, che diventa oggetto estetico grazie all’incontro con un fruitore. L’esperienza estetica consiste in questo incontro. La centralità del fruitore è stato un tema centrale. Una linea di studi di rilievo è quella che unisce fenomenologia, semiotica ed ermeneutica, e parla dell’opera “aperta” (come la definiva Umberto Eco), oggetto cioè che richiede l’intervento interpretativo del fruitore. Nell’opera letteraria il contributo del lettore sarà enfatizzato tra gli anni 60 e 80 non soltanto da Eco, ma anche dalla cosiddetta “Estetica della ricezione” sviluppata dalla Scuola di Costanza: Hans Robert Jauss adotta una prospettiva ermeneutica e si concentra sull’inquadramento storico e socio culturale dell’esperienza letteraria, regolata da un sistema di riferimenti intersoggettivo che, generando aspettative legata ad esempio al genere dell’opera, ne plasma la ricezione. John Dewey fa una proposta interessante, adottare una strategia che definisce l’esperienza estetica a partire dalle somiglianze con le esperienze non esiste. Dewey da la definizione di “una esperienza”: un nucleo che si stacca dal flusso delle ordinarie percezione e diventa singolare e memorabile. (cammino in un museo e un quadro mi fa fermare e mi rapisce sospendendomi dal tempo presente). Negazione e trionfo dell’esperienza: Si svilupparono, dopo Dewey, 2 tendenze opposte: da una parte una contraria al concetto di esperienza estetica, dall’altra una spinta a rilanciarlo e estenderlo ad altri ambiti. L’estetica analitica esprime diffidenza nei confronti del concetto stesso di esperienza estetica, ancorandolo alle caratteristiche dell’oggetto dell’esperienza. Alcuni autori hanno abbandonato il problema dell’esperienza estetica per concentrarsi sull’identificazioni di determinate proprietà estetiche. L’avvio del dibattito in merito è inaugurato da Frank Sibley, che propone una distinzione tra osservazioni che si fondano sul semplice possesso di intelligenza conformi alla norma e osservazioni che richiedono quello che definisce “gusto”. (intende l’abilità di cogliere le caratteristiche estetiche di un oggetto). Sibley fa esempio di queste caratteristiche: unità, equilibrio, serenità, dinamismo, delicatezza. Le proprietà estetiche avrebbero anche il tratto di non essere determinate da proprietà non estetiche: non esistono proprietà non estetiche, tipo il colore blu, che possono fungere da condizione necessarie e sufficienti per proprietà estetiche, come la delicatezza. Contro Sibley, l’autrice dice che non è corretto affermare che l’esercizio del gusto però sia indispensabile per definire categorie estetiche. Il termine delicato viene usato anche da individui che hanno normali capacità percettive. Un altro aspetto controverso delle proprietà estetiche riguarda il grado di realtà: i realistici pensano che le proprietà estetiche siano un tratto reale degli oggetti; gli anti realisti dicono che se così fosse non si spiegherebbe il disaccordo nel giudizio di un’opera tra individui competenti d’arte. Le proposte avanzate dall’estetica analitica tendono a suggerire un’equivalenza tra oggetto estetico e oggetto artistico e dunque tra esperienza artistica ed esperienza estetica. Eppure, come nel dark tourism, talvolta traiamo piacere o appagamento anche da oggetti e situazioni differenti da quelli artistici. (l’impiattamento di un piatto di uno chef). In questo punto si inserisce la linea dell’”estetica del quotidiano”, che osserva i manufatti che si possiedono e gli ambienti che si abitano. Questo orientamento riconosce il portato estetico di una serie di oggetti, fenomeni e situazioni non artistici (anche il piumaggio degli uccelli, sesso, cucina eccetera). Il tramonto del disinteresse: L’esperienza estetica del sesso e della cucina richiedono vicinanza all’oggetto estetico, questo rimette in discussione le posizioni che vedono nel disinteresse e nella distanza pre requisiti dell’esperienza estetica e riportano il centro il suggerimento dell’opera letteraria come testo aperto, l’esperienza estetica richiede il contratto con i fruitori. E’ il caso dell’estetica partecipativa (librogame, Bandersnatch su netflix). Il paradigma partecipativo concepisce l’esperienza estetica come un evento collaborativo che sollecita il fruitore ad un coinvolgimento attivo. Gli oggetti dell’esperienza estetica possono innescare reazioni forti, come la sindrome di Stendhal che è stata considera alla base di alcuni episodi forti di iconoclastia. L’esperienza estetica può avere anche coloriture negative? E’ stato studiato a metà ottocento dall’estetica “empirica”, che approfondiva i meccanismi dell’esperienza estetica raccogliendo dai fruitori dati comportamenti, neurofisiologici o esperienze soggettive. I contemporanei dell’estetica empirica sottolineano la centralità di reazioni come il disgusto, paura, rabbia, che non sono eccezioni ma concorrono alla riuscita dell’esperienza estetica nell’assicurare il coinvolgimento e la memorabilità dell’esperienza. (dark tourism). Fonte di ispirazione per l’’estetica empirica sono state le teorie dell’empatia, che poggiano sull’idea di base che le forme degli oggetti inneschino un coinvolgimento psichico e somatico, una risonanza senso – motoria negli osservatori alla base dell’apprezzamento estetico. Questa idea è stata rilanciata dopo la scoperta dei neuroni specchio (Vittorio Gallese in particolare), che si attivano davanti a movimenti, emozioni, facendocele vivere come se le stessimo mettendo in atto di persona. Nel caso dell’esperienza estetica questo modello deve essere pensato come “simulazione liberata”: un coinvolgimento corporeo libero dalla reale interazione del corpo col mondo, che ci fa vivere emozioni come se. Insomma, alla fine, il compromesso tra distanza, partecipazione e prossimità è il cuore dell’esperienza estetica. Espressione - Giancarlo Grossi Il termine emoticon nasce dalla crasi di emotion e icon; sono infatti pittogrammi che permettono la trasmissione di sentimenti normalmente non previsti nella comunicazione telematica; per rendere il messaggio ancora più immediato sono arrivate le emoji (immagine + moji, carattere in giapponese). Ma cosa ci rende capaci di leggere uno stato d’animo in un’immagine? L’anima percettibile: Emoticon ed emoji sono solo l’ultimo esempio di immagini usate per esprimere sentimenti. Se parliamo però della Notta stellata di Van Gogh, per quanto il quadro trasmetta numerose emozioni, non si può dire siano le stesse per ogni osservatore. Non propri stati d’animo ma anche di ritrovare un’espressività universale che abbracci anche enti naturali e oggetti inanimati. E persino quei segni di punteggiatura che chiamiamo emoticon. Finzione - Federica Cavalletti Umberto Eco diceva che il falso è connesso ad una intenzione dolosa, richiede il proposito di ingannare e non punta ad essere smascherato. Che cosa intendiamo, però, per finzione? Qual è l’impatto della finzione nella ns percezione della realtà? Alla ricerca di una definizione: Cosa rende tale una finzione? 4 elementi della finzione: il referente, cioè ciò di cui parla; il testo, cioè la materia attraverso cui comunica (parole, suoni, immagini); l’autore e i fruitori. E’ stata proposto di definire la finzione a partire da una distinzioni tra 2 tipi di rappresentazione: Esterna: il referente corrisponde a un oggetto esistente al di fuori della rappresentazione (Varsavia, Tokyo, i miei coglioni in questo esatto momento). Interna: il referente è un oggetto che esiste solo nella rappresentazione (Batman, Gotham City). Diverse opere di finzione però contengono elementi reali, rielaborati a vari livelli. Molti però dicono che sia impossibile creare ex nihilo un elemento e che debba per forza trovarsi ispirazione dalla realtà. Ma anche se la finzione si allaccia alla realtà non la rappresenta esattamente come essa appare nel mondo. Questo è il problema della messa in scena, “l’allestimento” dell’oggetto. Famoso il caso del “Miliziano colpito a morte” di Robert Capa, che dovrebbe rappresentare il momento in cui un uomo viene colpito a morte nella guerra civile spagnola, molti però hanno accusato Capa di aver allestito la scena. La differenza tra interventi dell’artista che modificano la realtà o la preservano è sottile: già la scelta dell’inquadratura è una “finzione” perché sceglie una porzione della realtà da mostrare e non il resto. Il problema della messa in scena conduce dal referente (l’oggetto della rappresentazione) al testo (il mezzo). Alcuni studiosi ritengono che un prodotto di finzione sia tale in base ad alcune caratteristiche formali. In ambito cinematografico che possono includere tecniche come il fast o lo slow motion, o “oggettive irreali” filmate da prospettive impossibili. Queste scelte però possono essere usate anche in rappresentazioni che definiamo reali, come lo slow motion nella ripresa di una gara sportiva. Esistono inoltre rappresentazioni filmiche di finzione che usano tecniche del cinema reale, come i mockumentary (documentari finti). In base a queste obiezioni che rendono il mezzo insufficiente per qualificare un oggetto di finzioni, altri studiosi hanno spostato lo sguardo sull’autore o sul fruitore. John Searle prende la