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Il processo-Kafka 6, Appunti di Storia Del Diritto Medievale E Moderno

libro kafka

Tipologia: Appunti

2013/2014

Caricato il 24/02/2014

maionefederica
maionefederica 🇮🇹

4.6

(9)

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Il processo-Kafka 6 e più Appunti in PDF di Storia Del Diritto Medievale E Moderno solo su Docsity! I: La porta aperta della Legge. Una porta aperta, sorvegliata da un anonimo custode (Türhüter: letteralmente, un portinaio). Di là, si dice, si trova la Legge (Gesetz). Quale “legge”? “La” legge: verità assoluta, somma giustizia, senso ultimo delle cose? Non si sa. Nessuno lo sa, nemmeno il custode. Ma tutti vogliono conoscere “la” legge. Anche un uomo, altrettanto anonimo, giunto dalla campagna (vom Lande) chiede al guardiano di poter entrare, di poter avere accesso alla Legge. Ma questo non è possibile, almeno non ora; forse dopo. L’uomo prova a convincere il custode, con mezzi leciti e illeciti. Questi lascia fare e accetta tutto, ma non promette nulla né lo lascia entrare. Così l’uomo comincia anche a dimenticare perché se ne sta lì ad osservare quasi ininterrottamente il custode, perdendo di vista il senso del suo stare “davanti alla Legge”, dimentica anche che ci sono altri custodi e solo questo primo gli sembra l’unico ostacolo per accedere alla Legge. La porta davanti a lui è sempre aperta. Alla fine l’uomo venuto dalla campagna muore, ma prima di morire chiede perché nessun altro all’infuori di lui ha chiesto accesso, visto che tutti tendono alla Legge. Ma quell’ingresso era destinato a lui, e a lui solo. Quando l’uomo muore, la porta viene definitivamente richiusa dal custode. II: L’enigma Il celebre capitolo “Il duomo” nel Processo propone una sorta di spiegazione di questo racconto o parabola, presentata da Kafka anche nella raccolta del 1914-15 Ein Landarzt (Il medico di campagna). Josef K., il protagonista del romanzo, tenta di decifrare il significato di questa storia o “leggenda”, discutendola con il sacerdote che gliel’ha raccontata nel corso del misterioso episodio del duomo. L’uomo è stato ingannato dal guardiano, conclude Josef K.: c’era un accesso per lui e solo per lui e questo gli è stato nascosto deliberatamente. Ma il religioso smentisce questa chiave di lettura: se vogliamo stare a quanto narrato, sappiamo solo che il guardiano dà all’uomo venuto dalla campagna due informazioni: la prima, che per il momento egli non può entrare (pur non escludendo che ciò sia possibile in un secondo tempo); la seconda, che quell’accesso era destinato esclusivamente a lui. Ma non c’è contraddizione fra queste due informazioni, come invece pensa Josef K.: anzi, “la prima dichiarazione allude persino all’altra” e l’accenno alla possibilità che l’uomo avrebbe potuto accedere in un secondo momento una trasgressione perdonabile al suo dovere. Non c’è inganno, se qualcuno è stato ingannato questi è, secondo un’altra “opinione” esposta dal sacerdote, “proprio il custode”, la cui vita dipende da quella dell’altro uomo, in una sorta di singolare riedizione della dialettica servo-padrone di hegeliana memoria. E di opinione in opinione l’enigma, invece che chiarirsi, si infittisce sempre più, perché sempre più sorgono domande che non trovano risposta, o risposte che sollevano altre domande. III: L’interpretazione infinita Tutta l’opera di Kafka sta nell’obbligare il lettore a rileggere” (Camus, 1943). Cosa significa allora questa storia? È una parabola carica di metafore ambigue abbastanza affinché non si possa mai scioglierle del tutto (quindi una sorta di trappola mentale per ermeneuti) o dobbiamo prendere per buono quel che ne dice Kafka stesso, cioè che è una “leggenda”? E che sorta di “leggenda”? O è un’allegoria, di quelle di cui Kafka stesso dice che esse “in fondo vogliono soltanto dire che l’inafferrabile è inafferrabile, e questo lo sapevamo già” (Descrizione di una battaglia, cit. in De Angelis, 1971) Insomma: qual è l’ermeneutica “giusta” per capire cosa voleva davvero Kafka con il racconto nel racconto Davanti alla Legge? Ci vuole forse una “metaermeneutica” che faccia vedere come Kafka ha disseminato di ambiguità il suo racconto per non essere inchiodato a una interpretazione che avrebbe finito col distruggere l’equilibrio tra anima e forme da lui così faticosamente raggiunto? O ci vuole una fantasia educata dialetticamente, in grado di accordarsi