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Il processo di Kafka, Dispense di Letteratura

Riassunto dettagliato e interpretazione de Il processo.

Tipologia: Dispense

2020/2021
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Caricato il 22/06/2021

HanktheT
HanktheT 🇮🇹

4.8

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Anteprima parziale del testo

Scarica Il processo di Kafka e più Dispense in PDF di Letteratura solo su Docsity! Un’analisi del romanzo “Il processo” di Franz Kafka. I Gli imputati sono appunto i più belli. (Dall’ottavo capitolo. Pagina 167) Il processo è un romanzo composto da dieci capitoli scritto da Franz Kafka tra l’agosto del 1914 e il gennaio del 1915 e ripreso fino al 1917. Kafka lasciò il romanzo incompiuto, ma ha ordinato i singoli capitoli con brevi titoli. In questo modo Franz Kafka evitava, così, il pericolo della digressione. Come spiega la nota di Malcolm Pasley, dal libro “Il processo” di Franz Kafka (Feltrinelli editore, terza edizione aprile 2000). “Nel caso del romanzo Il processo ha innanzitutto scritto il capitolo finale e il capitolo iniziale; questa volta la meta già fissata obbligava a trovare una strada per arrivarci” (Pagina 236). La scrittura del capitolo iniziale e del capitolo finale è molto importante perché il romanzo ha, così, un inizio e un finale certo che corrisponde alla tesi e al messaggio che Kafka, secondo me, voleva inserire e trasmettere alla trama e al finale del romanzo. Nel 1920, il manoscritto del romanzo arrivò nelle mani del suo amico Max Brod, e già, nel 1921, Max Brod definì Il processo l’opera maggiore di Kafka (Pagina 235). Max Brod pubblicò Il processo nel 1925, e, per dare compiutezza e completezza al romanzo, apportò delle leggere modifiche al testo originale “sulla numerazione dei capitoli, sull’ortografia e sulla punteggiatura.” (pagina 14). Per capire il messaggio del romanzo è, anche, importante conoscere ciò che scrisse Bruno Schulz nella prefazione all’edizione del 1936 e ora riportata come introduzione all’edizione Feltrinelli del Processo: “Il romanzo, che Max Brod ricevette nel 1920 dall’autore sotto forma di manoscritto, è incompiuto. Alcuni capitoli frammentari, che avrebbero dovuto trovare la loro collocazione prima del capitolo conclusivo, vennero da lui (Max Brod) separati dal romanzo, basandosi su quanto dichiarato da Kafka, e cioè che questo processo in idea è a dire il vero incompiuto e che le sue ulteriori peripezie non avrebbero apportato più nulla di essenziale al senso fondamentale della questione”. (Pagina 11). Nel primo capitolo Il processo racconta la storia di Josef K. procuratore di una grande banca (di Praga). La mattina del suo 30° compleanno due uomini sconosciuti entrarono nel suo pensionato dove lui stava dormendo. I due uomini gli comunicarono che lui era in arresto. Si alzò, s’infilò rapidamente i pantaloni e chiese spiegazioni sull’arresto. Ma i due sorveglianti non diedero nessuna spiegazione sull’arresto, e aggiunsero che: “Le nostre autorità, per quanto le conosco, e io le conosco solo ai livelli più bassi, non cercano la colpa tra la popolazione, ma, come è scritto nella legge, sono attirati dalla colpa e costrette a inviare noi sorveglianti”. (pagina 19). Anche l’ispettore confermò che lui era in arresto e che era iniziato un procedimento a suo carico, senza, però, fornirgli né l’accusa né la colpa per cui era iniziato Il processo. Ecco il famoso incipit del romanzo: “Qualcuno doveva aver denunziato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”. (pagina 15). Ma l’ispettore aggiunse che, per il momento, lui avrebbe potuto condurre una vita regolare e andare a lavorare in banca come aveva sempre fatto. Nel secondo capitolo Josef K., la stessa sera, dopo essere rientrato dalla banca, parlò con la signora Grubach, la quale lo rassicurò su quanto era