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Il Quattrocento e il Cinquecento, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Sintesi dettagliata del manueale sulla storia letteraria italiana del Quattrocento e del Cinquecento

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 29/01/2021

chiara-zinzani
chiara-zinzani 🇮🇹

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Scarica Il Quattrocento e il Cinquecento e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! IL QUATTROCENTO Il ‘400 e il ‘500 sono i secoli dell’umanesimo e del Rinascimento. Il termine umanesimo è piuttosto recente fu coniato in Germania nell’800 dal pedagogista Friedrich Immanuel Niethammer, che lo derivò dalla parola “humanista”, utilizzata nel’500 nel gergo studentesco delle università per indicare colui che si occupava di discipline letterarie. Questo lemma era a sua volta derivato dall’espressione antica “studia humanitatis”, che i dotti italiani di fine ‘300 avevano desunto dai testi di Cicerone e del grammatico Gellio, nei quali essa compariva a indicare l’educazione liberale, di tipo letterario e filosofico, conveniente all’uomo libero. In questi secoli si ha un ritorno al magistero degli antichi, latini e greci, che di queste discipline incentrate sull’uomo avevano offerto l’esempio più alto. Il ‘400 propone una nuova gerarchia dei saperi, funzionale a una nuova concezione dell’uomo. Il Medioevo viene considerato un’età di mezzo fra l’antichità e il suo moderno risorgimento. Di qui nasce la contrapposizione tra un Medioevo barbarico, tenebroso, irrazionale, mistico, soggiogato a una religiosità intollerante e dogmatica e un Rinascimento individualistico, razionalistico, naturalistico, prima tappa di un cammino che porterebbe alla piena laicità della cultura moderna. Si sparge l’idea del Rinascimento italiano come inizio della storia moderna, contrassegnato dalla scoperta dell’uomo e della natura, dalla liberazione della morale da vincoli dogmatici, dalla creazione di un nuovo senso della bellezza ispirato all’arte classica. Tuttavia, oggi nessuno potrebbe sottoscrivere questa opposizione. Il progredire degli studi su entrambe le età ha sottolineato gli elementi di continuità oltre che di rottura. La vera differenza degli umanisti italiani rispetto al sapere antico sta nel loro nuovo senso storico, che determina anche il loro nuovo rapporto con gli antichi (Eugenio Garin): “prima poco importava determinare se una tesi fosse stata di Platone o di Aristotele; importava assimilarla e confonderla in sé, se era vera e valida. Con l’umanesimo comincia la ricerca precisa del volto di ognuno: diventa essenziale ritrovare l’aspetto di un uomo. L’incontro col passato, la presenza del passato, non è la confusione di un’impersonale verità: è un colloquio dove io e l’altro scendiamo, ciascuno con i propri panni, con la parola che più schiettamente traduce di ognuno quello che più è suo”. Il clima intellettuale del ‘400 è dominato da un rinnovamento negli studi che si realizza attraverso un ritorno all’antico, ovvero attraverso una riacquisizione, più vera e consapevole, della cultura classica pagana e cristiana. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale, anticipata già nel ‘300 nel pensiero e nell’opera di Petrarca. L’atteggiamento petrarchesco nei confronti dell’antico rappresenta già una vera e propria svolta verso l’acquisizione di un nuovo, moderno senso storico. Egli infatti intendeva riavvicinarsi alla voce autentica degli antichi autori. Ciò che gli importava era il loro messaggio non tanto l’autorità dell’autore. L’umanesimo si propone la riscoperta dei testi antichi, la ricerca di codici latini e greci, nel tentativo di recuperare opere perdute e di venire in possesso di nuove e più complete e corrette versioni di quelle già note. Per accertare la verità dei testi occorreva accertare la verità della storia, per fare questo occorreva una nuova filologia. Questa applicazione militante della filologia trova nel ‘400 un formidabile campione in Lorenzo Valla, il più grande filologo e grammatico dell’umanesimo. Su basi linguistiche, il Valla dimostrò nella sua orazione De falsa et ementita Constatini donatione (1440) che la famosa donazione di Costantino, secondo cui l’imperatore avrebbe concesso al papa il diritto di esercitare il potere temporale sul territorio della Chiesa, era un falso compilato nel Medioevo. L’episodio dimostra come la competenza filologica potesse essere impegnata come un’arma di contesa politico-ideologica. Inizia così un processo di approccio laico ai testi sacri che arriverà a considerarli e studiarli nella loro concreta storicità, al di là di ogni sacralizzazione. Il culto