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Il processo esecutivo: nozioni riepilogative, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Nozioni riepilogative di Diritto Processuale Civile relative al processo esecutivo.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 07/07/2021

052103
052103 🇮🇹

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Scarica Il processo esecutivo: nozioni riepilogative e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Diritto processuale civile Il processo esecutivo Volume Ill Francesco P. Luiso Decima edizione (2019) Capitolo 1 L’esecuzione forzata nel quadro dell’ordinamento Situazione sostanziale protetta Per delineare la funzione dell’esecuzione forzata (Libro III) occorre richiamare le nozioni generali. Qualunque sistema normativo opera prendendo in considerazione i comportamenti umani e qualificandoli alternativamente come leciti o doverosi. Alcune norme danno facoltà di compiere certe attività e altre norme viceversa vietano il compimento di altre attività. Di solito, al di fuori del settore penalistico, il legislatore prevede che il comportamento, qualificato come doveroso, sia funzionale alla realizzazione di un interesse altrui, che assurge quindi alla dignità di situazione sostanziale protetta. Il legislatore assicura una certa utilità ad un soggetto, gli garantisce cioè un bene della vita. Situazioni finali e si i strumenti: Qui dobbiamo fare la prima, importante distinzione: a. Situazioni finali: alcune situazioni sostanziali protette si attuano fornendo al loro titolare poteri di comportamento in relazione ad un determinato bene e facendo obbligo a tutti gli altri soggetti dell’ordinamento di non inframmettersi tra il titolare del diritto e il bene garantito, cioè imponendo a carico di tutti gli altri soggetti dei doveri di astensione. Es. — Nel diritto di proprietà, il proprietario non ha bisogno della cooperazione di nessun altro per trarre dal bene tutta l’utilità che l’ordinamento gli garantisce. Egli ha solo bisogno che non gli sia impedito di utilizzare i poteri che l’ordinamento gli attribuisce. b. Situazioni strumentali: talvolta si constata che l’interesse, che costituisce la situazione sostanziale protetta, è garantito non dall’attività indisturbata del titolare del diritto, ma da un comportamento attivo di un altro soggetto, senza il quale comportamento la situazione sostanziale non è soddisfatta. Es. + Nel rapporti di lavoro i diritti di ambedue gli interessati sono realizzati dai comportamenti attivi delle controparti. Al datore di lavoro importa che la prestazione venga eseguita, mentre al dipendente importa che il datore di lavori gli paghi lo stipendio. Doveri primati e secondari Accanto a questa prima distinzione fra situazioni finali e situazioni strumentali, dobbiamo porre una seconda fra doveri di comportamento primari e secondari. e Idoveri sono primari, quando attuano lo svolgimento fisiologico della situazione sostanziale: si tratta di tutti quei casi in cui, sul piano del diritto sostanziale, è previsto come obbligo primario quello di tenere un certo comportamento attivo. Es. +» Nel rapporti di mutuo, il mutuatario ha l’obbligo di restituire le cose avute in mutuo. ® I doveri sono secondari, quando nascono da un precedente illecito: nascono dal fatto che esisteva un altro dovere a monte, che non è stato rispettato; a ciò consegue la nascita di un dovere di contenuto diverso che possiamo chiamare secondario, perché origina da un precedente dovere inadempiuto, e che ha una funzione in senso lato ripristinatoria. Es. + L”art. 2043 c.c. prevede il risarcimento del danno per fatto illecito. La norma stabilisce în primis il dovere di non ledere i diritti altrui; se il dovere primario è violato, dall’illecito compiuto nasce un obbligo risarcitorio, che è un obbligo secondario perché sorge dalla violazione di un dovere primario. Ilecito Ora, il problema che si deve porre qualunque ordinamento è il seguente: cosa accade quando il soggetto realizza un illecito? Ai fini della tutela esecutiva, è sufficiente che sul piano del diritto sostanziale non sia stato tenuto quel comportamento, che è necessario per dare al titolare del diritto l’utilità che l’ordinamento gli garantisce, allorché gli riconosce una situazione sostanziale protetta rispetto ad un certo bene. Dobbiamo pertanto distinguere in via generale gli obblighi fungibili dagli obblighi infungibili. La nozione di fungibilità è diversa da quella disciplinata dagli artt. 1285 ss. c.c.: qui essa sta ad indicare la sostituibilità o meno, da parte di unterzo, della prestazione inadempiuta dall’obbligato. Fanno parte degli obblighi infungibili tutti quelli in cui l'adempimento personale da parte dell’obbligato è determinante o a causa del contenuto personale della prestazione o, più facilmente, perché si tratta di obblighi di astensione: tutti gli obblighi di astensione sono infungibili. Es. + Tizio, in virtù della normativa sulla concorrenza sleale, è obbligato a non commercializzare certi prodotti, che ingenerano confusione con quelli di Caio. È evidente che nessuno, tranne Tizio, è in grado di tenere quel comportamento: o meglio, l’astensione di Tizio è infungibile. Esecuzione indiretta Quando si è in presenza di obblighi infungibili, si rende necessaria l’esecuzione indiretta: occorre indurre l’obbligato ad adempiere, e ciò può essere ottenuto prevedendo che l’obbligato inadempiente vada incontro a conseguenze negative per lui più onerose dell’adempimento. Queste conseguenze possono essere civili o penali: ® Si ha esecuzione indiretta con misure coercitive civili allorquando sia previsto che a carico dell’inadempiente, una volta verificatisi i presupposti della tutela esecutiva, sorge l’obbligo di pagare una certa somma di denaro per ogni ulteriore periodo di inerzia o per ogni ulteriore violazione del dovere di astensione. La somma è quindi determinata con riferimento ad una unità temporale (giorno, settimana, mese) per l'inadempimento di obblighi di fare, e con riferimento ad ogni illecito commesso per la violazione degli obblighi di astensione. Il beneficiario delle somme versate può essere lo Stato (o un ente pubblico), o la controparte. ® Si ha esecuzione indiretta con misure coercitive penali allorquando sia previsto che, verificatisi i presupposti della tutela esecutiva, gli ulteriori inadempimenti dell’obbligato integrano una ipotesi di reato. Questa tecnica è utilizzata in Germania e in Inghilterra. Nel nostro ordinamento, oltre ad un’esecuzione indiretta generalizzata per tutte le prestazioni diverse dal pagamento di una somma di denaro (art. 614-bis), il legislatore qua e là prevede ipotesi specifiche di esecuzione indiretta, talvolta adottando la tecnica civilistica e talaltra quella penalistica. Dal punto di vista dell’efficienza non vi è dubbio che l’esecuzione diretta garantisce maggiormente il raggiungimento del risultato voluto. L'esecuzione indiretta in astratto potrebbe essere usata sia per gli obblighi infungibili che per quelli fungibili, ma di solito è utilizzata prevalentemente per quelli infungibili, perché come tecnica esecutiva ha degli inconvenienti: a. Gli strumenti coattivi operano sulla volontà dell’obbligato, e quindi possono essere inefficaci, ove l’obbligato sia particolarmente determinato a non adempiere. Es. > È divenuto famoso il caso di un soggetto che, condannato a prestare il consenso al divorzio (in un ordinamento che prevede solo il divorzio consensuale), preferì rimanere diversi anni in carcere, ma non dette mai il suo consenso. b. Lo strumento coattivo di natura penale costituisce un ulteriore appesantimento per una giurisdizione, quella penale, che è già sovraccarica, e che spesso, proprio a causa di questo sovraccarico, non riesce ad applicare la sanzione. c. Lo strumento coattivo di natura civile è un’arma spuntata nei confronti di chi non ha un patrimonio con cui rispondere dell’obbligazione pecuniaria. Es. + Tizio ha un vicino di casa, Caio, che di notte suona la tromba. Nonostante sia stato condannato a non suonare la tromba dopo le 23, Caio continua imperterrito nei suoi concerti nottumi. Il giudice dell’esecuzione commina allora una sanzione pecuniaria di 100 € per ogni volta che Caio suona la tromba dopo le 23. Se Caio non ha un patrimonio con cui rispondere dell’obbligazione, la sanzione non serve a niente. In direzione speculare, l’esecuzione indiretta non serve se l’obbligato ha un patrimonio talmente ingente, da essere insensibile al pagamento della somma. Inoltre, se la somma dovuta va alla controparte, è necessario porre un limite massimo ad essa, per evitare che si verifichi un ingiustificato arricchimento dell’avente diritto. 5 Questo inconveniente è evitato se si prevede una misura coercitiva, nella quale le somme pagate dall’inadempiente vadano alla collettività, invece che all’avente diritto. Ci dobbiamo ora chiedere cosa accada nelle ipotesi in cui l’esecuzione indiretta sia utilizzata per un diritto, accertato poi inesistente. Es. + Tizio licenza il dipendente Caio, che è anche sindacalista. Caio impugna il licenziamento, vince in primo grado ed ottiene dal giudice l’ordine di reintegrazione. Tizio non reintegra Caio, e quindi è costretto a pagare al fondo adeguamento pensioni 5.000 €. In sede di impugnazione, la domanda di Caio è rigettata con sentenza passata in giudicato. Che ne è dei 5.000 €? Le soluzioni astrattamente possibili sono due. e Daunlato, si può affermare che, ai fini della sussistenza dell’illecito, basta il mero dato della inottemperanza, essendo del tutto irrilevante la sorte che il provvedimento inottemperato ha nelle ulteriori fasi del processo; ® Dall’altro lato, si può affermare che, ove nelle successive fasi del processo si accerti che il comportamento era lecito, viene meno l’illecito. Non si commette alcun illecito, rimanendo inottemperanti ad un provvedimento riconosciuto ingiusto, nella sede prevista appositamente per sindacarne la conformità al diritto. Solo la seconda soluzione è conforme ai principi costituzionali, che sul punto sono molto chiari: non si può sanzionare l’inottemperanza ad un provvedimento autoritativo, che sia dichiarato illegittimo o inefficace nelle sedi previste dall’ordinamento. Es. > Una legge stabilisce che chi critica il Capo dello Stato paga una multa. Durante il processo che ha ad oggetto l’applicazione della sanzione pecuniaria, viene sollevata questione di legittimità costituzionale, e la norma viene dichiarata illegittima. Il soggetto, che ha criticato il Capo dello Stato, non può più subire la sanzione, perché la caducazione della norma ha effetto retroattivo. In casi simili, l’interessato ha il diritto di non ottemperare al provvedimento autoritativo che è stato dichiarato illegittimo; ed ha diritto anche a non essere sanzionato per la mancata ottemperanza, iacché la sua inottemperanza era secundum ius. E evidente allora che l’unica soluzione che rispetta i principi costituzionali è la seconda: se il giudice, nella sede competente, dichiara che chi ha subito l’esecuzione indiretta aveva il diritto di tenere oppure di non tenere il comportamento a lui rispettivamente vietato o imposto, allora ha fatto bene quel soggetto a non ottemperare all’ordine del giudice: egli aveva il diritto di non ottemperare. Quindi, una volta riformato il provvedimento, cade la sanzione penale e, se si tratta di sanzione civile. le somme pagate gli devono essere restituite. Obbligo inadempiuto e tecniche di tutela L’esecuzione diretta deve diversamente strutturarsi a seconda del tipo di comportamento che deve sostituire. Abbiamo così, nel nostro sistema, tre diverse tecniche di tutela esecutiva diretta: 1. L’espropriazione forzata, per i crediti di danaro; 2. L’esecuzione per consegna o rilascio, per il trasferimento del potere di fatto su beni mobili o immobili; 3. L’esecuzione per obblighi di fare, in via residuale, per tutti i comportamenti diversi dai due inora, e che siano fungibili. Se il comportamento da sostituire è infungibile, si fuoriesce dalla sfera di utilizzabilità dell’esecuzione diretta, e si deve passare all’esecuzione indiretta. Questa, peraltro, è utilizzabile anche per gli obblighi fungibili diversi dal pagamento di somme di denaro. Capitolo 3 I presupposti e il contenuto delle misure giurisdizionali esecutive Presupposti della tutela dichiarativa Dal punto di vista generale esiste una differenza fondamentale fra la tutela dichiarativa e la tutela esecutiva. Infatti, i presupposti perché si metta in moto la macchina processuale, perché divenga doverosa l’attività dell’ufficio giurisdizionale, sono nettamente diversi nell’una e dell’ipotesi. Il presupposto della tutela dichiarativa è costituito dalla semplice affermazione, da parte di chi richiede tale tutela giurisdizionale, che esiste una situazione sostanziale che ha bisogno di quel tipo di tutela; in altri termini, affinché nel processo cognitivo si possa giungere alla emanazione della sentenza che determina i comportamenti leciti e doverosi delle parti, è sufficiente che sia affermata l’esistenza di una situazione sostanziale e che per tale situazione sia richiesta una tutela dichiarativa. L’unico limite che si incontra è quello dell’interesse ad agire: non si ha diritto di chiedere una tutela dichiarativa, quando ciò che si chiede non è utile, oppure può essere ottenuto per altra via. Tuttavia, se è vero che è sufficiente affermare l’esistenza del diritto, di cui si chiede la tutela dichiarativa, per ottenere dal giudice la sentenza, è anche vero (e qui sta la prima rilevante differenza tra tutela dichiarativa e tutela esecutiva) che la sentenza, che il giudice dovrà emettere sulla base della sola richiesta, può essere di contenuto positivo o negativo per il richiedente. Può essere, quindi: ® Una sentenza che dà ragione all’attore e tutela la situazione sostanziale da lui affermata; e Una sentenza che dà torto all’attore, negandogli la tutela richiesta. Quindi: nel processo di cognizione, sulla base della sola affermazione dell’esistenza della situazione sostanziale, rispetto alla quale si chiede di determinare le regole di condotta, il giudice deve emettere la sentenza; tuttavia niente assicura che tale sentenza dia le regole di condotta che l’attore invoca. Rigetto in rito Nel processo di cognizione, il giudice potrà emettere una sentenza con cui dichiara che non esistono le condizioni processuali per dare le regole di condotta relative al diritto dedotto in giudizio. Le sentenze di rito sono, infatti, provvedimenti che il giudice emette quando è carente anche una sola delle condizioni affinché possa scendere all’esame del merito. Accoglimento e rigetto nel merito Una volta che si sia superato positivamente l’esame delle condizioni per la pronuncia di merito, ecco che il contenuto della sentenza di merito si bipartisce: ® Da un lato, avremo la sentenza di merito con cui si accoglie la domanda e si dà la tutela richiesta, in quanto si accerta esistente il diritto dedotto in giudizio; e Dall’altro, avremo una sentenza di merito con cui si rigetta la domanda, in quanto si accerta che non esiste il diritto meramente affermato dall’attore. Il fatto che la pronuncia di merito possa avere, nel processo di cognizione, un contenuto positivo o negativo, è un fenomeno strettamente collegato al fatto che, per giungere a tale sentenza, è sufficiente che l’attore si limiti ad affermare che esiste il diritto, proprio perché l’attività da compiere prima di giungere alla sentenza di merito è quella di raccogliere tutto il materiale necessario per decidere se quel diritto esiste o meno. È quindi evidente che, essendo scopo del processo di cognizione proprio determinare le regole di condotta relative ad un certo bene della vita giuridicamente protetto, per mettere in moto il processo è sufficiente che l’attore affermi esistente il proprio diritto. Presupposti della tutela esecutiva Nel processo esecutivo, perché si possa giungere alla emanazione della misura giurisdizionale esecutiva, non è affatto sufficiente che il creditore procedente si affermi titolare di un diritto che, per essere soddisfatto, necessita dell'adempimento della controparte; sono necessarie ulteriori condizioni, oltre all’affermazione del diritto e alla sussistenza dei presupposti processuali. La certezza consiste nell’individuazione del bene oggetto dell’intervento esecutivo e del “fare” che deve essere compiuto. L’individuazione di ciò che deve essere compiuto non è necessaria nella consegna o rilascio, perché è già tipizzata dal legislatore: si tratta sempre del trasferimento della materiale disponibilità di un bene mobile o immobile. L’esecuzione per obblighi di fare non è invece tipizzata dal legislatore e quindi il titolo esecutivo deve contenere l’individuazione non solo del bene su cui si deve operare, ma anche del tipo di intervento necessario. Anche l’esecuzione per obblighi di omettere non è tipizzata dal legislatore. L’espressione “diritto liquido” si riferisce essenzialmente ai crediti relativi a somme di denaro ed è l’equivalente della certezza riferita ai diritti su beni individuati; il credito che spetta deve essere quantificato numericamente, direttamente nel titolo esecutivo, oppure quantificabile con operazioni matematiche sulla base di elementi contenuti nello stesso titolo. La liquidità, pertanto, sussiste: o Sia quando la somma dovuta è giù numericamente quantificata nel titolo esecutivo; o Sia quando il titolo esecutivo contiene gli elementi per poter calcolare numericamente la somma dovuta con operazioni matematiche. Più incerta è la disciplina della rivalutazione. La condanna alla rivalutazione è certamente calcolabile con un’operazione matematica, perché basta moltiplicare il tasso di inflazione per il capitale. Il problema è che il tasso di inflazione di solito non risulta del titolo esecutivo. La giurisprudenza fa una eccezione per il titolo esecutivo giudiziale (Cass. n. 11066/2012). Prendendo spunto dal fatto che, in materia di efficacia dichiarativa della sentenza, per chiarire la portata precettiva della stessa pacificamente si può fare riferimento ad elementi esterni ed extratestuali, non desumibili dal titolo, ma risultanti dagli atti del processo, la cassazione ha esteso la stessa regola anche al titolo esecutivo giudiziale. Un’altra rilevantissima eccezione alla regola della liquidità è costituita dall’art. 614-bis c.p.c. Il diritto esigibile significa non sottoposto a termine o condizione (sospensiva). Ovviamente il dato dell’esigibilità non deve essere riferito al momento della formazione del titolo ma al momento dell’esecuzione forzata. Es. + La sentenza di condanna del conduttore al rilascio del bene con effetto dal 1.1.2019 dà un diritto esigibile da tale data. Nel momento in cui è pronunciata la sentenza, il diritto non è esigibile, però diventa tale col decorso del termine; alla data indicata è possibile richiedere la tutela esecutiva. Una ipotesi di non esigibilità è prevista dall’art. 478 c.p.c., quando l’efficacia del titolo esecutivo è subordinata alla prestazione di una cauzione. In taluni casi il giudice può emettere un provvedimento che ha efficacia esecutiva, subordinando l’esecutività dello stesso al fatto che il creditore presti una cauzione. In questi casi, secondo l’art. 478, “non si può iniziare l’esecuzione forzata finché questa non sia stata prestata”. Analogamente dispone l’art. 669-novies, co. 3, con riferimento ai provvedimenti cautelati. La cauzione, quindi, non costituisce requisito per l’emanazione del provvedimento, bensì presupposto dell’efficacia esecutiva dello stesso. Titoli esecutivi: titoli giudiziali, scritture private e titoli di credito, atti pubblici Il secondo comma dell’art. 474 c.p.c. elenca i titoli esecutivi, suddividendoli in tre categorie: L Titoli giudiziali; 2. Scritture private e titoli di credito; 3. Atti pubblici. Titoli giudiziali La prima categoria è quella dei titoli esecutivi giudiziali. Sono tali le sentenze di condanna e non quelle di mero accertamento; quindi, le sentenze con le quali si condanna l’obbligato a tenere una certa prestazione. 10 Es. + Non è sentenza di condanna, e quindi non è titolo esecutivo, la pronuncia con cui, tra datore di lavoro e dipendente, si accerta che la retribuzione spettante al dipendente è di 2.000 € mensili. È sentenza di condanna e quindi titolo esecutivo la sentenza con cui si condanna il datore di lavoro a pagare 2.000 €. Tutte le sentenze di condanna, in qualunque sede emesse, hanno efficacia esecutiva. Ai titoli esecutivi giudiziali si possono ricondurre anche le ordinanze e i decreti. La riforma del 2006 ha aggiunto l’espressione “e gli altri atti” alle parole “le sentenze e i provvedimenti”. Con ciò si è voluto risolvere la vexata questio dell’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione giudiziale: la conciliazione è quel modo di chiusura del processo che si ha quando le parti si trovano d’accordo per una risoluzione consensuale della controversia; l’accordo è recepito nel verbale della causa, che viene sottoscritto in udienza dalle parti e dal giudice, e costituisce titolo esecutivo. Poiché, per talune forme di esecuzione, l’ordinamento prevede l’esistenza di un titolo esecutivo giudiziale, ci si chiedeva se tale verbale fosse titolo esecutivo giudiziale o stragiudiziale. La modifica introdotta nel 2006 ha eliminato ogni dubbio, equiparando il verbale di conciliazione ai titoli esecutivi giudiziali. E ciò del tutto opportunamente: se le parti, durante il processo di cognizione, si trovano d’accordo, è assurdo che il processo debba andare avanti soltanto al fine di far recepire al giudice nella sua sentenza il loro accordo, perché altrimenti il verbale di conciliazione non sarebbe idoneo come titolo esecutivo. Ciò costituirebbe un assurdo spreco di attività processuale. Scritture private e titoli di credito La seconda categoria di titoli esecutivi è costituita dalle scritture private autenticate e dai titoli di credito: le cambiali, gli assegni e gli altri titoli ai quali la legge attribuisce la stessa efficacia. Le scritture private autenticate costituiscono titolo esecutivo relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essi contenute. Quindi non tutti gli obblighi contenuti in una scrittura privata sono suscettibili di dare luogo all’esecuzione forzata; lo sono soltanto gli obblighi relativi a somme di denaro. Pertanto le scritture private sono titoli esecutivi solo per l'espropriazione, e non per le altre forme di esecuzione forzata. Es. — Il contratto di compravendita, stipulato di fronte al notaio in forma di scrittura privata, è titolo esecutivo per l'obbligo del compratore di pagare il prezzo, e non lo è invece per l'obbligo del venditore di consegnare il bene: infatti, l’obbligo del compratore ha ad oggetto il pagamento di una somma, e quindi il contratto è titolo esecutivo; l'obbligo del venditore ha ad oggetto la consegna del bene, e quindi la scrittura privata non è sotto questo aspetto titolo esecutivo. Quando l’art. 474 parla di scrittura privata fa riferimento non solo ai contratti, ma anche agli atti unilaterali (ad es., alle promesse di pagamento e alle ricognizioni di debito). Per quanto riguarda i titoli di credito, la legge sulla cambiale e quella sull’assegno prevedono che questi siano titoli esecutivi solo se in regola con il bollo fin dal momento della loro emissione. Se non sono in regola con il bollo, valgono come titoli di credito, però non hanno efficacia esecutiva. Atti pubblici La terza categoria di titoli esecutivi è costituita dagli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli. L’atto pubblico costituisce titolo esecutivo anche in relazione all’esecuzione per consegna e rilascio. Es. + Il contratto di compravendita, se stipulato di fronte al notaio per atto pubblico, costituisce titolo esecutivo sia a favore del venditore che dell’acquirente. Altri titoli esecutivi Vi sono centinaia di altri titoli esecutivi che il legislatore individua qua e là, in tutta una miriade di leggi speciali. L'efficacia di titolo esecutivo deve essere prevista espressamente dal legislatore e non può essere attribuita in via di interpretazione analogica. Fra le varie fattispecie di titolo esecutivo, mette conto segnalarne alcune: 11 ® Unadiesse, sempre più spesso prevista dal legislatore, è la conciliazione stragiudiziale, cioè quel procedimento che è volto a favorire una soluzione negoziale della controversia. Proprio a questo scopo il legislatore attribuisce all’accordo, raggiunto nelle sedi conciliative che lo stesso legislatore indica, l’efficacia piena di titolo esecutivo. Infatti, il verbale di conciliazione, autenticato dai legali che hanno assistito le parti oppure munito dell’exequatur della tribunale, costituisce titolo esecutivo “per l'espropriazione forzata, per l'esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale”. e L'art. 12 del dlgs. n. 124/2003 prevede che, ove il personale delle direzioni provinciali del lavoro, in occasione dello svolgimento della loro attività di vigilanza, verifichi l’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di disposizioni dal cui scaturisce la sussistenza di crediti a favore del lavoratore, diffida lo stesso datore di lavoro a corrispondere quanto dovuto. Tale diffida, decorsi 30 giorni senza che sia stato trovato un accordo fra datore di lavoro e lavoratore, acquista efficacia di titolo esecutivo a favore del lavoratore per le somme ivi indicate La particolarità di questa fattispecie di titolo esecutivo sta nel fatto che qui l’atto amministrativo della P.A. costituisce titolo esecutivo non già a favore della P.A. stessa, bensì a favore di un terzo. Fondamento del titolo esecutivo Ci dobbiamo chiedere perché il legislatore individua certe fattispecie, e non altre, come costitutive del diritto alla tutela esecutiva. Irrilevanza della certezza In dottrina è prevalente l’opinione che riconduce il comune denominatore dell’efficacia esecutiva di certi atti a ciò che questi atti darebbero certezza all’esistenza del diritto da tutelare; si afferma che il legislatore attribuisce efficacia esecutiva a certi atti, e non a certi altri, in ragione dell'efficacia di accertamento propria degli uni, e non anche degli altri. In pratica la dottrina prevalente dice: poiché il diritto da tutelare deve esistere, essenziale per avere il diritto alla tutela esecutiva è un accertamento dell’esistenza del diritto da tutelare. Tale accertamento scaturisce dagli atti indicati nell’art. 474 c.p.c., mentre non scaturisce da altri atti, ai quali il legislatore nega appunto l’efficacia esecutiva, perché non danno sufficiente certezza dell’esistenza del diritto sostanziale da tutelare. Questa impostazione non convince. Non c’è dubbio che l’atto, al quale il legislatore attribuisce efficacia esecutiva, può fornire una sufficiente certezza dell’esistenza del diritto da tutelare. Però la certezza dell’esistenza del diritto da tutelare non è l’elemento fondamentale, unificante che sta alla base della scelta del legislatore per l’individuazione dei titoli esecutivi, e quindi per la concessione della tutela esecutiva. In realtà, ciò che conta è che il legislatore ritenga per vari motivi meritevole di tutela esecutiva una certa situazione sostanziale. Una situazione sostanziale può essere ritenuta meritevole di tutela esecutiva per varie ragioni: ® Quando il diritto è sufficientemente certo; ® Quando il diritto appartiene a un ente pubblico o previdenziale; ® Quando il diritto appartiene ad un soggetto che abbia necessità di rapida tutela esecutiva; ® Quandosi vogliono raggiungere fini fiscali. Un esempio lo possiamo trarre dall’art. 474, n. 2, c.p.c. I titoli di credito hanno efficacia esecutiva solo se bollati fin dal momento della loro emissione. Ora, non è certo una marca da bollo sulla cambiale o sull’assegno che dà certezza dell’esistenza del diritto; qui la ragione sta nel fatto che il legislatore vuole incassare i proventi dell’imposta di bollo anche sui titoli di credito che non saranno utilizzati come titolo esecutivo, e quindi dà loro efficacia esecutiva solo se hanno il bollo fin dall’origine. Piuttosto, i titoli di credito sono scritture private la cui sottoscrizione non è necessariamente autenticata da un pubblico ufficiale, e pertanto non danno certezza della loro provenienza. 