successo la mattina e gli disse: “Lei non deve prendersela troppo a cuore. Che cosa non capita nel mondo!” (pagina 31). E poi la signora Burstner aggiunse. “Si tratta della sua felicità e questa mi sta veramente a cuore, più di quanto forse mi è consentito, giacché io sono soltanto l’affittacamere.” (Pagina 31). Poi Josef K. parlò, anche, con la signorina Burstner con la quale si scusava per il disordine che lei aveva trovato nella sua camera, data l’intrusione dei due sorveglianti. “Ciò facilita il mio compito” – disse K. – “Stamattina, in un certo qual modo per mia colpa, la sua camera è stata messa un po’ in disordine, è successo ad opera di sconosciuti, contro la mia volontà, e tuttavia, come ho detto, per colpa mia; perciò volevo chiedere scusa.” (Pagina 35). Nel terzo capitolo Josef K. va in un quartiere della città per partecipare alla prima udienza del processo. Josef K. arrivò in questo quartiere lontano dal centro; quartiere, abitato da povera gente di povere famiglie di operai e di commercianti. Le abitazioni erano grandi edifici tutti uguali. Josef K., per trovare la commissione d’indagine, inventò il cognome Lanz per girare tutte le stanze del caseggiato e trovare la stanza delle udienze. Alla fine arrivò al quinto piano dove trovò l’aula delle udienze e trovò anche un giudice istruttore che lo aspettava. Josef K. tenne un discorso di fronte alla sala dove molta gente che era assiepata nella galleria sotto il soffitto; e vide altra gente che era seduta dentro le stanze del Tribunale. Josef K. disse, con voce concitata, che lui aveva scoperto che il Tribunale non era altro che una grossa organizzazione piena di impiegati corrotti, di giudici venali e di ispettore inetti. E il senso di questa organizzazione stava nel fatto “che si arrestano persone innocenti e si intenta nei loro confronti un procedimento insensato e il più delle volte, come nel caso mio, inutile. Come si può, data l’insensatezza del tutto, impedire la peggiore corruzione dei funzionari?”. (Pagina 54). Questi signori ascoltarono il suo discorso; ma, in effetti, Josef K. si accorse che era gente pagata dallo stesso Tribunale, perché “tra le barbe, sui baveri delle giacche – e questa fu la vera scoperta di K. – tralucevano dei distintivi di dimensioni e colori diversi.” (Pagina 55). Nel quarto capitolo Josef K. ritorna la domenica seguente nel palazzo del Tribunale, ma questa volta non c’era udienza. Incontra la moglie dell’usciere alla quale dice che a lui non gli importa niente del processo e che una eventuale condanna lo faceva ridere soltanto. “Ma anche di questo non ha motivo di offendersi, se considera che dell’esito del processo non mi importa nulla e che di una eventuale condanna me la riderò soltanto.” (Pagina 61). Nel quinto capitolo Josef K. sentì dei lamenti in un ripostiglio della sua banca. Aprì il ripostiglio e scoprì che un picchiatore stava per picchiare i due sorveglianti che la mattina del suo arresto lo avevano tenuto sotto sorveglianza. Josef K. tentò di convincere il picchiatore di non bastonare i due sorveglianti, ma non ci riuscì. “Perché non li ritengo colpevoli, colpevole è l’organizzazione, colpevoli sono gli alti funzionari”. (Pagina 81). Anche il giorno dopo, Kafka si accorse che il picchiatore continuava a picchiare i due sorveglianti, “che subito cominciarono a lamentarsi gridando”: “Signore!”