dell’antico e il restauro del puro latino classico implica di per sé un processo di imitazione. Ma non si deve credere che l’atteggiamento umanistico di fronte all’antico consistesse in una duplicazione passiva e inerte. Già in Petrarca, non di imitazione propriamente si tratta, ma di immedesimazione. L’imitazione non deve essere una semplice copia ma deve estrarre il succo del contenuto e rielaborarlo in qualcosa di diverso, arricchendolo. Il ‘400 è dominato da una cultura bilingue: latino-volgare MA verso la fine del ‘400 il volgare ha ormai risalito la china rispetto al latino. L’educazione umanistica si avvaleva di grandi maestri e di accademie Il libro del ‘400 è ancora per massima parte un libro manoscritto. I manoscritti vengono prodotti grazie all’opera paziente di religiosi all’interno di monasteri e conventi oppure da parte di copisti professionisti presso botteghe originali. ≠ L’invenzione della stampa a caratteri mobili rappresenta, sullo scorcio del secolo, una vera e propria rivoluzione. Il libro diventava disponibile in grandi (teoricamente) quantità, costava poco, poteva diffondersi rapidamente, andava per le mani di tutti, e diventava un potente fattore di alfabetizzazione. I primi tipografi furono in genere orefici, data l’abilità di lavorazione dei metalli richiesta per la fusione dei caratteri di piombo. Il primo di tutti fu l’orefice Johann Gensfleish detto Guttemberg (1394- 1468), originario di Magonza, che con il sistema dei caratteri mobili stampò nel 1455-56 la celebre Bibbia, il primo libro stampato al mondo. Presto l’invenzione dilagò per tutta l’Europa. Ma vista la grande e sconvolgente novità ci volle ancora del tempo prima di poter parlare di libri a stampa in tutte le corti d’Europa, non tutti accolsero questa invenzione positivamente. FIRENZE L’umanesimo fiorentino si divide in due tempi: umanesimo civile e umanesimo laurenziano. Il primo fa capo alla figura del cancelliere Coluccio Salutati, caratterizzato da un legame molto stretto fra istituzioni politiche e cultura; il secondo fa capo a Lorenzo de’ Medici, caratterizzato da un mecenatismo che tende a chiudere gli intellettuali all’interno del potere, allontanandoli da un impegno attivo nella società. Gli intellettuali operanti nella prima metà del ‘400 sono dunque ancora molto legati alle istituzioni repubblicane di Firenze. La seconda fase di umanesimo si fonda su un impegno esclusivamente letterario e filologico. È l’attività di Lorenzo de’ Medici e della sua “brigata laurenziana”, il cenacolo di intellettuali che si riunivano intorno a lui, a indirizzare questa seconda fase dell’umanesimo verso una cultura filologica e storica, di carattere prevalentemente letterario. Fecero parte di questo gruppo Luigi e Luca Pulci, il Poliziano, Pico della Mirandola. Pulci riserva una vera e propria passione per la parola rara e per il lessico espressivamente contrassegnato. Egli si rifà alle esperienze della poesia comico-parodica, con il suo gusto per lo sberleffo, per la deformazione caricaturale e grottesca, per le realtà più materiali e corpose. Il racconto delle avventure cavalleresche diventa così lo spazio aperto non solo al divertimento ma anche all’irriverenza e alla dissacrazione, quando il riso si trasforma in irrisione. I contenuti dell’epica vengono svuotati dall’interno. Agnolo Poliziano (1454-1494) Uno dei più importanti esponenti della brigata laurenziana. La sua produzione poetica latina è caratterizzata da una raffinata imitazione dei modelli classici, in cui l’autore mette in luce la sua erudizione e la sua passione per la ricerca filologica. In volgare scrive solo poesie in sintonia con la politica culturale promossa da Lorenzo il Magnifico. Il testo poetico in volgare più importante da lui scritto sono le Stanze per la giostra, dedicate a Giuliano de’ Medici e rimaste incompiute a causa della sua morte nella congiura de’ Pazzi (1478). Opera: si trattava di reportages sportivi, appunti di cronaca cittadina in cui si celebravano le grandezze della città e dei suoi fasti insieme ai nomi delle illustri famiglie fiorentine che partecipavano alla gara. Ma Poliziano scrive un’opera diversa rispetto alla tradizione. Nelle sue mani la giostra diventa un poemetto epico - mitologico, i personaggi sono trasfigurati e accanto a quelli terreni agiscono quelli divini. La cronaca cittadina viene sollevata nella dimensione della favola epico - mitologica. Nelle Stanze Poliziano da compimento al suo ideale di una prosa in volgare non inferiore, per eleganza stilistica, sofisticazione formale, raffinato intarsio di fonti, alla poesia latina, sia classica che moderna, umanistica. FERRARA Fuori Firenze, l’umanesimo si struttura secondo