con il movimento di pensiero che le immagini di Davanti alla Legge suscitano? Forse è vero che i racconti di Kafka “non sono parabole, ma non vogliono neppure essere presi di per se stessi; sono fatti in modo da potersi citare, da potersi narrare a guisa di illustrazione” (Benjamin, 1934). Irresistibile è la tentazione di interpretare la storia come una sorta di metafora dell’inconcludenza dell’esistenza umana e quindi di vedervi l’espressione dell’inganno fatale cui è consegnato l’uomo che non può mai decidere “laicamente” del suo destino. Dall’altra il sacerdote, con il suo continuo richiamarsi alle “opinioni” che si contraddicono a vicenda, adombra l’impotenza della ragione umana a comprendere fino in fondo il rapporto tra l’uomo e il suo limite, a chiarire quella che sembrava “una storia semplice” (einfache Geschichte), tanto che lo stesso Josef K. avverte il desiderio di sbarazzarsene, di non pensarci più. Egli di conseguenza nega all’umano la possibilità di accedere al significato ultimo – alla Legge, appunto – che pure sta squadernato, spalancato anche davanti a due uomini semplici come il contadino e il guardiano e “manda una luce di ineguagliabile splendore” colta dall’occhio morente dell’uomo venuto dalla campagna. Non resta allora che rimettersi al Mistero, al Trascendente, all’Ineffabile, senza fermarsi a fissarlo, senza sperare di trovare un punto particolare nel finito che ci possa guidare in sicurezza verso l’infinito. “Quell’uomo” – afferma il sacerdote – “in realtà è libero, può andare dove vuole, proibito gli è solo l’accesso alla Legge, e per di più da una sola persona, dal custode. Se si siede sullo sgabello di fianco alla porta e rimane lì tutta la vita, lo fa di sua volontà, la storia non parla di allora non serve entrare da nessuna parte: siamo già “dentro” ciò in cui dovremmo o vorremmo entrare. VI: Verità e interpretazione. La gnoseologia dolorosa di Josef K. sta proprio nel suo essere l’uomo che si ribella a questa strutturazione aporetica del rapporto fra l’umano e la Legge o la Verità: finché questa risulta possibile solo nei termini di un’indecifrabile potenza “della menzogna si fa una regola universale”. Dire (senza asserirlo espressamente) che la Legge è inattingibile a un’esistenza finita qual è quella umana significa semplicemente trasferire la verità su un altro piano, sottratto alla riflessione, alla comunicazione, all’argomentazione: significa fare dell’esistenza della Legge un teologumeno, un atto di fede. Ma è proprio questo trasferimento ciò che Josef K. contesta. L’inesauribilità ermeneutica, il rinvio infinito delle interpretazioni, diventa il criterio per sottrarre la verità alla disponibilità dell’uomo: essa è anzi apparentemente disponibile nella sua indisponibilità (la porta è pur sempre aperta, non c’è nessuna costrizione, il guardiano non impedisce nulla all’uomo venuto dalla campagna, dall’uscio il morente può cogliere lo splendore inestinguibile che promana dalla Legge e che attesta la sua esistenza reale). Questo spiega perché taluni interpreti – sia di impostazione teologica che postmoderno- decostruzionista – accolgano per buona l’interpretazione che invece Josef K. giudica una “malinconica opinione”, ovvero la tesi decostruttiva per cui la verità oggettiva, la Legge, è sempre al di là e indisponibile all’uomo, “assolutamente insuperabile” (Agamben, 1995). Come la “storia semplice” diventa “confusa” e Josef K. si arrende all’impossibilità di venirne a capo, allo stesso modo la verità si dissolve nella sua interpretazione, anzi diventa l’interpretazione stessa: ma questo distrugge la possibilità stessa dell’interpretazione della “Scrittura”, perché essa coinciderà con l’“opinione” su di essa. Kafka pensa proprio questa dialettica statica, aporetica, tra verità e interpretazione: la verità può abitare solo nell’interpretazione, nella domanda, nell’interrogazione, ma una verità che dimori solo in questi spazi toglie se stessa in quanto verità. Dunque né interpretazione né verità possono sussistere, ciascuna trasforma l’altra, la neutralizza, la rende indifferente. Ed è qui che Josef K. scrive la sua condanna: egli emette la sua stessa sentenza, è condannato dalla sua impossibilità di venire a capo dell’aporia, tra la Legge come possibilità prossima e la vita come impossibilità di attingerla anche solo parzialmente. Il suo pensiero è una freccia di Zenone che non giunge mai a colpire il