. (Pagina 84). Nel sesto capitolo Josef K. ricevette una visita da suo zio, il quale gli spiegò che aveva saputo del processo di Josef K., dalla figlia. Dopo un lungo colloquio tra i due, lo zio portò Josef K. in un avvocato per difendere la causa di Josef K. Lo zio portò Josef K. dall’avvocato Huld, conosciuto “come difensore e avvocato dei poveri.” (Pagina 92). Nello studio dell’avvocato Josef K. conobbe la sua assistente infermiera Leni che accudiva l’avvocato quotidianamente. Leni mostrò molta simpatia per Josef K. il quale ricambiò, subito, la sua simpatia e la sua amicizia, con alcuni baci. Ecco le parole finali che Leni rivolse a Josef K. “Eccoti le chiavi di casa, vieni quando vuoi – furono le sue ultime parole – e un bacio a casaccio lo raggiunse sulla schiena mentre se ne andava”. (Pagina 103). Nel settimo capitolo Josef K. ritornò nello studio dell’avvocato Huld, il quale gli spiegò come funzionano gli uffici del Tribunale e come andava avanti anche il suo processo. L’avvocato gli disse che il Tribunale tollera soltanto gli avvocati difensori e non rende pubblico Il processo: “Per questa ragione anche i documenti del Tribunale, soprattutto l’atto d’accusa, non sono accessibili all’imputato e alla sua difesa, quindi generalmente non si sa, o perlomeno non si sa bene, contro che cosa si debba indirizzare la propria memoria, perciò può darsi che solo accidentalmente contenga Processo, però, il referente della Vergogna non è il padre Hermann Kafka ma è lo stesso Franz Kafka. II L’allegoria vuota del romanzo “Il processo”. La vana ricerca della felicità e della verità. Si tratta della sua felicità. (Capitolo II pagina 31.) “Il processo” è un romanzo allegorico – metaforico, perché la storia del protagonista Josef K. rappresenta la condizione dell’umanità sulla terra. L’Umanità vive una condizione assurda, smarrita, insensata, disorientata perché non sa da dove viene e non sa dove andrà. Questa condizione alienata e confusa è aggravata dalla incomprensibilità del Mistero che circonda l’Umanità. Kafka rappresenta il Mistero, ovvero l’enigma della vita, con il Tribunale, ovvero con un sistema burocratico, che sorveglia, accusa, processa e condanna gli uomini che a suo parere commettono colpe. Il Tribunale, ovvero il mistero, è inspiegabile con la ragione umana. Il Tribunale ha però i suoi uffici e i suoi tribunali in luoghi nascosti perché rappresenta una giustizia parallela alla giustizia umana. In sintesi il messaggio più elementare e più sicuro del romanzo consiste nel fatto che Josef K., che simboleggia l’umanità, insegue e persegue la verità, ma questa continuamente gli sfugge e diventa inafferrabile, tanto da diventare un enigma, un mistero che grava continuamente sull’umanità come un potere oscuro e indecifrabile. Questo mistero oscuro è già tutto scritto nel celebre incipit del romanzo:” Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto nulla di male, una mattina fu arrestato”. Incipit che contiene tutto il mistero del romanzo e il labirinto in cui brancola l’umanità. Il processo presenta una struttura interna coesa e coerente sul piano delle azioni umane, ma presenta anche una logica che non è spiegabile con la sola attività mentale degli uomini. La logica inspiegabile è costituita dal fatto che c’è un Tribunale sconosciuto agli uomini, che attirato dalla colpa di alcuni di loro, istruisce un processo, alla fine del quale emette una sentenza definitiva di condanna. Questo Tribunale non è autorizzato dagli uomini, ma agisce sugli uomini come afferma Josef K.: “La questione principale è: da chi sono accusato? Quale autorità istruisce il procedimento?” (Pagina 24). La presenza di questo Tribunale dunque costituisce la presenza dell’Assurdo nella vita degli uomini. Il Tribunale fa pensare ovviamente a un Dio che ha potere di giudicare gli uomini, ma può essere Qualsiasi Altra Cosa Misteriosa che ha potere di vita e di morte sugli uomini. Può essere: il Nulla, l’Ignoto, il Male, ma in tutti i casi è qualcosa o qualcuno che giudica gli uomini. Esso è attirato dalla colpa di ciascuno. Nel caso del Processo, il Tribunale è attirato dalla colpa di Josef K. che non riesce all’inizio a capire quale sia la sua colpa, ma che alla fine intuisce, ammette e accetta che, forse, ha fatto un’azione colpevole come dice in una delle ultime pagine del romanzo: “Ho sempre voluto