12 Ciò può essere agevolmente ricavato dall’art. 96, II c.p.c., in base al quale si può fruire della tutela esecutiva, e tuttavia essere obbligati al risarcimento dei danni, se non esiste il diritto, di cui si è richiesta la tutela esecutiva. Dobbiamo quindi distinguere: e Il piano del diritto processuale alla tutela esecutiva, che si fonda esclusivamente sulla fattispecie enunciata nell’art. 474 c.p.c.; e La liceità dell’attività esecutiva sul piano del diritto sostanziale: la liceità dipende dalla esistenza del diritto che si vuole tutelare e non dall’esistenza del diritto alla tutela esecutiva. È quindi possibile una utilizzazione illecita della tutela esecutiva. Infatti, dal momento che i risultati dell’esecuzione forzata non sono leciti per il solo fatto che sono prodotti da uno strumento giurisdizionale, ciò significa che l’esecuzione forzata può essere utilizzata per produrre un effetto contrario al diritto sostanziale e che, quindi, chi la utilizza commette un illecito dal punto di vista del diritto sostanziale. Né sembri strano che colui che fa uso di un diritto possa commettere un illecito. Di fatti, altro è il diritto alla tutela (che è un diritto processuale verso lo Stato), altro è il diritto da tutelare (che è un diritto sostanziale verso la controparte). Se l’esistenza del primo prescinde dall’esistenza del secondo; se quindi ha diritto di ottenere la tutela esecutiva anche chi non ha un diritto sostanziale da tutelare; da ciò consegue che chi ha fatto uso di uno strumento, messogli a disposizione dallo Stato, per tutelare diritti inesistenti, ha commesso un illecito sul piano del diritto sostanziale. La tutela esecutiva è come un’arma che lo Stato fornisce: chi la usa male, ne risponde sul piano del diritto sostanziale. Titolo esecutivo in senso sostanziale e titolo esecutivo in senso documentale Dobbiamo distinguere le nozioni di: e Titolo esecutivo in senso sostanziale; e Titolo esecutivo in senso documentale. Titolo esecutivo in senso sostanziale Per “titolo esecutivo in senso sostanziale” si intende la fattispecie da cui sorge l’effetto giuridico di rendere tutelabile in via esecutiva una situazione sostanziale protetta. Il titolare di questa situazione ha diritto all’intervento degli organi giurisdizionali, che hanno l’obbligo di attivarsi. Nel rapporto istante-organi esecutivi (di diritto processuale), l’esistenza di untitolo esecutivo in senso sostanziale fa si che vi sia una pretesa fondata dell’istante ed un dovere di comportamento dell’organo esecutivo: l’istante ha diritto alla tutela esecutiva e l’ufficio esecutivo ha il dovere di attivarsi. Invece, nel rapporto istante-esecutato (di diritto sostanziale), il titolo esecutivo non è idoneo a modificare la situazione di diritto sostanziale ed a rendere lecito un intervento esecutivo che, se doveroso sul piano processuale, è illecito sul piano del diritto sostanziale. Il titolo esecutivo in senso sostanziale costituisce un istituto di diritto processuale ed è costituito dalla fattispecie da cui sorgono il diritto dell’istante ad ottenere la tutela esecutiva ed il dovere dell’ufficio esecutivo di attivarsi per fornire la tutela esecutiva. Anche questa fattispecie è composta di elementi che possiamo distinguere in due settori: e Elementicostitutivi: l’effetto si produce, allorché è completa la fattispecie costitutiva. Nasce allora, a favore del titolare del diritto, la pretesa esecutiva, il diritto processuale ad ottenere la tutela esecutiva e il dovere dell’ufficio esecutivo di prestare la propria attività. e Elementiimpeditivi, modificativi, estintivi: in loro presenza, l’effetto giuridico, pur quando si sia completata la fattispecie esecutiva, o non sorge (effetti impeditivi), oppure, una volta sorto, si modifica o si estingue. Titolo esecutivo in senso documentale Il “titolo esecutivo in senso documentale” è un documento che rappresenta in modo non completo la fattispecie del diritto a procedere ad esecuzione forzata. 15 È una rappresentazione parziale della fattispecie del titolo esecutivo in senso sostanziale, perché tale rappresentazione può essere carente di un fatto costitutivo. Es. + Manca costantemente nel titolo esecutivo in senso documentale l'eventuale decorso del termine, che è fatto costitutivo del diritto a procedere ad esecuzione forzata. AI di là dell’ipotesi in cui eccezionalmente nel titolo esecutivo in senso documentale manca la rappresentazione anche di un fatto costitutivo del diritto di procedere ad esecuzione forzata, la principale divergenza fra titolo esecutivo in senso documentale e titolo esecutivo in senso sostanziale si verifica nel settore dei fatti estintivi e modificativi del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Es. +» Nella sentenza di primo grado sono documentati solo i fatti costitutivi del diritto di procedere ad esecuzione. Ma il titolo esecutivo in senso documentale non può riportare l'eventuale sospensione dell’esecuzione da parte del giudice d’appello; oppure la riforma della sentenza di primo grado in sede d’appello; oppure la dilazione concessa dal creditore al debitore. Questi, ed altri, sono elementi successivi alla formazione del documento, e come tali in nessun modo possono essere rappresentati nel titolo esecutivo in senso documentale. Tali elementi sono tuttavia rilevanti per l’esistenza del titolo esecutivo in senso sostanziale, cioè del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Allorché le norme parlano di “titolo esecutivo”, dobbiamo quindi distinguere a seconda che si riferiscano al titolo esecutivo in senso sostanziale o al titolo esecutivo in senso documentale. e Nell’art. 474, co. 1, il legislatore si riferisce al titolo esecutivo in senso sostanziale, e quindi alla fattispecie del diritto di procedere ad esecuzione forzata, completa dei suoi elementi costitutivi, impeditivi, estintivi e modificativi. e Ma nell’art. 475, co. 1, il legislatore, prescrivendo che il documento deve essere redatto secondo certe modalità e avere certi contenuti, si riferisce al pezzo di carta rappresentativo del diritto di procedere ad esecuzione forzata, e non all’attuale esistenza o meno di tale diritto: e quindi si riferisce al titolo esecutivo in senso documentale. Funzione del titolo in senso documentale L’ordinamento ha creato la figura del titolo esecutivo in senso documentale per rendere edotto l’ufficio esecutivo del diritto di procedere ad esecuzione forzata, semplificando le operazioni cognitive che l’ufficio esecutivo deve compiere per rendersi conto se il soggetto, che la chiede, ha diritto alla tutela esecutiva. La semplificazione della cognizione dell’ufficio esecutivo si attua onerando il soggetto, che richiede l’intervento dell’ufficio esecutivo, di fornire la prova documentale dell’esistenza dei fatti costitutivi del diritto alla tutela esecutiva. La prova documentale degli elementi costitutivi della fattispecie consente di escludere indagini complesse dell’ufficio. Se vi sono divergenze fra titolo esecutivo in senso documentale e titolo esecutivo in senso sostanziale, l’esecutato può reagire e far valere l’inefficacia del titolo esecutivo, e cioè l’attuale inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata. L’ufficio esecutivo si limita quindi a constatare l’esistenza del titolo esecutivo in senso documentale e sulla base di ciò deve procedere, salva un’opposizione della controparte che porti ad una cognizione piena del titolo esecutivo in senso sostanziale. Spedizione in forma esecutiva Per individuare i titoli esecutivi in senso documentale, occorre distinguere: ® Le ipotesi di scritture private autenticate e titoli di credito (art. 474, co. 2): in tal caso, il titolo esecutivo in senso documentale è rappresentato dall’originale del titolo esecutivo stesso. ® Le ipotesi di provvedimenti giudiziali e atti pubblici (art. 474, co. 1 e 3): in tal caso, l’originale dell’atto resta custodito dal pubblico ufficiale che lo ha formato. Il titolo esecutivo in senso documentale non è quindi costituito dall’originale dell’atto, ma da una copia di esso. Siccome il titolo esecutivo in senso documentale è una copia, c’è il pericolo che entrino in circolazione una pluralità di titoli esecutivi in senso documentale. 16 Per le scritture private autenticate e per i titoli di credito, invece, il problema non si pone, perché essi sono titoli esecutivi documentali in originale e quindi ve ne può essere uno solo. Il pericolo che vi siano in circolazione più titoli esecutivi documentali, costituiti da copie di sentenze e atti pubblici, è fronteggiata attraverso il meccanismo della spedizione in forma esecutiva ex art. 475 c.p.c. Tale meccanismo consiste nell’identificare la copia dell’atto, che costituisce titolo esecutivo in senso documentale, attraverso l’apposizione della formula riportata dall’art. 475, co. 2 e nel differenziarla così dalle altre eventuali copie. che il pubblico ufficiale può rilasciare. La stessa disciplina si applica anche alle scritture private il cui originale, per obbligo di legge o volontà delle parti, resta depositato presso il notaio che le ha autenticate. Formula esecutiva Le parole, che connotano la spedizione in forma esecutiva (art. 475, co. 3), costituiscono un reperto di archeologia giuridica del nostro sistema processuale. La formula esecutiva veniva utilizzata prima della codificazione napoleonica, quando l’esecuzione forzata era attività amministrativa e non giurisdizionale. La pronuncia del giudice, per poter essere esecutiva, doveva venire recepita dalla pubblica amministrazione, divenendo così un atto amministrativo. La ricezione avveniva con quel “comandiamo” che, all’epoca, costituiva un ordine non del cancelliere o del notaio, ma del funzionario amministrativo che, in nome o per conto del re, comandava agli altri funzionari, suoi colleghi, di dare attuazione al titolo. In quel sistema, la spedizione in forma esecutiva aveva lo scopo di consentire l’esecuzione forzata, creando un ponte fra la pronuncia del giudice (che costituiva esercizio di potere giurisdizionale), e l’attività esecutiva (che costituiva esercizio di potere amministrativo). Poi l’esecuzione forzata è diventata attività giurisdizionale; è rimasta la formula, però con funzione diversa: contrassegnare l’unica copia dell’atto esecutivo che può fungere da titolo esecutivo in senso documentale. Eccessività delle cautele Di fronte ai problemi relativi alla documentazione del diritto a procedere ad esecuzione forzata, quelle dell’art. 475 c.p.c. sono cautele eccessive, perché il pericolo che vi siano in circolazione una pluralità di titoli esecutivi in senso documentale è di scarsa rilevanza, rispetto al fatto che in qualunque momento, anche quando il titolo ha perso efficacia esecutiva, la parte può andare dal cancelliere o dal notaio e ottenere una copia della pronuncia e dell’atto, e con questa iniziare l’esecuzione forzata, obbligando l’esecutato ad opporti all’esecuzione. In altri termini: l’ordinamento si preoccupa che non vi siano in circolazione più titoli esecutivi documentali dello stesso titolo esecutivo in senso sostanziale, ma non si preoccupa di far risultare dall’originale dell’atto le vicende successive attinenti all’efficacia esecutiva dello stesso. Effetti della spedizione in forma esecutiva La spedizione in forma esecutiva non ha alcuna incidenza sul diritto di procedere ad esecuzione forzata. Se un atto ha efficacia esecutiva, la mantiene anche se il titolo esecutivo in senso documentale manca della formula esecutiva. Il diritto a procedere ad esecuzione forzata s e ugualmente, anche se è malamente esercitato. Se, viceversa, ad un atto che non è titolo esecutivo viene per errore apposta la formula esecutiva, il creditore non acquista per ciò solo il diritto di procedere all’esecuzione forzata (e quindi sarà fondata un’opposizione all’esecuzione). 17 e Daunlato, se nega l’efficacia, a favore del successore, del titolo esecutivo esistente a favore del dante causa, rende inevitabile l’instaurazione di un processo di cognizione fra avente causa e debitore, al solo fine di formare un titolo esecutivo diretto fra costoro. In tale processo di cognizione vi sarebbe solo da accertare l’effettiva esistenza del fatto successorio, in quanto l’altro elemento della fattispecie del diritto oggetto del processo (e cioè l’esistenza del diritto pregiudiziale) è già contenuto nell’atto-titolo esecutivo, che è efficace nei confronti del successore. ® Dall’altro lato, se l’ordinamento afferma l’efficacia, a favore del successore, del titolo esecutivo esistente a favore del dante causa, rende concreto il rischio che l’esecuzione sia iniziata da chi non è effettivamente un successore. Di fronte a tali due rischi contrapposti, il nostro ordinamento sceglie il secondo, rimettendo l’iniziativa dell’accertamento della qualità di successore all’eventuale contestazione dell’esecutato. Se l’esecutato non si oppone, non c’è contestazione e viene evitato un processo di cognizione che sarebbe stato inutile, perché non sarebbe intervenuto a risolvere alcuna controversia. Nell’eventuale processo di opposizione spetta al creditore dimostrare ciò che ha affermato al momento in cui ha chiesto la spedizione del titolo esecutivo: e cioè la sua qualità di successore di colui che risulta creditore secondo il titolo esecutivo. Efficacia contro gli eredi Sulla base dell’art. 477 c.p.c., il titolo esecutivo contro il de cuius ha efficacia contro gli eredi. Sul piano sostanziale si ha una situazione analoga, ma rovesciata, rispetto a quella prevista dall’art. 475: si ha la successione nell’obbligo. L’erede è titolare di un obbligo connesso per pregiudizialità dipendenza con l’obbligo del de cuius. Prova della successione L’art. 477 non impone al creditore di provare che l’esecutato è effettivamente l’erede. È sufficiente che colui, che vuole procedere ad esecuzione forzata, affermi che l’esecutato è l’erede di colui che risulta debitore secondo il titolo esecutivo. Eventuali false dichiarazioni del creditore sono fronteggiabili dall’esecutato con l'opposizione all’esecuzione e l’onere della prova della qualità di erede è a carico di chi procede ad esecuzione forzata. Funzione dell’ efficacia contro gli eredi La funzione della norma è quella di evitare al creditore la necessità di instaurare un processo di cognizione per far accertare la qualità di erede dell’esecutato. Sarebbe un processo inutile, se l’esecutato non contestasse la propria qualità di erede; diviene necessario soltanto se la contestazione è effettuata. Un accertamento preventivo costituirebbe un’inutile spendita di attività, ed una perdita di tempo, perché sarebbe rivolto ad accertare qualcosa (la qualità di erede dell’esecutato) che potrebbe non essere contestata. Successione a titolo particolare nell’ obbligo Al contrario dell’art. 475, che ricomprende qualsiasi ipotesi di successione, l’art. 477 prevede non qualunque ipotesi in cui si crea un nesso di dipendenza tra l’obbligo contemplato nel titolo esecutivo e l’obbligo di cui è titolare il terzo, contro il quale il titolo esecutivo viene utilizzato e che diviene oggetto dell’esecuzione, ma solo una delle tante ipotesi che generano tale dipendenza: la successione a titolo universale. Ma la previsione dell’art. 477 è estensibile analogicamente a tutte le altre ipotesi di successione, in quanto sussiste l’eadem ratio. Infatti, la relazione esistente fra l'obbligo pregiudiziale di cui al titolo esecutivo e quello dipendente del terzo è identica vuoi nell’ipotesi di successione universale, vuoi in tutte le altre ipotesi di successione a titolo particolare negli obblighi. Se concentriamo l’attenzione sul singolo obbligo rispetto al quale si verifica la successione, riscontriamo che non c’è alcuna diversità tra: 20 e Unasuccessione a titolo universale; e Qualunque altra ipotesi di successione nell’obbligo. Sia nell’uno che nell’altro caso, l’obbligo pregiudiziale è un elemento della fattispecie costitutiva dell’obbligo dipendente. È vero che l’erede, insieme all’obbligo consacrato nel titolo esecutivo, succede in tutti gli altri obblighi del de cuius. Ma ciò è del tutto irrilevante quando concentriamo l’attenzione su quel singolo obbligo consacrato nel titolo esecutivo: rispetto a quel singolo obbligo, il nesso che sussiste tra la situazione pregiudiziale e la situazione dipendente è lo stesso, vuoi che la successione dell’obbligo avvenga “solitaria”, a titolo particolare, vuoi che sia una delle mille oni che si verificano contemporaneamente tra il de cuius e l'erede. Le differenze tra la successione universale e la successione a titolo particolare non sono rilevanti per ciò che attiene alle relazioni di natura sostanziale esistenti fra l’obbligo pregiudiziale e l’obbligo dipendente. La restrittiva previsione dell’art. 477 ha ragioni storiche: essa si è mantenuta inalterata dal c.p.c. napoleonico, attraverso il nostro codice unitario, fino a quello attualmente vigente, nonostante siano venuti meno i presupposti, che all’epoca ne determinarono l’introduzione. Poiché la successione ereditaria dà luogo ad un fenomeno analogo alle altre ipotesi in cui si verifica la nascita di un obbligo dipendente da quello consacrato nel titolo, niente osta ad estendere la disciplina dell’art. 477, aldilà dell’ipotesi espressamente prevista, ai casi in cui si verifica lo stesso fenomeno sostanziale, cioè la nascita di un obbligo dipendente: naturalmente, a condizione che l’atto. che funge da titolo esecutivo, sia efficace nei confronti del titolare dell’obbligo dipendente. Riepilogando: il titolo esecutivo è utilizzabile da o contro un terzo quando costui è titolare di un diritto o di un obbligo dipendenti da quelli contenuti nel titolo esecutivo; ciò a condizione che l’atto, che funge da titolo esecutivo, abbia verso il titolare della situazione dipendente e con riferimento alla situazione pregiudiziale, gli stessi effetti che ha nei confronti del dante causa. Coincidenza soggettiva fra efficacia ed esecutività L’art. 2909 c.c. si applica quando è pronunziata una sentenza di condanna ed il terzo, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, diviene titolare di un diritto o di un obbligo dipendenti da quello oggetto della pronuncia stessa. L’art. 111 c.p.c. si applica quando lo stesso tipo di successione ha luogo nel corso del processo. In virtù dell’art. 1595 c.c., la sentenza pronunciata fra locatore e conduttore ha effetti anche contro il subconduttore. Es. + Il locatore ottiene una sentenza che obbliga il conduttore alla restituzione del bene. In virtù dell’art. 477, egli ha la tutela esecutiva anche contro il subconduttore. Se il terzo contesta di essere subconduttore, allora il locatore dovrà dimostrare che il terzo è veramente subconduttore. Un’altra ipotesi, che ricorre di frequente, è quella del socio illimitatamente responsabile di società di persone. Poiché la sentenza che accerta l’esistenza di un obbligo sociale è vincolante nei confronti del socio, il titolo esecutivo formato nei confronti della società consente di procedere ad esecuzione forzata anche nei confronti del socio illimitatamente responsabile. Una ulteriore fattispecie è data dall’art. 2495 c.c., in virtù del quale, dopo la cancellazione della società, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione. Orbene, se al momento della cancellazione un creditore aveva già un titolo esecutivo contro la società cancellata, può utilizzarlo contro i singoli soci. Titolo in senso sostanziale e titolo in senso documentale L’efficacia del titolo esecutivo a favore e contro terzi costituisce una ulteriore ipotesi di non coincidenza fra titolo esecutivo in senso sostanziale e titolo esecutivo in senso documentale. Nei casi in cui l’esecuzione a favore o contro terzi è consentita dall’ordinamento, dal titolo esecutivo in senso documentale utilizzato non risulta che il terzo, il quale pretende di utilizzare, o contro il quale 21 si pretende di utilizzare il titolo stesso, è effettivamente successore, e quindi non risulta neppure l’esistenza del diritto che si vuole vedere tutelato con l’esecuzione. Quando l’erede del creditore usa il titolo esecutivo esistente a nome del deceduto, oggetto del titolo esecutivo in senso documentale è il credito pregiudiziale del de cuius, ma la situazione sostanziale, oggetto dell’esecuzione e della quale l’erede chiede la tutela, è il suo diritto, e non quello del dante causa. Il titolo esecutivo in senso documentale contiene quindi la rappresentazione di una situazione sostanziale che sta a monte di quella oggetto dell’esecuzione. Legittimità costituzionale L'efficacia del titolo esecutivo a favore e contro terzi non comporta problemi di diritto di difesa e contraddittorio. L'efficacia della sentenza verso terzi deve essere rapportata al rispetto del diritto di difesa, perché vincolare al contenuto della sentenza un soggetto, che non è stato parte del processo di formazione della sentenza, in linea di principio costituisce lesione del principio del contraddittorio: nessuno può essere vincolato ad un provvedimento emesso senza che egli si sia potuto difendere. Nel caso dell’efficacia verso i terzi del titolo esecutivo tutto questo non accade, perché ciò che consegue a tale efficacia è la possibilità che un soggetto, estraneo al procedimento di formazione del titolo esecutivo, posso usare, o contro di lui possa essere usato, tale titolo esecutivo. Ma ciò non incide sul diritto di difesa, perché l’esecutato ha gli strumenti idonei per contestare la pretesa efficacia ultra partes del titolo esecutivo, con onere della prova a carico di chi afferma la sussistenza di tale efficacia. Non c’è mai il vincolo dell’esecutato alle affermazioni del creditore procedente; ci può essere, al contrario, una sorta di provocatio ad probandum da parte dell’esecutato, che può richiedere l’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 475 e 477, con l’opposizione all’esecuzione, che apre un ordinario processo di cognizione, e con onere della prova a carico dell’istante. Ne consegue che il legislatore è libero di creare ipotesi di efficacia del titolo esecutivo verso terzi. mentre non è libero nel creare ipotesi di efficacia della sentenza verso terzi. Rispetto a tale secondo fenomeno, egli è frenato dall’art. 24 Cost. e può vincolare i terzi agli effetti della sentenza solo se ciò non contrasta con l’art. 24 Cost. Nel primo caso, il legislatore è libero di articolare l’efficacia soggettiva del titolo esecutivo come meglio crede, trattandosi di una scelta di opportunità che non è vincolata da principi costituzionali. 22 Capitolo 8 La struttura generale del processo esecutivo Gli artt. da 483 a 490 c.p.c. sono redatti con riferimento all’espropriazione forzata, ma sono utilizzabili come parte generale del processo esecutivo, quindi anche con riferimento all'esecuzione in forma specifica. Funzione dell’ esecuzione forzata Come abbiamo già visto, l’esecuzione forzata non ha il compito di stabilire i diritti e gli obblighi delle parti: tale compito spetta al processo di cognizione. L'esecuzione forzata non interviene per stabilire autoritativamente quali comportamenti siano leciti e quali siano doverosi. Lo scopo dell’esecuzione forzata è di procurare la soddisfazione di diritti correlati ad obblighi non adempiuti, dando per scontata l’esistenza di tali diritti e obblighi. Sugli effetti delle misure giurisdizionali esecutive non si può formare il giudicato previsto dall’art. 2909 c.c. La preclusione alla possibilità di ridiscutere ciò che è stato soggetto del provvedimento giurisdizionale presuppone che la funzione esercitata sia stata proprio quella di statuire circa i diritti e gli obblighi delle parti, mentre tale funzione è assente dal processo esecutivo. Nel processo esecutivo non si parte da una situazione in cui bisogna stabilire cosa possono e debbono fare le parti, ma si dà per scontato che il diritto e l’obbligo esistano. La preclusione che rende incontrovertibili gli effetti dell’esecuzione forzata nasce dall’atto, in cui il titolo esecutivo consiste: i risultati dell’esecuzione trovano la loro stabilità solo e nei limiti in cui siano sorretti dalla preclusione propria dell’atto utilizzato come titolo esecutivo. Non è compito dell’esecuzione forzata accertare che l'adempimento coattivo sia dovuto sul piano del diritto sostanziale. Gli atti dell’ufficio esecutivo possono produrre, a favore di terzi, effetti rimuovibili solo certe condizioni (art. 2929 c.c.). Viceversa, è il risultato finale dell’esecuzione che l’ufficio esecutivo non può stabilizzare, perché la sua funzione non riguarda la giustizia dell’esecuzione rispetto al diritto sostanziale. Compito dell’esecuzione è far avere la prestazione, non anche accertare che tale prestazione è dovuta sul terreno del diritto sostanziale. Cognizione dell’ ufficio esecutivo L’ufficio esecutivo si muove accertando preventivamente la sussistenza dei presupposti per la propria attività, e quindi sulla base di una cognizione. Il termine “cognizione”, nell’accezione qui usata, non ha il significato di dichiarazione autoritativa delle regole di condotta delle parti, che costituisce la funzione della misura giurisdizionale nel processo dichiarativo. Nel processo esecutivo i soggetti interessati, prima di compiere una attività, fanno la ricognizione della situazione esistente per vedere se e come debbono agire. L’ufficio esecutivo, prima di emettere una misura esecutiva, fa la ricognizione della sussistenza dei presupposti per emetterla. Anche nel processo dichiarativo c’è una “cognizione”, ma questa è finalizzata a determinare i futuri comportamenti delle parti. È la diversa funzione svolta che dà ragione dei diversi effetti prodotti. Anche l’esecuzione forzata è strutturata in base a modalità che non sono tipiche della sola funzione dichiarativa ma sono proprie di ogni attività giurisdizionale, e cioè: ® Domanda della misura giurisdizionale; e Risposta dell’ufficio giurisdizionale. Ciò che è escluso dalla ricognizione dell’ufficio esecutivo è l'effettiva esistenza del diritto da tutelare. che è dato come esistente. Se qualcuno afferma che l’esecuzione non deve aver luogo, perché non esiste il diritto da tutelare, deve aprire un processo dichiarativo e portare tale controversia nella sede propria dell’accertamento del modo di essere di tale diritto. Le contestazioni relative all’esistenza del diritto da tutelare restano fuori dal processo esecutivo, perché riguardano un elemento che nel processo esecutivo è dato per presupposto. 