suo bersaglio: ecco la sua colpa. E non perché K. sia un “inetto” sveviano, un pigro, un irresoluto, un antieroe, un antipersonaggio beckettiano: K. non attende nessun Godot. Ma K. è condannato proprio perché pensa fino in fondo, fino all’estremo, sia la freccia (l’interpretazione) che il bersaglio (la verità, la Legge). La sua colpa sta in questo soccombere al pensiero da lui stesso suscitato, al suo stesso vano chiedersi in che cosa consista la sua colpa: tutta la sua gnoseologia vorrebbe risolversi in un giudizio, vorrebbe oggettivare quella struttura di oggettivazione che la Legge stessa è. Ma la Legge – struttura di oggettivazione, necessità immutabile – non si lascia a sua volta oggettivare, perché se così fosse ci sarebbe qualcosa di ancora più oggettivo di essa stessa e – dunque – il problema si riproporrebbe. VII: Il Totalmente Neutro Vale allora anche per la parabola sull’uomo davanti alla Legge nel Processo quanto Blanchot sosteneva a proposito del Castello? Il Castello – come “sovranità del neutro e il luogo di questa strana sovranità”, sovranamente neutra perché né trascendente né immanente, né divina né umana, dunque libera da ogni schema metafisico – è allora ciò che produce una specie di vuoto ermeneutico, è la parola che assorbe, facendo collassare in se stesse tutte le possibili interpretazioni e rendendole quindi indifferenti, lasciandole sospese e pronte a precipitare nel baratro (come in un’altra celebre parabola kafkiana, Il ponte). L’inaccessibilità del Totalmente Neutro (la Legge, il Castello, il Tribunale) sembra far tutt’uno con il suo essere l’assolutamente senza mistero, pura (e vuota) forma identitaria che assorbe il proprio contenuto. Come osserva ancora Blanchot, ci si lascia prendere dal segreto più appariscente, l’inaccessibilità del luogo-castello (o della “dimensione- Legge”) “come se là ci fosse tutto il segreto – il vuoto su cui si fonda l’elaborazione del commento”. Ma il vuoto è ovunque, il mistero da colmare sta in ogni minima esperienza umana, in ogni dettaglio mostruoso, eccentrico, grottesco, dalle dita di Leni, unite da una membrana, all’aspetto di “vecchi attori” o di “tenori” degli esecutori della sentenza nel Processo (Adorno, 1942-53). Come il guardiano non sa che cosa custodisce, non sa che cosa lo attende una volta varcata quella soglia che deve sorvegliare scrupolosamente e infaticabilmente, così gli esecutori della sentenza nel Processo sembrano incapaci di risposta: essi eseguono una sentenza che non si basa su alcuna norma e che quindi non è nemmeno una sentenza (per esserlo, avrebbe dovuto essere pronunciata). Essi quindi non sanno che “sentenza” eseguono, così come Josef K. non saprà mai il motivo per cui essa viene eseguita. Nessuno riesce a scrutare le traiettorie di un mondo fattosi, in ogni sua piega, in ogni suo anfratto, inabitabile e ostile, escludente e includente al tempo stesso: accedere alla Legge “è possibile, ma per il momento no”. Ma se questo momento dura quanto la vita dell’uomo stesso, essa ha il suo senso nel consumarsi nell’attesa che un senso si mostri. In un mondo Totalmente Neutro, presente assenza, visibile invisibilità, si muore allora improvvisamente, fatalmente, senza aver conosciuto alcunché, “come un cane” – ed è per questo che a Josef K. sembra che la vergogna debba sopravvivergli. La vergogna di non essere stato capace di conoscere, di identificare, di risolvere in un giudizio la totalità dell’essente. VIII: Il riconoscimento mancato Secondo una dichiarazione di Max Brod, Kafka avrebbe confidato che il Castello doveva concludersi con la concessione del diritto a K., l’agrimensore che tenta invano di accreditarsi nella residenza comitale del “Castello”, di dimorare e lavorare nel villaggio (Freschi, 1993). L’agrimensore lotta per tutta la vita per un riconoscimento che gli viene negato. Egli è lo straniero, il diverso, l’estraneo che lotta incessantemente per essere incluso, accolto, accettato e che ottiene questo riconoscimento solo in punto di morte. Egli non viene cacciato e rifiutato, ma non viene neanche accettato e accolto: non viene incluso, non viene reso “cittadino del mondo”, cioè non viene riconosciuto. Secondo un paradigma recente della “teoria critica” francofortese, è proprio questo mancato riconoscimento ad essere patogeno, a intaccare cioè le condizioni entro le quali può fiorire un’identità integra (Honneth, 2005) e ciò spiegherebbe forse