entrare nel mondo con venti mani e oltretutto non per scopi lodevoli”. (Pagina 203). Josef K. cerca di capire quale sia stata la sua colpa e quale sia stato lo scopo riprovevole e, andando indietro nella memoria, ripensa che la sua unica colpa è quella di aver voluto godere la vita come già aveva pensato quando doveva scrivere la sua memoria per il Tribunale: “Ma adesso che K. aveva bisogno di tutti i suoi pensieri per il suo lavoro, che ogni ora passava velocissima, poiché era ancora in ascesa e rappresentava ormai una minaccia per il vicedirettore, adesso che voleva godersi le serate e le notti brevi da quell’uomo giovane che era, adesso doveva cominciare a redigere quella memoria”. (pagina 118). Il processo è, sicuramente, un romanzo allegorico che esprime ed espone in modo simbolico tutti i tentativi che l’uomo fa per raggiungere la propria felicità, ma sono tentativi che risultano vani e inutili. Nel Processo Josef. K. tenta in tutti i modi di conoscere chi è l’Autorità che giudica gli uomini, tenta di conoscere i giudici che indagano sugli uomini e scopre che essi sono venali e corrotti, pur tuttavia potenti e implacabili. E alla fine non riesce nemmeno a sapere quale è la sua colpa e la sua accusa. Subisce solo la condanna che viene effettuata nel modo più ignobile possibile perché avviene senza un vero processo dove lui poteva difendersi e perché avviene in un luogo anonimo e desolato dove lui viene ucciso da sicari rozzi e ignoranti. Subisce la pena capitale senza sapere niente dei suoi giudici e senza sapere quale è l’Autorità che lo uccide, e senza capire qual è la logica che lo condanna a morte, come pensa prima di morire: “C’era ancora aiuto? Esistevano obiezioni che erano state dimenticate? Sicuramente ne esistevano. La logica è sì incrollabile, ma non resiste a una persona che vuole vivere. Dov’era il giudice che non aveva mai visto? Dov’era l’alta corte a cui non era mai arrivato”. (Pagina 205). Il processo è, anche, un romanzo che espone il tema dell’incomprensibilità della realtà da parte dell’uomo. Josef K. non comprende la realtà e la logica che lo governa e lo domina. Josef K. non si rivolge alla scienza, ma si rivolge alla Legge, la quale però non spiega niente e non svela niente; infatti Josef K. non è d’accordo con le spiegazioni che gli dà il cappellano del carcere nel duomo. La sua mente razionale non gli basta per spiegare l’incomprensibilità della realtà. Ma una cosa certa è che Josef K. non smette di fare tentativi per scoprire la logica che regola il mondo e la vita degli uomini. Il senso della sua condanna sta proprio in questo monito. Josef K. è condannato alla morte perché vuole scoprire e conoscere quale sia il senso della vita e qual è l’incomprensibilità di essa. Josef K. è condannato perché vuole indagare e capire quale sia il mistero che circonda la vita e l’angoscia che genera negli uomini. Questo mistero della vita e della sua incompressibilità è ripreso anche nella Lettera al padre, quando Franz Kafka scrive. “D’altro canto, alla lunga queste impressioni piacevoli non hanno sortito altro effetto che quello di ingigantire il mio senso di colpa e di rendermi il mondo ancora più incomprensibile.” III L’Allegoria vuota. Molti critici hanno cercato di identificare, di volta in volta, il Tribunale, secondo la teoria dell’Allegoria vuota, proposta da W. Benjamin. Il Tribunale è stato identificato, secondo la Weltanschauung del critico, con. 1) un Dio indifferente e implacabile; 2) con l’alienate società moderna; 3) con la società capitalistica; 4) con la burocrazia austriaca e con la burocrazia spersonalizzante in generale; 5) con la crisi dei valori della società ottocentesca e con la crisi dei valori scientifici e culturali del secondo decennio del secolo; 6) con la prima guerra mondiale; 7) con la Legge Ebraica ortodossa; 8) con il Padre; 9) con un