25 Accertamento dei presupposti per la tutela L’ufficio esecutivo, dunque, di fronte alla domanda di tutela esecutiva, procede all’accertamento dei presupposti per la concessione della tutela stessa, e deve dare una risposta che sarà positiva o negativa. Nel processo dichiarativo, proprio perché esso ha la funzione the statuire sull’esistenza o più in generale sul modo di essere della realtà sostanziale, la risposta negativa del giudice va distinta in una risposta negativa di rito e in una risposta negativa di merito. Tali pronunce hanno effetti diversi: ® La risposta negativa di rito colloca i suoi effetti sul terreno processuale, non forma giudicato ex art. 2909 c.c., e non impedisce al soccombente di riproporre la domanda per chiedere la tutela dello stesso diritto sostanziale; e La risposta negativa di merito ha un’efficacia di merito che si riflette sul terreno del diritto sostanziale, e che forma giudicato impedendo al soggetto soccombente ad affermarsi titolare della situazione sostanziale che il giudice ha accertato inesistente. Il processo di cognizione, che ha funzione dichiarativa e struttura decisoria, è in grado, con la stessa forma e tecnica, di accertare vuoi la s stenza delle condizioni per la pronuncia di merito, vuoi il merito stesso. Nel processo dichiarativo le questioni di rito e quelle di merito vengono trattate e decise attraverso gli stessi istituti processuali. Contenuto delle misure giurisdizional Nel processo esecutivo le cose cambiano. Non essendo propria di tale processo la funzione di accertare il modo di essere della realtà sostanziale e non avendo il processo esecutivo una struttura idonea a decidere, le risposte dell’ufficio sono sempre due, ma quella negativa non si sottodistingue in rifiuto per ragioni di merito e di rifiuto per ragioni di rito, ma costituisce un unitario rifiuto di tutela giurisdizionale. Tale rifiuto ha sempre gli stessi effetti, qualunque siano le ragioni del rifiuto stesso: e ciò perché nell’esecuzione forzata manca la funzione di accertamento. Dal punto di vista funzionale, il processo esecutivo vede, come possibili, solo 2 risposte alla domanda di emanazione di una misura esecutiva: l’emissione o il rifiuto della misura richiesta. e Se l’ufficio esecutivo si convince che sussistono le condizioni per accogliere la domanda, emette il provvedimento; ® Sesi convince che manca una condizione per accogliere la domanda, rifiuta di emettere il provvedimento. Forma delle misure giurisdizionali Anche dal punto di vista della forma vi è differenza fra processo dichiarativo processo esecutivo. e Nel processo dichiarativo la forma del provvedimento è sempre la stessa, la sentenza, indipendentemente dal suo contenuto; e Nel processo esecutivo la forma può essere diversa a seconda che la risposta dell’ufficio esecutivo sia negativa o positiva. o Se l’ufficio esecutivo ritiene di dover rispondere positivamente alla richiesta, emette la misura esecutiva, che ha la forma prevista dalla legge. o Se l’ufficio esecutivo ritiene di rispondere negativamente, rifiuta di compiere l’atto che è stato richiesto. Il rifiuto è un non-provvedimento, che può avere forma diversa dal provvedimento. uestioni di rito Se l’interessato si lamenta del comportamento dell’ufficio, sostenendo che la misura coercitiva è stata illegittimamente rifiutata o concessa, la relativa controversia non può mai essere decisa nel processo esecutivo, come invece accade nel processo di cognizione. Nel processo esecutivo deve essere aperto un processo di cognizione incidentale. In quella sede si stabilirà se gli atti compiuti sono o meno conformi alla legge processuale. Il processo esecutivo non ha neanche la struttura idonea per risolvere le controversie che possono sorgere in ordine alle questioni processuali. 26 Mentre nel processo di cognizione le questioni di rito e di merito possono essere cumulate e risolte dallo stesso tipo di attività dell’organo giurisdizionale e delle parti, il processo esecutivo non è finalizzato a statuire circa il modo di essere della realtà sostanziale e quindi non è strutturato in modo idoneo a decidere neppure delle questioni processuali che possono sorgere al suo interno. Ciò non significa che non ci sia “cognizione” dell’organo esecutivo; questi, prima di emanare la misura giurisdizionale, deve pur sempre verificare la sussistenza dei presupposti previsti dalle norme. Solo che tale cognizione è strumentale ad un provvedimento che non ha funzione decisoria. L’ambito della cognizione degli organi del processo esecutivo ha la stessa portata. Il giudice dell’esecuzione si trova in una situazione non diversa da quella dell’ufficiale giudiziario e degli altri soggetti che compongono l’ufficio esecutivo. Presupposti processuali Le condizioni minime indispensabili per emettere una misura esecutiva equivalgono alle condizioni per la decisione del merito nel processo dichiarativo e sono costituite dei presupposti processuali del processo esecutivo, in mancanza dei quali la richiesta di tutela non può essere accolta perché il processo è viziato, tanto da rendere contra ius l’emanazione della misura giurisdizionale esecutiva richiesta. La sussistenza di tali condizioni è richiesta anche nel processo esecutivo. La rilevazione dei presupposti processuali segue la disciplina contenuta nel Libro I del codice di procedura civile, la quale stabilisce da chi e fino a che momento l'eventuale carenza del presupposto processuale può essere rilevata. Regola generale, in mancanza di diversa disposizione normativa, è che i vizi dei presupposti processuali sono rilevabili anche d’ufficio, senza preclusione alcuna. A tale regola fanno eccezione le norme che restringono la rilevabilità del vizio quanto ai soggetti e quanto alle fasi del processo, nelle quali il vizio deve essere rilevato. Le norme in questione, di cui al Libro I, nell’ottica del processo dichiarativo, e quindi con riferimento ad istituti propri di tale processo, devono essere trasferite nell’ambito del processo esecutivo. slatore prevede la prima udienza come termine ultimo per la rilevazione dei vizi di certi presupposti processuali. Secondo l’opinione più convincente, alla prima udienza del processo dichiarativo corrisponde, nel processo esecutivo, la prima udienza di fronte al giudice dell’esecuzione. e Nell’espropriazione forzata, normalmente questa è l’udienza in cui si decide circa la vendita o assegnazione del bene. e Nell’esecuzione per obblighi di fare o di non fare, è l’udienza fissata a seguito della presentazione del ricorso previsto dall’art. 612 c.p.c. e Nell’esecuzione per consegna e rilascio le preclusioni riferite alla prima udienza non hanno modo di operare, dato che non ci sono udienze. AI di là dei casi espressamente previsti, la carenza di un presupposto processuale è rilevabile anche d’ufficio senza limiti di tempo. Es. > L’ufficiale giudiziario carente di giurisdizione deve rifiutarsi di effettuare il pignoramento. Così pure il giudice dell’esecuzione carente di giurisdizione deve rifiutarsi di compiere i success: atti del processo esecutivo. Se un vizio del processo, consistente nella carenza di un presupposto processuale, è rilevato nei tempi e nei modi previsti, l’ufficio esecutivo deve rifiutare l’emanazione dell’atto che gli è stato richiesto. Nullità formali Altra questione che deve essere esaminata dall’ufficio esecutivo attiene alla nullità dei singoli atti del processo. La differenza consiste nel fatto che: ® La carenza del presupposto processuale produce la nullità di tutti gli atti del processo; ® Allanullità dei singoli atti occorre applicare gli artt. 156 e ss. c.p.c. Tali norme possono essere estese senza adattamenti al processo esecutivo. 27 giurisdizionale, dimenticando che gli artt. 24 e 111 Cost. sono norme che non si applicano solo laddove vi sia da decidere una controversia, o più in generale di statuire circa i comportamenti illeciti o doverosi delle parti. Gli artt. 24 e 111 Cost. si ricollegano a tutti quanti gli interventi giurisdizionali, anche a quelli che non hanno funzione dichi Del resto il principio del contraddittorio ha senso perché i soggetti, che verranno incisi dagli effetti della misura giurisdizionale, hanno il diritto di partecipare alla fase di ricognizione dei presupposti per stabilire se la misura giurisdizionale richiesta deve essere emessa, che contenuto deve avere, e così via. In altri termini: il principio del contraddittorio è rispettato quando gli interessati hanno la possibilità di partecipare, in condizioni di parità, all’attività con la quale l’organo giurisdizionale raccoglie il materiale che serve per stabilire che cosa fare, in modo che ciascuno possa convincere il giudice della bontà delle proprie affermazioni, così che la misura sia emessa con un certo contenuto. In concreto, il principio del contraddittorio ha senso quando le parti possono collaborare a raccogliere ciò che è rilevante per l'emanazione della misura giurisdizionale. Ciò che serve per l’emanazione della misura giurisdizionale dipende dal tipo di intervento giurisdizionale che è stato richiesto. Anche nel processo esecutivo l’ufficio esecutivo deve procedere alla raccolta di tutto quanto serve per decidere se emettere o meno la misura giurisdizionale, o quale contenuto deve avere la ste: anche nel processo esecutivo vi è una cognizione dell’ufficio esecutivo, che è, come nel processo dichiarativo, finalizzata a stabilire se emettere o non emettere, o che contenuto dare al provvedimento esecutivo. Il principio del contraddittorio nel processo esecutivo si esplica consentendo alle parti di contribuire, su un piede di parità, alla raccolta di ciò che è rilevante per l’emanazione della misura esecutiva. È assurdo negare che nel processo esecutivo si attui il principio del contraddittorio, perché le parti non possono interloquire su qualcosa che è irrilevante per l'emanazione della misura esecutiva: l’esistenza del diritto sostanziale di cui si chiede la tutela. Tanto per l’ufficiale giudiziario che per l’ufficio esecutivo, che il diritto, ad es., sia estinto, è del tutto irrilevante ai fini del compimento della loro attività. Per ritenere rispettato il principio del contraddittorio, è nec rio che le parti passano interloquire su ciò che è rilevante per l’attività dell’ufficio esecutivo. Il principio del contraddittorio garantisce il diritto di difesa rispetto a ciò che serve, non rispetto a ciò che non serve in vista dell'emanazione del provvedimento giurisdizionale. Audizione delle parti All’interno del processo esecutivo si deve stabilire quali sono le attività da compiere per impartire la tutela; è in relazione al compimento di tali attività che occorre garantire alle parti il diritto di interloquire su un piede di parità nei confronti del giudice. In virtù degli artt. 485-487 c.p.c., che regolano le domande e le istanze che si propongono al giudice dell’esecuzione e i provvedimenti del giudice, l’ordinamento prevede che l’ufficio esecutivo debba sentire le parti prima di emettere la misura; “sentire le parti” vuol dire instaurare il contraddittorio circa le modalità con cui il processo esecutivo deve andare avanti. Ciascuna delle parti può cercare di convincere il giudice ad emettere oppure a non emettere una misura esecutiva, oppure ancora a darle un contenuto invece che un altro. L’audizione delle parti avviene avvertendole della fissazione della relativa udienza da parte del giudice. Il giudice fissa l’udienza, disponendo la comparizione delle parti, ed il provvedimento è comunicato alle parti interessate. L'ultimo comma dell’art. 485 stabilisce che, se risulta che una delle parti avvertite non è comparsa all’udienza per cause indipendenti dalla sua volontà, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che il provvedimento di fissazione della nuova udienza sia comunicato alla parte non comparsa. Sussistono, quindi, tutti i requisiti per il rispetto del principio del contraddittorio. Domande delle parti L’art. 486 c.p.c. dispone che le domande delle parti si propongono con ricorso da depositare in cancelleria o oralmente, nel verbale di udienza. 30 Qualcuno ha ritenuto che il creditore abbia posizione preminente rispetto all’esecutato, perché l’esecuzione è a senso unico, cioè tutela solo il creditore. L’equivoco sta nell’assolutizzare le caratteristiche del processo di cognizione. ® Nel processo dichiarativo, se si giunge a una pronuncia di merito, tale pronuncia può essere favorevole sia all’attore che al convenuto. Ma questa è una caratteristica specifica del processo di cognizione, non è una caratteristica assoluta, tale da far concludere che, ove essa non si realizzi, non c’è contraddittorio perché le parti non sono sul piede di parità. ® Nel processo esecutivo, è vero che, se esso ha luogo, necessariamente produce effetti a favore di una sola delle parti; però è anche vero che, se escludiamo dall’ambito del processo esecutivo ciò che è irrilevante, cioè l’esistenza del diritto da tutelare, per tutto quanto riguarda gli elementi rilevanti per il suo svolgimento, non troviamo che il creditore ha più poteri del debitore; quando si tratta di convincere l’ufficio esecutivo a compiere o non compiere una certa attività, la parola del creditore non è più attendibile di quella del debitore. Nel discutere di ciò che è rilevante, le parti non sono in una posizione di squilibrio. Quindi le due obiezioni (la prima, secondo la quale nel processo esecutivo non si discute dell’esistenza del diritto; la seconda, secondo la quale nel processo esecutivo le parti non sono su un piano di parità) alla vigenza del principio del contraddittorio sono infondate. Provvedimenti del giudice L’art. 487 c.p.c. prevede che i provvedimenti del giudice dell’esecuzione abbiano la forma dell’ordinanza, che può essere modificata o revocata fino a che non ha avuto esecuzione; una volta che sia stata eseguita, il giudice non può più modificarla. competenza Passiamo ora ad analizzare la composizione dell’ufficio esecutivo. Gli uffici giudiziari competenti dell’esecuzione forzata sono indicati dagli artt. 9, 26 e 26-bis c.p.c. e Insenso verticale, per l’esecuzione forzata è sempre competente il tribunale; e Insenso orizzontale, territorialmente competente: o Perl’espropriazione immobiliare e mobiliare è il giudice del luogo ove si trova il bene; o Per l’esecuzione forzata su autoveicoli e motoveicoli è il giudice della residenza dell’esecutato; o Perl’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è il giudice del luogo dove l’obbligo deve essere adempiuto; o Perl’esecuzione forzata per consegna e rilascio è il giudice del luogo dove si trova il bene. Per l’espropriazione forzata di crediti (art. 26-bis) occorre distinguere: a. È competente il giudice del luogo dove risiede il terzo debitore, se il debitore esecutato è una pubblica amministrazione; b. È competente il giudice del luogo dove risiede il debitore esecutato in ogni altro caso. La ragione di questa differenziazione sta nella volontà del legislatore di evitare una eccessiva concentrazione sul tribunale di Roma delle espropriazioni di crediti quando il debitore è una P.A. La competenza territoriale è, ex art. 28, inderogabile dalla volontà delle parti: le parti non possono accordarsi per far svolgere l’esecuzione da un giudice diverso da quello indicato dagli artt. 16 e 28. L’incompetenza è rilevabile anche di ufficio non solo dal giudice, ma anche dall’ufficiale giudiziario. Da non confondersi con la competenza per l'esecuzione ex artt. 9 e 26 è la competenza per le cause di cognizione incidentale all’esecuzione, che sono veri e propri processi di cognizione, la competenza per i quali è disciplinata dagli artt. 17 (competenza per valore) e 27 (competenza territoriale) c.p.c. Con la riforma del 1990 è stata estesa anche al processo di fronte al tribunale la regola della monocraticità. Tutti i processi incidentali all'esecuzione forzata sono quindi decisi dal giudice monocratico. 31 Composizione dell’ufficio esecutivo L’ufficio esecutivo è composto da uno o più giudici, ai quali vengono attribuite le mansioni di giudice dell’esecuzione. Ovviamente anche il cancelliere fa parte dell’ufficio esecutivo. Assume un ruolo importante nel processo esecutivo l’ufficiale giudiziario che, in talune forme di esecuzione forzata, è l’unico soggetto a svolgere attività. Le mansioni affidate al giudice dell’esecuzione e all’ufficiale giudiziario sono variabili a seconda dei vari procedimenti. 32 Capitolo 10 Il pignoramento Pignoramento in generale Ex art. 491 c.p.c. il pignoramento è l’atto iniziale dell’espropriazione forzata. e Il processo esecutivo inizia con la notificazione del titolo esecutivo e del precetto; e L’espropriazione inizia col pignoramento. Il pignoramento è l’atto con cui si individuano e si conservano i diritti del debitore (elemento patrimoniale) sottoposti ad espropriazione. Gli elementi patrimoniali, per essere espropriabili, devono essere trasferibili sul piano del diritto sostanziale: un diritto non trasferibile non è neppure pignorabile, perché non può essere venduto né volontariamente né coattivamente. Es. I diritti di uso e di abitazione non sono trasferibili, e quindi non sono pignorabili. Se il diritto pignorato incontra limiti alla circolazione sul piano sostanziale, questi limiti si estendono anche all’espropriazione forzata. Es. +» Il diritto di servitù si trasferisce con il fondo dominante, quindi non può essere autonomamente pignorato. Il pignoramento, per raggiungere il proprio scopo, deve adattarsi ai diversi modi con cui i diritti circolano nel nostro ordinamento. Esistono, quindi, tre forme di pignoramento che corrispondono ai tre diversi modi di circolazione dei diritti che conosce il nostro ordinamento: 1. Mobiliare; 2. Immobiliare; 3. Di crediti. Dobbiamo analizzare la norma generale costituita dall’art. 492 c.p.c. Il co. 1 indica quello che è l’elemento comune a tutti pignoramenti, costituito dall’ingiunzione, che l’ufficiale giudiziario fa all’esecutato nelle forme volta per volta previste dalle singole forme di pignoramento di astenersi dal compiere qualunque atto, diretto a sottrarre alla garanzia del credito i beni pignorati e gli eventuali frutti di e: Il co. 2 prevede che, con l’atto di pignoramento, l’ufficiale giudiziario debba invitare il debitore ad effettuare, presso la cancelleria del tribunale, la dichiarazione di residenza o l’elezione del domicilio in un comune del circondario del tribunale stesso. e L’onere sorge per il debitore dall’avviso effettuato all’atto di pignoramento. In mancanza di ciò, non si producono in suo pregiudizio le conseguenze della mancata dichiarazione. e L’onere per il debitore sussiste anche se la sua residenza o il domicilio si trovano nella circoscrizione del tribunale. Dunque, la ratio della norma è quella di verificare se il debitore ha effettivamente interesse al processo esecutivo, oppure no. In sostanza,: o La dichiarazione del debitore equivale ad una costituzione in giudizio; o La mancata dichiarazione ad una contumacia. Senonché, il legislatore non ha avuto il coraggio della coerenza e ha previsto che, in mancanza della dichiarazione, le notificazioni e le comunicazioni al debitore vengano effettuate in cancelleria. Sarebbe più logico prevedere che, se il debitore non si fa vivo, non vi è più necessità di metterlo a conoscenza di un processo esecutivo che non gli interessa. ® Le notificazioni e le comunicazioni al debitore presso la cancelleria sono conseguenza non solo della mancata dichiarazione di residenza o domicilio del debitore, ma anche della sua “irreperibilità presso la residenza dichiarata o il domicilio eletto”. Quindi, se in occasione di un accesso dell’ufficiale giudiziario il debitore risulta irreperibile, le successive notificazioni e comunicazioni gli saranno effettuate in cancelleria. Ciò significa che la dichiarazione del debitore deve corrispondere a verità: se egli afferma di essere residente oppure elegge domicilio in un certo luogo, e poi si appura che ciò non è vero, la dichiarazione non ha effetti. I co. 4 e 5 introducono nel nostro sistema il dovere del debitore di “manifestare” il proprio patrimonio. 35 Il presupposto perché tale dovere diventi attuale è costituito dalla insufficienza dei beni pignorati, o dalla lunga durata della loro liquidazione. Quando ciò accade, l’ufficiale giudiziario invita il debitore a rendere nota l’esistenza di altri beni pignorabili, indicandone gli estremi. L’omessa o falsa dichiarazione del debitore costituisce un illecito penale ai sensi dell’art. 388 c.p. Tale invito presuppone un contatto diretto fra ufficiale giudiziario e debitore e quindi, anche se non necessariamente, probabilmente ha luogo al momento dell’accesso dell’ufficiale giudiziario per il pignoramento dei mobili. Se il debitore risponde positivamente all’invito, dichiarando l’esistenza di tali beni, il pignoramento si considera fin da quel momento efficace nei suoi confronti agli effetti penali ed anche della custodia: se, infatti, si tratta di pignoramento presso terzi ed il terzo restituisce il bene mobile o paga il credito prima che il pignoramento sia perfezionato, il debitore è tenuto a custodire la cosa o la somma. Ugualmente, i frutti prodotti dal bene dopo questo momento appartengono all’esecuzione. Per il perfezionamento del pignoramento, e quindi per la sua opponibilità ai terzi, è tuttavia necessario procedere al compimento delle attività volta per volta previste dalle varie forme di pignoramento. La stessa disciplina si applica (co. 6) se i beni pignorati divengono insufficienti per l’intervento di altri creditori. In tal caso il creditore può chiedere all’ufficiale giudiziario di procedere ai sensi dei commi quarto e quinto. Il co. 7 introduce l’altro meccanismo che, accanto alla manifestazione del debitore di cui ai commi quarto e quinto, consente il reperimento dei beni pignorabili. Il creditore procedente può chiedere all’ufficiale giudiziario di effettuare ricerche presso l’anagrafe tributaria e le altre banche dati pubbliche. La richiesta è possibile anche per più esecuzioni. Il co. 8 introduce infine una speciale forma di ispezione per gli imprenditori commerciali. Sempre su istanza del creditore procedente, e a sue spese, l’ufficiale nomina un professionista che esamina le scritture contabili, e redige una relazione che il professionista trasmette all’ufficiale giudiziario e al creditore istante. Se dalla relazione risultano elementi attivi che il debitore non aveva dichiarato ai sensi dei co. 4 e 5, le spese sono a carico del debitore. Ricerca telematica dei beni da pignorare I due punti critici per rendere fruttuosa l’espropriazione forzata riguardano l’individuazione degli elementi attivi del patrimonio e la loro liquidazione a prezzo di mercato. Ai sensi dell’art. 492-bis c.p.c., il creditore procedente (o un altro creditore, munito di titolo esecutivo), decorso il termine dilatorio previsto dall’art. 482 c.p.c., deve anzitutto munirsi dell’autorizzazione del presidente del tribunale del luogo ove il debitore ha la residenza, il domicilio. la dimora ho la sede, presentando una istanza ed esibendo un titolo esecutivo. Il tribunale deve verificare il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata attraverso l’esame del titolo esecutivo in senso documentale. Dopodiché il Presidente del tribunale autorizza l’ufficiale giudiziario a procedere alla ricerca telematica. Si tratta, per la verità, di una autorizzazione superflua. Infatti: ® Daunlato, la verifica del presidente del tribunale cerca l’esistenza di un titolo esecutivo non può essere più approfondita di quella che fa l’ufficiale giudiziario; e Dall’altro, non si vede come possa il presidente del tribunale negare l’autorizzazione, una volta appurato che l’istante ha un titolo esecutivo. Ottenuta l’autorizzazione, l’ufficiale giudiziario accede a tutte le banche dati tenute dalle pubbliche amministrazioni, o alle quali le stesse possono accedere. Fra queste sono da segnalare: e L’anagrafe tributaria, compreso l’archivio dei rapporti finanziari; ® Le banche dati degli enti previdenziali. Una volta individuati questi elementi attivi, l’ufficiale giudiziario può procedere all’immediato pignoramento degli stessi oppure indicarli al creditore affinché questi faccia una scelta fra i più elementi attivi. Se l’ufficiale giudiziario non è dotato delle strutture tecniche necessarie, il creditore può ottenere direttamente dai gestori delle banche dati le informazioni necessarie. 36 Singole fattispecie di pignoramento Esaminiamo ora le singole fattispecie del pignoramento: A. Pignoramento mobiliare. Ex artt. 513 ss., la richiesta di effettuare il pignoramento mobiliare è fatta dal creditore procedente all’ufficiale giudiziario in forma libera che, di solito, è orale. Oggetto del pignoramento sono i diritti che sul bene appartengono al debitore esecutato. Pignorabile è il diritto di proprietà e qualunque altro diritto reale minore che abbia il carattere della trasferibilità. L’art. 2740 c.c. prevede la responsabilità patrimoniale in relazione a situazioni sostanziali che appartengono al patrimonio del debitore. Bisognerebbe dunque, prima del pignoramento, effettuare una ricognizione della consistenza del patrimonio mobiliare del debitore per individuare i beni mobili, su cui il debitore ha la proprietà o altro diritto reale minore trasferibile. Peraltro, il modo di circolazione dei diritti sui beni mobili è caratterizzato da elementi molto evanescenti; accertare l’effettiva esistenza, in capo al debitore, di un diritto pignorabile sul bene mobile comporterebbe indagini complesse e di esito incerto. Bisogna giungere ad una semplificazione. Ai fini del pignoramento non c’è bisogno di accertare previamente che il debitore abbia la proprietà del bene; c’è bisogno di un elemento processuale, rilevante solo nel processo esecutivo, e diverso da tutti gli altri rapporti fra soggetti e beni conosciuti delitto sostanziale: l'appartenenza. La nozione di appartenenza si ricava dalla dislocazione spaziale dei beni mobili, dal fatto che essi si trovano collocati in beni immobili di cui il debitore esecutato abbia la disponibilità. Tale relazione ha una portata esclusivamente processuale, serve solo a determinare quali siano i beni sottoponibili a pignoramento. Tutte le volte in cui l'appartenenza non coincide con la proprietà del bene, diviene utilizzabile lo strumento per far valere la non coincidenza fra il diritto processuale e il diritto sostanziale: l’opposizione di terzo ex art. 619. L'appartenenza costituisce un criterio di semplificazione che evita di esperire, prima del pignoramento, indagini incerte e difficoltose circa la proprietà dei beni da sottoporre al pignoramento. Bisogna quindi distinguere l’oggetto dell’esecuzione dall’oggetto del processo esecutivo. o Oggetto dell'esecuzione è la titolarità, in capo all’esecutato, di un diritto sostanziale trasferibile sul bene pignorato, perché solo a quelle condizioni un bene fa parte del patrimonio (e solo a quelle condizioni può essere efficacemente trasferito). o Oggetto del processo esecutivo è l’appartenenza del bene, la sussistenza di quella situazione di natura processuale prevista dall’art. 513. L’ordinamento spera che tali situazioni coincidano: se non coincidono, sono previste le adeguate contromisure. L’art. 513 c.p.c. fornisce la nozione fondamentale di appartenenza (pignoramento diretto): a. Possono essere pignorati i beni mobili che si trovano in un bene immobile appartenente al debitore. Non si parla di proprietà di tali beni immobili, ma della loro disponibilità materiale da parte del debitore, a prescindere da qualsiasi titolo che possa legittimare tale disponibilità materiale. A queste condizioni, scatta l'appartenenza, e il pignoramento può essere effettuato sui beni mobili che siano collocati in questi beni immobili. b. Sul ricorso del creditore, il giudice può autorizzare il pignoramento mobiliare anche in relazione a beni che non si trovano in luoghi appartenenti al debitore, ma dei quali egli può direttamente disporre senza che colui, al quale appartiene l'immobile, in cui il bene mobile si trova, possa rifiutare all’esecutato di disporre direttamente di tale mobile (co. 3). Ciò accade, ad es., per i valori nella cassetta di sicurezza della banca. c. La terza possibilità di pignoramento mobiliare diretto si ha quando l’ufficiale giudiziario sottopone a pignoramento le cose del debitore che il terzo possessore consente di esibirgli. In questi casi le possibilità sono due: 37 Fin dal momento della notificazione del pignoramento, e quindi a prescindere dalla sua trascrizione, l’esecutato diviene ipso iure custode del bene (art. 559, co. 1). Il giudice dell’esecuzione deve necessariamente sostituire l’esecutato nella custodia del bene, se questo non è da lui occupato (art. 559, co. 2). Con tale espressione si deve intendere una situazione, in cui un terzo ha la materiale disponibilità dello stesso, in virtù di qualunque titolo o anche senza titolo. La sostituzione del debitore con un altro custode, ove l’immobile non sia occupato dal debitore, costituisce attività vincolata del giudice, senza