nozione di asserzione, un tipo di enunciato che prevede che il parlante sia convinto della verità di ciò che esprime, che si impegni a dire la verità. Questo impegno non può dirsi degli enunciati di finzione: l’autore che scrive un romanzo di fantasia non ritiene di dire la verità, ma “finge di fare un’asserzione”. Perciò il criterio per definire la finzione sarebbe l’intenzione del suo autore di fingere di asserire. Fingere di asserire però non è sufficiente, pensiamo alla parodia: se una persona fa l’imitazione della regina elisabetta non riteniamo che sia un’opera di finzione. Quello che contraddistingue la finzione è il fatto che chi la produce abbia l’intenzione di “farci credere per finta” ai contenuti che esprime. Questo “per finita” vuol dire che i destinatari della finzione non devono davvero credere al prodotto, quindi l’attenzione si sposta sul fruitore del prodotto. Kendall Walton prende le mosse dalla nozione di “giochi di far finta” (giochi in cui un camion giocattolo si fa finta che sia un camion reale). Un’opera di finzione è tale quando il fruitore la può usare come supporto in un “gioco di far finta”. Il signore degli anelli in quest’ottica è finzione perché possiamo usarlo per immaginare che nell’anno 1000 esistessero hobbit ed elfi. Il fruitore gioca adeguatamente con le idee del romanzo se la sua immaginazione ne rispetta i canoni (gli elfi non sposano i nani). Questa teoria ha la conseguenza di rendere lo statuto di un’opera variabile nel tempo a seconda della ricezione. A questo tema di finzione si connette quello del gioco, al “per davvero” del reale e al “per finta” della finzione si aggiunge il “per scherzo” del gioco. Il paradosso della finzione: La finzione genera in noi una vasta gamma di emozione. Il tema delle emozioni nella finzione è stato affrontato dalla filosofia analitica, un dibattito che ruota attorno al “paradosso della finzione”. La formulazione del paradosso include 3 enunciati che tra di loro si escludano: 1) come fruitori proviamo emozioni riguardo ad eventi finti; 2) per provare emozioni riguardo qualcosa bisogna credere che quel qualcosa esista; 3) sappiamo che i personaggi e gli eventi della finzione non esistono. Un primo gruppo di teorie propone di eliminare l’enunciato 3, cioè la “sospensione dell’incredulità”, il fruitore sospende momentaneamente il suo scetticismo sui contenuti dell’opera. Nel dibattito contemporaneo si parla di “illusion theory” in cui le rappresentazioni di finzione sarebbero in grado di farci credere di trovarci davanti ad eventi reali. Se questa teoria fosse reale però durante i film horror dovremmo effettivamente scappare. Sulla base di questa obiezione si inserisce di nuovo Kendall Walton e dice che di fronte a un’opera di finzione, se c’è un mostro, facciamo finta non solo che esista ma anche che ci spaventi. Una conseguenza di questa teoria è che le emozioni che proviamo di fronte la finzione siano “quasi emozioni” e non emozioni. Ma ciò è smentito dal fatto che durante un film horror sentiamo di provare paura reale. Alcuni autori hanno suggerito che i nostri stati psicologici siano classificabili come emozioni a pieno titolo ma non siano rivolti alla finzione, ma rievocherebbero eventi reali simili o connessi a quel che vediamo nella finzione, e questa sarebbe la “counterpart theory.” (vediamo scena razzista e ci arrabbiamo perché nella realtà siamo contro il razzismo). Questa proposta però costringe a spostare il baricentro dalla finzione al fuori della finzione, al mondo reale. Per evitare questo ostacolo, un ultimo gruppo di teorie suggerisce che le nostre emozioni siano reali e riferite ai contenuti della finzione, per fare ciò si suggerisce di rinunciare al secondo dei 3 enunciati: quindi non è vero che per provare emozioni riguardo ad eventi e personaggi fittizi sia necessario credere che esistano. Quindi ciò che genera le nostre emozioni riguardo la finzione non sono eventi e personaggi, ma il pensiero di essi. Questa è la “tought theory” di Peter Lamarque: quando assistiamo ad un film horror è il pensiero del mostro a spaventarci, non il mostro stesso. Per questo riusciamo a diminuire la paure se distogliamo lo sguardo, cosa che non funzionerebbe se avessimo paura del mostro in sé. Pensare a qualcosa non richiede che si creda sia vero. Un’ipotesi che spiega anche la potenza della realtà virtuale verso cui spesso reagiamo come se fossimo davanti ai corrispettivi oggetti reali. Dalla finzione al mondo reale: Nel corso dei secoli si è dibattuto sulla pericolosità della finzione; Platone era molto critico perché pensava la poesia, la pittura e la scultura si discostano due volte dalla verità delle Idee: non sono le idee stesse, non ne sono un riflesso di primo grado (la sedia, che è il riflesso dell’idea di sedia) ma sono addirittura un riflesso dei riflessi, quindi non hanno nessun valore conoscitivo e sono dannose moralmente perché spesso mettono in scena eventi molto passionali nutrendo il lato emotivo dell’uomo e infiacchendo quello razionale. Di opinione opposta Aristotele che valorizza la produzione memetica, in particolare la tragedia si connette al dominio del possibile e del verosimile, quindi non mostra ciò che è ma quello che potrebbe essere. In questo modo non soltanto ha valore conoscitivo ma è superiore alla storia che riporta solo i fatti, mentre la poesia esplora motivazioni, conseguenze e possibili sviluppi. Il cristianesimo con Agostino ha ripreso platone, il teatro alimenterebbe le passioni e impedirebbe all’anima di cogliere il significato profondo di quel che vede. Nemmeno l’illuminismo è estraneo da controversie: Rousseau pensava che il teatro rendesse attraenti personaggi malvagi, spingendo il pubblico ad ammirarli nonostante i loro crimini. (stesso argomento dei critici di gomorra, mutatis mutandis). La finzione è stata anche ritenuto un collante sociale, come nella prospettiva evoluzionistica secondo cui in quanto fenomeno umano universale, inventare e narrate storie debba possedere un’utilità per lo sviluppo della specie. Sarebbe il valore “sociopoietico” della finzione, cioè la sua capacità di creare e promuovere la coesione dei gruppi sociali. Negli ultimi anni c’è un nuovo terreno di confronto, la realtà virtuale e aumentata. Se da una parte questi dispositivi sono stati accusati di sostituire la realtà, dall’altra consentono una finzione fruttuosa: questi media permettono di replicare ambienti reali in cui confrontarci in modo sicuro con situazioni che vogliamo imparare ad affrontare, può essere utile nell’addestramento dei medici per esempio o per curare le fobie e le ansie. Queste applicazioni provano che la finzione può integrarsi positivamente con il nostro mondo, dandoci benefici reali. Forma - Andrea Pinotti Quando modifichiamo un selfie con i filtri possiamo cambiare forma e stile della foto, ma il contenuto della foto (noi) rimane uguale. Ma è davvero così? Dal concreto all’astratto: Cosa significa forma: la forma visibile di un oggetto, il suo disegno. In opposizione al contenuto, il soggetto. Forma può riferirsi alle componenti sensibili dell’opera, ciò che si può apprezzare coi sensi. Anche il concetto di stile comprende lo stile letterario o artistico di realizzazione di un’opera. Heiddeger ha identificato nella coppia materia / forma lo schema concettuale della teoria dell’arte e dell’estetica, ma anche le criticità: anche un blocco di granito informe consiste di materia formata dalle particelle di materia. Diversa è la forma che ne da un essere umano in vista di un’opera. Ma dar forma non è semplicemente prendere un oggetto passivo e modellarlo, qualsiasi materiale possiede una propria personalità, delle proprie caratteristiche che impongono dei vincoli all’artista e condiziona l’atto plasmatore. Questa coappartenenza di materia e forma può essere riconosciuta anche nello stile; lo strumento utilizzato non si limita a farsi usare, lascia tracce materiale che un occhio allenato può riconoscere: non solo “cosa” è rappresentato, ma anche “come”. Forma e contenuto: Sullo stile si pensa che stili diversi rappresentino modi diversi di “dire” o “rappresentare” la stessa cosa. E’ un concetto critico, perché in realtà modi diversi di dire o Fare come se: l’arte del gioco, il gioco dell’arte: Punto fondamentale dell’estetica è la relazione tra gioco e arte; già Kant nella critica della facoltà di giudizio aveva ricondotto il sentimento del bello al “gioco”, entro le sue regole si esprime l’inesauribile e libera creatività del gioco. Questa libertà nei vincoli accomuna arte e gioco: entrambe hanno dei confini che valgono solo nel gioco stesso ma devono lasciare abbastanza libertà a giocare e artista per esprimersi. Per Samuel Coleridge quando leggiamo un romanzo mettiamo in atto la “sospensione dell’incredulità” e stiamo al giorno della narrazione come se la finzione non fosse tale. Edmund Husserl parla di “illusione artistica” per l’esperienza estetica. Quando assistiamo ad uno spettacolo ci illudiamo di prender parte agli eventi che avvengono innanzi a noi, ma questo illudersi non è ingannarsi ma stare al giorno, sappiamo che le scene non sono reali ma facciamo come se lo fossero. Questa sospensione