Dio indifferente e assente; 10) con la Legge divina. Ma alla base di questi giudizi interpretativi recenti ci sta la fondamentale opera di Walter Benjamin, che nel libro IL dramma del barocco, scritto tra il 1923 e il 1925 ha parlato per le opere di Kafka di Allegoria Vuota. L’allegoria vuota è un tipo particolare di allegoria che si distingue dalla Allegoria tradizionale. “Infatti l’allegoria vuota è di tipo particolare: non comunica un significato positivo o una tesi precisa e razionale, come faceva l’allegoria tradizionale, ma esprime un bisogno di significato che resta senza risposta. Per questo la critica del novecento ha coniato la formula di “Allegoria vuota”. Come ogni autore allegorico, Kafka rappresenta una vicenda per dire altro; ma questo altro resta indecifrabile e dunque indicibile: il significato è fuggito dalla vita e ne resta solo l’esigenza. È evidente poi la differenza tra allegorismo moderno, che tende spesso ad assumere forme vuote e l’allegorismo tradizionale, che invece presuppone una lettura prestabilita, “a chiave” e muove da una verità generale condivisa dalla società (si pensi all’allegorismo dantesco, fondato sul dogma religioso). La formula di “Allegoria vuota” è ripresa da Lukas (nella sua Estetica) che la deriva da Benjamin, ma con un significato opposto, e cioè negativo. Mentre Benjamin valuta positivamente l’“Allegoria vuota” e considera Kafka un maestro dell’arte novecentesca, Lukas valuta negativamente lo scrittore boemo, così come dà un giudizio negativo delle avanguardie in generale. Nella rinuncia a rivelare un significato e dunque anche nella Allegoria vuota ci sarebbe infatti a suo parere, una resa all’insignificanza e alla crisi”. Io (Biagio Carrubba sono d’accordo più con W. Benjamin che con Lukas). Tutti questi giudizi finali ed interpretazioni scritte sopra sono giuste e parziali e non potrebbero essere altrimenti perché come ha già scritto T.W Adorno la chiave di interpretazione della opera di Kafka non c’è: “Si tratta di parabole di cui è stata sottratta la chiave”. Pienamente giustificato è quindi l’orientamento della critica che intende studiare “Kafka senza kafkismi” come ha scritto in un penetrante saggio Ladislao Mittner. (Sintesi tratta da un manuale scolastico liceale). IV Il comportamento decisivo e determinato di Josef K. Il comportamento di Josef K. presenta due aspetti contraddittori e complementari: da un lato K. si ribella all’accusa e all’arresto e dall’altro lato, alla fine, accetta, inevitabilmente, la condanna di morte. Molti critici hanno insistito sul primo comportamento di Josef K. per sottolineare la volontà di K. di non desistere dalla lotta e di resistenza al potere oscuro e annullante del Tribunale. Josef K., simboleggia l’umanità impreparata al giudizio del Tribunale sovraumano. Secondo me, B. C., le caratteristiche di Josef K., sono due: la renitenza e la trasformazione finale del protagonista, che da un atteggiamento iniziale di indifferenza e di distacco dall’accusa, passa ad avere un comportamento, decisivo e determinato, fino all’accettazione, stoica e silenziosa, della sentenza di morte emessa da Tribunale. Dapprincipio Josef K., si mostra renitente all’accusa e all’arresto; dice non riconosce il Tribunale, o se lo riconosce lo riconosce solo per compassione, (pagina 49), poi afferma che ride di una eventuale condanna, ma nello stesso tempo vuole conoscere il Tribunale perché avverte anche la sua posizione isolata e disorientata nella società. Quando si accorge che la sua renitenza non basta e che il Tribunale è più forte di lui allora accetta, riluttante, ma consenziente la pena e non si ribella più al Tribunale. Io, B. C., reputo e giudico che l’importanza, la bellezza e il fascino di questa opera letteraria consista proprio nel comportamento decisivo e determinato di Josef K. il quale con la sua