che al riguardo egli abbia alcuna discrezionalità. La ratio della necessaria sostituzione consiste nell’opportunità che i rapporti con il terzo che occupa il bene siano tenuti non dall’esecutato, ma da un soggetto che dia maggiori garanzie. La custodia dell’esecutato, che permane solo se il bene è da lui occupato, cessa comunque al momento nel quale viene disposta la vendita ai sensi degli artt. 569 o 591-bis (art. 559, co. 4 e 5). Inluogo dell’esecutato, è nominato custode il soggetto incaricato alla vendita o l’Istituto vendite giudiziarie. A ciò si fa eccezione nei casi in cui la sostituzione sia reputata dal giudice dell’esecuzione inutile per la particolare natura dei beni. Per stabilire quando la sostituzione sia inutile, occorre individuare la ratio della sostituzione stessa. Se il motivo, che ha indotto il legislatore ad affidare ad un terzo la custodia dei beni non occupati dal debitore, sta nell’opportunità che i rapporti con l’occupante siano tenuti da un terzo, in questo caso invece la ragione sta in quanto prevede l’art. 560, co. 5: e, cioè, nella necessità che soggetti, interessati all’acquisto, possono esaminare il bene, e nella maggiore affidabilità che, in questa direzione, dà un custode estraneo rispetto all’esecutato. Se questa è la ragione, per la quale l’esecutato perde la custodia dei beni, ancorché questi siano da lui occupati, allora le ipotesi, nella quali la sostituzione è inutile, si verificano quando l’esame dei beni da parte dei potenziali acquirenti può avvenire anche senza la collaborazione del custode (si pensi a un terreno non recintato confinante con una strada pubblica, e quindi facilmente accessibile). L’art. 559, co. 6, stabilisce che i provvedimenti di nomina e sostituzione del custode sono dati dal giudice con ordinanza non impugnabile, e dunque non modificabile o revocabile neppure nei limiti previsti dall’art. 487 c.p.c. Ovviamente, il provvedimento del giudice è controllabile con l’opposizione agli atti esecutivi. L’art. 560 ha recepito le esperienze di alcuni tribunali, che avevano mostrato la necessità, in sede di espropriazione immobiliare, di una figura simile al curatore nelle espropriazioni concorsuali. In sostanza, il custode del bene immobile pignorato è una sorta di mini-curatore, che differisce dal fratello maggiore concorsuale soprattutto per il fatto che là e non qui l’esecutato perde la legittimazione processuale. Rilevante, in questa direzione, è l’art. 560, co. 5, nella parte in cui dispone che: Il custode provvede in ogni caso, previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione all’amministrazione e alla gestione dell’immobile pignorato ed esercita le azioni previste dalla legge e occorrenti per conseguirne la disponibilità. Lo stesso articolo stabilisce che spetta al giudice dell’esecuzione, nel disporre la vendita del bene, prevedere le modalità con cui i potenziali acquirenti possano esaminare lo stessi L’art. 560, co. 3 e 4, prevede la liberazione in via amministrativa dell’immobile pignorato. senza oneri per l’acquirente in vendita forzata. La liberazione è disposta dal giudice dell’esecuzione: o Quando non autorizza l’esecutato a continuare ad abitare l'immobile; o Quando revoca l’autorizzazione concessa in precedenza; o Quando pronuncia il provvedimento di aggiudicazione o assegnazione. Il custode provvede alla liberazione in via amministrativa, cioè utilizzando i suoi poteri autoritativi, se necessario con l’ausilio della forza pubblica. Non si ha più, quindi, la formazione di un titolo esecutivo e la successiva esecuzione per rilascio ex artt. 605 ss.. 40 Se l’immobile è nella disponibilità di un terzo il cui diritto è opponibile all’esecuzione, questi può proporre l'opposizione agli atti esecutivi per far accertare l’esistenza e l’opponibilità del proprio diritto, ed evitare quindi il rilascio del bene. Si tratta di ipotesi in cui l’ufficio esecutivo non si è accorto della presenza del terzo, oppure ritiene che il titolo esecutivo di costui non sia opponibile all’esecuzione. Incontriamo qui per la prima volta l’utilizzazione dell’opposizione agli atti esecutivi per risolvere una controversia di diritto sostanziale. . Pignoramento dei crediti. Qui l’ordinamento non si accontenta della semplice affermazione del creditore, e neppure è possibile quell’indice di appartenenza che forma il presupposto del pignoramento mobiliare. Il legislatore, perché si possa procedere al pignoramento di crediti, istituisce un variegato meccanismo che può avere una disciplina diversificata. Si noti che, se il terzo debitore è solvibile, il pignoramento dei crediti è la forma più sicura e meno dispendiosa di espropriazione forzata, cui si ricorre di preferenza. Occorre tenere presente che vi sono limiti alla pignorabilità dei crediti (art. 545). Il pignoramento si effettua notificando al debitore esecutato e al terzo debitore un atto di pignoramento che deve contenere: o L’indicazione del credito, del titolo esecutivo e del precetto; o L’indicazione delle somme o cose dovute dal terzo debitore al debitore esecutato. Nell’atto di pignoramento deve essere fissata una udienza dinanzi al tribunale competente ex art. 26-bis, e deve inoltre essere indicato l’indirizzo PEC del creditore procedente. L’art. 26-bis, co. 2, individua come competente il giudice del luogo ove il debitore esecutato ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Eccezionalmente, se debitore esecutato è una pubblica amministrazione, competente è il giudice dove il terzo debitore ha la residenza, domicilio, la dimora o la sede. Il debitore esecutato deve essere citato a comparire all’udienza fissata, mentre il terzo debitore è invitato a rendere la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. mediante lettera raccomandata o PEC, da inviare al creditore nel termine di 10 giorni dalla notificazione dell’atto di pignoramento. Egli inoltre deve essere avvertito delle conseguenze della sua eventuale inerzia (art. 543, co. 2, n. 4). Con la notifica di tale atto si producono già tutti quanti gli effetti del pignoramento. La produzione di tali effetti è provvisoria e condizionata al completamento del procedimento che illustreremo. Ex art. 543, l’atto di pignoramento contiene l’ingiunzione al debitore di non disporre del bene ai sensi dell’art. 492 c.p.c. La posizione del terzo debitore, dal momento in cui viene notificato il pignoramento, è quella del custode (art. 546). Egli non deve più adempiere nei confronti del debitore esecutato. L’eventuale inadempimento è inopponibile al creditore procedente, e quindi il terzo debitore sarà costretto a ripetere l'adempimento del creditore o, più in generale, a colui al quale l’esecuzione forzata trasferirà il credito pignorato. Vi è tuttavia un limite agli effetti del pignoramento: il credito dell’esecutato è pignorato per l’entità massima del 150% della somma oggetto del pignoramento (art. 546, co. 1). Se il credito pignorato è superiore a tale entità, per la parte eccedente il terzo non è soggetto ad obblighi di custodia, e quindi può tranquillamente adempiere. L’ulteriore sviluppo del procedimento di pignoramento dei crediti differisce a seconda che il terzo debitore renda o meno una dichiarazione conforme a quanto affermato dal creditore nell’atto di pignoramento. Per quanto concerne l’udienza: se il terzo rende una dichiarazione conforme a quanto affermato dal creditore nell’atto di pignoramento, questo si perfeziona e si consolidano quegli effetti che si erano provvisoriamente prodotti con la notifica dell’atto stesso. o Se dunque il creditore riceve dal terzo la lettera o la PEC, nella quale quest’ultimo rende una dichiarazione conforme a quanto contenuto nell’atto di pignoramento, egli all’udienza produce il documento, e il processo esecutivo può andare avanti; 41 o Se il creditore non riceve risposta dal terzo, e lo dichiara all’udienza, il giudice, con ordinanza, fissa un’udienza successiva. L’ordinanza è notificata al terzo almeno 10 giorni prima della nuova udienza. Il pignoramento dei crediti costituisce, dunque, una fattispecie a formazione progressiva. Gli effetti si producono provvisoriamente dal momento della notificazione dell’atto ex art. 543 e sono condizionati al perfezionamento della fattispecie. Se la fattispecie non si perfeziona, gli effetti sono eliminati retroattivamente: anche quegli effetti provvisori, che fino all’udienza si erano prodotti, vengono meno. A questo punto occorre affrontare l’ipotesi in cui il terzo non renda una dichiarazione conforme, ossia i casi in cui egli: o Rimanga inerte; o Renda una dichiarazione negativa; o Renda una dichiarazione difforme da quanto affermato dal creditore nell’atto di pignoramento. Per intendere bene la disciplina introdotta nel 2012, occorre fare un riepilogo della disciplina previgente. Nella versione originaria del c.p.c. del 1942, il terzo debitore era sempre chiamato a partecipare all’udienza per rendere la dichiarazione. Per questa ragione la competenza era determinata dalla residenza del terzo debitore: per facilitare la sua presenza all’udienza. o Seilterzo si presentava e rendeva una dichiarazione conforme, il giudice assegnava il credito; o Seil terzo non si presentava, o presentandosi taceva o rendeva una dichiarazione non conforme, il creditore procedente aveva l’onere di proporre una domanda di accertamento dell’obbligo del terzo. La domanda del creditore sospendeva automaticamente il processo esecutivo ed apriva un ordinario processo di cognizione, al termine del quale poteva accadere che fosse accertato esistente o non esistente l’obbligo del terzo. o Nel primo caso il pignoramento si perfezionava; o Nelsecondo caso il processo esecutivo si estingueva e il pignoramento perdeva effetti, trattandosi di una fattispecie a formazione progressiva che non si era completata. Nell’espropriazione dei crediti, dunque, il pignoramento si perfezionava alternativamente: © O sulla base di una sentenza di accertamento; o O sulla base della dichiarazione del terzo debitore, dichiarazione avente natura confessoria e che valeva ad accertare l’esistenza del diritto del debitore oggetto del pignoramento. Ricapitoliamo la disciplina originaria del c.p.c.: o L’assegnazione del credito poteva avvenire solo dopo che fosse stata accertata l’esistenza del credito pignorato, cioè dell’obbligo del terzo; o Tale certezza era raggiunta alternativamente: o Oinvirtù di una dichiarazione del terzo conforme all’atto di pignoramento 0, se difforme, non contestata dal creditore; o O in virtù di una sentenza. Quando, dunque, il creditore assegnatario, a fronte dell’eventuale inadempimento del terzo, si fosse trovato costretto a procedere ad esecuzione forzata contro di lui, il terzo avrebbe potuto, per negare l’esistenza del proprio debito, sollevare soltanto le contestazioni compatibili con l’efficacia preclusiva o della sua dichiarazione o della sentenza: nella sostanza, solo allegando fatti modificativi ed estintivi successivi alla sua dichiarazione o all’udienza di precisazione delle conclusioni del processo da cui era scaturita la sentenza che aveva accertato il suo credito. L’ordinanza di assegnazione, a sua volta, era sottoponibile agli atti esecutivi ma solo per vizi processuali della stessa, e non certo per contestare l’esistenza del credito pignorato. 42 Capitolo 11 Gli effetti conservativi del pignoramento Funzione conservativa del pignoramento La disciplina degli effetti conservativi del pignoramento è contenuta nel codice civile, perché così era nel codice napoleonico, e nel codice civile è rimasta per tradizione storica. La disciplina che esamineremo è comune all’espropriazione singolare, alle esecuzioni concorsuali e alle espropriazioni speciali. Per capire meglio i meccanismi previsti dal codice civile, occorre previamente individuare i pericoli che corre il creditore per il fatto che la tutela esecutiva, che egli richiede, non gli è concessa subito, ma dopo un determinato periodo di tempo. Ci sarà inevitabilmente un certo intervallo di tempo fra il pignoramento e la vendita forzata, intervallo di tempo in cui si possono verificare eventi capaci di pregiudicare la tutela esecutiva richiesta. I pericoli che egli corre sono due: ® Daun lato, vi sono le modificazioni della realtà materiale che riguarda il bene su cui cade il diritto pignorato. A tale pericolo si fa fronte mediante la custodia. Es. + La sottrazione del mobile, il danneggiamento del bene, la mancata custodia del bene immobile pregiudicano il diritto del creditore. Con l’affidamento del bene alla cura di un custode si garantisce la sicurezza del bene stesso. e Dall’altrolato, vi sono le modificazioni attinenti alla titolarità del diritto pignorato, attraverso atti di disposizione idonei a sottrarre il bene alla garanzia del credito. bene, venduto dal debitore esecutato, non figurerebbe più nel suo patrimonio come elemento attivo e così il creditore sarebbe costretto a rinunciare all’esecuzione forzata e ad agire su un altro elemento attivo del patrimonio del debitore. Principio del minimo mezzo L’ordinamento fa fronte a questo secondo pericolo modificando la disciplina ordinaria degli atti di disposizione, e prevedendo una disciplina speciale per gli atti di disposizione compiuti dal debitore esecutato dopo il pignoramento. Nell’individuazione di tale disciplina speciale occorre seguire il principio del minimo mezzo: l’alterazione delle regole ordinarie deve essere contenuta nei limiti strettamente indispensabili al raggiungimento dello scopo. Di fronte alle varie, astrattamente possibili alterazioni della disciplina sostanziale ordinaria, occorre scegliere quella che è sufficiente a raggiungere lo scopo di tutelare il creditore e che al tempo stesso altera meno di altre la disciplina di diritto comune. Percezione dei frutti Ex art. 2912 c.c., il pignoramento comprende le pertinenze, gli accessori e i frutti del bene pignorato. I frutti che maturano dopo il pignoramento vengono acquisiti all’esecuzione, sia quelli civili che quelli naturali. Ciò è possibile perché, dal momento del pignoramento, il bene è affidato alla custodia di un soggetto, che ha obbligo di amministrarlo nell’interesse dell’esecuzione, percependone all’uopo i relativi frutti. Al termine dell’espropriazione egli dovrà rendere il conto. Ex art. 1148 c.c., i frutti sono percepiti dal possessore e quindi la percezione dei frutti è conseguenza della situazione possessoria. Col pignoramento il debitore pignorato prende possesso del bene, che è affidato ad un custode; e se anche custode è il debitore stesso, egli non esercita più il possesso come specchio di un diritto reale, ma esercita la detenzione nell’interesse di terzi. Egli è obbligato al rendiconto appunto perché esercita una attività nell’interesse altrui. Con riguardo ai beni immobili non è affatto sicuro che il pignoramento cada su bene, di cui l’esecutato abbia il possesso. Mentre, nel pignoramento dei beni mobili, l’art. 513 c.p.c. fa coincidere la materiale disponibilità col pignoramento, per gli immobili è possibile che il pignoramento cada su beni di cui esecutato non abbia il possesso. 45 In tal caso l’esecutato non perde il possesso del bene semplicemente perché non lo aveva in precedenza, e quindi l’art. 2912 non può operare e gli eventuali frutti continuano ad essere percepiti dall’effettivo possessore del bene in questione. Quindi, se il bene immobile pignorato è in possesso dell’esecutato, si applicano le norme sulla custodia: il debitore diviene custode del bene con i relativi obblighi ex art. 2912 c.c.; e, infine, i frutti maturati dopo il pignoramento sono percepiti sono materialmente dall’esecutato, che non può più farli propri ma deve conservarli nell’interesse dell’esecuzione. Se il bene pignorato è posseduto da terzi al momento del pignoramento, allora il debitore esecutato non può diventare custode, perché non ne ha originariamente il possesso. Come il debitore esecutato fino al pignoramento non percepiva i frutti del bene, che erano percepiti dal terzo possessore, così, dopo il pignoramento, il debitore esecutato non può percepirli, perché i frutti continuano ad essere percepiti (art. 1148 c.c.) dal possessore del bene stesso. Possesso del bene pignorato Il debitore esecutato, possessore del bene al momento del pignoramento, perde dunque il possesso del bene: se ne mantiene la materiale disponibilità, ciò avviene a titolo di custodia. Il possesso non viene acquisito dal creditore procedente né dall’esecuzione. Il possesso si congela: l’esecutato lo perde, ma nessuno acquista il possesso civilistico sul bene. Ciò in quanto il creditore procedente, con il pignoramento, acquista un diritto non di natura sostanziale, ma processuale, inidoneo a far sorgere il possesso, il quale esige una attività corrispondente all’esercizio di un diritto reale: non è sufficiente l’esercizio di un diritto processuale-strumentale, quale quello del creditore pignorante. Il possesso rimane in una sorta di limbo fino a che, effettuata la vendita forzata, il bene non sarà consegnato all’aggiudicatario che acquisterà di nuovo il possesso corrispondente al diritto sostanziale acquistato in sede di vendita forzata. Inopponibilità degli atti posizione Ex art. 2913 c.c., gli atti di alienazione dei beni pignorati non hanno effetto in pregiudizio del creditore procedente e degli eventuali creditori che intervengano nell’esecuzione. L’eccezione riguarda il possesso di buona fede per i beni mobili non iscritti in pubblici registri. Il debitore esecutato può far nascere a favore di un terzo, a titolo originario, un diritto sul bene pignorato sulla base della regola prevista dall’art. 1153 c.c. (acquisto in buona fede di beni mobili). Tale regola vale anche quando l’alienante incontra limiti al suo diritto di disposizione del bene, pur essendone proprietario; quando, cioè, ciò che manca all’alienante è il potere di disporre. L’art. 1153 c.c., in sostanza, sana non solo un difetto di titolarità, ma anche un difetto di potere dispositivo. Se il terzo acquirente del bene mobile pignorato riceve il possesso in buona fede, acquista un diritto chi è opponibile anche al creditore procedente, e che travolge gli effetti del pignoramento. Per il pignoramento dei beni mobili il legislatore ha posto una particolare attenzione alla custodia del bene, in quanto il custode dei beni mobili pignorati, avendone la materiale disponibilità, ha sempre la possibilità di sottrarre il bene all’esecuzione, consegnandolo a un terzo di buona fede. Ecco il perché dei limiti contenuti nell’art. 521. Il custode, essendo colui che ha la materiale disponibilità del bene, è l’unico soggetto che può consegnarlo all’acquirente, facendo scattare il meccanismo dell’art. 1153 c.c. e sottraendolo così all’esecuzione. AI di fuori di quest’ipotesi, l’atto di alienazione non ha effetti in pregiudizio del creditore pignorante. È evidente che il pregiudizio si verifica perché intercorre necessariamente un certo lasso di tempo fra il pignoramento e la vendita: se la vendita potesse avere luogo nel momento stesso del pignoramento, l’inconveniente non si verificherebbe. La situazione è quindi simile a quella che si verifica nel processo di cognizione, e che dà luogo alla successione nel diritto controverso. e Sia qui che là l’applicazione delle norme di diritto comune ad eventi che si verificano nel corso del processo pregiudica colui che ha richiesto la tutela; ® Sia qui che là il principio, che la durata del processo non deve danneggiare colui che ha diritto alla tutela, impone di applicare norme speciali a tali eventi; 46 e Sia qui che la vale la regola del minimo mezzo: la divergenza delle norme speciali rispetto alle norme di diritto comune deve essere limitata allo stretto indispensabile. Nullità Gli strumenti astrattamente a disposizione dell’ordinamento per evitare il pregiudizio sono svariati. In primo luogo si potrebbe qualificare nullo l’atto di alienazione del bene pignorato: se l’atto è nullo, non produce alcun effetto; l’acquirente del bene pignorato non ne diviene proprietario. Ma tale meccanismo è esagerato. Osta a tale soluzione è il principio del minimo mezzo. Lo strumento di cui avvalersi deve produrre solo quegli effetti necessari e sufficienti a raggiungere lo scopo, mentre questi avrebbero due effetti ulteriori e non necessari: l’atto non produrrebbe effetti neppure fra le parti e la nullità investirebbe anche i terzi, non interessati all'esecuzione, perché la nullità opera erga omnes. Tutto ciò sarebbe eccessivo. Inefficacia relativa sostanziale Un secondo meccanismo potrebbe consistere nell’affermare la inefficacia relativa sul piano sostanziale dell’atto di alienazione. L’atto di trasferimento del bene pignorato trasferisce la proprietà sia fra le parti del negozio giuridico sia nei confronti dei terzi, ma non nei confronti del creditore procedente, per il quale la proprietà rimane del debitore esecutato. È questa la soluzione maggioritaria in dottrina: ma anch'essa si rivela eccessiva. Es. + Caio pignora a Tizio un’auto. Tizio vende l’auto pignorata a Sempronio. L’auto produce un danno a Caio. Se per Caio, sul piano del diritto sostanziale, Tizio è ancora proprietario dell’auto, Caio dovrebbe richiedere il risarcimento del danno a Tizio, il che è assurdo. L’atto di disposizione può benissimo avere effetti, sul piano del diritto sostanziale, anche nei confronti del creditore; l'importante è che non abbia effetti sul piano processuale, cioè all’interno del processo esecutivo, ed in particolare nel processo di opposizione ex art. 619, che l’acquirente del bene pignorato proponga per chiedere la liberazione dal pignoramento del bene da lui acquistato. L’importante è impedire che Sempronio possa fondare la sua opposizione di terzo sull’acquisto del bene pignorato: nulla più di questo. Inefficacia relativa processuale Allora la regola da seguire è quella dell’inefficacia relativa sul piano processuale. L’atto di alienazione del bene pignorato trasferisce efficacemente la proprietà sul piano sostanziale erga omnes: ma tale trasferimento non è idoneo a fondare una opposizione ex art. 619. Se l’acquirente del bene pignorato fonda la sua opposizione su un atto di disposizione, inefficace ex art. 2913 c.c. rispetto al creditore, l’opposizione deve essere rigettata. Una volta terminata la fase liquidativa dell’espropriazione subentra l’art. 2919 c.c. L’art. 2913 c.c. estende l’inopponibilità degli atti di disposizione del bene pignorato anche ai creditori che intervengono nell’esecuzione. L’articolo stabilisce dunque che il pignoramento è un vincolo “a porta aperta”, perché gli effetti del pignoramento vanno a vantaggio di tutti i creditori che intervengono nel processo esecutivo, anche se l'intervento ha luogo dopo che il bene è stato alienato. Il creditore intervenuto si può giovare degli effetti utili che il pignoramento produce a favore dell’intera massa dei creditori. Res litigiosa e res pignorata C'è quindi una netta differenza fra la disciplina dell’art. 2913 c.c. e quella dell’art. 111 c.p.c. Di solito si istituisce il parallelismo fra res litigiosa e la res pignorata: il che non è errato. Ma il parallelismo non è perfetto, perché, nella successione ex art. 111 c.p.c., gli effetti della domanda giudiziale si verificano solo a favore di colui che la propone e non di altri soggetti che intervengono nel processo, proponendo altre domande. I soggetti che propongono ulteriori domande nel processo in corso non sono protetti dalla domanda giudiziale originaria, mentre i creditori che intervengono nell’esecuzione sono protetti dal pignoramento originario. 47 a. Una delle parti ha acquisito in buona fede il possesso e allora è preferita all’altra: si ha qui un’applicazione dello stesso principio previsto dall’art. 1153 c.c.; b. Se nessuno degli acquirenti acquisisce in buona fede il possesso del bene mobile, vale il criterio generale dell’atto di data certa anteriore. Vincolo di indisponibilità Passiamo ora ad esaminare l’art. 2915, co. 1, c.c.. Tale norma detta una disciplina identica a quella che si ha quando un soggetto acquista un diritto sul quale grava un vincolo di indisponibilità. e Se invincolo è trascritto prima della trascrizione dell’atto di acquisto, il vincolo prevale sull’atto di acquisto (beni immobili o mobili registrati); e Seètrascritto prima l’atto di acquisto e poi il vincolo di indisponibilità, allora prevale il primo sul secondo; e Nelcaso di beni mobili o universalità di mobili è invece rilevante l’atto di data certa anteriore. Domande giudiziali Più complesso è l’esame dell’art. 2915, co. 2, c.c.. Occorre fare riferimento agli artt. 2652 e 2653 c.c. Essi prevedono una serie di domande giudiziali che sono soggette a trascrizione per essere opponibili ai terzi. La trascrizione della domanda giudiziale ha un duplice effetto. Effetti processuali Anzitutto ha un effetto di natura processuale: rispetto ai terzi la litispendenza si determina con riguardo al momento della trascrizione della domanda. Ove la trascrizione della domanda dell’attore contro il convenuto sia anteriore alla trascrizione dell’acquisto del terzo contro il convenuto, la posizione dell’avente causa del convenuto è disciplinata dall’art. 111 c.p.c. Quindi la sentenza emessa al termine di quel processo, la cui domanda è stata trascritta anteriormente alla trascrizione dell’atto di acquisto del terzo, è efficace e vincolante anche verso l’avente causa del convenuto. Questi non può contestare il contenuto della sentenza emessa contro il suo dante causa. Non potendo l’attore instaurare un ordinario processo di cognizione contro l’esecuzione forzata, si rende necessario che egli proponga la domanda all’interno del processo esecutivo, attraverso l’opposizione di terzo ex art. 619, che consente l’instaurazione del contraddittorio nei confronti dell’esecuzione. La domanda così proposta è nel suo contenuto identica a quella che l’attore avrebbe proposto in un ordinario processo di cognizione, se l’avente causa fosse stato un acquirente, anziché un creditore ignorante. Es. + Tizio agisce per far dichiarare la nullità del contratto di vendita contro Caio, acquirente, e contro Sempronio, creditore cui Caio ha conci ipoteca. La sua domanda ha ad oggetto la nullità del contratto, che egli fa valere sia contro Caio, sia contro Sempronio. Se Tizio vuole far dichiarare la nullità del contratto di vendita contro Caio e contro Sempronio, creditore pignorante, con l'opposizione ex art. 619, propone esattamente la stessa domanda, con cui fa valere la nullità del contratto verso l’uno e verso l’altro. Effetti sostanziali La trascrizione della domanda, oltre all’effetto processuale, ha talvolta anche effetti sostanziali: ciò accade nelle ipotesi previste dall’art. 2652 c.c. La priorità della trascrizione della domanda dell’attore contro il convenuto rispetto alla trascrizione dell’atto di acquisto dell’avente causa del convenuto comporta le stesse conseguenze della rivendicazione: la sentenza è efficace e vincolante anche verso l’avente causa del convenuto, che non può contestarne il contenuto. Viceversa, la priorità della trascrizione dell’atto di acquisto dell’avente causa rispetto alla trascrizione della domanda, da sola o insieme ad altri elementi (buona fede, titolo oneroso, ecc.), determina anche un titolo di preferenza sul piano sostanziale dell’avente causa verso l’attore: avente causa acquista una posizione che è preferita, sul piano del diritto sostanziale, a quella dell’attore. 