della “tesi di realtà” (far finta che quel che vediamo sia vero) è descritta in termini di gioco. Secondo Hans Georg Gadamer per comprendere cosa significhi il gioco dobbiamo capire che l’elemento fondamentale non è quello del soggetto (come per Schiller) ma dell’oggetto: il giocatore che si immerge nel gioco con serietà lo fa per la natura del gioco, dal suo carattere di evento. Il vero soggetto del gioco non sono i giocatori, ma il gioco con le sue regole che li costringe a “stare al gioco. Per Gadamer anche l’arte è una forma di gioco: da un lato il genio può produrre qualcosa di nuovo secondo regole ancora non stabilità, dall’altro lato l’opera pone interrogativi al fruitore che può rispondere solo partecipando attivamente al gioco dell’arte. Secondo Kendall Walton in “Mimesi: come far finta”, per comprendere romanzi, dipinti, opere teatrali, dobbiamo prima guardare bambole, cavallucci di legno, camion giocattolo: come questi ultimi sono supporti per il bambino nei giochi di finzione, così le opere sono supporti per il “fare come se” degli adulti: in ambo i casi si realizza unità di credere e non credere. Sia gioco che opere di finzione generano verità fittizie figlie di atti immaginativi. Il gioco quindi è fondamentale nella cultura umana. (cogliere nuove possibilità dal mondo che ci circonda) Il gioco della cultura: L’antropologo Clifford Geertz a Bali assistette ai combattimenti tra galli. Qui i galli non erano galli, ma ognuno rappresentava un gruppo sociale di uomini (villaggi, parenti, templi). Era una messa in scena delle conflittualità di quella cultura ma in forma ludica. Geertz parla qui di “sembianza estetica” della scala sociale. Il gioco è in questo caso pura espressione: una storia che i partecipanti raccontano a se stessi, suggerendo che rischio, sconfitta e trionfo sono emozioni che costituiscono la cultura di quella società. Secondo Huizinga (Homo ludens), l’essere umano è costitutivamente un giocatore. La cultura stessa ha un carattere ludico. Il linguaggio stesso è gioco, come mostra WIttgenstein: con il linguaggio l’umanità crea un secondo mondo immaginario accanto a quello della natura fatto di miti. Nei giochi la vita sociale si amplia con “forme sovrabiologiche” attraverso cui la collettività esprime la propria interpretazione dell’esistenza. L’utilità del gioco: Il gioco è un’attività libera, separata dalla realtà ordinaria e circoscritta entro precisi limiti di tempo e di spazio. Il gioco, contrariamente a quanto pensava Platone, non deve essere un apprendistato, invece “allena in generale alla vita”. Perché? Il gioco è importante nell’evoluzione non solo del singolo individuo ma della specie. Il gioco si basa su un comportamento basato sul “making special”, la capacità di vedere qualcosa come qualcos’altro e trasformare l’ordinario in stra ordinario. Questa potenza metaforica del gioco lo rende utile, per cui l’impulso del gioco è evolutivamente vantaggioso perché consente una continua innovazione e sperimentazione, variabilità comportamentale e coesione sociale. Secondo la psicologia evoluzionista il gioco ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della capacità cognitiva perché sviluppa competenza metarappresentazionale e metacomunicativa. Fare “come se” migliora l’abilità di organizzare le informazioni e utilizzarle per le sfide che l’ambiente propone, la creazione di scenari d’azione simulati porta a sviluppare nuove strategie di sopravvivenza emancipando l’uomo dai vincoli della realtà. (gli uomini preistorici giocano alla caccia per sviluppare abilità predatorie). Questa prospettiva è stata confermata dalle neuroscienze cognitive con la scoperta dei neuroni specchio che si attivano in maniera più forte quando ci immergiamo in mondi finzionali di gioco e arte. Esiste una correlazione tra il grado evolutivo raggiunto da una specie e il livello di complessità dei suoi comportamenti ludici. Il gioco non è solo funzionale alla sopravvivenza: non solo gli esseri umani, ma anche gli animali, le piante, i funghi partecipano al gioco dell’esibizione di sé, che è una specificità estetica. "L'animale lavora quando il movente della sua attività è una mancanza, mentre gioca quando tale movente è la ricchezza della forza, quando l'esuberanza della vita stimola se stessa all'attività. Anche nella natura inanimata si manifesta un tale lusso delle forze che potrebbe benissimo chiamarsi gioco." - Friedrich Schiller Giudizio - Anna Caterina Dalmasso Oggi si fanno le foto alle opere d’arte invece che ammirarle e si giudicano in base ai like, ma possiamo quantificare l’apprezzamento di un’opera e il suo valore estetico in base ai like? Il senso sociale del gusto: chi ha inventato il mi piace non si aspettava fino a che punto sarebbe arrivato a modificare la società. L’insieme dei nostri like va a tratteggiare la nostra personalità virtuale caratterizzata da interessi e idiosincrasie. Alcuni utenti molto apprezzati sono in grado di “influenzare” i gusti delle persone. Ma cosa significa dire che qualcosa ci piace o no? Non è un piacere fisico, che riguardi la sensibilità corporea, è un piacere dell’anima. Eppure la sensibilità non ne è totalmente esclusa. Già nella retorica latina si parlava di un “senso” specificatamente rivolta alla forma di un discorso e non al contenuto, in grado di cogliere non il significato delle parole ma il ritmo. Il saper cogliere la bellezza delle forme sarebbe un dono, una facoltà inspiegabile. Si può spiegare nella sua dimensione sociale, tra followers e influencer. Solo una questione di gusti? La riflessione teorica e il senso comune hanno diviso tra chi ha buono, cattivo o pessimo gusto. Nel 19° secolo la riflessione ruotava attorno al carattere soggettivo del giudizio estetico. Non “soggettivo” in quanto personale come la intendiamo ora, ma soggettivo cioè dipendente non dall’oggetto ma dalla sensibilità del soggetto. Questo senso estetico viene descritto come un “occhio interiore” che distingue il bello dal brutto in modo disinteressato. Altro non è che il “senso morale” che l’educazione può trasformare in gusto. Quindi per distinguere un’opera non servirebbe conoscere i canoni, l’autore, ma seguire il “sesto senso”. C’è chi ha tentato di unire questo sesto senso e un principio, una regola, come Charles Batteux, che vedeva “nell’imitazione della natura” il fulcro delle arti. Se il gusto è il sentimento che coglie la perfezione, siccome questa imita la bella natura, quel che il sentimento deve fare è cogliere la corrispondenza tra arte e natura. Ma se come diceva Hutcheson la bellezza non è una qualità inerente alle cose ma è nello spirito di chi osserva, c’è solo il relativismo? risponde Hume: il gusto dipende sì dalla soggettività dell’individuo, ma c’è anche chi è privo del buon gusto. L’unica regola che si può dare al gusto non può essere a priori, ma in base all’esperienza. Per Hume la regola del gusto va cercato nel parere unanime di chi ha competenza e le cui opinioni sono resistite nel tempo. Da qui nasce lo “standard” del gusto. Universale e soggettivo: Kant nella “terza critica” vuole superare la contrapposizione tra soggettivismo del gusto e necessità di fondare il gusto su principi oggettivi. Kant divide tra diversi tipi di giudizio: il giudizio riflettente, di cui fa parte quello del gusto o estetico, è un giudizio che non può dipendere da una regola generale data a priori. Il gusto non richiede l’accordo di tutti come un giudizio logico, ma esige un consenso universale, Kant perciò definisce il bello come ciò che “piace universalmente senza concetto”. Il giudizio di gusto è definito dall’essere considerato come “necessario”, ma questa necessità, non appoggiandosi su un concetto, può essere solo esemplare, il giudizio è esempio di una regola universale che non si può addurre. Kant invece di smontare la soggettività del gusto, ne fa il perno dell’universalità, ovvero della condivisibilità del senso estetico. Per questo il gusto mantiene un nesso con la società, che per Kant è la comunità ideale che si incarna nella comunicabilità universale del giudizio di gusto. Il senso del bello sarà esplorato da altri autori, ma sarà il genio il fulcro della riflessione estetica ottocentesca: il gusto arretra di fronte alla potenza del genio, dice Hegel. Con i romantici declina la nozione di gusto per il suo rischio di relativismo. Lasciando da parte il gusto e il giudizio ci si concentra sull’esperienza estetica, sull’arte e i suoi oggetti e sul valore che incarnano. Valutazione e valori estetici: Sul gusto c’è un’altra contrapposizione oltre quella che si vogliono dare regole ma non si può; la differenza tra gusto sociale e questo individuale. Come stabiliamo il valore estetico? Bisogna tracciare una distinzione fra le nostre preferenze immediata e quelle opere che riconosciamo degne di apprezzamento estetico. Husserl dice che il valore dell’opera è inerente l’opera, come un’aura che la avvolge. Non importa quindi l’essere dell’oggetto, ma quello che “significa esteticamente”, cioè la manifestazione in cui appare il suo valore estetico. Husserl cita i materiali di produzione, il tratto pittorico, l’effetto estetico del marmo, per dire che il valore