determinazione, con la sua costanza e coesione vuole scoprire quale sia stata la sua colpa e quale sia stato il Tribunale che ha emesso la sua sentenza, finale e inappellabile, di morte, anche se alla fine il suo tentativo di indagine rimane vuoto, vano e sterile. Nonostante ciò Josef K. ha messo in mostra e in rilievo, secondo me, il suo comportamento, decisivo e determinato, contro un Tribunale ignoto, inflessibile e duro. V Le caratteristiche dominanti del Tribunale. Le caratteristiche dominanti del Tribunale sono due: la sua reticenza e la sua struttura, nascosta e fatiscente, con la sua collocazione in soffitte grigie e prive di aria. Ecco come Franz Kafka descrive l’organizzazione interna del Tribunale. “Una organizzazione che non solo ingaggia sorveglianti venali, ispettori inetti e giudici istruttori nel miglior dei casi di modesta capacità, ma che per di più mantiene magistrati di alto e di altissimo grado, con l’innumerevole, inevitabile corteo di uscieri, scrivani, gendarmi e altri addetti, forse, non mi tiro indietro davanti a questa parola, persino di boia.” (Pagine 53-54). Inoltre il Tribunale ha una struttura interna fatta da funzionari corrotti e dà giudizi corrotti e ha le sue aule giudiziarie in soffitte maleodoranti piene di aria stantia senza finestre e ubicate in quartieri popolari della città. Ecco come Kafka descrive uno degli aspetti più importanti del Tribunale. “Cercare di capire che questo grande organismo giudiziario resta in una certa misura eternamente in equilibrio e che, se uno cambia automaticamente qualcosa lì dove si trova, si scava il terreno sotto i piedi e può precipitare, mentre il grande organismo per quel piccolo sembra un po’ troppo 'volitiva'[5]. In secondo luogo è segreta: i suoi rappresentanti non la conoscono, così come non possono dire a K. in cosa consista la sua colpa. Infine è infallibile. Questa legge ha delle affinità con la violenza mitica di cui ci parla Benjamin (che del resto vuol proprio dimostrare come la legge positiva, di là dalle apparenze, sia esattamente volitiva quanto quella mitica nell’eliminare chiunque tenti di minarne il potere). Il tribunale di Der Prozess può prendere l’iniziativa, non è per forza detto che dia ragione dei propri ordini, e si impone grazie al superiore potere che detiene de facto. Eppure si pone al di sopra del mito perché è anche giusto, cioè possiede il carattere che Benjamin attribuisce alle azioni divine. Vi è però anche una differenza: la violenza divina ha una sua origine chiara in Dio, qui non è detto nulla del suo creatore. È una distinzione cruciale: l’origine divina stabilisce la legittimità e infallibilità del proprio agire. La legge che arresta K., stando alle parole della guardia Willem, si giustifica in quanto legge, non ha bisogno di origine. Svolge da sé la mansione di Dio. Kafka accentua attraverso la legge del tribunale il paradosso della legge divina di Giobbe[6]:quest’ultima appare alla ragione umana identica per violenza alla legge mitica, ma a distinguerla è Dio stesso che liberamente si richiama alla giustizia nelle parole con cui si rivela agli uomini[7]. In Der Prozess di Kafka non appare nessun Dio, nessun creatore di tutte le cose che, se non spiega la giustizia, se ne fa quanto meno garante. Ricorrendo alle categorie di Benjamin, risulta che il tribunale rimane sospeso tra violenza mitica e violenza divina: infatti esso si proclama non solo di superiore potenza (come gli dei del mito), ma anche giusto (come Dio), senza che però una sua 'rivelazione' intervenga a legittimare questa pretesa. A Josef K. non appaiono che funzionari e giudici di infimo grado. Dirà il pittore Titorelli: Die untersten Richter nämlich, zu denen meine Bekannten gehören, haben nicht das Recht endgültig freizusprechen, dieses recht hat nur das oberste, für Sie und für uns alle ganz unerreichbare Gericht. Wie