50 Es. + Tizio vende a Caio e Caio rivende a Sempronio. Sempronio trascrive il titolo d'acquisto contro Caio prima che Tizio trascriva contro Caio la domanda di risoluzione del contratto. Sul piano del diritto sostanziale, Sempronio acquista una posizione intangibile da parte di Tizio che, anche se ottiene la risoluzione del contratto, deve accontentarsi della tutela risarcitoria nei confronti di Caio e non può riottenere il bene dal subacquirente Sempronio. La priorità della trascrizione del titolo di Sempronio contro Caio, rispetto alla trascrizione della domanda di risoluzione di Tizio contro Caio, determina l’inapplicabilità del principio “resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis”. Tomiamo ora all’art. 2915, II c.c., sostituendo il creditore pignorante all’avente causa. L’attore, il quale trova trascritto il pignoramento prima della trascrizione della sua domanda di rivendicazione, è pregiudicato solo per il fatto che deve far valere il suo diritto di proprietà all’interno del processo esecutivo; ma sul piano sostanziale egli non incontra ostacoli maggiori a far valere il suo diritto, all’interno del processo esecutivo con l’opposizione ex art. 619, rispetto a quando lo fa valere contro il debitore in un ordinario processo di cognizione. Altrettanto non accade quando il creditore pignorante, che è equiparato sotto questo profilo ad un avente causa del debitore esecutato, abbia acquistato, in virtù della trascrizione del pignoramento, ‘una situazione sostanziale prevalente su quella dell’attore. Nelle stesse ipotesi, in cui l’avente causa del convenuto, che abbia trascritto il suo titolo prima della trascrizione della domanda, acquista sul piano sostanziale una posizione che l’attore non può più attaccare, anche il creditore pignorante contro il convenuto, con la trascrizione del pignoramento. acquista una posizione inattaccabile da parte dell’opponente. Questi non ha, sul piano sostanziale, la possibilità di vincere l’opposizione ex art. 619. Tale opposizione, in virtù della salvezza acquistata dal creditore pignorante con la trascrizione del pignoramento, sarà rigettata. Es. + Il 17.12 è trascritta la domanda di rivendicazione di Tizio contro Caio. Il 18.12 è trascritto il pignoramento di Sempronio contro Caio. La sentenza che otterrà Tizio contro Caio avrà efficacia anche contro Sempronio (e contro l’aggiudicatario). Qualora per la salvezza del diritto del subacquirente si renda necessaria, oltre all’anteriorità della trascrizione del suo titolo rispetto alla trascrizione della domanda, anche la presenza degli altri elementi variamente previsti dall’art. 2652 c.c. (buona fede, titolo oneroso, decorso del tempo), la sussistenza di tali elementi deve essere valutata con riferimento al creditore pignorante. Ragioni di prelazione e crediti sopravvenuti Terminiamo l’esame degli effetti sostanziali. Dall’art. 2916 c.c. ricaviamo due principi. 1. Anzitutto, il pignoramento congela le ragioni di prelazione dei vari creditori. Nella distribuzione del ricavato si tiene conto solo delle ragioni di prelazione esistenti alla data del pignoramento: quelle sorte dopo il pignoramento non sono opponibili alla massa dei creditori. 2. In secondo luogo, il pignoramento non effettua il blocco dei crediti, i quali possono essere fatti valere all’interno del processo di espropriazione anche se sorti dopo il pignoramento. Se il credito sorto dopo il pignoramento è privilegiato, la ragione di prelazione non ha efficacia; però il creditore può sempre intervenire come chirografario. Il credito sorto dopo il pignoramento legittima l’intervento del suo titolare nell’espropriazione (anche lo stesso creditore procedente può fare intervento per i crediti sorti dopo il pignoramento). Questa costituisce una delle differenze principali fra espropriazione singolare ed espropriazione concorsuale. Nell’espropriazione concorsuale non possono farsi valere crediti sorti dopo la dichiarazione di insolvenza. Pignoramento dei crediti Più complesso è il discorso a proposito dell’art. 2917 c.c. Gli effetti del pignoramento del credito sono l’inopponibilità all’esecuzione forzata degli atti di disposizione compiuti dopo il pignoramento dal titolare del diritto di credito pignorato (artt. 2913 e 2914 c.c.). 51 Il pignoramento rende indisponibile il credito in capo al debitore esecutato e gli atti di disposizione che il debitore esecutato compie dopo la notifica dell’atto previsto dall’art. 543 c.p.c. sono inefficaci processualmente verso il creditore procedente e i creditori intervenuti. Verso il debitore esecutato gli effetti del pignoramento sono dunque analoghi a quelli del pignoramento di beni diversi dai crediti. Il terzo debitore, con la notifica dell’atto previsto dall’art. 543, diventa custode (art. 546). Quando oggetto del pignoramento è un bene mobile del debitore che si trova presso il terzo e occorre, quindi, far ricorso all’espropriazione presso terzi, il terzo assume gli obblighi della custodia del bene mobile: il terzo non lo può consegnare ad altri soggetti, tantomeno al debitore esecutato, cioè al proprietario del bene stesso. Quando oggetto di pignoramento è un credito, il terzo debitore è obbligato a non adempiere nei confronti del debitore esecutato. Se il terzo adempie nonostante l’intervenuto pignoramento, ex art. 2917 c.c. il pagamento, pur avendo effetti estintivi sul piano del diritto sostanziale, non è opponibile al creditore procedente. Sul piano processuale il terzo debitore è obbligato a corrispondere ugualmente la somma una seconda volta all’esecuzione forzata. Il pignoramento congela il credito così com’è al momento in cui il pignoramento è stato effettuato, e le vicende ulteriori che intervengono tra debitore esecutato e terzo debitore non sono processualmente opponibili al creditore procedente e ai creditori intervenuti, se derivano da atti di disposizione del debitore pignorato, oppure da comportamenti volontari del terzo debitore. Ove, invece, i fatti estintivi del credito si sono prodotti anteriormente al pignoramento, oppure non dipendono da atti di disposizione dell’esecutato, o da comportamenti volontari del terzo debitore, essi sono opponibili al debitore. Es. + Il creditore Tizio pignora il 19.10 un credito che l’esecutato Caio ha nei confronti di Sempronio. In data antecedente al 19.10 si erano maturati i presupposti per la compensazione del credito pignorato (ad es., era divenuto esigibile un controcredito di Sempronio verso Caio). Sempronio può far valere efficacemente la compensazione nei confronti di Tizio. 52 In sede di distribuzione del ricavato, si stabilisce preliminarmente se del bene mobile era proprietario Tizio o Mevio. Se risulta che era proprietario Tizio, il ricavato va al suo creditore Caio. Se risulta che era proprietario Mevio, il ricavato va al suo creditore Sempronio. Il principio, che impedisce che due processi esecutivi abbiano luogo, quando pignorato è lo stesso diritto nei confronti dello stesso debitore è il ne bis in idem. Principio che si trova anche nel processo di cognizione, perché non è possibile avere due sentenze aventi lo st oggetto; così nel processo esecutivo non è possibile che lo stesso diritto possa essere oggetto di più atti di trasferimento. Cumulo dei mezzi di espropriazione Invece si può avere una pluralità di crediti tutelati con lo stesso processo esecutivo e si possono avere anche più processi esecutivi diversi a tutela dello stesso credito (art. 483). Ciò significa che il creditore, avendo un titolo esecutivo, può chiedere cumulativamente la tutela dello stesso credito con le varie forme di espropriazione, oppure possono essere fatte più esecuzioni dello stesso tipo su beni diversi. Il cumulo trova il limite dell’art. 2911 c.c., in base al quale il creditore che ha ipoteca, pegno o privilegio speciale sui beni del debitore non può pignorare altri beni dello stesso debitore se non sottopone ad esecuzione anche i beni gravati da prelazione a suo favore. La ratio di tale norma è di evitare che il creditore, che ha una garanzia su un bene, pignori un altro bene per soddisfarsi su quest’ultimo continuando a mantenere la sua prelazione sull’altro. A parte tale eccezione, il cumulo dei mezzi di espropriazione, o anche più espropriazioni dello stesso tipo su beni diversi, sono pienamente ammissibili. Ma il cumulo potrebbe essere eccessivo, cioè il valore dei beni sottoposti a pignoramento potrebbe eccedere il credito per cui si procede. Se l’espropriazione è eccessiva, su opposizione del debitore il giudice può limitare l’espropriazione al mezzo che il creditore sceglie o, in mancanza, a quello che il giudice stesso determina. Così gli altri processi esecutivi si chiudono e di beni in essi pignorati sono liberati. Per tale valutazione di eccessività bisogna tener conto, se ci sono già stati, anche dell’intervento di altri creditori. Pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario Un altro istituto da esaminare è il pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario (art. 494). Il co. 1 consente al debitore esecutato di adempiere nelle mani dell’ufficiale giudiziario: di conseguenza l’esecuzione forzata non ha luogo perché il credito si estingue. Infatti l’art. 494, co. 1, stabilisce che in tal modo si evita il pignoramento. Così l’ufficiale giudiziario, invece di effettuare il pignoramento, riceve la somma, che consegna al creditore. Per diritto sostanziale (art. 1188 c.c.), il pagamento va fatto al creditore o a un suo rappresentante, e se è fatto ad un soggetto diverso non è liberatorio. Ma l’ufficiale giudiziario non è un rappresentante del creditore, ma un organo esecutivo, così come il giudice: anche il pagamento fatto al giudice non sarebbe liberatorio. La previsione contenuta nell’art. 494, co. 1, è quindi importante perché consente espressamente di effettuare il pagamento con effetto liberatorio anche ad un soggetto diverso da quelli a cui il pagamento dovrebbe essere fatto secondo il diritto sostanziale. Il co. 2 dell’art. 494 si riferisce alla ripetizione dell’indebito, regolata dagli artt. 2033 ss. c.c. Colui, che abbia pagato un debito inesistente, può ripetere il pagamento da colui che lo ha ricevuto. Il co. 2 è peraltro superfluo, perché il diritto di agire in ripetizione dell’indebito non viene meno, anche se la riserva non è effettuata. Si tratta di un rafforzativo, che non aggiunge niente alle regole sostanziali. L’istituto è interessante anche sotto un altro profilo. L'esistenza del credito, da tutelare esecutivamente, è irrilevante nel processo esecutivo. Invece qui, eccezionalmente, un effetto di diritto sostanziale è rilevante anche sul piano processuale, perché rende legittima l’omissione del pignoramento. Denaro come oggetto di pignoramento Nel caso disciplinato dal co. 3 dell’art. 494 le conseguenze giuridiche sono diverse, anche se il comportamento del debitore coincide materialmente con quello previsto dal primo comma. 55 In ambo i casi l’ufficiale giudiziario vuole effettuare il pignoramento e il debitore gli dà del denaro. e Nell’ipotesi disciplinata dal co. 1 il denaro è dato come adempimento, e quindi evita il pignoramento. L'esecuzione così non inizia neppure; e Nell’ipotesi disciplinata dal co. 3 il debitore dà all’ufficiale giudiziario una somma di denaro maggiore di quella prevista nel primo comma (il credito e le spese sono aumentati del 20%): ma tale somma è percepita dall’ufficiale giudiziario come oggetto di pignoramento. L’ufficiale giudiziario non consegna la somma creditore, ma la versa nelle casse dell’esecuzione. L'ufficiale giudiziario quindi deposita il verbale di pignoramento insieme al denaro, il cancelliere forma il fascicolo dell’esecuzione e si apre il processo di espropriazione. Quali sono, dunque, i vantaggi e gli svantaggi delle due possibilità offerte al debitore? Nel caso del terzo comma il debitore sceglie di sottoporre a pignoramento il denaro per evitare il pignoramento di mobili, immobili o crediti, perché ritiene di poter dimostrare, in sede di opposizione all’esecuzione, che l'esecuzione non deve avere luogo in quanto il creditore non ha il diritto di procedere ad esecuzione forzata. La somma di denaro che egli versa all’ufficiale giudiziario non viene consegnata al creditore, ma è depositata nelle casse dell’esecuzione, e poi distribuita dal giudice. L’opposizione del debitore consente al giudice di sospendere il processo esecutivo. Quindi il debitore ha in mente di proporre opposizione e di chiedere la sospensione della distribuzione del denaro. Se il giudice accoglie l’istanza di sospensione, e poi l’opposizione all’esecuzione è ritenuta fondata, il debitore ha il vantaggio che la somma di denaro gli verrà restituita, perché è al sicuro nelle casse dell’esecuzione. AI contrario, con il pagamento di cui al primo comma c’è il pericolo che il creditore prenda il denaro. e poi risulti insolvibile di fronte alla sentenza che riconosce fondata la ripetizione dell’indebito. Naturalmente se il debitore ritiene di non poter proporre, con speranza di buon esito, l'opposizione all’esecuzione, è inutile che effettui il versamento di cui al terzo comma: tanto vale che effettui il pagamento di cui al primo comma. conversione Lo stesso fenomeno di cui all’art. 494, co. 3, è previsto anche nell’art. 495 sotto il nome di conversione del pignoramento. Qui abbiamo una sostituzione dell’oggetto del pignoramento: originariamente sono stati pignorati beni del debitore e il debitore sostituisce ai beni pignorati una somma di denaro, cioè si realizza ex post ciò che si sarebbe potuto fare fin dall’inizio con il meccanismo dell’art. 494, co. 3. Ma qui bisogna tenere conto che, se ci sono stati interventi di altri creditori, la somma da versare non è calcolata solo sulla base del credito del creditore procedente ma anche dei crediti dei creditori intervenuti, perché altrimenti c’è il rischio che la somma non basti per tutti. La conversione può essere fatta da qualunque soggetto, non solo dal debitore, ma anche dal terzo il quale, ad es., abbia acquistato i beni pignorati. Es. + Viene pignorato un bene di Tizio: dopo il pignoramento, Tizio vende il bene a Caio. Caio, al quale interessa avere il bene libero, chiede la conversione del pignoramento, cioè versa una somma di denaro che diviene oggetto di pignoramento al posto del bene acquistato da Caio, bene che viene così liberato dal pignoramento. Il procedimento si svolge in due fasi: e All’istanza di conversione del debitore segue una prima ordinanza del giudice che determina la somma definitiva da versare e dà un termine al debitore per il versamento del saldo; ® Viene poi fissata una udienza successiva al termine in questione, per verificare se la somma è stata effettivamente versata. o Se il versamento è stato effettuato, con una seconda ordinanza il giudice dispone la liberazione dal pignoramento dei beni; o Altrimenti dispone che il processo esecutivo vada avanti. In tal caso, la somma provvisoriamente versata rimane acquisita all’esecuzione. Il giudice dell’esecuzione può autorizzare anche un pagamento rateale. 56 Riduzione Affrontiamo ora il problema della riduzione del pignoramento. L’art. 496 stabilisce che, su istanza del debitore o anche d’ufficio, quando il valore dei beni pignorati è superiore all’importo delle spese e dei crediti di cui all’art. 495, il giudice, sentiti il creditore pignorante e i creditori intervenuti, può disporre la riduzione del pignoramento. L’ipotesi è che siano stati pignorati più beni, perché altrimenti la riduzione non sarebbe possibile. Se è stato pignorato un unico bene, non è possibile ridurre a metà il pignoramento; se, però, sono stati pignorati due beni, può essere ridotto il pignoramento a uno solo. Il valore dei beni pignorati deve essere superiore al credito del creditore procedente, ai crediti degli intervenuti e alle spese. Con la riduzione del pignoramento, alcuni beni vengono liberati dal pignoramento e ritornano nella libera disponibilità del debitore esecutato. Un istituto analogo è previsto dall’art. 546, co. 2: nel caso di pignoramento di una pluralità di crediti nei confronti di più terzi debitori, il debitore può chiedere la riduzione dei pignoramenti o la dichiarazione di inefficacia di taluno di essi, qualora la somma dei crediti pignorati ecceda l’entità del credito precettato, aumentata del 50%. Cessazione dell’efficacia Ultimo istituto che dobbiamo esaminare è la cessazione dell’efficacia di pignoramento. Il pignoramento può perdere efficacia se il creditore procedente non iscrive tempestivamente a ruolo il processo esecutivo. L’art. 518, co. 6 per l’esecuzione mobiliare; l’art. 543, co. 4, per l’esecuzione presso terzi; e l’art. 557 per il pignoramento immobiliare, stabiliscono che l’ufficiale giudiziario, effettuato il pignoramento, invia agli atti al difensore del creditore procedente, il quale deve depositarne una copia, da lui autenticata, nel termine indicato in tali norme, iscrivendo la causa a ruolo. Altrimenti, il pignoramento perde efficacia. La cessazione dell’efficacia del pignoramento può inoltre derivare dall’art. 497. Come il precetto deve essere seguito dal pignoramento in un termine minimo di 10 e massimo di 90 giorni, così all’avvenuto pignoramento deve seguire in un termine minimo di 10 e massimo di 45 giorni la richiesta di liquidazione del bene, cioè la richiesta del creditore di passare alla fase successiva dell’espropriazione. Ovviamente tale fase non ha luogo, e quindi la richiesta in questione non è necessaria, quando oggetto del pignoramento è un quid che non deve essere liquidato, cioè una somma di denaro: in tal caso si passa immediatamente alla fase della distribuzione del ricavato. Quando il pignoramento diviene inefficace, dobbiamo tenere conto dell’art. 562 in materia di espropriazione immobiliare, il quale prevede la cancellazione della trascrizione del pignoramento. Se il pignoramento immobiliare perde efficacia, tuttavia rimane sempre nei registri immobiliari la sua trascrizione, anche se ormai solo apparente, perché il pignoramento ha perso efficacia. Occorre, quindi, procedere alla cancellazione della trascrizione. La cancellazione del pignoramento si effettua trascrivendo un altro atto, nel quale si dichiara che il pignoramento è divenuto inefficace; la cancellazione, pertanto, è un’operazione giuridica e non materiale. Risultano, così, dai registri immobiliari la trascrizione dell’atto di pignoramento, e poi la trascrizione dell’ordinanza del giudice, con cui si dichiara che il pignoramento ha perso efficacia. Occorre, infine, esaminare gli artt. 2668-bis e 2668-ter. Abbiamo già visto che la trascrizione delle domande giudiziali ha efficacia per 20 anni, prima della scadenza dei quali la trascrizione deve essere rinnovata, altrimenti perde effetti. L’art. 2668-ter c.c. estende alla trascrizione del pignoramento la disciplina delle trascrizioni delle domande. Se l’esecuzione forzata dura più di 20 anni, prima della scadenza del ventennio dalla trascrizione del pignoramento, questa deve essere rinnovata: altrimenti la ne del pignoramento perde effetti. Può, infatti, accadere che il processo esecutivo si estingua senza che vi sia un provvedimento formale del giudice di dichiarazione di estinzione, e quindi senza che si abbia un ordine di cancellazione della trascrizione. Ed ottenere un ordine di cancellazione può non essere semplice, soprattutto a distanza di tempo, perché occorre notificare la richiesta di cancellazione agli interessati, i quali, a distanza di anni, possono non essere facilmente individuabili e/o reperibili. 57 b. A chi, al momento del pignoramento, ha un credito garantito da pegno, da prelazione iscritta o da sequestro; c. A chi, sempre al momento del pignoramento, è titolare di un credito risultante dalle scritture contabili previste dall’art. 2214 c.c.. Per intervenire, il creditore deve depositare, nella cancelleria del giudice dell’esecuzione, un ricorso contenente l’indicazione del credito e del titolo di esso (cioè della fattispecie costitutiva dello stesso), nonché la domanda per partecipare alla distribuzione della somma ricavata (art. 499, co. 2). Se l’intervento si fonda sulle scritture contabili, queste devono essere allegate all’atto di intervento in copia autentica. La disposizione sembrerebbe escludere l’intervento tardivo, in quanto prevede che l’intervento abbia luogo prima che si sia tenuta l’udienza in cui è disposta la vendita o l'assegnazione: main realtà gli artt. 528 e 565 sono rimasti, e quindi anche l’intervento tardivo è pur sempre possibile. Il creditore, che non sia munito di titolo esecutivo, e che tuttavia abbia il potere di intervenire nell’esecuzione in quanto appartenente ad una delle categorie previste al co. 1, deve notificare al debitore (alla residenza dichiarata, al domicilio eletto o in cancelleria: art. 492, co. 2) l’atto di intervento e copia autentica delle scritture contabili, se l’intervento ha luogo in virtù di esse. Verificazione dei crediti L’art. 499, co. 5 e 6, istituisce una sorta di procedimento di verificazione del credito per i soli creditori che sono legittimati ad intervenire, ma non hanno un titolo esecutivo. Con la stessa ordinanza con la quale dispone sulla vendita e sull’assegnazione, il giudice dell’esecuzione fissa un’udienza dinanzi a sé per la comparizione del debitore e dei creditori non muniti di titolo esecutivo. L'ordinanza è notificata, a cura di una delle parti, ai creditori e al debitore: per quest’ultimo, vale la disposizione di cui all’art. 492, co. 2, e pertanto la notificazione gli sarà fatta in cancelleria, se non ha effettuato la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio, oppure se sia risultato irreperibile ad una successiva notificazione o comunicazione. All’udienza fissata, se il debitore non compare o, comparendo, riconosce l’esistenza in tutto o in parte dei crediti, questi acquisiscono il diritto di essere soddisfatti. Viceversa, se i crediti sono in tutto o in parte contestati, il creditore ha l’onere di proporre, nei 30 giorni successivi, una domanda idonea a munirlo di un titolo esecutivo. In tal caso ha diritto all’accantonamento delle somme, nei limiti di cui all’art. 510. Nessun onere ha il creditore, se il processo a trattenere il titolo esecutivo è già pendente. La profonda ristrutturazione dell’intervento dei creditori nell’esecuzione va sicuramente in controtendenza rispetto all’ispirazione della riforma del 2006, che ha teso ad eliminare tutti i processi di cognizione strumentali unicamente alla tutela esecutiva: qui, al contrario, si rende necessario instaurare un processo di cognizione al solo fine di ottenere la soddisfazione del proprio credito in una espropriazione già in corso. Ma soprattutto è criticabile la scelta di restringere la possibilità di intervenire nell’espropriazione ai soli creditori muniti di titolo esecutivo e a chi sia titolare di un credito garantito da pegno, da prelazione iscritta e da sequestro, oppure risultante dalle scritture contabili. I creditori che non rientrano in una di queste categorie non avranno alcuna possibilità di soddisfarsi, a meno che non ricorrano alla tutela di urgenza ex art. 700, allegando il pregiudizio imminente ed irreparabile, che si concretizza nell’evaporarsi della garanzia patrimoniale del loro debitore. Violazione della par condicio La scelta del legislatore della riforma tradisce il principio della par condicio, il quale non è un optional rimesso alle scelte del legislatore ordinario, ma costituisce l’attuazione di un ben preciso principio costituzionale: quello in virtù del quale il processo deve essere strumento di attuazione, e non di distorsione del diritto sostanziale. L’innovazione, operata dal legislatore della riforma, e che ha portato ad eliminare la possibilità di intervenire liberamente nell’esecuzione, è quindi anche incostituzionale, perché viola un canone fondamentale dei rapporti fra diritto sostanziale e processo. 60 Niente impedisce al legislatore di restringere l’intervento nell’espropriazione a talune categorie di creditori, a condizione che consenta, a chi non appartiene ad una delle categorie prescelte, di munirsi di un titolo di legittimazione a partecipare alla distribuzione del ricavato, ottenendo nel frattempo l’accantonamento delle somme a lui potenzialmente spettanti. Oppure, in alternativa, prevedendo un processo concorsuale generalizzato non solo per i debitori indicati nell’art. 1 della legge fallimentare, ma per tutti i debitori, che abbiano un patrimonio insufficiente a soddisfare i creditori. Ma in mancanza dell’uno e l’altro sistema, la restrizione operata dalla riforma del 2006 realizza una palese violazione dei principi costituzionali relativi ai rapporti fra diritto sostanziale e processo. Liquidazione controllata del sovraindebitato La situazione è destinata a cambiare radicalmente il 15 agosto 2020, con l’entrata in vigore del nuovo codice della crisi (d.lgs. n. 14/2019): infatti, l’art. 268, co. 2, stabilisce che la domanda per la liquidazione controllata può essere presentata da un creditore anche in pendenza di procedure esecutive individuali. Sicché, ove si verifichi una situazione di sovraindebitamento, il creditore che non ha titolo ad intervenire può chiedere l’apertura della procedura concorsuale ed ottenere che la soddisfazione dei creditori si attui secondo le previsioni del c.d. Effetti dell’ intervento Gli effetti dell’intervento sono previsti in generale dall’art. 500, cui si aggiungono gli artt. 526 per i beni mobili e 564 per i beni immobili. L’art. 500 fa riferimento a due conseguenze dell’intervento: 1. Il diritto di prendere parte alla distribuzione del ricavato; 2. Ildiritto di partecipare attivamente al processo esecutivo. Solo ai creditori, che intervengono muniti di titolo esecutivo, queste due conseguenze sono assicurate in modo incondizionato. Invece, chi interviene senza titolo esecutivo può prendere parte alla distribuzione del ricavato solo se si verificano le condizioni previste dall’art. 499, co. 6 e, pur partecipando all’espropriazione, non ha il potere di compiere gli atti necessari per farla procedere verso il suo esito finale (la liquidazione del bene pignorato). Viceversa, il creditore che ha un titolo esecutivo ha di fronte a sé la scelta pregiudiziale se: e Intervenire puramente e semplicemente, compiendo un'attività meno costosa e impegnativa (si tratta di redigere un ricorso e di depositarlo nella cancelleria del giudice); e Compiere un pignoramento successivo, che comporta un’attività più gravosa e costosa. Se il creditore, munito di titolo esecutivo, opta per l’intervento, può anche, ex art. 500, provocare i singoli atti dell’espropriazione, cioè sostituirsi al creditore procedente nel compiere gli atti necessari alla prosecuzione del processo. Creditore munito di titolo esecutivo Gli artt. 526 e 564 stabiliscono che i creditori intervenuti partecipano all’espropriazione e. se muniti di titolo esecutivo, possono provocarne i singoli atti. Da ciò, e dall’art. 500, ricaviamo che: e Ilcreditore intervenuto ha diritto di partecipare all’espropriazione; quindi, egli diventa parte del processo esecutivo a tutti gli effetti; e Se è munito di titolo esecutivo, può provocare i singoli atti dell’espropriazione. L'atto più importante che il creditore intervenuto, munito di titolo esecutivo, può compiere è l'istanza di vendita, che deve essere effettuata in un termine non inferiore a 10 e non superiore a 45 giorni dal pignoramento. In mancanza di tale istanza, il processo di esecuzione si estingue. In sostanza, tutta la fase, che va dal pignoramento fino all’avvenuta vendita, richiede il compimento di atti d’impulso, che possono essere compiuti, oltre che dal creditore procedente, da qualunque altro creditore intervenuto, munito di titolo esecutivo. Se costoro non coordinano la loro attività, ci possono essere più istanze di vendita, depositi della documentazione, ecc.: in tal caso, solo una attività è utile. 