risiede nel come di queste modalità di apparire dell’oggetto. Nel 900 si cerca di smarcarsi dallo psicologismo del giudizio di gusto: dire che qualcosa è bello (un’opera) e ha un valore estetico non significa solo descrivere un vissuto interiore, ma è anche un giudizio sulle proprietà estetiche dell’oggetto che possiamo apprezzare. Vi sono quindi tratti propri dell’oggetto che giudichiamo bello / brutto; carino / sublime; comico / tragico. L’attribuzione di un valore estetico è quindi connaturata all’arte? ampio dibattito nell’estetica analitica, alcuni sono scettici sulla rilevanza del giudizio estetico e pensano che l’arte non dipenda da un giudizio di valore. Però è problematico perché la definizione del valore estetico si lega alla definizione dell’arte e delle proprietà estetiche. Solo dopo aver stabilito cosa consideriamo arte possiamo dare una valutazione estetica e viceversa. Quando diamo un giudizio estetico ci stiamo pronunciando su uno stato d’animo o su proprietà dell’oggetto? ci sono esperienze riproducibili nello sperimentare l’arte o ogni opera crea un’emozione unica? La riflessione dell’estetica analitica si ricollega alla terza critica kantiana. Medium - Giancarlo Grossi Le nuove tecnologie stanno modificando le nostre esperienze estetiche. Lo smartphone ha portato un accesso tattile diverso alle fotografie (ingrandire, rimpicciolire). Andrè Gourhan, antropologo, dice che la tecnologia è un’estensione delle proprietà prensili della mano, il corpo umano si evolve incorporando strumenti. Il ns rapporto col mondo circostante è sempre mediato: dalle potenzialità e dai limiti della nostra fisiologia e dagli strumenti che la potenziano. Anche l’ambiente è un medium, come sostiene nel 900 Benjamin secondo cui il medium della percezione è sempre un ambiente, plasmato da tecnologie in evoluzione. Il medium è quindi un ibrido (innervazione per Benjamin) tra gli organi senso e le tecnologie che circolano in una data epoca, quindi è anche storicizzato. Il potenziamento dell’essere umano dato dal medium protesico si associa all’introduzione di nuovi schemi che vincolano le possibilità comunicative. Il contenuto del medium conta poco, il suo vero messaggio consiste nella forma di relazione che configura: pensiamo a whatsapp, i cui meccanismi di controllo di visualizzazione veicolano l’idea di una disponibilità costante diversa dalla semplice telefonata. I medium quindi riconfigurano anche le nostre configurazioni cognitive. Materia e cultura: Una prima concezione di media lo intende come il materiale che rende possibile l’espressione di un’idea in forma concreta, cioè un “supporto: la tela per il dipinto, la pellicola per la fotografia. Il ruolo del supporto è stato indagato da Husserl che identifica la coscienza d’immagine con la forma di percezione che distingue la cosa iconica (Il bildding, l’oggetto fisico che rende l’immagine presente) dall’oggetto iconico (il bildobject, la figura distinguibile dal supporto) e dal soggetto iconico (il bildsujet, ciò cui la figura si riferisce). Richard Wollheilm individua nel supporto uno dei due elementi cui è possibile prestare attenzione in un’immagine. E’ un’esperienza duplice fondata sul vedere in (seeing in), ovvero sulla capacità del fruitore di riconoscere una data figura nell’insieme di linee e pigmenti sulla superficie (tipo un quadro). Non si tratta di un processo arbitrario, il seeing in per essere efficace e comunicabile deve collimare con l’intenzione dell’autore dell’immagine. Anche il corpo fisico è un medium che rende possibile la comunicazione dell’immagine, il corpo umano è il primo medium (riproduce e conserva le immagini mentali). Una seconda accezione di medium è quella che lo vede come “dispositivo”, nozione di Michel Foucault, il dispositivo, quell’apparato storicamente determinato che circola in una data epoca e che progetta il punto di vista dell’esperienza. Da questa idea il filosofo Regis Debray fonda una branca di studi chiamata “medialogia”, dedicata alla comprensione della storia culturale dei media. Debray distingue nel corso della storia in diverse ere (mediasfere) a seconda del medium dominante: logosfera, oralità e scrittura manuale; grafosfera: stampa, dimensione secolare della rappresentazione artistica; videosfera: media visivi, spettacolo. Il medium è un ponte che collega supporto materiale e tecniche applicate al supporto configurando l’esperienza estetica. A cosa servono i media? Attraverso i media compiamo molteplici operazioni, per comprendere le funzioni dei media è importante capire la loro identità, specie riguardo al loro potenziale artistico, che dipenderebbe dalle regole dell’arte specifica e dalle possibilità espressive del dato medium. Il dibattito sui media recupera il dibattito estetico sulla differenza tra le arti. Ne ha parlato Greenberg: la pittura, per esempio, deve fare i conti con la bidimensionalità della superficie che impone diverse strategie rappresentative nell’uso di linee e colori. Per la Gestalt la specificità del media non sta solo nel supporto quanto nella sfera sensoriale (influenzato da cinema muto e radio apparsi nell’800), il medium può rivolgersi ad un solo organo di senso per volta. Il potenziale artistico non sta nell’espandere la sensorialità agli altri sensi riproducendo fedelmente la realtà ma nel colmare le informazioni mancanti attraverso un solo canale sensoriale. Ma ogni medium in realtà ha una natura ibrida: la scrittura contiene il discorso (McLuhan), la stampa la scrittura etc. Bolter e Grusin hanno così identificato la storia dei media come dominata da una continua “rimediazione”: un nuovo medium assume la sua identità appropriandosi di forme e tecniche precedenti e competendo anche con i media precedenti per lo spazio sociale e culturale che occupano. Ora, i dispositivi digitali disponibili sembrano incorporare tutte le funzione: scrivere, ascoltare, fotografare, filmare, telefonare, guardare immagine. L’identità del media diventa sempre più complessa. Ruggero Eugeni ha parlato di condizione postmediale, in cui i media non sono più individuabili perché sono ovunque. Il villaggio dei mass media: Il medium non è solo esperienza estetica ma anche comunicazione e sfera sociale. Dall’invenzione della stampa il ricevente del messaggio mediale è divenuto potenzialmente globale. Si parla infatti di mass - media. La vastità del raggio comunicativo è direttamente proporzionale alla semplificazione del messaggio. Alcuni filosofi hanno perciò concepito l’esperienza estetica del mass media come mercificata e omologante. Umberto Eco, in merito a mass media e culturale popolare, ha diviso il dibattito in 2 fazioni: apocalittici e integrati. Il pensiero apocalittico è ispirato al concetto di industria culturale di Horkheimer e Adorno: l’industria culturale nel capitalismo standardizza e razionalizza la cultura come fa con le merci. (produzione seriale dell’arte). McLuhan ha teorizzato il mondo come “villaggio globale”, il mondo, grazie ai mass media, risulta contratto, interconnesso e raggiungibile in ogni angolo. Successivamente l’idea di villaggio è stata soppiantata da quella di intelligenza collettiva che emerge grazie ad internet. E’ un nuovo spazio antropologico che non si fonda sul territorio o sulle merci ma sulla condivisione del sapere. Immediatezza: Nel medium c’è una dimensione materiale, storicamente determinata che è alla base delle esperienze estetiche. Secondo la tesi dominante è che il medium sia efficace per la presunta invisibilità del supporto e dalla quasi istantaneità della comunicazione. Il valore artistico è la capacità di rendere impercettibile il carattere mediato e costruito dell’immagine. Gli effetti illusionistici sperimentati nel 900 e l’arte iperrealistica hanno minato alla base la coscienza d’immagine di Husserl, non essendo scontato distinguere tra la rappresentazione dal supporto che la sostiene. Da un lato la ricerca dell’immediatezza porta al tentativo di occultare il media per dare l’illusione di un accesso diretto alla realtà; dall’altro la presenza del media è ricercata ed enfatizzata per permettere all’utente di godere della sua innovazione. E’ un controsenso. Nei caschi di realtà virtuale ci sono entrambe le polarità: si può entrare in un ambiente simulato omnicomprensivo di immagini a “tutto schermo” e suoni, dall’altro queste esperienze di VR ruotano intorno al poter evocare immaginari legati ai media precedenti. (l’esempio iniziale del capitolo del treno di Lumière riproposto in vr da Chris Milk). Mimesis - Pietro Conte Si può ricostruire l’identità delle persone dai post, tweet, commenti, messaggi vocali. Se un software riuscisse a simulare il nostro modo di parlare, scrivere, gesticolare, creando un’immagine convincente di noi, potremmo ancora parlare di immagine? e se fosse la nostra identità personale ad esser messa in discussione? Imitazione o rappresentazione? Già nella commedia antica c’erano casi di sosia e furti d’identità. (giove anyone). La mimesis operata da Giove e Mercurio (commedia Amphitruo di Plauto) deve essere completa, non devono solo somigliare ma devono saper “fare” come le vittime di cui rubano l’identità. Dall’antichità al chatbot