es dort aussieht, wissen wir nicht und wollen wir nebenbei gesagt auch nicht wissen. (p. 166) [Voglio dire che i giudici inferiori, di cui fanno parte tutti quelli che io conosco, non hanno il diritto di assolvere definitivamente; questo diritto ce lo ha solo il tribunale supremo a cui non può arrivare né lei, né io, né nessuno di noi tutti. Come stiano le cose lassù non lo sappiamo, né, sia detto per inciso, lo vogliamo sapere. (pag. 172)] Kafka e i totalitarismi Tra le diverse interpretazioni del mondo paradossale di Der Prozess, quelle di Hannah Arendt e Günther Anders sono entrambe a sfondo politico, ma hanno letto in modo opposto il paradosso della legge[9]. Di Hannah Arendt prendo in considerazione il saggio Franz Kafka (1976), dove la filosofa illustra il significato di Der Prozess e del suo tribunale, e commenta: «Il potere della macchina, che afferra e uccide K., non è altro che l’apparire della necessità, che si può realizzare attraverso l’ammirazione degli uomini per la necessità stessa. La macchina entra in funzione, perché la necessità è ritenuta qualcosa di sublime e perché il suo automatismo, che è spezzato solo dall’arbitrio, viene preso per il simbolo della necessità» (p. 98). K. soccombe nel momento in cui comincia a credere che la legge sia necessaria (nel senso filosofico) e dunque insindacabile: «Il male del mondo in cui gli eroi di Kafka si invischiano, è proprio la sua divinizzazione, la sua arroganza nel rappresentare una necessità divina» (p. 98). La Arendt avvicina espressamente questo mondo ai totalitarismi: in entrambi la legge, che secondo la studiosa deve sapersi rinnovare in base ai bisogni dell’uomo, è considerata immutabile. Secondo la sua interpretazione Kafka ha creato questo paradosso perché già negli anni ‘10 intuiva la degenerazione del sistema borghese e voleva sconfessarla. Invece di farlo apertamente ha creato un mondo che ne inscenasse la tragica assurdità. Per dirla con le nostre categorie, secondo la Arendt il processo va rovesciato in una congiura del diritto positivo contro l’uomo: congiura perché la legge che vuole instaurare (l’insindacabilità delle sue disposizioni) non è altro che la logica del potere della violenza mitica. Poiché però è il diritto positivo ad avere il potere nelle proprie mani, la congiura è de facto un processo. Compito del protagonista sarebbe quello di smascherarlo come congiura e di opporvisi, ma egli si lascia vincere dalla pretesa necessità del diritto, si lascia privare di ogni orizzonte del possibile e accetta la sentenza: in principio egli aveva osato immaginare un diritto positivo al servizio dell’uomo e per questo viene ora punito. Tanto è vero che il Processo può essere letto anche come una critica al potere, al suo dubbio connubio con la legge e la necessità: così ha fatto Hannah Arendt. Non è però l’unica interpretazione possibile: Günther Anders ha visto nel Processo un problema religioso, la nostalgia dei valori assoluti e la teologia negativa. Kafka non avrebbe pensato in termini politici la società, bensì religiosi, con il grande rischio che ne deriva: ritornare ad un diritto divino in un’epoca senza dei, ma dove ci sono apparati pronti a sostituirli. Il commento di Hanna Arendt Hanna Arendt ne “Il futuro alle spalle” commenta in questo modo il pensiero kafkiano: «Kafka conosceva esattamente la situazione politica del suo Paese. Sapeva bene che se uno s’impigliava nella rete dell’apparato burocratico non aveva più scampo. Il dominio della burocrazia aveva come conseguenza che l’interpretazione della legge degenerasse in uno strumento d’arbitrio, mentre un assurdo automatismo nei gradi inferiori dei funzionari suppliva alla cronica inettitudine degli interpreti della legge, un automatismo cui venivano praticamente demandate tutte le vere decisioni»
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