61 La posizione dei creditori muniti di titolo esecutivo è confermata dall’interpretazione che la giurisprudenza dà dell’art. 631, secondo il quale la mancata comparizione a due udienze consecutive porta all’estinzione del processo esecutivo. Ebbene, secondo la giurisprudenza costante, per evitare tale conseguenza, all’udienza deve essere presente almeno un creditore munito di titolo esecutivo. Se all’udienza si presentano solo creditori non muniti di titolo esecutivo, l’udienza si intende deserta. Si tenga conto, peraltro, che l’art. 631 non si applica all’udienza di vendita, la quale viene effettuata anche se alla relativa udienza i creditori non sono presenti. La distinzione tra creditori con e senza titolo esecutivo vale finché non sia effettuata la vendita; dal momento in cui il bene è trasformato in denaro, si perde la distinzione tra creditori muniti e creditori non muniti di titolo esecutivo. Ciò: ® Perchéla fase di distribuzione avviene d’ufficio, senza necessità di un impulso di parte; e Perchél’art. 629, disciplinando la rinuncia agli atti del processo esecutivo, stabilisce che essa: o Se ha luogo prima della chiusura della fase di liquidazione, deve provenire da tutti i creditori muniti di titolo esecutivo; o Se ha luogo dopo la vendita, deve provenire da tutti i creditori che abbiano fatto intervento. Da ciò si ricava che, una volta effettuata la vendita, il diritto di procedere ad esecuzione forzata spetta a tutti i creditori, anche se non muniti di titolo esecutivo: tant’è che tutti i creditori devono rinunciare a tale diritto perché si abbia l’estinzione del processo. Invece, prima della vendita è sufficiente la rinuncia dei creditori che abbiano titolo esecutivo; quelli che non hanno titolo esecutivo vedono estinguere il processo per rinuncia senza poter fare niente. Irrilevanza del titolo esecutivo dopo la vendita L’irrilevanza del titolo esecutivo successivamente alla vendita ha fatto sostenere da parte della dottrina che l’espropriazione sarebbe divisa in due fasi: 1. Una fase di aggressione del patrimonio del debitore, che inizia con il pignoramento e termina con la vendita. Tale fase si caratterizza, ex art. 2740 c.c., dalla sussistenza del titolo esecutivo, che dà la possibilità di incidere sul patrimonio del debitore per soddisfare i propri crediti 2. Una fase di distribuzione del ricavato, che non parteciperebbe delle stesse caratteristiche della frase espropriativa. Tale fase avrebbe caratteristiche di diritto sostanziale: i creditori vi parteciperebbero in quanto creditori, perché il titolo esecutivo è in questa sede irrilevante. Vi è tuttavia una norma contraria a tale divisione bifasica dell’espropriazione, e soprattutto alla qualificazione della fase distributiva come attività di diritto sostanziale e non processuale, e che ci fa concludere che, anche dopo la vendita, siamo ancora in sede di processo esecutivo: è l’art. 632, secondo il quale, se l’estinzione avviene dopo la vendita, la somma ricavata è consegnata al debitore. ® Seil processo si estingue prima della vendita, il debitore ritorna nella piena disponibilità dei beni pignorati; e Se l’estinzione avviene dopo la vendita, questa rimane efficace e la somma ricavata è consegnata al debitore. Anche dopo la vendita, dunque, il processo esecutivo prosegue; la distribuzione del ricavato non avviene per attività di diritto sostanziale, ma per la presenza del processo esecutivo. Quindi l’espropriazione forzata comprende anche la fase distributiva, perché, se non la comprendesse, una volta venduto il bene non ci sarebbe bisogno del processo esecutivo per distribuire il ricavato; i creditori avrebbero diritto di soddisfarsi sul ricavato anche se il processo esecutivo si estinguesse. Se il processo esecutivo è l’elemento necessario perché i creditori possano soddisfarsi sul ricavato, ciò significa che esso comprende sia la fase espropriativa, sia la fase della distribuzione. Creditori privilegiati Una particolare disciplina riguarda i creditori muniti di ragioni di prelazione. Alcuni creditori muniti di ragioni di prelazione hanno una posizione particolare: l'art. 498 stabilisce che essi devono essere necessariamente avvertiti della pendenza del processo esecutivo. 62 Il momento che determina la tempestività dell’intervento normalmente è dato dalla prima udienza fissata per stabilire le modalità di assegnazione o di vendita, cioè l’udienza che apre la fase di liquidazione. Se alla udienza fissata, per qualsiasi ragione, viene effettuato un rinvio ad un’udienza successiva, rilevante è la prima udienza e non quella in cui viene effettivamente autorizzata la vendita. Se l’intervento è effettuato entro tale udienza è tempestivo, se è effettuato dopo è tardivo. Nel caso dell’art. 525, co. 3, cioè nel caso della piccola espropriazione mobiliare (che si ha quando il valore dei beni pignorati non supera i 20.000 €) la tempestività dell’intervento è misurata invece sull’istanza, ovviamente precedente, con cui il creditore pignorante chiede che sia fissata l’udienza per determinare le modalità di liquidazione. Ricordiamo che la fase di liquidazione si apre con il ricorso di un creditore munito di titolo esecutivo che chiede al giudice di disporre la vendita o l'assegnazione del bene. A seguito di tale ricorso il giudice fissa l’udienza per stabilire le modalità di vendita o assegnazione. Quindi, nella piccola espropriazione la tardività è anticipata rispetto a quella dell’espropriazione ordinaria. Infine, per quanto riguarda l’ espropriazione dei crediti, rilevante è l’udienza di comparizione delle parti, fissata dal creditore pignorante con la citazione ex art. 543, n. 4. In tale udienza, qualora il terzo renda o abbia reso una dichiarazione conforme, ha luogo anche l’assegnazione del credito, ed il processo esecutivo si chiude. Sicché, un intervento tardivo nell’espropriazione dei crediti è possibile solo se la dichiarazione è omessa o contestata, perché in tal caso il creditore avrà la possibilità materiale di intervenire, sia pure tardivamente. Se, invece, il pignoramento si perfeziona con la conforme dichiarazione del terzo pignorato, il termine per l’intervento coincide con il momento in cui si chiude il processo esecutivo. La ragione per cui il legislatore distingue fra creditori tempestivi e tardivi è la seguente: attraverso tutta una serie di istituti, l'ordinamento consente al creditore di muoversi liberamente nella scelta delle varie forme di espropriazione e nell’individuazione dei beni da espropriare. Tuttavia, se il creditore esagera nella sua attività di espropriazione, è possibile ricondurre il valore dei beni pignorati all’entità del credito. Come meccanismo inverso abbiamo l’estensione del pignoramento, che è provocata dall’intervento dei creditori. Tali meccanismi possono funzionare solo nella fase anteriore alla vendita forzata. Ci deve essere un momento in cui ci si ferma: il processo esecutivo non arriverebbe mai alla fine se l’entità dei beni pignorati venisse di continuo ad ampliarsi o ridursi, a seconda dei creditori che intervengono e del valore dei beni. Tale momento è quello in cui si passa alla fase di liquidazione. L'intervento di un creditore, in un momento successivo al passaggio alla fase di liquidazione, sconvolgerebbe tutti i calcoli che sono stati fatti sul presupposto che vi sia una certa quantità di crediti da soddisfare, con il rischio che i beni, di cui è stata disposta la liquidazione, risultino insufficienti per soddisfare i creditori. Questa è la ragione per cui, da un certo momento in poi, l’intervento del creditore chirografario è tardivo e come tale il creditore è soddisfatto dopo che si sono soddisfatti i creditori tempestivi, se ci sono; in ogni caso, dopo il creditore procedente. È chiaro che tale regola non ha ragion d'essere per i creditori privilegiati: in ogni caso, questi hanno diritto alla soddisfazione prima dei chirografari, anche tempestivi. Estensione del pignoramento Secondo l’art. 499, co. 4, ai creditori, che siano intervenuti tempestivamente, il creditore pignorante ha facoltà di indicare, all’udienza o con atto notificato, l’esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili. Il creditore procedente ha ovviamente pignorato certi beni con riferimento al valore del suo credito. Oggetto di pignoramento quindi è una quantità di beni di valore pari o di poco superiore al credito. Matali beni, che sono sufficienti per il creditore procedente, diventano insufficienti quando intervengono altri creditori. Se i beni pignorati sono tutto quanto c’è di attivo nel patrimonio del debitore, evidentemente si verifica una situazione di incapienza del patrimonio del debitore. 65 Si applicano quindi le regole di diritto sostanziale: si fa una lista di creditori da soddisfare, mettendo prima i creditori con prelazione nell’ordine previsto dal codice civile, poi i creditori chirografari in proporzione ai rispettivi crediti. Ma se la quantità dei beni pignorati deriva da una doverosa scelta del creditore procedente, che ha limitato il pignoramento in relazione all’entità del suo credito, e nel patrimonio del debitore vi sono altri beni utilmente pignorabili, è chiaro che il meccanismo della soddisfazione proporzionale non funziona più, perché qui non siamo in una situazione di incapienza. Gli altri creditori sono intervenuti nell’esecuzione non perché nel patrimonio del debitore non vi fossero altri beni, ma per loro scelta, oppure perché non hanno titolo esecutivo. Il creditore procedente può allora indicare agli intervenuti l’esistenza di altri beni, ed invitarli ad estendere il pignoramento (se hanno titolo esecutivo) oppure ad anticipare a lui le spese (se non hanno il titolo), per effettuare l’estensione col proprio titolo. Una volta che il procedente abbia effettuato quanto sopra indicato, la palla passa ai creditori intervenuti, i quali, se non rispondono all’invito ad estendere il pignoramento, diventano postergati al creditore procedente al momento della distribuzione. Siamo quindi in presenza di una seconda ipotesi di prelazione di natura processuale (la prima è la tardività dell’intervento dei creditori chirografari). L’art. 499, co. 4, omette di stabilire cosa accade se l’invito è effettuato dal creditore procedente ad un creditore intervenuto non munito di titolo esecutivo, e questi omette di anticipargli le spese necessarie all’estensione del pignoramento. Ma le conseguenze, ragionevolmente, saranno identiche: il creditore pignorante acquista una prelazione processuale in sede di distribuzione. 66 Capitolo 14 La vendita e l'assegnazione in generale Pignoramento in generale Nella seconda fase del processo di espropriazione, il diritto pignorato viene liquidato, cioè trasformato in una somma di denaro, in modo da poter soddisfare il creditore procedente ed i creditori eventualmente intervenuti. La liquidazione non è necessaria: e Seilbene pignorato consiste in una somma di denaro ex art. 517, co. 2 (bene che l’ufficiale giudiziario deve preferire; e Nel caso dell’art. 494, ultimo comma, cioè quando il debitore ha consegnato una somma di denaro come oggetto di pignoramento; e Nelle ipotesi dell’art. 495, in seguito alla conversione del pignoramento. Negli altri casi occorre invece procedere alla liquidazione. Termine dilatorio Nel passaggio dalla fase di pignoramento a quella della liquidazione è fondamentale l’art. 501, che prevede un termine minimo di 10 giorni dal pignoramento alla domanda di assegnazione o vendita. Considerando ora che — ex art. 497 — il pignoramento perde effetti decorsi 45 giorni dal giorno in cui è compiuto senza che sia chiesta l'assegnazione o la vendita, vediamo che, effettuato il pignoramento, ci sono 35 giorni utili per proporre l’istanza di vendita. Il termine dilatorio previsto dall’art. 501 ha due funzioni: 1. Anzitutto, consente al debitore di reagire pignoramento; 2. In secondo luogo, dà agli altri creditori un minimo di tempo per poter tempestivamente intervenire nell’esecuzione. Con riferimento al pignoramento dei crediti, il termine dilatorio è quello che va dalla notificazione dell’atto di pignoramento all’udienza fissata nello stesso atto ex art. 543, co. 1, n. 4. Il termine dilatorio per l’istanza di vendita non si applica alle cose deteriorabili, per le quali la liquidazione può essere immediata. Istanza di vendita L’art. 529 stabilisce che, decorso il termine dilatorio, il creditore procedente e i creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo possono chiedere la distribuzione del denaro e la vendita di tutti gli altri beni. L’art. 552 per l'espropriazione dei crediti rinvia agli artt. 529 ss. L’art. 567 per l'espropriazione immobiliare ripete quello che abbiamo già visto per l’espropriazione mobiliare. Da tali norme ricaviamo che, per proporre istanza di vendita, occorre essere muniti di titolo esecutivo e l’istanza può essere proposta dal creditore procedente o da qualsiasi altro creditore. Mancando l’istanza, il pignoramento perde efficacia. I creditori privi di titolo esecutivo aspetteranno di avere un titolo esecutivo o terranno gli occhi aperti per vedere se ci sarà un altro pignoramento e per poter così intervenire nella successiva espropriazione. Assegnazione I modi per procedere alla liquidazione sono la vendita e l’assegnazione. Dal punto di vista degli effetti sostanziali non c’è differenza: in ogni caso il diritto pignorato si trasferisce ad un altro soggetto. La differenza è invece processuale: e Nella vendita il soggetto, che diventa titolare del diritto pignorato al posto dell’esecutato, può essere qualunque soggetto, tranne il debitore esecutato; e Nell’assegnazione il diritto viene trasferito a uno dei creditori. L’assegnazione è dunque un affare fatto “in famiglia” con i creditori, fra soggetti che già sono parti del processo esecutivo: è ovvio, quindi, che esistono delle condizioni e dei limiti all’assegnazione, per garantire che essa non abbia luogo per una somma non corrispondente al valore effettivo del bene. L’assegnazione può assumere due diverse configurazioni: 67 Può darsi, quindi, che all’udienza siano proposte opposizioni agli atti esecutivi, oppure che sia ancora in corso il processo sorto da una opposizione proposta prima. Se le parti raggiungono un accordo sulla nullità, la controversia relativa ai vizi dell’atto viene risolta nel modo con cui le parti si siano trovate d’accordo, e il giudice, se l’accordo lo consente, può procedere a disporre la vendita del bene. Se parti non si mettono d’accordo, il giudice deve decidere le opposizioni degli atti esecutivi prima di disporre la vendita o la assegnazione del bene. Il provvedimento che dispone la vendita del bene è quindi successivo alla decisione dell’opposizione agli atti esecutivi. Pregiudizialità fra rito e merito Il legislatore ha ritenuto necessario condizionare l'emanazione del provvedimento di liquidazione al previo accertamento dell’inesistenza di nullità del processo esecutivo: in altri termini, non si può andare avanti con la vendita o con l’assegnazione. se non dopo aver risolto le questioni relative alla nullità degli atti del processo esecutivo. Ciò costituisce una caratteristica peculiare del processo esecutivo, in relazione alla quale esso si differenzia profondamente dal processo di cognizione, e che discende dalla struttura del processo esecutivo stesso. Infatti, sia il modo con cui si sollevano le questioni relative alla nullità degli atti, sia il coordinamento fra la decisione di tali questioni e i vari provvedimenti esecutivi che vengono emessi, debbono per necessità di cose essere diversi da quelli che si hanno nel processo di cognizione. ® Sotto il primo profilo, e cioè in relazione alle modalità con cui sono trattate le questioni relative alla nullità degli atti, il processo esecutivo non costituisce un ambiente idoneo a risolvere le controversie, a differenza del processo di cognizione che ha struttura decisoria e nel quale, quindi, le questioni relative al rito sono trattate e decise insieme a quelle relative al merito. ® Sotto il secondo profilo, e cioè in relazione al fatto che non è possibile procedere alla vendita del bene se non dopo aver deciso le controversie relative alla nullità degli atti del processo esecutivo, occorre tener conto che il processo di cognizione si divide in: o Una fase preparatoria, che si svolge senza che si producano effetti extraprocessuali; o Una fase decisoria, cioè la pronuncia della sentenza, che è l’ultimo atto del processo. Nel processo di cognizione, dunque, può accadere che una parte sollevi un’eccezione di nullità relativa ad un atto del processo stesso; niente impedisce al giudice di accantonare per il momento la questione e di dar luogo all’istruzione della causa. Ma accantonare la questione non significa dimenticarla; l'accantonamento non pregiudica nessuno, perché prima di arrivare alla sentenza non vi sono provvedimenti che abbiano efficacia stabilite al di fuori del processo. L’accantonamento della questione di nullità può valere solo fino al momento della decisione della causa. Quando pronuncia la sentenza, il giudice, che aveva accantonato l’eccezione di nullità dell’atto, deve rispettare l’ordine logico che gli impone l’esame delle questioni e non può emettere una pronuncia di merito se non dopo aver esaminato l’eccezione di nullità e averla trovata infondata. Se il giudice, invece, trova fondata l’eccezione, ciò costituisce motivo sufficiente per impedirgli l’emanazione della sentenza di merito, oppure per imporgli di non tener conto dell’atto nullo nel decidere il merito. La parte, che ha tempestivamente eccepito la nullità, non riceve alcun pregiudizio, perché è sicura comunque che il giudice, prima di emettere un provvedimento che abbia effetti definitivi sul terreno del diritto sostanziale, deve esaminare e risolvere l'eccezione di nullità sollevata. Nell’espropriazione forzata, invece, gli atti non sono tutti preparatori di un atto finale, che è l’unico a produrre effetti stabili extra processuali. Al contrario, vi sono due atti, che hanno effetti extraprocessuali di “merito”: la vendita forzata e la distribuzione del ricavato. Non è possibile pertanto, nel processo esecutivo l’accantonamento della questione di rito, in attesa del provvedimento finale, perché nel processo esecutivo ha effetti extraprocessuali, di merito, non soltanto l’atto finale (la distribuzione del ricavato), ma anche un atto intermedio (la vendita forzata). La previsione degli art. 530 e 569 ricostruisce normativamente la necessaria pregiudizialità fra il rito eil merito, che è automatica nel processo di cognizione. 70 In sostanza, tali norme sono espressione del principio secondo il quale, prima di poter emettere il provvedimento di merito, bisogna essere sicuri che il processo sia corretto dal punto di vista del rito. Se è sollevata una questione di rito con l’opposizione agli atti esecutivi, bisogna decidere la questione di rito prima di emettere la misura giurisdizionale di merito. Come il giudice della cognizione, di fronte a una questione di rito e a una questione di merito, al momento della decisione deve prima affrontare la questione di rito e poi quella di merito, così, nel processo esecutivo, prima di emettere la misura di merito (la vendita) occorre decidere attraverso l’opposizione degli atti esecutivi la questione di rito. Gli artt. 530 e 569 stabiliscono che si abbia decisione, con sentenza, dell’opposizione agli atti esecutivi e, solo successivamente, la pronuncia dell’ordinanza di vendita o assegnazione. Queste norme, però, non prendono in considerazione l’eventuale impugnazione della sentenza che decide sull’opposizione agli atti esecutivi: esse non dicono che cosa accade se è impugnata la sentenza, con la quale si afferma la validità, dal punto di vista del rito, del processo esecutivo. La lacuna dipende dal fatto che, nella stesura originaria del codice del 1942, la sentenza che decideva l’opposizione agli atti esecutivi era inimpugnabile. Ma, in virtù dell’art. 111, co. 2, Cost., la sentenza che decide l’opposizione agli atti esecutivi è suscettibile di impugnazione in Cassazione. Impugnazione della sentenza Pronunciata la sentenza che rigetta l'opposizione agli atti, e quindi apre la strada alla vendita forzata, le soluzioni possibili sono due: ® Osiaspetta il giudicato; ® Ocisiattienealla lettera degli artt. 530 e 569, e si afferma sufficiente la sentenza di primo e unico grado, ed irrilevante la sua eventuale impugnazione. La soluzione più corretta sembra essere la prima, e quindi che occorra attendere giudicato. Infatti: e Ilsilenzio del legislatore non ha alcun significato, perché la sentenza era inimpugnabile e quindi non aveva senso che il legislatore si ponesse il problema; ® La pregiudizialità fra rito e merito deve essere mantenuta fin tanto che la parte ha diritto di far controllare con l’impugnazione la sentenza che decide l’opposizione. Il legislatore ha, infatti, imposto la preventiva decisione delle questioni di rito per evitare che si procedesse alla vendita quando è ancora incerta la validità del processo esecutivo, e quindi che una successiva (alla vendita) dichiarazione di invalidità, ad es., del pignoramento, comportasse la caducazione della vendita stessa. Stima del bene Siamo dunque arrivati al punto in cui opposizione agli atti non ce ne sono, oppure si è raggiunto un accordo, o c’è stata una sentenza passata in giudicato che le rigetta. Il giudice dispone con ordinanza la vendita forzata (o l’assegnazione, nei casi in cui ciò è possibile). Ma disporre la vendita o l’assegnazione significa anche attribuire un valore al bene che è stato pignorato. Ciò, fino a questo momento, non è avvenuto in alcun modo nell’espropriazione dei crediti, nell’espropriazione presso terzi e in quella immobiliare; nell’espropriazione mobiliare si è avuta solo una determinazione provvisoria del valore del bene pignorato, perché al momento del pignoramento l’ufficiale giudiziario, recatosi nei luoghi di cui all’art. 513, ha sottoposto a pignoramento una serie di beni a cuno dei quali ha attribuito un valore provvisorio, e si è fermato quando ha raggiunto, sommando il valore dei beni pignorati, l'entità del credito per il quale si procede. Ma è chiaro che la determinazione del valore fatta in quella sede dall’ufficiale giudiziario non può essere vincolante anche per quanto riguarda la vendita; sarà necessario procedere alla valutazione del bene ad opera di uno stimatore. Ciò è quanto dispongono gli artt. 532-535 e 568. A questo punto le strade si dividono e bisogna seguire le varie forme di espropriazione nelle loro singole specificità. perché i vari tipi di beni sono assoggettati a modalità diverse di liquidazione. 71 Capitolo 15 Le singole forme di vendita forzata Vendita mobiliare Nell’espropriazione mobiliare, la disciplina è unitaria per l’espropriazione diretta e per quella di beni mobili che il debitore ha presso terzi. L’art. 552 rinvia infatti agli artt. 529 ss. I modi di liquidazione sono essenzialmente due: a. Vendita a mezzo commissionario: è disciplinata dagli artt. 552 e 553. Essa consiste nell’affidare la vendita del bene mobile, preventivamente stimato da un esperto, per un prezzo minimo stabilito dal giudice, ad un soggetto il quale lo vende a trattativa privata, attraverso un contratto che egli stipula con l’acquirente. L’incarico è normalmente conferito all’Istituto vendite giudiziarie, e può essere conferito ad un soggetto diverso dall’Istituto vendite giudiziarie solo se si tratta di beni con caratteristiche peculiari, che consigliano di rivolgersi ad un commerciante, specializzato nel settore. La liquidazione avviene quindi con un atto che ha la natura, le caratteristiche e gli effetti di un ordinario atto negoziale di compravendita di un bene mobile. In sostanza, l’atto traslativo non avviene all’interno del processo esecutivo, ma è delegato ad un terzo; il processo esecutivo recepisce gli effetti dell’atto traslativo che viene compiuto fra il commissario e l’acquirente in vendita forzata. Il commissionario ha diritto ad un compenso che stabilisce il giudice stesso, deve documentare la vendita e versare la somma che ha ricavato nelle casse dell’esecuzione. b. Vendita all’incanto: è disciplinata dagli artt. 534 e 537. Secondo l’art. 534, la vendita all’incanto può essere affidata al cancelliere, o all’ufficiale giudiziario, o_ad un istituto all’uopo autorizzato. Di solito viene affidata agli Istituti vendite giudiziarie, che sono società che hanno, tra le altre finalità, anche quella di procedere alla vendita forzata dei beni mobili. Viene stabilito un prezzo minimo per l’incanto, viene fissata la data dell’incanto e nei giorni precedenti all’incanto, l’incaricato si reca a ritirare i beni mobili dal custode, perché la vendita all’incanto dei beni mobili avviene in presenza del bene: quindi chi partecipa alla vendita all’incanto vede il bene che viene messo in vendita. L’aggiudicazione è fatta al maggiore offerente. L’acquirente paga il prezzo e si porta via il bene, il soggetto incaricato della vendita versa all’esecuzione il ricavato, trattenendosi anche qui il compenso che per legge spetta all’incaricato della vendita dei beni mobili. Nella vendita all’incanto dei beni mobili, il trasferimento della proprietà avviene al momento del pagamento del prezzo. Non si applica, quindi, il principio consensualistico valido per i contratti (art. 1376 c.c.): ciò conferma che all’analogia degli effetti della vendita forzata e della vendita di diritto comune non corrisponde un’analogia nel regime dei rispettivi atti: atti aventi una natura e una disciplina ben diverse ben possono produrre gli stessi effetti. Vendita fallita Può darsi che la vendita del bene mobile non abbia luogo in alcuna delle due forme che abbiamo esaminato, perché non si trova nessuno che offra il prezzo minimo di stima. Abbiamo così l’ipotesi della vendita fallita, cioè della vendita non effettuata per mancanza di offerenti. L’art. 538 prevede due possibilità: 1. Chesi abbia l’assegnazione del bene, su richiesta di uno o più creditori, per il valore di stima che il giudice ha determinato prima di procedere alla vendita dello stesso; 2. Se nessuno chiede l’assegnazione, l’incaricato effettua una seconda vendita all’incanto ad un prezzo base inferiore del 20% rispetto al precedente. La seconda vendita a prezzo libero non può essere disposta, però, per gli oggetti d’oro e d’argento, i quali, se invenduti, devono essere coattivamente assegnati per il loro valore intrinseco (art. 539). Gli artt. 534-bis e 534-ter c.p.c. disciplinano una forma particolare di vendita dei beni mobili registrati (autoveicoli, navi, aeromobili, ecc.). 