di Microsoft che replica le identità, la mimesis è un atto performativo (interpretare un altro) in cui si assumono le proprietà di un altra persona. Mimesis viene da mimos, la messa in scena di una persona singola ma anche di più attori. Mimesis ha un significato attivo: imitare implica un impersonare, agire come si fosse un altro, sia entità umana o divina, come l’invasato che diviene Dioniso nelle pratiche drammatico culturali. Alcuni autori infatti suggeriscono di non tradurre mimesis con “imitazione” ma con “rappresentazione”. Originariamente mimesis non voleva dire quindi riproporre la copia di un originale, ma semplicemente rendere presente un determinato oggetto a uno spettatore. E’ stato Platone a far cambiare il significato di mimesis, portandolo dalla presentificazione dell’invisibile all’imitazione. Nella repubblica: all’idea di letto, perfetta, fa da contraltare il letto costruito dall’artigiano che imita “ciò che è”, letto che viene ulteriormente imitato e degradato dagli artisti (imitano ciò che appare), producendo una parvenza dell’idea originaria. La distinzione tra imitazione della realtà e imitazione dell’apparenza va a sovrapporsi a quella tra artigianato e arte. La mimetica viene suddivisa in icastica (rappresenta icone che imitano il modello mantenendo le proporzioni) e fantastica (rappresentazione di “fantasmi” con proprio apparenti che deformano il modello). Secondo diversi autori greci, gli antichi rappresentavano l’uomo per ciò che è, quelli più tardi rappresentavano l’uomo per quel che sembrava. (erano importanti le proporzioni). Vale anche per la pittura, considerata non artigianato (demiourgon) ma imitazione. Non ciò che è, ma ciò che potrebbe essere: In democrito appare una diversa concezione della mimesis, pur concordano con Platone che mimesi sia imitazione della natura, democrito intende che l’arte non imita tanto i prodotti, quanto la dinamica produttiva della natura, la sua “forza creatrice”. (come la definisce Schelling). Tale posizione è approfondita da Aristotele per cui l’imitazione non è solo un fatto estetico artistico, è una caratteristica congenita dell’uomo ed ha valore conoscitivo. Secondo Aristotele l’arte assume un ruolo perfettivo rispetto agli oggetti esistenti, non ne imita solo la fisionomia. (nell’arte proviamo piacere verso i cadaveri, nella realtà no). Anche per questo aristotele crede che la poesia sia superiore alla storia. Sia l’arte che la poesia non parlano della realtà in quanto tale ma di quello che “potrebbe accadere / essere”. La mimesis quindi è sia riproduzione della natura in quanto tale che produzione di quello che la natura avrebbe potuto fare e non ha fatto. (questo secondo pensiero arriva a toccare vari artisti dall’antichità, a Leonardo). Un’interpretazione univoca della mimesis non è fattibile. Se fosse imitazione solo non è chiaro cosa dovrebbe imitare. Per alcuni della natura o del reale, per altri dell’idea. Per altri “L’intima essenza delle cose oppure l’autentico significato delle cose (Goethe). Imitazione non può essere mera copia, natura” ma elemento naturale inserito in un ecosistema globale. Questo ha implicato non solo di riconoscere agli altri esseri viventi delle forme complesse di intelligenza, ma ha sollevato una domanda cruciale per l’estetica: come appare il mondo agli altri esseri viventi? La domanda ha animato la ricerca di Jacob von Uexkull, pioniere dell’etologia e dell’ecologia: per lui l’anima si trova avvolto in uno spazio e dimensione variabile, la sua Umwelt (mondo circostante). Interagisce con l’ambiente all’interno di questa “bolla” che è la sua finestra sul mondo. Mentre prima si considerava solo l’essere umano in grado di agency, agentività (agire) ora questa caratteristica viene considerata anche dei non umani. In diverse zone del mondo in effetti l’essere umano non è ancora separato dalla natura, ma i due aspetti sono interrelati: per i cacciatori della taiga siberiana le loro prede hanno un’interiorità simile all’uomo. Le categorie umane sono troppo povere per descrivere la complessità della natura: molte specie per sopravvivere hanno sviluppato l’ermafroditismo, possiedono entrambi i sessi contemporaneamente o in maniera alternativa. Il pensiero contemporaneo ha superato il dualismo del pensiero occidentale. Dall’antropocene al giardino: Invece di produrre nuove immagini della natura, l’arte potrebbe operare all’interno di essa per arricchirla. é il percorso della land art americana, che inserisce le opere nei luoghi naturali. Si tratta però di opere scenografiche, lontane dalle istanze ambientali. Artificializzano l’ambiente invece che creare un nuovo rapporto con esso. La generazione successiva di artisti, la Art in nature, si contrappone alla land art e cerca di porre al centro dell’esperienza estetica l’azione del corpo umano nella natura. Queste forme artistiche sono raramente esperite dal pubblico in maniera diretta, spesso l’unico modo per accedervi è la “messa in quadro” operata dalla fotografia. Il fruitore finisce escluso dall’esperienza. L’arte rischia di allontanarci ancora di più dalla naturale. Alcune opere di eco artisti che si pongono come iniziative ecologiche sono state criticate per l’inquinamento che le loro installazioni provano. Forse è lontano dal circuito dell’arte istituzionale, in una forma più vicina al quotidiano, che può tratteggiarsi un nuovo rapporto con l’ambiente. A partire dagli anni 70 acquisisce centralità il giardino come luogo di esposizione di opere e come fulcro di progettazione della natura. Il giardino è presente in tutta la storia occidentale a partire dall’eden biblico. Dall’altro lato è uno spazio artificiale in cui la natura è plasmata dalla razionalità umana. Per il filosofo Rosario Assunto il giardino diviene paradigmatico per riconquistare un’esperienza del paesaggio naturale, esso è ambiente e opera d’arte insieme, è arte che sembra natura e natura che sembra arte. Qui capiamo quel che intendeva Kant col termine “piacevole” legato alla sensazione: godiamo del giardino e ne siamo anche parte integrante, apprezziamo la natura non in puro distacco, ma essendovi immersi il modo multisensoriale. Performativo - Giancarlo Grossi Maurizio Cattelan attacca na banana al muro col nastro adesivo e la chiama “Comedian”. Comprata a 120 mila dollari, il suo carattere effimero è dimostrato da David Datuna che se la magna fregandosene delle regole del museo e dice che il suo gesto è artistico, “Hungry artist”. A quello che l’ha comprata basta cambiare banana perché l’opera non era tanto la banana in sé, quanto l’atto di trasformarla in opera. Quindi un gesto è un’opera artistica? L’arte di agire: Se l’atto è artistico e non l’oggetto vuol dire che ci concentriamo sulla performance. (questa è…PEFFOMANCE). Questo contraddice il pensiero occidentale fin da Aristotele che nell’Etica distingueva tra 2 forme d’agire: la prassi: qui l’agire possiede il proprio valore in se stesso, è il campo della pratica etica. poiesi: il campo della produzione artistica, il valore è nell’oggetto che pone in essere. Nella performance invece c’è un valore puramente estetico intrinseco all’azione anche in mancanza di un oggetto materiale. Il valore della performance sta anche nel modo in cui un opera può essere riprodotta. I quadri falsi di Modigliani rinvenuti nel 1984 in un canale di Livorno non sono autentici perché non prodotti dall’artista, invece la Sinfonia n.40 di Mozart non è meno autentica se la suonano orchestre diverse. La musica jazz è un esempio lampante: in tale genere la composizione avviene sul momento ed è un evento unico e irripetibile; l’arte qui è nell’azione stessa, quando i musicisti si ascoltano l’un l’altro e si adattano continuamente. Il jazz e la musica sperimentale rivelano una dimensione dell’arte: la possibilità di non essere fissata né in un’opera né in un testo, cioè il suo avvenire sotto forma di evento. Anche nella pittura c’è l’action painting di Jackson Pollock che danzava attorno alla tela lasciando colare liberamente la vernice. O anche il teatro come evento, in cui alcuni artisti hanno rifiutato il testo e rotto i confini della rappresentazioni interagendo con lo spettatore. Altro esempio la performance art della Abramovich, in cui il corpo dell’artista è lo strumento per l’evento artistico. Per la commistione tra valore performativo, imprevedibilità del risultato e bella d’esecuzione anche lo sport è stato considerato secondo i parametri dell’arte dalla tradizione “dell’estetica del movimento”: Il linguaggio performativo: Foucault sottolinea che la performance interessa anche il linguaggio. Le parole non sono neutre, ma mettono in atto processi performazioni di costruzione dell’identità. Gli individui diventano soggetti attraverso l’interpellazione (Louis Althusser): un esempio può essere l’esser chiamati all’appello universitario e la risposta affermativa dello studente sancisce la sua identità di studente ed esaminando e l’adesione alle regole universitarie. Il carattere attivo e produttivo del linguaggio è stato introdotto in filosofia da John Austin con la nozione di “enunciano performativo”: cioè le asserzioni della lingua parlata che non sono descrittive