anche “quella peculiare situazione “kafkiana” di sospensione, di dubbiosa, angosciante, sofferta eppur ostinata ricerca di accoglienza, di riconoscimento e infine di identità” (Freschi, 1993). Non diversamente, il contadino sta davanti alla Legge perché si attende che sia questa a rendergli possibile l’ingresso. In altri termini, quell’uomo venuto dalla campagna attende perché si aspetta di essere riconosciuto, non perché sia un irresoluto, un incapace, un inetto che non sa far altro che tediare il custode con le sue domande. È il bisogno di riconoscimento a costringerlo “davanti” alla Legge. Può sembrare che Kafka abbia voluto dirci che questo bisogno attesta la finitezza dell’uomo, che questi incontra il riconoscimento solo nel momento della morte. Ed è in effetti questo che accade in Davanti alla Legge e nell’ipotetico finale del Castello. Gli stessi rapporti con le donne (Leni nel Processo e Frieda nel Castello) testimoniano di questo bisogno dell’altro per essere se stessi da parte di Josef K. e di K.; lo stesso contadino che importuna continuamente il custode della Legge con le sue domande mostra l’insopprimibile presenza-assenza dell’altro di cui non ci possiamo liberare, quel legame che ci fa essere umani. Ed è solo in questo pensiero dell’altro che nell’agrimensore, nel contadino, nel procuratore bancario si fa spazio qualcosa di più del proprio essere se stessi, qualcosa che fa saltare il ruolo in cui tutti sono imprigionati, che spezza la loro razionalità conforme allo scopo, lineare, calcolante, freddamente contemplativa (Lukács, 1923). A ben vedere, poi, i protagonisti delle principali opere narrative di Kafka sono “antieroi” proprio per questo loro autismo, per il loro bisogno di riconoscimento (che porta ad es. l’agrimensore K. a “usare” Frieda per raggiungere il suo obiettivo di farsi accreditare al Castello): per loro “l’altro” esiste solo come mezzo, mai kantianamente come fine. Essi vivono in una reificazione di sé – da intendersi qui come “oblio del riconoscimento” (Honneth, 2005) – completa, irredimibile, quasi comica (è questo il motivo che ha spinto G. Anders, non senza buone ragioni, a “condannare” Kafka stesso: Anders, 1951). Ed è questa loro accettazione di tale auto-reificazione a condannarli tutti, senza appello e anche senza pietà, a impedirgli di andare oltre la loro dolorosa fissazione gnoseologica. L’unico momento in cui K. sente di avere un cuore è nel momento in cui i due guitti-esecutori gli rigirano per due volte il coltello nel petto: il procuratore K. è un uomo senza colpa perché, come il contadino, sa solo interrogare gli altri, ma mai se stesso, assolvendosi dunque a priori non già dell’incapacità di esistere, ma dell’incapacità di riconoscere. Il cosmo di Kafka è il cosmo del riconoscimento negato e solo in tal senso può esser letto come l’universo anonimo-anomico della reificazione totale e del mondo totalmente amministrato che non lascia spazio alla spontaneità e alla libertà dell’individuo. La lotta per l’integrazione-inclusione è in Kafka lotta per trovare qualcuno che possa integrare-includere, è la lotta di un io senza tu, o di un io che trova di fronte a sé sempre dei tu parziali, provvisori, manchevoli, incapaci di garantire un vero riconoscimento e dunque un’effettiva inclusione. Nell’universo di Kafka non c’è lotta per il riconoscimento, perché non ci sono autocoscienze capaci di riconoscersi. Il suo è il cosmo spinoziano in cui gli individui sono solo accidenti, modi finiti, mere contingenze, effimere vite fattizie con la presunzione di poter entrare nella Legge. IX: La conoscenza impossibile Se “conoscere è riconoscere” quello dei personaggi dei romanzi kafkiani è l’universo di una gnoseologia dolorosa e di un riconoscimento mancato e manchevole: come ha scritto H. Arendt, “in Kafka l’eroe si distingue sempre per la sua voglia di sapere ‘come stanno le cose che cadono intorno a me come fiocchi di neve, mentre davanti agli altri un bicchiere d’acquavite sul tavolo è già saldo come un monumento’” (Arendt, 1944), secondo una scepsi che ricorda il Wittgenstein di On Certainty: “se sai che qui c’è una mano allora ti concediamo tutto il resto” (Wittgenstein, 1969). Il fallimento della conoscenza della Legge, il mancato accesso, innesca quella spirale delle interpretazioni della Legge medesima che costituisce il giudizio in quanto tale; ma il
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