72 Offerta in busta chiusa (vendita senza incanto La vendita senza incanto (artt. 570-572) consiste in un invito a fare la propria offerta in cancelleria in busta chiusa, offerta che rimane sconosciuta fino a che non vengono aperte le buste. Possono partecipare tutti gli interessati (quindi anche i creditori), tranne il debitore esecutato, perché non ha senso un acquisto da se stesso. Una forma particolare di modalità di offerta è quella fatta per persona da nominare, ad opera di un avvocato. Costui può offrire una certa somma senza indicare il soggetto interessato all’acquisto; avvenuta l’aggiudicazione a suo favore (art. 583), entro 3 giorni deve depositare in cancelleria il nome del vero acquirente. Da tale momento in poi la procedura prosegue con l’acquirente effettivo. Se non viene fatta la dichiarazione, l’aggiudicazione diviene definitiva a nome dell’avvocato. Si ricorre a questa forma di offerta quando non si vuole far sapere che si è interessati all’acquisto del bene. Con il deposito in cancelleria dell’offerta in busta chiusa si deve versare. a titolo di cauzione. una somma equivalente a 1/10 del prezzo offerto. Quando è scaduto il termine per il deposito in cancelleria delle buste, il giudice dell’esecuzione le apre e vede le offerte effettuate. Poi convoca tutte le parti del processo esecutivo e se l’offerta maggiore è pari o superiore al valore di stima, l’immobile è immediatamente aggiudicato all’offerente. Altrimenti si passa alla vendita all’incanto se il creditore procedente lo richiede, o se il giudice lo ritiene opportuno. Tuttavia il bene può essere aggiudicato anche se l’offerta è inferiore di non più di ‘4 rispetto al prezzo stabilito nell’ordinanza di vendita, se il giudice ritiene che non vi siano serie possibilità di ottenere di più, e sempre che non vi siano richieste di assegnazione. Qualora vi siano più offerte, il giudice dell’esecuzione invita i più offerenti ad una gara sull’offerta più alta (art. 573). Quando il giudice ritiene di accogliere l’offerta, allora deve emettere due decreti: e Conilprimo stabilisce le modalità di versamento del prezzo; se il versamento non è effettuato, il giudice provvede ad una rivendita all’incanto del bene e la cauzione che aveva versato l’acquirente viene incamerata nelle casse dell’esecuzione; e se, nella rivendita, il bene spunta ad un prezzo minore, per la differenza del prezzo offerto non pagato e il prezzo minore ottenuto nella rivendita resta obbligato il soggetto offerente ed inadempiente. e Se, viceversa, l’acquirente versa la somma con le modalità e nei termini previsti dal primo decreto, allora il giudice emette secondo decreto, il decreto di trasferimento, che è l’atto terminale del procedimento di liquidazione, e che ha l’effetto di trasferire all’acquirente il diritto pignorato al debitore. Vendita all’ incanto L’altra modalità di liquidazione è la vendita all’incanto (artt. 576 ss.). Essa inizia con il bando di vendita, che ha anch’esso la sua pubblicità. Il bando stabilisce il giorno e l’ora in cui, nell’udienza pubblica, in presenza del giudice, si procederà alla vendita. I soggetti che possono partecipare sono gli stessi della vendita senza incanto ed anche qui vi è la po: tà di offerte per persona da nominare da parte di un procuratore legale; gli offerenti debbono prestare la stessa cauzione. All’udienza (che eccezionalmente può tenersi anche se non è presente un creditore munito di titolo esecutivo), il giudice procede alla vendita all’incanto ex art. 581. Ciascun soggetto, che si è legittimato a partecipare, fa oralmente la sua offerta. Trascorsi tre minuti dall’ultima offerta senza che ne siano fatte di maggiori, il bene viene aggiudicato all’ultimo offerente. Si sono individuati, così, l'offerente e il prezzo di vendita. Le cose possono non finire qui, perché, entro 10 giorni dall’incanto, possono essere fatte delle offerte in aumento di almeno 1/5 del prezzo raggiunto nell’aggiudicazione. Qui si innesta nella vendita all’incanto una specie di vendita senza incanto, cioè si passa alla vendita con le offerte in cancelleria. Uno o più offerenti in aumento depositano la propria offerta; il giudice convoca gli offerenti e l’aggiudicatario per la gara prevista, dopodiché il giudice procede nel modo già visto. 75 Decreto di trasferimento L’offerente all’incanto, o il vincitore della gara di cui sopra, deve versare il prezzo nel modo stabilito nel bando di vendita; se non versa il prezzo nel termine stabilito, si producono le stesse conseguenze viste in relazione alla vendita senza incanto. Se il versamento viene effettuato, il giudice pronuncia il decreto di trasferimento previsto dall’art. 586. Questa norma consente al giudice di non pronunciare il decreto di trasferimento se ritiene che il prezzo di aggiudicazione sia notevolmente inferiore al valore effettivo del bene. Parte della dottrina sostiene che il trasferimento del bene avviene al momento dell’aggiudicazione. L’art. 586 sembra suggerire la soluzione contraria per tre motivi: 1. Perché esso espressamente stabilisce che il decreto trasferisce il bene dell’aggiudicatario; 2. Perché dichiara il decreto di trasferimento titolo per la trascrizione; 3. Perché la possibilità per il giudice di non pronunciare il decreto, quando ritiene che il prezzo di aggiudicazione non corrisponda al valore effettivo del bene, non sarebbe compatibile con il già avvenuto trasferimento della proprietà. Quindi il trasferimento avviene con il decreto, e non con l’aggiudicazione.. La conclusione cui si è giunti non è contraddetta dall’art. 187-bis disp. att. c.p.c., secondo il quale: In ogni caso di estinzione o di chiusura anticipata del processo esecutivo avvenuta dopo l’aggiudicazione, anche provvisoria, o l’assegnazione, restano fermi nei confronti dei terzi aggiudicatari o assegnatari, in forza dell’art. 632, co. 2, del codice, gli effetti di tali atti. Questa disposizione, introdotta nella riforma del 2006 a maggior tutela dell’affidamento dell’acquirente, applica la regola prevista nell’art. 632, anche alle aggiudicazioni o assegnazioni provvisorie: ciò non significa che il trasferimento del diritto avvenga con tali atti, ma solo che il processo esecutivo prosegue limitatamente a tale subprocedimento, nel quale si provvede al compimento degli atti che portano al definitivo trasferimento del diritto. Con il decreto di trasferimento si dispone la cancellazione della trascrizione del pignoramento e delle iscrizioni ipotecarie. L'effetto purgativo della vendita forzata non è previsto dal codice civile, ma si ricava dall’art. 586, co. 1. L’ipoteca può rimanere con effetto nei confronti dell’aggiudicatario solo sulla base di un accordo fra creditore ipotecario e aggiudicatario (art. 508). L’aggiudicatario può finanziare il proprio acquisto mediante mutuo ipotecario. In questo caso, mutante e mutuatario possono stabilire, a garanzia del mutuante, che le somme siano versate all’esecuzione contestualmente all’iscrizione dell’ipoteca. Se questo accade, la trascrizione del decreto di trasferimento deve essere contestuale all’iscrizione ipotecaria (art. 585, co. 3). Titolo per il rilascio Il decreto di trasferimento costituisce titolo esecutivo per il rilascio, cioè per ottenere la consegna del bene acquistato (art. 586, co. 2 e 3). La norma prevede che il decreto contenga l’ingiunzione al debitore o al custode di rilasciare l'immobile venduto. L’art. 560, co. 3 e 4, prevede che il custode liberi il bene in via amministrativa o prima della vendita o, al più tardi, quando è disposta l’aggiudicazione o l’assegnazione, tranne che l’aggiudicatario o l’assegnatario non lo esentino da tale compito. Quindi il decreto di trasferimento è titolo esecutivo per il rilascio solo se l'aggiudicatario o l’assegnatario preferiscono provvedere in proprio. Essi, infatti, non essendo titolari di poteri pubblicistici, debbono ottenere il rilascio del bene attraverso il processo esecutivo. Vendita fallita Ex art. 588, ciascun creditore può chiedere l’assegnazione del bene immobile, per la somma maggiore tra il valore del bene secondo stima da un lato, e dall’altro i crediti aventi prelazione anteriore al richiedente. L’istanza di assegnazione deve essere avanzata dal creditore almeno 10 giorni prima della data fissata per l’incanto, per l’ipotesi in cui esso vada fallito. Il creditore può chiedere anche l’assegnazione a favore di un terzo (art. 590-bis). La disciplina è simile a quella dell’offerta per persona da nominare (artt. 579, co. 3 e 583). 76 Amministrazione giudiziaria Se non si provvede all’assegnazione, il giudice può provvedere in due modi: e O dispone l’amministrazione giudiziaria del bene immobile; ® O dispone una nuova vendita. Il giudice può stabilire nuove condizioni di vendita, oppure fissare un prezzo base inferiore fino al massimo del 25% al precedente. Il ribasso può arrivare, dopo il quarto tentativo di vendita, fino al 50% del prezzo stabilito nel primo tentativo di vendita. Ciò significa che ad un valore inferiore il bene immobile non può essere venduto. In caso di ribasso, tuttavia, non si procede direttamente ad un nuovo incanto, ma si ripercorre di nuovo tutto l’iter: vendita senza incanto, poi eventualmente vendita con incanto. In alternativa ad un nuovo tentativo di vendita, il giudice può disporre l’amministrazione giudiziaria, che è utile in due direzioni. e Anzitutto, quando il bene produce dei frutti tali da poter soddisfare i creditori: in questo caso si ha una sorta di anticresi processuale. Quindi il bene viene affidato al custode, il quale lo gestisce, ne prende i frutti, che possono essere distribuiti nel corso dell’amministrazione giudiziaria ai creditori; o Se coni fiutti si soddisfano tutti i creditori, l’amministrazione giudiziaria cessa e il bene viene restituito al debitore; o Se, viceversa ciò non accade, nel termine massimo di tre anni bisogna procedere all’ulteriore vendita del bene. e L’altra ipotesi che può indurre il giudice a disporre l’amministrazione giudiziaria dipende dal mercato: se è un momento in cui le offerte di acquisto sono scarse, il giudice può decidere di aspettare che il mercato immobiliare si risvegli. Delega al professionista Alcune attività del processo esecutivo possono essere delegate a professionisti: ciò accade per la vendita dei beni immobili e dei mobili registrati. Le attività previste dagli artt. 591-bis non si svolgono più presso l’ufficio esecutivo, ma presso lo studio del professionista, o in altro luogo dal professionista stesso indicato: anche la vendita, quindi, non ha più luogo in pubblica udienza, come prevede l’art. 581. Il professionista provvede a determinare il prezzo della vendita, a dare pubblicità alla stessa, effettuare la vendita senza incanto ed eventualmente quella successiva all’incanto, aggiudicare il bene, ricevere il pagamento del prezzo, etc. Egli predispone anche il decreto di trasferimento, che peraltro resta, anche in caso di delega, atto del giudice dell’esecuzione (art. 591-bis). Se, nel corso delle operazioni affidate al professionista, sorgono difficoltà, il professionista stesso può rivolgersi al giudice dell’esecuzione, il quale provvede con decreto. Le parti possono proporre reclamo al giudice dell’esecuzione attraverso tale decreto e avverso gli atti del professionista: il reclamo è deciso con ordinanza, nei confronti della quale può essere proposto reclamo. L’art 164-bis disp. att. prevede un rimedio estremo in caso di infruttuosità dell’espropriazione. Stabilisce la norma che il giudice dispone la chiusura anticipata del processo esecutivo “quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo”. Il giudice deve quindi fare una valutazione dei costi e dei benefici: se i primi superano i secondi, non è utile proseguire l’espropriazione. Gli elementi attivi non liquidati ritornano nella disponib: del debitore, ed i creditori potranno instaurare una nuova esecuzione (se vi sono altri beni da espropriare). I creditori possono sempre comunque chiedere l’assegnazione dei beni pignorati al prezzo di stima. 77 Tutto ciò è logico, perché sul piano del diritto sostanziale la proprietà del bene è passata da colui che ha concesso l’ipoteca a un terzo, magari da questi ad un altro soggetto e così via, quindi il creditore ipotecario agisce contro l’ultimo acquirente e contro questi si crea il titolo di trasferimento a favore dell’aggiudicatario, che viene così ad essere l’ultimo avente causa di tutta la catena di trasferimenti. b. I titolari di diritti reali minori (servitù, usufrutto, uso, abitazione): per tali diritti (di cui alla prima categoria: art. 2812, co. 1) il meccanismo è diverso. L’espropriazione si fa ignorando i titolari di questi diritti. Perché? Nel codice civile francese, da cui è derivato il nostro attuale art. 2812 c.c., la ripartizione era diversa. a. Per noilaripartizione corre tra usufrutto, uso, abitazione e servitù da un lato; enfiteusi, superficie, nuda e piena proprietà dall’altro. b. Nel c.c. francese la ripartizione correva tra usufrutto, superficie, enfiteusi e nuda proprietà da un lato, ed uso, abitazione e servitù dall’altro. L’usufrutto, che per noi sta nel c.d. gruppo dei diritti reali minori, nel codice civile francese stava nel c.d. gruppo dei diritti maggiori. La ragione è la seguente: l’espropriazione contro il titolare dei diritti di uso, abitazione e servitù non è possibile, perché i diritti di uso, abitazione e servitù non sono trasferibili sul piano del diritto sostanziale: quindi non si può formare il titolo di trasferimento tra l’acquirente in vendita forzata e il titolare di questi diritti minori. Nella originaria versione della norma, la distinzione aveva quindi un senso: esecutato era il titolare di un diritto suscettibile di essere trasferito; non diveniva invece parte esecutata il titolare del diritto insuscettibile di essere trasferito. Il diritto intrasferibile non può, appunto, trasferirsi all’aggiudicatario, ma può solo estinguersi. Il pasticcio nasce quando, recependo la regola, il legislatore italiano inserisce anche l’usufrutto nella categoria di quelli intrasferibili. E così, se ci si limita a leggere l’art. 2812 c.c., non si capisce la ratio della distinzione. I titolari dei diritti reali minori non divengono esecutati, perché, tranne l’usufruttario, non sono titolari di un diritto suscettibile di essere trasferito; il loro diritto, con la vendita forzata, si distingue per incompatibilità, e si trasforma in una somma di denaro che è l’equivalente del diritto estinto (art. 2812, co. 2). Tale credito può essere fatto valere nell’espropriazione con preferenza rispetto alle ipoteche iscritte successivamente alla data di trascrizione dell’atto costitutivo del diritto, anche rispetto al creditore pignorante che non sia il creditore ipotecario. I titolari dei diritti, che si estinguono con l’espropriazione, diventano creditori privilegiati iscritti: ® Privilegiati: hanno preferenza sui creditori ipotecari posteriori e sui chirografari; ® Iscritti: il loro credito deriva dalla trasformazione di un diritto che trae origine da un atto trascritto. Essendo la loro posizione destinata a trasformarsi in un diritto di credito avente ragione di prelazione, risultante dei pubblici registri, essi rientrano nella previsione dell’art. 498 c.p.c., e quindi debbono essere avvertiti della pendenza del processo esecutivo. Essi possono, pertanto, intervenire nel processo esecutivo come creditori potenziali per effetto della vendita, e quindi far valere le loro ragioni sul ricavato. Se, poi, hanno motivi di difesa nel merito, cioè ritengono di non dover subire l’effetto estintivo, possono far valere le loro ragioni con l’opposizione di terzo ex art. 619. Se, invece, l’ipoteca è valida ed efficace, il loro diritto si trasforma in un credito avente ad oggetto una somma di denaro. Acquisto a titolo originario L’inciso contenuto nell’art 2919 c.c. “salvi gli effetti del possesso di buona fede” l'abbiamo trovato anche nell’art. 2913, il quale stabilisce che gli atti di disposizione del diritto pignorato non hanno effetto in pregiudizio del creditore procedente e dei creditori intervenuti, salvi gli effetti del possesso di buonafede per i beni mobili non iscritti in pubblici registri. 80 I beni mobili registrati non sono infatti assoggettati alla forma di circolazione disciplinata dagli artt. 1153 e 1155 c.c. La fattispecie dell’art. 2913 fa riferimento ad un atto di disposizione che compia il debitore esecutato o più in generale il custode del bene mobile pignorato, il quale fa realizzare un acquisto a titolo originario a favore dell’acquirente, titolo che è prevalente rispetto a quello del creditore procedente, e quindi idoneo a sottrarre il bene dall’espropriazione. Ove l’alienazione provenga dall’esecutato, la portata dell’art. 1153 c.c. non è quella di sanare un difetto di titolarità. Partendo dal presupposto che il bene pignorato sia effettivamente di proprietà dell’esecutato, che compie l’atto di disposizione, l’art. 1153 serve a sanare un difetto di potere dispositivo, a superare il vincolo di indisponibilità creato dal pignoramento. Se l'acquisto disciplinato dall’art. 1153 è addirittura idoneo a sanare la carenza di titolarità del diritto, evidentemente può anche sanare la carenza di potere di disporre o superare una inefficacia relativa dell’atto di disposizione. Nell’art. 2919 c.c., invece, acquirente di buona fede non è il terzo al quale il debitore esecutato aliena il bene mobile pignorato, ma è l’aggiudicatario, il quale fonderà il suo acquisto: 1. Sul titolo astrattamente idoneo costituito dalla vendita o assegnazione forzata; 2. sulla consegna del bene mobile; 3. Sulla buona fede, consistente nella mancata conoscenza che il bene non appartiene a colui che ha subito l’espropriazione. La buona fede qui consiste nel fatto che l'acquirente in vendita forzata non sa che il bene è di proprietà di un terzo. Se lo sapesse, mancherebbe la buona fede. Nel caso dell’art. 2913 c.c., la buona fede consiste nel non sapere che il bene è pignorato; qui, nel non sapere che il bene non appartiene all’esecutato. La buona fede, infatti, va vista volta per volta contiferimento all'elemento carente che impedisce l’acquisto a domino: tale elemento può essere la mancanza di proprietà, come nel caso dell’art. 2919 c.c., oppure l’esistenza di un limite al potere dispositivo del diritto, come nel caso dell’art. 2913 c.c. Conflitto tra aggiudicatario e terzo proprietario Nel momento in cui nasce il diritto acquistato a titolo originario dall’acquirente in vendita forzata, si viene a creare una situazione di incompatibilità con quella del terzo proprietario del bene. La nascita di un diritto incompatibile in capo all’aggiudicatario produce necessariamente l’estinzione del diritto del terzo proprietario. Nell’ipotesi in cui l’esecutato non fosse titolare del diritto pignorato e trasferito, il conflitto fra terzo, proprietario del bene, e l’acquirente in vendita forzata si risolve: e Normalmente (perché la vendita forzata per regola generale dà luogo ad un acquisto a titolo derivativo) a favore del terzo; ® Eccezionalmente (quando la vendita forzata dà luogo ad un acquisto a titolo originario) a favore dell’aggiudicatario. Prevalenza dell’aggiudicatario Dobbiamo ora vedere la tutela di colui che, nel conflitto ipotizzato, rimane soccombente, iniziando dall’acquisto a titolo originario e quindi nel caso in cui soccombente è il terzo (ormai ex) proprietario. La disciplina è data dagli artt. 2920 c.c. per la vendita, e 2926 c.c. per l'assegnazione. Ex art. 2920 c.c., se oggetto della vendita forzata è una cosa mobile, coloro che avevano la proprietà o altri diritti reali su di essa ma non hanno fatto valere le loro ragioni sulla somma ricavata dall’espropriazione, non possono farle valere nei confronti dell’acquirente di buona fede né possono ripetere dai creditori la somma loro distribuita. Il terzo può soddisfarsi sulla somma ricavata dalla vendita finché non sia stata distribuita, finché cioè essa è nelle casse dell’esecuzione. Se il terzo proprietario non ha fatto valere le sue ragioni sulla somma, egli non può ripetere la somma dai creditori ai quali è stata distribuita. 81 È ovvio che il terzo (ex) proprietario non può far valere le proprie ragioni nei confronti dell’aggiudicatario di buona fede, il cui acquisto, proprio perché a titolo originario, è inattaccabile quantunque il bene non appartenesse a colui che ha subito l’espropriazione. Ora, l’acquisto a titolo originario presuppone: 1. Untitolo astrattamente idoneo; 2. La consegna del bene; 3. La buona fede. Il terzo proprietario del bene pignorato, una volta che sia avvenuta la vendita forzata e la consegna del bene all’aggiudicatario, deve pertanto valutare se è in grado o no di dimostrare che l'acquirente sapeva che il bene non apparteneva all’esecutato. Se il terzo ritiene di aver in mano prove sufficienti per dimostrare la malafede dell’acquirente in vendita forzata, può non far valere il suo diritto sul ricavato ed agire in rivendicazione nei confronti dell’acquirente in vendita forzata. Egli deve quindi dimostrare di essere il proprietario del bene mobile e che l’aggiudicatario sapeva che il bene non era dell’esecutato. Una volta dimostrato che, a causa della carenza di buona fede, non si è completata la fattispecie dell’art. 1153, l’acquisto in vendita forzata è qualificabile come acquisto a titolo derivativo anziché come acquisto a titolo originario, e torna così applicabile la regola generale in virtù della quale l’acquirente in vendita forzata acquista solo i diritti che sulla cosa aspettavano a colui che ha subito l’espropriazione. Il terzo può così ottenere la restituzione del bene dall’aggiudicatario. Non è quindi detto che la vendita forzata mobiliare spogli sicuramente il terzo del suo diritto di proprietà, anche se ciò è molto probabile, perché normalmente sarà difficile dimostrare che l’acquirente in vendita forzata sapeva che il bene non apparteneva all’esecutato; però ci possono essere dei casi in cui è possibile la dimostrazione della malafede. Risarcimento dei danni Rimangono tuttavia, oltre al diritto sulla somma ricavata, altre due possibilità a favore del terzo che ha perso il proprio diritto perché si è realizzato un acquisto a titolo originario a favore dell’aggiudicatario. Una prima possibilità presuppone la prova della malafede del creditore procedente, il quale ha proseguito l’esecuzione nonostante sapesse che il bene pignorato non apparteneva all’esecutato. Se il terzo riesce a dimostrare la malafede del creditore procedente, può ottenere il risarcimento dei danni. Anche in questa ipotesi riscontriamo una divergenza fra la legittimità processuale e la liceità sostanziale. Dal punto di vista processuale, se il pignoramento si è perfezionato nel rispetto degli artt. 513 ss., esso è del tutto secundum ius; e così pure pienamente legittima dal punto di vista processuale è la vendita forzata. Tuttavia, il creditore procedente, che chiede la vendita di un bene che egli sa non essere dell’esecutato, tiene un comportamento che è lecito sul piano processuale, ma illecito sul piano sostanziale. Egli ha l’obbligo sostanziale di non fare uso del suo potere processuale di chiedere la vendita del bene, che egli sa essere altrui. Indebito arricchimento Una seconda possibilità è l’arricchimento senza causa nei confronti del debitore esecutato. L’arricchimento senza causa si fonda sulla seguente considerazione: il debitore ha pagato debiti suoi con beni di altri. Il terzo proprietario non può ripetere dai creditori la somma distribuita: pertanto, i creditori si tengono la somma, con la quale viene estinto il credito che avevano nei confronti dell’esecutato per la parte corrispondente alla somma ricevuta. E quindi l’esecutato si arricchisce a spese del terzo ex proprietario, perché si libera dei propri debiti a spese altrui. Assegnazione Nell'ipotesi in cui bene è assegnato, invece che venduto, la soluzione non cambia, perché anche il provvedimento di assegnazione costituisce un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà. 82 Si deve infatti considerare che, se il processo di espropriazione è immune da vizi, il suo risultato è la trasformazione del diritto su un bene in una somma di denaro, che è istituzionalmente equivalente al diritto trasferito con l’aggiudicazione. E poiché la distribuzione del ricavato non impedisce al debitore di contestare, dopo la chiusura del processo esecutivo, la sussistenza dei crediti soddisfatti, il debitore esecutato non ha alcun motivo di chiedere all’aggiudicatario la restituzione del bene, perché egli ha la possibilità di farsi consegnare il ricavato che è istituzionalmente l’esatto equivalente del valore del bene. In ultima analisi, quindi, le nullità del processo esecutivo sono più gravi della mancanza del diritto di procedere ad esecuzione forzata: perché quest’ultima mancanza non impedisce al processo esecutivo di operare una corretta trasformazione del diritto sul bene in una somma di denaro; insomma, la trasformazione magari è ingiusta, ma certamente è attendibile, perché operata da un processo valido. Invece, le nullità del processo esecutivo fanno sì che la trasformazione sia inattendibile, che non vi sia istituzionalmente corrispondenza fra il bene ed il ricavato, perché la trasformazione è operata da un meccanismo (il processo esecutivo) viziato. Quindi è del tutto condivisibile che l’art. 2929 c.c. non faccia riferimento alla carenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata: perché la sussistenza di tale diritto non è affatto presupposto per il corretto operare del processo esecutivo. Ovviamente quanto prevede l’art. 2929 c.c. opera a tutela del terzo aggiudicatario, non può operare a favore dell’aggiudicatario o assegnatario che sia anche creditore procedente. 85 Capitolo 17 La distribuzione del ricavato Somma da distribuire Il terzo momento dell’espropriazione forzata, la fase distributiva, non ha luogo quando non sia stato possibile procedere alla realizzazione del diritto pignorato o quando questo è stato assegnato ad un creditore senza che costui abbia versato un conguaglio. La distribuzione del ricavato è disciplinata: e Ingenerale dagli artt. 509-512; e Perl’espropriazione mobiliare dagli artt. 541 e 542; e Perl’espropriazione immobiliare dagli artt. 596-598. L’art. 509 c.p.c. stabilisce che la somma oggetto della distribuzione è composta da quanto proviene a titolo di prezzo o di conguaglio, rendita o provento di cose pignorate, multa e risarcimento danni da parte dell’aggiudicatario. Ordine della distribuzione Il primo e più rilevante problema nella distribuzione del ricavato è l’ordine o graduazione dei crediti, chi è il seguente: 1. Spese della procedura: senza possibilità di deroga, anche in presenza di diritti di prelazione, al primo posto sono collocate le spese della procedura. Esse hanno la precedenza, perché costituiscono il corrispondente di ciò che è stato necessario fare per potere ottenere la somma da distribuire. Le spese che vanno prededotte sono quelle del pignoramento, della vendita, della custodia del bene, ed eventualmente le spese delle opposizioni infondatamente proposte dal debitore esecutato. 2. Creditori con diritto di prelazione: l’ordine delle prelazioni è stabilito dall’art. 2777 c.c. Se due crediti hanno lo stesso grado di prelazione, concorrono proporzionalmente tra loro. Naturalmente ciascun creditore è collocato in via privilegiata sul ricavato del bene, sul quale ha la prelazione. 3. Creditori chirografari tempestivi: ove la somma non sia sufficiente per tutti, si opera una ripartizione proporzionale. All’interno dei chirografari ci può essere una ulteriore distinzione in virtù di quanto prevede l’art. 499, co. 4: a. Se l’intervenuto non segue l’invito del creditore procedente, quest’ultimo viene soddisfatto sul ricavato con precedenza rispetto al creditore intervenuto. b. Se siè verificata la fattispecie dell’art. 499, co. 4, tra i creditori chirografari tempestivi si crea una prelazione di natura processuale interna al processo. Per primo è soddisfatto il creditore pignorante e sono a lui postergati i creditori che, pure intervenuti tempestivamente, non abbiano fatto quanto l’art. 527 prescrive. 4. Creditori chirografari tardivi: sono quelli intervenuti dopo l’udienza in cui si determinano le modalità di vendita o di assegnazione, 0, nel caso di piccola espropriazione mobiliare, quelli intervenuti dopo il deposito dell’istanza con cui il creditore procedente chiede la fissazione dell’udienza per determinare le modalità di vendita o assegnazione. Anche qui può aversi una ripartizione proporzionale 5. L’esecutato: gli spetta l’eventuale residuo. Abbiamo accennato alla possibilità di una ripartizione proporzionale del ricavato: quando ciò si rende ne ario, si sommano tutti i crediti che concorrono nella ripartizione e, fatto 100 il totale, si ricava la percentuale di ciascun credito rispetto al totale con una proporzione. Questa percentuale è quella che spetta a ciascun credito nella ripartizione. Occorre distinguere a seconda che vi siano o non vi siano creditori intervenuti. e Sevièunsolo creditore da soddisfare, il giudice dell’esecuzione convoca le parti, e dispone il pagamento, a favore del creditore, di quanto gli è dovuto; e Sevisono più creditori da soddisfare, occorre procedere alla formazione di un piano di riparto. 