né possono esser considerate vere o false, ma il cui significato consiste nell’azione che esse compiono nella realtà: “vi dichiaro marito e moglie”, “vietato fumare”. Sono affermazioni relazionali, il cui valore risiede nell’adeguatezza alla situazione in cui sono proferite. Jaques Derrida ha ripreso austin e la performatività del linguaggio cercando di superarne l’impostanze fonocentrica, legata troppo al parlato, e anche il primato della situazione nella determinazione del senso. A Derrida interessa la citazionalità di ogni segno, scritto o parlato, cioè la sua disponibilità a essere estratto dal proprio contesto, messo tra virgolette e reiterato in infine altre forme e contesti. Nella citazionalità c’è la dimensione performativa: decostruire il preesistente per generare nuove dinamiche significanti. Questo sarà importante nell’estetica postmoderna, come atto sovversivo. Secondo Jean Francois Lyotard: se il sapere moderno era legittimato dall’adesione alle grandi narrazioni di progresso, rivoluzione, liberazione, quello postmoderno è obbligato a seguire logiche di ottimizzazione e calcolo: deve essere efficiente e produttivo, ed è tale se ha il consenso della prospettiva dominante. Per Lyotard a differenza di Derrida la performatività non produce novità ma un adeguamento all’orizzonte precostituito. La performance del sé: Il soggetto appare un effetto del linguaggio e dei discorsi che lo formano; anche il corpo può essere un effetto performativo che produce identità etniche e di genere con una reiterata applicazione di convenzioni. I corpi non sono mai semplicemente descritti, ma si determinano nell’atto della descrizione e nelle relazioni di genere. Se il genere è frutto di un processo performativo è perché ogni identità sociale, venendo da un gioco di ruoli, diviene comunicabile assumendo le funzioni di una maschera, che i latini chiamavano “persona”: Il sociologo Goffman ha descritto le relazioni interne alle istituzioni nei termini di una rappresentazione teatrale. La struttura del sé che deriva dal gioco istituzionale corrisponde al personaggio cui si intende dar vita, non si può parlare di un vero o falso sé, perché quella che chiamiamo identità è sempre e solo il prodotto di una messa in scena e mai la sua causa. L’immagine in azione: Non solo parola ha il potere di agire, performare e costruire identità, anche le immagini. Nelle società tribali è una funzione svolta dal totem che conserva l’entità e il potere dell’entità fondatrice della tribù e che sopravvive nelle icone sacre cattoliche ed ortodosse. L’iconoclastia testimonia il mai sopito timore delle immagini sul versante opposto. Questo timore deriva dal riconoscere l’agency delle immagini, la loro capacità performativa. Bisogna riconoscere all’immagine una soggettività e chiedersi non cosa cosa significhi ma anche “cosa voglia”. In antropologia si è imposta l’idea di una soggettività agente in immagini e manufatti, a partire dagli studi sul dono di Marcell Mauss: nel dono rimaneva l’anima del donatore, il ricevente poteva subire una punizione se non avesse ricambiato. Carlo Severi ha coniato il concetto di “oggetto - persona”, inteso come essere animato dall’esercizio del pensiero e della memoria nel contesto in cui è inserito: ogni manufatto può essere un agente sociale, non perché possa realmente agire ma perché produce un effetto di ritorno nel potere e nella capacità di chi ne fa uso, determinato una identità e potenzialità agentiva. Con l’avvento del digitale c’è una maggiore proliferazione del visivo e in questo contesto si individuano le “immagini operative”, il cui ruolo diventa svincolato dai propositi artistici e si connette alla produzione di effetti pratici sulla realtà: videocamere di sorveglianza, visori aerei, simulazioni virtuali per il training militare. In VR si registra l’unione più significativa tra corpo e immagine, visione e azione: l’avatar, una protesi digitale del sé, costituisce il risultato digitale di una complessa ridefinizione dello spettatore che lo vede penetrare nell’universo immaginario o narrativo per modificarlo dall’interno. Spettautori e spettatori: inclusione dello spettatore nell’opera: diversi campi dell’arte contemporanea sono stati analizzati a partire dalle ridefinizione del fruitore e dell’opera in senso performativo. Il concetto di “arte relazionale” racchiude diverse esperienze il cui fulcro consiste nel rendere possibile il coinvolgimento attivo degli spettatori in contesti quotidiani. La dimensione performativa dell’arte contemporanea si manifesta nel progressivo imporsi dell’installazione come forma espressiva a sé stante: l’opera diventa ambiente in cui lo spettatore si trova immerso e deve ricostruirne il senso. Con l’avvento del digitale si impone l’idea di un’audience non più passiva, ma interattiva. Si nota nella serialità televisiva, erogata da piattaforme che si basano su un’identificazione personalizzata dello spettatore e delle sue preferenze. Una nuova forma mediale che sfrutta l’intervento attivo dello spettatore è la realtà virtuale. Baudillard ha una visione apocalittica del futuro decretando l’obsolescenza del reale. (riflessioni sfociate in matrix). Una visione del futuro disincarnato dell’esistenza. (metaverso di zucchinabergen). Però la nostra presenza in un ambiente virtuale immersivo può offrirci occasione di riflettere ancora su presenza e rappresentazione. Riproduzione - Pietro Conte Si può vendere un meme a migliaia di euro. Ma il meme non è un oggetto fisico, è un file, un NFT (non fungible token), quindi come lo si può portare a casa dopo l’acquisto e come si può parlare di “esemplare unico” per un nft? Cloni: Nel 1997 in scozia è stata clonata la pecora Dolly. Si scatena la critica: chi dice che ogni essere sia unico e non replicabile e chi saluta l’avvento di una nuova epoca in cui si potranno riportare in vita specie estinte. Morta la Dolly originale ne sopravvivono varie immagini: il suo cadavere imbalsamato al national museum di scozia fino a fotografie, gadget e video su internet. Quindi sono solo copie? Ma anche la dolly originale era una copia. La questione Dolly pone in essere la questione tra realtà vivente e la sua immagine e ci ricorda che gli unici e insostituibili esseri viventi sono sempre in qualche modo immagini. L’enigma dell’aura: Che si tratti di copie o no, l’idea di una riproduzione perfetta è un problema di estetica, a maggior ragione se l’immagine è un’opera d’arte. Ne ha parlato Walter Benjamin: le opere d’arte sono sempre stata riproducibili tramite tecniche, gli artisti firmavano le copie. (per greci e romani copiare modelli non era disdicevole). Però con l’avvento della fotografia la riproduttività si emancipa dall’attività della mano e diventa più semplice. Per secoli le opere d’arte hanno goduto di quel carattere di unicità e autenticità, un’aura che Benjamin definisce come la “lontananza degli originali”. Con foto e cinema le immagini viaggiano ovunque; prima erano appannaggio di pochi, ora fruibili da tutti. L’esperienza estetica aristocratica del “conoscitore” si affianca un atteggiamento “distratto” per opere concepite proprio per essere viste su larga scala. Vacilla la distinzione tra originale e riproduzione. La riproduzione non è mera duplicazione, spesso con essa si accede a particolare che nell’originale non si erano notati. Il valore euristico della fotografia emerge negli scatti che offrono dettagli inediti di opere scultoree con prospettive inusuali. Oggi su internet possiamo esplorare intere collezioni artistiche da casa. La riproduzione è quindi legata alla questione della storicità della percezione e delle modificazioni dell’aisthesis prodotte dall’interazione tra sensibilità organica (il modo di percepire umano) e le tecnologie a disposizione. (protesi). La fotografia e il cinema possono essere usati in modo produttivo e non solo riproduttivo. A differenza di Benjamin però molti autori erano scettici sulla riproduttività. Adorno e Horkheimer sostengono che la meccanicità della fotografia favorisce il mantenimento dei rapporti di potere e dell’ideologia dominante, asservita a un feticismo della merce che rende ogni prodotto standardizzato e omologato. Baudillard (Simulacri e simulazione) avverte sulla fagocitazione del reale da parte del virtuale; foto e video testimoniano che una persona e un evento siano esistiti; il virtuale tende invece a sostituirsi al reale facendo sì che l’immagine non sia solo un’immagine ma si trasforma in una realtà autonoma capace di svuotare di senso l’opposizione tra modello e riproduzione. Deleuze in “Simulacro e filosofia antica” rovescia la prospettiva platonica e dice che simulacro non è copia degradata dell’originale, ma nega sia l’originale che la copia. Autografico / allografico: In ambito artistico la messa in crisi della differenza tra copia e originale vale solo per alcune tipologie di oggetti; se compro una cartolina della “notte stellata” so benissimo che è una riproduzione e basta, priva dell’aura del dipinto. Perché la pittura rientra tra quelle che Nelson Goodman ha chiamato arti “autografiche”, contrapposte a musica e letteratura che sarebbero allografiche. Un’opera è allografica se