86 Formazione del piano di riparto Per quanto riguarda la formazione del piano di riparto, vi sono alcune differenze fra l’espropriazione mobiliare e quella immobiliare: e Nell’espropriazione mobiliare i creditori possono presentare al giudice un piano di riparto concordato tra loro, già predisposto e sottoscritto da tutti i creditori. o Intal caso l’art. 541 stabilisce che il giudice dell’esecuzione provvede in conformità, se non c’è opposizione del debitore. Se non c’è opposizione del debitore, l’accordo dei creditori è vincolante per il giudice, che non può discostarsene. o Se c’è opposizione, si procede ai sensi dell’art. 512. Se manca un piano di riparto concordato, ogni creditore, ex art. 542, può chiedere che si proceda alla distribuzione della somma ricavata: “ognuno” vuol dire qualunque creditore intervenuto, anche non munito di titolo esecutivo, ed anche se il suo credito è stato contestato dal debitore, purché, in questo caso, abbia tempestivamente proposto la domanda volta ad ottenere un titolo esecutivo (art. 499, co. 5). Il giudice prepara un piano di riparto, lo sottopone alle parti che possono approvarlo, e allora non c’è nessun problema; se invece qualcuno lo contesta, si procede ai sensi dell’art. 512 per risolvere le contestazioni. e Nell’espropriazione immobiliare le modalità di formazione del riparto sono diverse, perché il giudice procede d’ufficio, senza bisogno dell’istanza di parte, o di un piano concordato (art. 596). Il giudice prepara un piano di distribuzione, lo deposita in cancelleria e fissa una udienza; il cancelliere avvisa i creditori intervenuti e il debitore dell’avvenuto deposito e della udienza fissata; le parti hanno 10 giorni per consultare il piano di riparto. Se all’udienza non compaiono o comparendo non si oppongono, il piano di riparto è approvato. Oppure è possibile che in udienza si trovino d’accordo tra di loro per modificarlo e anche qui il giudice non può che prendere atto che c’è un accordo tra le parti e deve modificare il piano di riparto adeguandolo all’accordo che si è formato tra i creditori e il debitore. Se invece il piano di riparto è contestato e sulle contestazioni non si raggiunge un accordo, allora occorre procedere ai sensi dell’art. 512. La questione certamente più delicata riguarda la posizione del creditore, il cui credito sia stato contestato dal debitore ex art. 499, co. 6, e che abbia in corso il processo di cognizione volto ad ottenere la formazione del titolo esecutivo. La posizione degli altri creditori, invece, non pone problemi: se hanno un titolo esecutivo oppure non sono stati contestati dal debitore, essi partecipano immediatamente alla distribuzione del ricavato. Se il loro credito è stato contestato dal debitore ex art. 499, co. 6, ed essi non hanno tempestivamente instaurato il processo di cognizione volto ad ottenere un titolo esecutivo, il loro intervento ha perso effetti. Accantonamenti A favore dei creditori contestati, e che abbiano tempestivamente proposto la domanda volta ad ottenere un titolo esecutivo, l’art. 510, co. 2 e 3, prevede che il giudice dell’esecuzione disponga l’accantonamento delle somme ad essi eventualmente spettanti. In altri termini, il piano di riparto viene predisposto tenendo conto anche di questi creditori, dopodiché le somme che, in base al piano, ad essi spetterebbero, sono accantonate “per il tempo necessario affinché i predetti creditori possano munirsi di un titolo esecutivo e, in ogni caso, per un periodo di tempo non superiore a tre anni”. L’accantonamento presuppone, comunque, l’utile collocazione nel piano di riparto. Es. + I creditori concorrenti sono Tizio, creditore ipotecario per 400; Caio, creditore munito di privilegio per 200; Sempronio, creditore chirografario per 500. Il ricavato da distribuire è 600. Se il titolo esecutivo manca a tizio, vengono accantonati 400. Se manca a Tizio e Caio vengono accantonati 600. Se manca solo a Sempronio, l’intera somma è distribuita: Sempronio resta comunque insoddisfatto, vuoi che abbia vuoi che non abbia titolo esecutivo. La somma accantonata è distribuita una volta decorso il termine fissato dal giudice, su istanza di parte o anche di ufficio. La distribuzione può avvenire anche prima del termine fissato, quando tutti i creditori, che ne avevano bisogno, si sono muniti di titolo esecutivo. 87 di fuori della distribuzione del ricavato, non vi è la possibilità per un creditore di far valere, nei confronti di un altro creditore, ragioni che attengono al rango del proprio credito. Dunque, il motivo che impedisce ad un creditore, al di fuori del processo esecutivo, di contestare, nei confronti di un altro creditore, la propria collocazione nel riparto in riferimento alle rispettive prelazioni, sta tutto ed esclusivamente nel diritto sostanziale, e non ha niente a che vedere con una pretesa efficacia stabilizzatrice della distribuzione del ricavato: e la riprova sta nel fatto che, sotto questo profilo, non vi è alcuna differenza fra adempimento spontaneo e adempimento coattivo. Sia nell’uno che nell’altro, la soddisfazione di un credito effettivamente esistente non può essere contestata da un altro creditore, assumendo quest’ultimo che il proprio credito è munito di prelazione rispetto a quello soddisfatto. Controversie in sede di distribuzione La distribuzione del ricavato può essere l’occasione perché nascano delle controversie che riguardano il piano di riparto. Dobbiamo ora vedere come sono risolte queste controversie, tenendo conto delle profonde modifiche che la riforma del 2006 ha apportato alla situazione preesistente. Infatti, in precedenza, se sorgeva una controversia tra creditori o tra creditori e debitore o terzo assoggettato all’espropriazione circa la sussistenza o l'ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza delle ragioni di prelazione, tale controversia era risolta attraverso un ordinario processo di cognizione, incidentale al processo esecutivo, che nel frattempo rimaneva sospeso. In conseguenza di ciò, la sentenza che decideva la controversia formava giudicato ad ogni effetto in ordine all’esistenza ed ammontare del credito. Dunque, la sentenza che, decidendo la controversia, accertava l’esistenza del credito aveva l’effetto di stabilizzare il risultato della distribuzione, ed era ostativo ad una eventuale ripetizione dell’indebito: essa costitutiva, dunque, un elemento extra-esecutivo. Inoltre, se la soddisfazione era solo parziale, l'accertamento si formava anche in relazione al credito residuo non soddisfatto. Dopo la riforma del 2006 il meccanismo è completamente mutato: stabilisce ora l’art. 512 che, sorta la controversia, “i giudice dell’esecuzione, sentite le parti e compiuti necessari accertamenti, provvede con ordinanza”, la quale è impugnabile con l’opposizione agli atti esecutivi (art. 617). A seconda del soggetto che si ritiene di assegnare all’opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza, si giunge a conseguenze molto diverse. Le controversie in sede di distribuzione sono dunque istruite e risolte in sede di processo esecutivo: l’attività del giudice dell’esecuzione costituisce esercizio di giurisdizione esecutiva, e quindi fa capo ad un provvedimento che non può, per definizione, avere efficacia dichiarativa. L’attività che svolge il giudice dell’esecuzione non è finalizzata ad accertare se esiste o meno il credito, ma solo a distribuire il ricavato. Dunque, l’espressione “effetti limitati al processo esecutivo” significa che gli effetti della risoluzione della controversia distributiva sono quelli propri dell’esecuzione forzata: produrre la soddisfazione del diritto, e non anche accertare che tale soddisfazione è secundum ius. Da ciò consegue una importante conseguenza: poiché l’ordinanza, con la quale il giudice dell’esecuzione risolve la contestazione, non ha effetti dichiarativi, essa non produce alcun effetto di accertamento al di fuori del processo esecutivo. Conseguentemente, le possibili reazioni avverso la distribuzione, esperibili a processo esecutivo concluso, sono identiche vuoi che la distribuzione avvenga senza che sorgano contestazioni, vuoi che, invece, tali contestazioni si siano avute e il giudice le abbia risolte con l’ordinanza di cui all’art. 512. Il debitore esecutato, pertanto, potrà agire in ripetizione dell’indebito vuoi che abbia vuoi che non abbia sollevato contestazioni avverso il piano di riparto. e In precedenza il debitore poteva scegliere: o tacere, facendo così soddisfare il creditore, ed agire poi in ripetizione dell’indebito; oppure cercare di impedire la soddisfazione del creditore: ma per ottenere ciò occorreva dare luogo ad un processo dichiarativo. Chiaramente, se la sua contestazione era rigettata, si formava il giudicato sull’esistenza del credito, e ciò gli impediva di agire successivamente in ripetizione dell’indebito. 90 ® Ora, invece, la contestazione in sede distributiva ha come scopo esclusivamente quello di impedire la soddisfazione del creditore. Sicché, avendo l’accoglimento della contestazione l’unico risultato di non far avere il denaro al creditore, il suo rigetto ha come unico risultato quello di vedere il creditore soddisfatto. Quindi, quando ci si pone all’esterno del processo esecutivo, non fa alcuna differenza che il creditore sia stato soddisfatto perché il debitore non ha contestato il piano di distribuzione, oppure perché la sua contestazione è stata respinta. Quelle appena viste sono le conseguenze che, nei rapporti fra debitore e creditore, produce l’aver confinato in sede esecutiva le controversie distributive. Nei confronti dei creditori, invece, la riforma rischia di produrre una sostanziale de-giuridicizzazione dei loro rapporti. Abbiamo già visto, infatti, che al di fuori del processo esecutivo il diritto sostanziale non dà rilevanza all’ordine di soddisfazione dei creditori: il creditore insoddisfatto, avente prelazione poziore, non può pretendere da un altro creditore soddisfatto, ma con prelazione inferiore. Il rango dei rispettivi crediti può formare oggetto di una contestazione solo al momento delle distribuzioni: tant'è che a processo esecutivo concluso un creditore non può, nei confronti di un altro creditore, contestare il risultato della distribuzione. Ora, nel sistema previgente tale controversia era risolta attraverso un processo dichiarativo. Essendo questa possibilità scomparsa, potrebbe non esservi più alcuna sede, nella quale una controversia fra creditori relativa al rango dei rispettivi crediti possa divenire oggetto di un processo di cognizione. Ciò posto, occorre tuttavia tenere conto del fatto che molti dei principi, che in precedenza si applicavano alla risoluzione di tali contestazioni mediante un processo di cognizione, valgono anche quando esse sono risolte in sede esecutiva. In primo luogo, la regola generale dell’interesse ad agire si applica anche all’esecuzione forzata, sicché la contestazione sollevata deve poter essere in concreto utile per il contestante: mancherà, dunque, l’interesse ad agire quando l’eventuale accoglimento della contestazione lascia il contestante nella stessa, identica situazione in cui si trovava prima. Contestazioni del debitore Applicando la regola dell’interesse ad agire, ricaviamo che il debitore può sicuramente contestare la sussistenza e l’ammontare dei crediti di tutti i creditori, perché il debitore non soltanto ha diritto a non pagare debiti che non esistono o che non esistono per quel certo ammontare, ma ha anche tutto l’interesse a che il ricavato vada ad estinguere solo i crediti effettivamente esistenti. Quand’anche il ricavato non sia sufficiente per soddisfate tutti i creditori e quand’anche, quindi, l’eventuale accoglimento della contestazione del debitore circa l’esistenza o l'ammontare di un credito non gli porti in concreto alcuna utilità pratica, non vi è dubbio che ugualmente il debitore ha interesse a porre in essere la contestazione. Il debitore ha diritto di estinguere i debiti effettivamente esistenti e non quelli inesistenti, e quindi ha interesse ad agire anche se dall’accoglimento della sua contestazione non venga fuori un residuo da consegnare a lui. Non è quindi necessario che il debitore raggiunga una utilità monetaria concreta. Il debitore non può invece contestare l’esistenza delle ragioni di prelazione. Le ragioni per le quali il debitore non può contestare le ragioni di prelazione sono: 1. Che comunque il debitore non riceverebbe alcun beneficio dall’accoglimento della contestazione; 2. Che le ragioni di prelazione non sono cosa che riguarda il debitore. Il debitore è obbligato tanto nei confronti di chi ha le ragioni di prelazione quanto di chi ne è privo. Le ragioni di prelazione regolano i rapporti dei creditori tra loro, non del creditore con il debitore, che rispetto alle ragioni di prelazione è terzo: il debitore può sì concedere certe ragioni di prelazione, ma queste, una volta concesse, operano non nei confronti suoi ma nei confronti degli altri creditori. Ecco perché il debitore non può contestare le ragioni di prelazione. Contestazioni dei creditori Vediamo ora le contestazioni che possono sollevare i creditori l’uno nei confronti dell’altro. 91 Le ragioni di prelazione possono benissimo essere contestate da un creditore nei confronti dell’altro, perché esse operano nei rapporti tra di loro. I creditori, poi, possono contestare l'ammontare dei crediti degli altri creditori e ovviamente anche la sussistenza degli stessi. Ma anche qui torna applicabile la regola dell’interesse ad agire: la contestazione proposta dal creditore concorrente, se accolta, gli deve portare un beneficio; non lo può lasciare nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se la contestazione fosse stata rigettata. L’accoglimento della sua contestazione deve essere per lui tamente utile. La regola è quindi la seguente: le contestazioni del creditore possono riguardare l’esistenza. l’ammontare e le ragioni di prelazione di un creditore collocato, in sede di riparto, o anteriormente o allo stesso livello del contestante. In ogni caso è necessario che, ove la contestazione sia accolta, il creditore contestante ne riceva un vantaggio concreto, altrimenti manca l’interesse ad agire. AI contrario del debitore, il quale ha interesse alla contestazione anche se dall’accoglimento della stessa non deriva un residuo, i creditori hanno interesse solo se dall’accoglimento deriva loro un vantaggio concreto. Onere della prova Nelle controversie ex art. 512 il creditore contestato assume il ruolo di colui che afferma l’esistenza del proprio diritto, mentre colui che contesta, debitore o creditore concorrente, nega tale esistenza. La precisazione è importante perché serve per l’applicazione della regola sull’onere della prova. Spetta, quindi, al creditore contestato provare i fatti costitutivi del diritto vantato. Il contestante deve invece dimostrare i fatti modificativi, impeditivi, e estintivi di quel diritto. Ora, quando si giunge alla distribuzione del ricavato, a favore del creditore si un qualche atto che, in varia misura, ha una efficacia di accertamento. Infatti, il creditore o ha un titolo esecutivo oppure a suo favore gioca il riconoscimento del suo credito (art. 499, co. 5). È chiaro che, a questo punto, il creditore ha già assolto all’onere di dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del suo diritto; sarà, semmai, colui che contesta a dover dimostrare o che la prova documentale del credito non è attendibile, oppure che è venuto ad esistenza un fatto estintivo, impeditivo o modificativo. Es. + Il creditore Tizio è intervenuto depositando, con l’atto di intervento, una cambiale o un assegno. Di per sé tali atti costituiscono prova del diritto cartolare. Se il debitore vuole contestare l’esistenza del credito, deve sostenere che la firma è falsa, o far valere qualche altra contestazione. È chiaro che ciascun tipo di atto, che il creditore utilizza per provare l’esistenza dei fatti costitutivi del suo diritto, ha un regime diverso quanto ai motivi che consentono la contestazione del diritto cui tale atto si riferisce. Ma se l’atto depositato dal creditore intervenuto è un atto notarile, il debitore non può negare sic et simpliciter di averlo firmato, perché tale contestazione è irrilevante, e quindi il debitore deve smontare l’efficacia dell’atto pubblico con lo strumento ad hoc: la querela di falso. E così se il creditore intervenendo ha prodotto un titolo giudiziale, possono essere fatte valere soltanto le contestazioni non impedite dall’efficacia preclusiva di quell’atto. Difese del creditore contestante Un punto delicato riguarda l’efficacia, nei confronti del creditore contestante, di eventuali atti che esistano fra creditore contestato e debitore in ordine alla sussistenza e all’ammontare del credito. Se il creditore contestato produce una transazione, un contratto, una pronuncia giurisdizionale intercorsa tra lui e il debitore, dal quale atto si evince l’esistenza e l'ammontare del suo credito, gli altri creditori contestanti sono vincolati a tale atto? Sì. I creditori fanno parte di quella categoria di terzi che devono riconoscere e subiscono gli effetti delle attività di natura sostanziale e processuale poste in essere dal proprio debitore, il quale può compiere atti di natura sostanziale o processuale che sono in linea di principio vincolanti per il creditore. E ciò non solo quando il debitore diminuisce la garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., ma anche quando il debitore crea o riconosce l’esistenza di un altro credito concorrente sul proprio patrimonio. Gli atti che possono pregiudicare gli altri creditori sono atti che: 92 Capitolo 18 L’espropriazione dei beni indivisi In due ipotesi lo svolgimento del processo esecutivo è in parte modificato in conseguenza delle particolarità del caso concreto: e L’espropriazione dei beni indivisi; e L’espropriazione contro il terzo proprietario. Nell’espropriazione dei beni indivisi, il problema nasce dal fatto che, fra gli elementi attivi del patrimonio, con cui il debitore risponde delle obbligazioni ex art. 2740, esiste la contitolarità di un diritto reale espropriabile: proprietà, nuda proprietà, enfiteusi, superficie, usufrutto. Espropriazione congiunt: La peculiarità si verifica quando non tutti i contitolari del diritto sono assoggettabili all’espropriazione, cioè quando non esiste un titolo esecutivo nei confronti di tutti i contitolari di quel diritto. Se esiste un titolo esecutivo contro tutti i contitolari, il processo di espropriazione si svolge nei modi ordinari, con la particolarità di avere una pluralità di soggetti esecutati, anziché uno solo. Un processo esecutivo unitario è possibile anche quando non vi è un unico titolo esecutivo, ma l’assoggettabilità all’espropriazione di tutti i contitolari del diritto sul bene proviene da titoli esecutivi diversi, magari anche a favore di creditori diversi: ciò non impedisce l’unicità del processo di espropriazione. L’oggetto dell’espropriazione è il diritto pignorato. L’art. 599, co. 1, non è del tutto preciso quando afferma “possono essere pignorati i beni indivisi anche quando non tutti i comproprietari sono obbligati verso il creditore”. Invece bisogna intendere: anche quando non tutti i comproprietari sono sottoponibili ad esecuzione forzata. Se intesa alla lettera, la norma sembrerebbe dire: se tutti sono debitori, ma il titolo esecutivo esiste nei confronti di uno solo, si può procedere all’espropriazione dell’intero bene. Invece ciò che conta è che tutti i contitolari possano essere esecutivamente aggrediti. Espropriazione della quota Il problema nasce quando i contitolari non sono tutti ® Vuoi perché non tutti sono debitori; ® Vuoi perché, pur essendo tutti debitori, manca un titolo esecutivo con alcuno di es Sia nell’uno che nell’altro caso, la quota del soggetto nei cui confronti s te il titolo esecutivo può essere sottoposta ad espropriazione, perché anche una quota garantisce i creditori ex art. 2740 c.c.; ma al tempo stesso bisogna tenere conto del fatto che ci sono anche gli altri contitolari non assoggettabili ad espropriazione e quindi si deve adattare il processo esecutivo alla particolarità consistente nel fatto che oggetto del pignoramento e poi della vendita non è un diritto esclusivo su un bene, ma la contitolarità di un diritto sul bene stesso. Ovviamente in questo caso titolo esecutivo e precetto si notificano al solo debitore contitolare del diritto assoggettabile all’espropriazione. Si effettua poi il pignoramento nelle forme ordinarie nei confronti del debitore esecutato: il creditore pignorante deve però, ex art. 599, dare avviso, agli altri contitolari, dell’avvenuto pignoramento. ssoggettabili ad espropriazione: Avviso di pignoramento L’avviso di pignoramento ha lo scopo di avvertire gli altri contitolari del fatto che è stata pignorata la quota del loro contitolare, ed ha l’effetto di far divenire i contitolari parti del processo esecutivo. Parti del processo esecutivo, infatti sono: e Ilcreditore procedente; e Ildebitore esecutato; e I creditori intervenuti, l’acquirente in vendita forzata, il custode, ecc. Parti non esecutate sono anche i contitolari, e in quanto tali sono titolari di poteri e doveri proc e possono compiere atti all’interno del processo esecutivo. 95 uali, Con tale avviso i comproprietari, che siano anche possessori del bene, sono costituiti custodi, quindi non possono consentire che il contitolare esecutato si porti via la sua parte di beni e non possono neppure procedere alla divisione del bene in modo efficace nei confronti del creditore. Insomma, il pignoramento e l’avviso bloccano la situazione di fatto e di diritto della contitolarità così com’è nel momento in cui i contitolari ricevono l’avviso. Separazione I contitolari, divenuti parti del processo esecutivo, sono convocati dal giudice insieme al creditore e al debitore. Ex art. 600, il giudice provvede, se i creditori o i contitolari la richiedono e quando è possibile, alla separazione in natura della quota, spettante al debitore. La separazione costituisce una particolare forma di divisione, che ha luogo quando oggetto della contitolarità sono beni fungibili; dal punto di vista del diritto sostanziale, i beni fungibili si caratterizzano per il fatto che sono determinati a numero, peso e misura, e ciascuna unità ha valore equivalente alle altre. Si avrà quindi la separazione, in base all’unità di misurazione dei rispettivi beni, secondo la quota che spetta ai singoli soggetti. Es. +> Una somma di denaro è il bene fungibile per eccellenza. Quando un bene è fungibile, diviene possibile la divisione dello stesso attraverso operazioni materiali, che vengono compiute all’interno del processo esecutivo. Dopo la separazione in natura ciascun comproprietario si prende la parte che gli spetta, e la parte dell’esecutato viene liquidata. Vendita della quota indivisa Se invece la separazione in natura non è possibile, perché la contitolarità non ha ad oggetto una quantità di beni fungibili, oppure nessuno la chiede, al giudice s’impone una scelta. Il giudice deve disporre che si proceda alla divisione del bene, tranne che ritenga più fruttuosa la vendita della quota indivisa. Se il giudice dispone la vendita della quota indivisa, nelle varie forme previste a seconda che si tratti di beni mobili o immobili, l’aggiudicatario subentra al posto dell’esecutato nella contitolarità del diritto. Se il giudice ritiene che la vendita della quota può non dare un esito soddisfacente, dispone che si proceda alla divisione giudiziale del bene, in relazione alla quale l’art. 181 disp. att. stabilisce che è competente per materia lo stesso giudice dell’esecuzione. Divisione La divisione giudiziale si opera con processo di cognizione, nel litisconsorzio necessario di tutti i condividenti e del creditore pignorante. Naturalmente, il processo divisionale può essere sostituito da un accordo negoziale, al quale deve però partecipare anche il creditore pignorante. È divisibile il bene che, quando è separato in quote reali, non perde la funzione alla quale è destinato. L’art. 1114 c.c. stabilisce che la divisione si opera preferibilmente in natura: ciascuno dei contitolari ha diritto ad avere una parte del bene in proprietà esclusiva. Ciò presuppone che il bene sia divisibile. Separazione e divisione in natura Occorre tenere ben distinta la separazione in natura dalla divisione in natura. ® La separazione in natura è tipica dei beni fungibili, ed indica quella particolare modalità di realizzazione della divisione, consistente in operazioni di misurazione e di separazione materiale del bene in tante parti corrispondenti alle quote. Es. > Tre soggetti sono comproprietari, in parti uguali, di una botte di vino, che vogliono dividere. La botte contiene 900 litri di vino. La separazione in natura si effettua attribuendo a ciascun condividente la propria quota (ossia 300 litri). ® Ladivisione in natura è invece una divisione che avviene attraverso operazioni non materiali, ma giuridiche: individuazione e stima dei beni, formazione dei lotti che nei limiti del possibile devono essere omogenei. 96 Es. > Tre soggetti sono comproprietari, in parti uguali, di uno stabile composto da 3 appartamenti. Se gli appartamenti non hanno ugual valore, chi ha avuto l’appartamento di maggior valore deve pagare un conguaglio a chi ha avuto l’appartamento di valore minore. Se il bene è indivisibile, e un condividente ne chiede l’assegnazione, il bene è assegnato a chi l’ha richiesto. Se più ne richiedono l’assegnazione, si procede all’estrazione a sorte di colui al quale sarà attribuito l’intero bene. In ogni caso, l’assegnatario paga agli altri condividenti il controvalore delle loro quote. Se nessuno ne chiede l’assegnazione, il bene è venduto all’asta, ed il ricavato è diviso secondo le rispettive quote. ® La divisione è sciolta, e la quota pignorata viene trasformata nella proprietà esclusiva di una parte del bene, se questa è divisibile. In tal caso, il processo esecutivo prosegue con la liquidazione della parte di bene assegnata al debitore; e Oinunasomma di denaro corrispondente alla quota del debitore, se questo è indivisibile. In tal caso, non vi è necessità della frase liquidativa, e si passa direttamente alla distribuzione della somma. Sospensione del processo esecutivo Mentre si sta svolgendo il processo di divisione del bene, il processo esecutivo è sospeso automaticamente dal momento in cui viene proposta la domanda di divisione fino al momento in cui non sia intervenuto un accordo fra le parti oppure venga emessa una sentenza di primo grado passata in giudicato, oppure una sentenza di appello (art. 627). Comunione legale tra coniugi Nonostante l’assonanza terminologica, all’espropriazione forzata dei beni appartenenti ad una comunione legale tra coniugi non si applicano gli artt. 599 La comunione legale, infatti, è una comunione senza quote. I coniugi sono solidamente titolari di tutti gli elementi attivi della comunione. Inoltre, nessun estraneo è ammesso a partecipare alla comunione. Pertanto, nessun problema pone l’espropriazione forzata di un bene appartenente alla comunione se il credito da tutelare rientra fra quelli previsti dall’art. 186 c.c.: se del credito rispondono i beni della comunione, evidentemente potrà essere espropriata l’intera proprietà di ciascun bene. Se, invece, il credito è personale di uno dei coniugi, e quindi i beni della comunione rispondono sussidiariamente fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, il creditore potrà ugualmente espropriare la piena proprietà di ciascun bene. L'altro coniuge assume la qualità di esecutato, tranne che si tratti di espropriazione di beni mobili, perché di questi cun coniuge può disporre solitariamente. Se il coniuge esecutato può validamente ed efficacemente vendere il bene mobile che fa parte della comunione, è sufficiente che il ruolo di esecutato sia assunto da lui solo. Infatti, il titolo che si forma contro di lui ed a favore dell’aggiudicatario è idoneo a trasferire la proprietà del bene come lo è la vendita di diritto sostanziale da lui solitariamente effettuata. L’altro coniuge potrà peraltro opporre che il valore del bene pignorato supera la metà del valore della comunione. In tal caso, il ricavato della vendita che eccede la metà del valore della comunione legale sarà consegnato all’altro coniuge. 97
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