si basa su un sistema notazionale, cioè se si può specificarne le proprietà stabilendo un limite alle variazioni ammissibili. La divina commedia è una sequenza precisa di parole italiane e punteggiatura; la nona di beethoven è una serie di note specifiche. Entrambe sono opere originali e uniche come la Notte stellata. Se la riproduzione del quadro finisce sul mercato nero come originale è un falso, ma se compro la Divina commedia in libreria non compro un’opera diversa dall’originale né un falso: invece di copie o repliche si parla in questo caso di istanziazioni (tokens). Tokens sono anche i modi in cui possono leggere la D.C (silenzioso, alta voce). Le opere allografiche richiedono una forma del testo (type identity) esperibile in un’infinità di tokens diversi che conservano la struttura del type. (posso stampare la D.C in caratteri rossi o fuscia ma le parole sono quelle). Le opere allografiche sono replicabili con istanziazioni diverse senza perdere identità ontologica ed estetica. Arthur Danto ha analizzato un problema: che succede davanti ad un oggetto che non è opera d’arte ma risulta percettivamente indistinguibile da un oggetto che è un’opera d’arte: E’ il caso della Brillo Box di Warhol, scultura iperrealistica che riproduce le scatole di cartone per spugnette abrasive chiamate Brillo. Qui un’opera autografica, unica e fatta a mano, si sovrappone a “opere allografiche” (le Brillo sugli scaffali dei supermercati) che vengono prodotte in serie. Warhol ha poi moltiplicato le sue Brillo Box, serializzando l’opera d’arte come ha fatto con le foto di Marilyn Monroe. E’ il problema del multiplo, oggetto artistico replicabile. La distinzione fra arte autografica e allografica non coincide con quella fra arte “singola” e “multiplia”, una forma artistica può essere definita autografica non perché mette a capo un singolo prodotto irriproducibile (quel quadro) ma perché il prodotto possiede una sua unicità, anche se è multiplo. Tutto ciò spinge a riprensare anche l’aura di Benjamin. “Auratico” non vuol dire unico, esistono piuttosto contesti, condizioni discorsive, “mondi dell’arte” (Danto) in cui l’aura si moltiplica. Falsi originali, originali falsi e facsimili: Quindi solo per le arti autografiche si può parlare di falsificazione. Peter Strawson (filosofia analitica) ha detto che nemmeno i dipinti (esempio di arte autografica) andrebbero considerati particolari o unici visto che li consideriamo tali perché non siamo ANCORA tecnicamente in grado di produrne repliche perfette. Se lo saremo, smetteremo di assegnare un primato estetico all’originale. Anche la fotografia lascia trasparire una differenza con gli originali. Le possibilità della riproducibilità però vanno al di là della fotografia. Gerard Malanga, assistente di Warhol, vuole prendere un’opera d’arte, il poster bicolor che riproduce la famosa fotografia di che guevara e creare da essa delle serigrafie che vuole vendere come originali di Warhol. Quindi scrive a Warhol pregandolo di autenticare le opere, che accetta. Quindi dobbiamo chiederci: le serigrafie di Malanga sono falsi? o copie “alla maniera di”? Questo esempio fa vacillare le teorie secondo cui sarebbe sempre possibile distinguere tra falso e originale. E’ possibile inoltre che una copia sia migliore dell’originale che l’esperienza estetica sia più genuina? “Le nozze di cana” del Veronese è un quadro che è stato fatto a pezzi nel 1797 dai funzionari di napoleone. Uno sfregio per i veneziani. Nel 2007 Factum Arte, laboratorio spagnolo specializzato in tecnologie digitali ha inteso riportare a casa “Le nozze di cana”, non l’originale ma un facsimile. La reazione dei veneziani non fu positiva inizialmente: non si può sostituire l’opera del veronese! Quando l’opera venne svelata ci furono applausi e lacrime. Il facsimile era molto simile all’originale, con pigmenti applicati a una tela preparata a gesso come quelle del 500. Del resto nemmeno le Nozze di cana esposte al louvre sono originali, l’originale è stata restaurata e quindi ha subito modifiche. Anche nel restauro l’originale va perduto per sempre, in una parola, viene ri - prodotto. Sistema delle arti - Pinotti Alcuni videogiochi sono entrati nella collezione del MoMA. Il videogioco è arte? il suo essere un oggetto ludico si trasforma in oggetto artistico se entra in museo? Magia del museo: Il museo ha la capacità di terminare il “mondo dell’arte”. Qualunque oggetto accolga viene “artisticizzato”. L’innesco della contemplazione estetica comunque non esaurisce le funzioni di un museo, è indubbio che l’atteggiamento prevalente di chi ci entra è quello di disporsi allo sguardo dell’apprezzamento di un’opera d’arte, anche se l’oggetto non lo sarebbe. La possibilità di allargare o restringere le maglie dell’artisticità è stata al centro della tradizione estetologica e viene comunemente chiamate “sistema delle arti”. Da un lato il bisogno di una classificazione rigorosa che corrisposta a un criterio capace di riunificare in un “sistema” fenomeni artistici diversi; dall’altro, le varie operazioni umane che hanno chiesto di essere riconosciute come arte. Tecniche e arti in età antica e medievale: I greci antichi si sono impegnati per classificare le arti nel senso di tecniche. A Platone dobbiamo la contrapposizione fra arti manuali e arti non manuali, in particolare quelle che si basano sulle parole (la retorica) e sui numero. Aristotele ripartisce le scienze in contemplative, pratiche e produttive o creative, l’arte sarebbe tra quest’ultima. L’arte cerca con abilità e teoria come si producano cose che possono sia esserci sia non esserci, dipendono da chi le crea. Un ulteriore importante divisione c’è tra le arti utili, quelle piacevoli e nobili, preparatorie alla virtù, che seneca chiama arti libere. Contrapposte alle arti meccaniche (manipolazione della materia giudicata inferiore), le arti liberali (attività intellettuale). Sarà poi bacone a rivendicare l’importante delle arti meccaniche. I PARAGONI DEI MODERNI: Lo “sporcasi le mani” sarà per molto tempo un criterio di differenziazione interno alle arti manuali, come dimostra la disputa rinascimentale tra scultura o pittura. Nel rinascimento si separano la figura professionale dell’artista da quella dell’artigiano, accostato allo scienziato. Giorgio Vasari nel 1563 promosse la fondazione dell’Accademia fiorentina del disegno, credeva che il disegno, tra le arti, potesse raccogliere insieme le 3 arti visive: pittura, scultura, architettura. Ordinare le arti significare inserirle in una gerarchia valutativa, il dibattito animò la cultura artistica italiana tra 400 e 500. Questo dibattito si intrecciava alle interpretazioni della frase di Orazio “Una poesia è come la pittura”; in cui voleva indicare che il poeta doveva descrivere l’immagine come ce l’avesse guerre mondiali. Tanto la Shoah quanto la bomba atomica hanno messo in crisi la fiducia positivista nel progresso tecnologico. Nel ventesimo secolo la riflessione filosofica ha decostruito il principio della neutralità della tecnica e a pensare le tecnologie come forze autonome in grado di orientare la società. Tuttavia la necessità di operare una critica sistematica della tecnica ha finito per ridurla al discorso o all’ideologia a essa sottostante, perdendo di vista l’influsso che ha sui nostri corpi. Più recentemente ci si è concentrati sull’ibridazione tra corpi e tecnologie innescata dalla rivoluzione digitale e anche sulla diffusione di dispositivi e sensori che assumono forme di sorveglianza e controllo dei corpi. Le funzioni biometriche umane sono tracciate e registrate da algoritmi che le impiegano in maniera autonoma per orientare il nostro rapporto con il mondo. Tra gli individui e gli strumenti tecnici non c’è un rapporto meramente strumentale in cui il produttore gioca parte attiva e il prodotto passiva, ma un rapporto di feedback reciproco, diamo forma a degli oggetti che a loro volta ci informano. Ciò nonostante abbiamo resistenza a riconoscere il valore culturale della tecnica, finiamo per rimuovere la funzione di “mediazione” operata dagli oggetti tecnici nel ns rapporto con l’ambiente e ci creiamo una rappresentazione immaginaria della macchina come potenziale minaccia. Dove origina questa divergenza tra tecnica e cultura? Techne e tecniche: Differenza tra arte e tecnica: etimologicamente difficile da definire. il termine techne indica le regole che governano un’attività umana e rimanda sia alla creazione artistica che alla produzione tecnica. L’arte non può fare a meno della tecnica, ma la nasconde: il grande danzatore o musicista fanno apparire il virtuosismo una naturalezza. Dall’antichità fino al rinascimento “arte” indica ogni attività produttiva dell’agire umane in opposizione alla generazione propria della natura. già dal V secolo d.c vige però una distinzione tra arti liberali e arti meccaniche. Il punto di svolta sta nell’Encyclopedie di Diderot, che nella voce “arte” si concentra sulle attività umane che richiedono abilità tecnico pratiche e sulle macchine impiegate, in particolare per le 3 invenzioni che hanno modificato il mondo: stampa, polvere da sparo e la bussola. Nel modello culturale illuminista l’arte recupera la sua dimensione tecnica. Il processo di creazione implica un fare pratico, in antichità in valore dell’artista era riconosciuto in funzione della sua abilità nel padroneggiare tecniche di realizzazione. Ancora oggi le forme d’arte si definiscono a partire dalla tecnica: pittura a olio, musica elettronica etc. Ultimamente storia dell’arte ed estetica hanno dato maggiore rilievo allo stile e al genio artistico: per Benedetto Croce, che affermava il principio dell’autonomia dell’arte, la tecnica è da considerare un semplicemente strumento dell’intuizione artistica. Il vincolo tecnologico è semmai limite per il genio creativo. Croce nega gli aspetti estetici della tecnica. Dino Formaggio invece pone al centro della produzione artistica l’incontro sensibile con le caratteristiche fisiche dei materiali e con gli strumenti tecnici. l’opera si crea nella tensione fra progetto ed elementi materiali. Possiamo stabilire una equazione fra arte e tecnica: nell’arte, tecnica e sensibilità, dimensione del fare e del sentire, sono tutt’uno. In alcune forme d’arte i dispositivi tecnici sono imprescindibili inoltre: il cinema e le generative art. Il bello della tecnica: Il primo ready - made di Marcel Duchamp è una ruota di bicicletta, prelevata direttamente dal mondo degli oggetti fabbricati meccanicamente. L’oggetto tecnico si sostituisce al processo di creazione e diviene opera. In questo gesto creativo la tecnica non è più un sapere pratico che l’arte utilizza. Nel corso del 900 l’arte non ha solo integrato le tecnologie meccaniche ed elettroniche ma è venuta a coincidere con l’esibizione del loro funzionamento: sculture cinetiche, installazioni interattive. Possiamo quindi riconoscere alla tecnica un valore artistico? Un vaso è un artefatto tra due mondi: pur se considerato secondo il suo valore estetico ha comunque uno scopo pratico che eccede l’ambito artistico. Se pensiamo agli strumenti puramente tecnici possiamo considerarli belli? Alcuni strumenti sono abbelliti con decorazioni, ma secondo Simondon questo non fa che mascherare la funzione dell’oggetto; per lui la bellezza degli oggetti tecnici scaturisce proprio dal manifestarsi del loro scopo, della loro tecnicità. L’impressione estetica che genera in noi un oggetto tecnico nasce dal contatto sensibile con la sua funzione (piacere connesso con l’azione che suscita, la forma di una tenaglia suggerisce la sua manipolabilità) e dalla sua inserzione nell’ambiente e dal modo in cui interagisce con esso in maniera dinamica (la locomotiva che imbocca un tunnel). Quest’esperienza tecno - estetica coinvolge anche la sensibilità dell’artista che crea nel contatto con la materia, che è tutt’uno del processo produttivo: il pittore che dipinge è stimolato dalla viscosità della tempera. Il senso comune rifiuta però la co - originarietà di tecnica ed estetica e rinforza la loro opposizione. Il ruolo dell’arte risulta decisivo nel processo di mediazione tra essere umano e ambiente tecnologizzato: come suggeriva Benjamin, per accompagnare il processo di adattamento sensoriale dei nostri corpi alle tecnologie e per ridisegnare il nostro rapporto con la tecnica. Virtuale - Federica Cavalletti La realtà virtuale è stata così battezzata alla fine degli anni 80: è un dispositivo mediale che per mezzo di visori o sistemi di proiezione avvolge l’utente in un ambiente immersivo a 360 gradi. Oggi però virtuale ha un senso più ampio: criptovalute, riunioni in zoom, cioè tutto ciò che trasferisce attività che di norma svolgiamo in presenza in una sfera informatica o digitale. Una accezione più antica identifica il virtuale come una categoria ontologica, cioè categorie dell’essere e del mondo in cui le cose esistono o non esistono. Reale, troppo reale? La nozione “virtuale” ha la sua origine nel medioevo, con il termine virtualis. La lettura che ci interessa è quella che lo associa a ciò che Aristotele chiamava “potenza”, che si correla con atto e indica le proprietà di qualcosa che ha le risorse, le “carte in regole”, per compiere qualcosa: un seme è un albero in potenza. Secondo Locke la mente è una tabula rasa alla nascita, che si iscrive riempiendosi di esperienza. Leibniz risponde a Locke che ciò che è innato non deve necessariamente essere in atto. Alcune idee sembrano assenti nei bambini perché sono ancora in uno stato potenziali, sono “virtualità naturali”. Quindi nei primi significati di virtuale c’è quello di “potenziale”. Cosa vuol dire “esistere in forma virtuale”? l’informazione genetica per esempio non esiste allo stesso modo di una macchina del caffè, eppure è reale: nell’informazione genetica sono contenute virtualmente le caratteristiche di un individuo. Il virtuale per deleuze deve essere considerato al pari del reale; ma può anche trascenderlo. Accade col tipo di virtualità propria delle forme artistiche, secondo Susanne Langer l’incontro fra le forme artistiche e chi ne fa esperienza genera un surplus che supera le componenti tangibili, attuali, dell’opera. Quando guardiamo la Danza non percepiamo solo un insieme di gesti e movimenti ma anche forze, tensioni, immagini dinamiche. Queste non esistono nello stesso modo della performance, ma in forma “virtuale”. Al pari del reale e superiore ad esso. E se il virtuale rimpiazzasse il reale? Ne ha scritto Baudillard che parte dal presupposto che la “realtà effettiva” del mondo in cui viviamo sia una “illusione”: ambigua, parziale, incompleta. All’illusione Baudillard oppone la simulazione che rimanda a una realtà prodotta dall’uomo e perciò: completa, perfetta, inautentica. A questa realtà simulata Baudillard assegna l’attributo di virtuale. Nella simulazione ogni oggetto, evento o circostanza sono clonati nel loro doppio analogico o digitale, questo doppio è “virtuale” perché artificialmente perfetto e non problematico, ma anche perché prodotto da una “tecnologia virtuale”. Il virtuale diventa allora “troppo reale”, una versione più riuscita della realtà che abolisce quest’ultima. Il virtuale tra apocalisse e redenzione: Nel novecento ci sono state diverse critiche al virtuale. Alcuni, a la Buidillard, considerano il virtuale una catastrofe distopica. L’aspetto disturbante della ve sembra essere la tendenza ad inghiottire la realtà, sostituendola con un inganno. (Matrix) La questione tocca da vicino l’estetica intesa come teoria del sensibile. Paul Virilio ha reinterpretato il tema della sparizione della realtà nei termini della sparizione delle “condizioni di possibilità per percepire la realtà”: l’avvento dei media basati sul computer ha inaugurato una logica paradossale nel rapporto che lega le rappresentazioni al loro referente per cui l’immagine, presente in diretta, prevale su ciò che rappresenta. se qualunque cosa può essere visualizzata qui e ora ma ha la natura inafferrabile di qualcosa che è generato da un software, le categorie abituali che ci consentono di orientarci nello spazio e nel tempo si deformano e mutano. La nostra esperienza sensibile cambia così come cambia la nostra soggettività, il corpo che la fonda, specie quando usiamo avatar e identità per la “virtualizzazione del sè”. Le community virtuali in cui gli utenti si possono incarnare in modo vario rendono l’identità fluida e plurale tanto da rischiare di farla deflagare. Allo stesso tempo fluidità e pluralità sono diventate caratteristiche della soggettività contemporanea. Queste piattaforme potrebbero quindi valere come addestramento. Le possibilità di estensione, connessione e moltiplicazione offerte dal virtuale ai nostri corpi vanno intese come opportunità di positiva “ri - creazione”. Secondo Pierre Levy i processi di virtualizzazione sono fondamentali per la specie umana: un esempio è lo sviluppo del linguaggio che ha avuto tra i suoi effetti quello di virtualizzare il presente: arircchirlo cioè di dimensione che esistono ma non in forma attuale, come il passato e il futuro. Alcuni pensano che gli strumenti virtuali infatti ci permettono di conoscere meglio la realtà invece di alienarci, come nella ricerca scientifica e nella progettazione: i modelli informatici sono fondamentali per ridurre le tempistiche di sperimentazione. Secondo Tomas Maldonado la realtà virtuale non è né buona né cattiva, è l’impiego che ne facciamo a determinare gli effetti sulla realtà. Nuove ontologie del virtuale: Nel dibattito sulla realtà virtuale a livello ontologico ci sono due schieramenti: quello del “realismo virtuale” e quello del “finzionalismo virtuale”. I primi affermano che oggetti e ambienti virtuali esistano per davvero e siano reale, i secondi ritengono che non esistano in senso pieno. Il filosofo David Chalmers propone una visione del realismo virtuale che definisce “digitalismo virtuale” e sostiene che gli oggetti virtuali siano reali in quanto digitali. Esistono come strutture di dati. A Chalmers è stato risposto che nessun oggetto digitale può dirsi reale, in quanto non è completo: persino la più dettagliata automobile virtuale avrà una serie di caratteristiche mancanti: pistoni, circuiti elettrici. Quindi la realtà virtuale è finzione. La macchina però, o l’anello nel videogioco del signore degli
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