il modello cortigiano, accentrandosi nell’iniziativa del principe, e trovando nella corte il suo unico centro di elaborazione e di irradiazione. Questo modello di umanesimo cortigiano trova nella Ferrara degli Este il suo esempio più compiuto e artisticamente fecondo. Dal punto di vista istituzionale e politico, la Ferrara del ‘400 è una città fragile. Formalmente è un feudo pontificio ma la vicinanza geografica con la potente Venezia impedisce a Ferrara si sviluppare una vocazione commerciale e marinaresca. Con il governo di Ercole I d’Este, Ferrara diventa una città all’avanguardia grazie al nuovo piano urbanistico che la trasforma in una città ideale e grazie all’impulso che Ercole dette agli studi poetici e letterari. Il gusto peculiare estense fu la tradizione cavalleresca, carolingia e arturiana, insieme al teatro e alla poesia cortigiana. Tale gusto si consolidò sempre sotto il ducato di Ercole e grazie alla sua politica matrimoniale si diffuse anche nelle altre corti padane (Mantova e Milano). I generi in volgare prediletti dalla corte estense sono la lirica e il romanzo cavalleresco, a cui si dovrà aggiungere il teatro. Fra tardo ‘200 e inizio ‘400 si aprì una lunga stagione creativa che ci consegna un buon numero di testi cavallereschi in lingua francoveneta: una formazione artificiale di lingua d’arte, nata dall’incrocio del francese con i dialetti settentrionali, specie quello veneto. Il pubblico di riferimento del romanzo cavalleresco appartiene ancora al ceto nobiliare. Questi due aspetti condizionano fortemente le scelte del primo grande poeta cavalleresco ferrarese, il conte Matteomaria Boiardo, autore dell’Orlando innamorato. Mentre i cantari venivano recitati nelle piazze, la ripresa del poema cavalleresco con elevate intenzioni d’arte ha luogo nell’ambiente sfarzoso della corte, per due ragioni: da un lato esso viene incontro alle esigenze di divertimento e di svago di una società raffinata e culturalmente evoluta; dall’altro gli ideali cavallereschi del mondo feudale, depurati alla luce di una nuova civiltà, sembrano poter rivivere nell’ambiente aristocratico della nobiltà cortigiana. Particolare importanza assume la corte estense di Ferrara, dove opera Matte Maria Boiardo e dove ancora, portando a compimento il processo indicato, Ludovico Ariosto comporrà l’Orlando furioso. La corte ferrare aveva conservato vivo il culto della cortesia, della magnanimità cavalleresca, della gesta valorose e degli amori sublimi. I romanzi francesi e italiani erano lettura avidamente cercata dai duchi stessi e dai gentiluomini e dalle dame di corte (come testimoniano i testi presenti nella biblioteca estense). È in questo contesto che Boiardo compone il suo poema, intriso di nostalgia per il mondo della cavalleria e della cortesia. Matteomaria Boiardo (1441-1494) Nasce a Scandiano (Reggio Emilia) da una famiglia dell’antica nobiltà feudale Formazione classica, umanistica. Durante gli anni giovanili, compie volgarizzamenti di scrittori classici e medievali per il futuro signore di Ferrara, Ercole d’Este. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, Boiardo diventa collaboratore principale di Ercole nell’ambizioso progetto di rinascita del teatro classico, che prevede il volgarizzamento e la messa in scena di numerose commedie di Plauto e Terenzio. Si dedicò alla poesia d’amore in volgare. Il canzoniere di Boiardo rappresenta la ripresa più seria e consapevole del modello petrarchesco. Il titolo originale del canzoniere è Amorum libri (imitato da Ovidio) e raccoglie le liriche in volgare ispirate all’amore per Antonia Caprara, dama della corte reggiana di Sigismondo d’Este. Si tratta di un’opera di straordinaria originalità, sentimentale e stilistica, tutt’altro che riconducibili a una vera ortodossia petrarchista. Boiardo, infatti, non guarda solo al Petrarca ma anche ai poeti elegiaci ed erotici latini, che parlano di amori più carnali e concretamente consumati rispetto all’astrazione cortese di Petrarca. L’opera è organizzata secondo una precisa architettura: 3 libri, ciascuno dei quali racconta una diversa fase della storia d’amore. Dal 1476 (da quando Boiardo lavora nella corte estense) il poeta cominciò a lavorare all’Orlando innamorato, il suo capolavoro. Nel 1483 furono pubblicati i primi 2 libri in 60 canti. La composizione del terzo libro fu interrotta bruscamente al IX canto, pochi mesi prima della morte del poeta; nell’ultima ottava si coglie l’eco dei dolorosi eventi storici contemporanei, la calata di Carlo VIII nel 1494. Il poema riprende la materia cavalleresca ed è destinato al diletto di un’élite cortigiana. Già il titolo indica la novità su cui Boiardo punta per suscitare l’interesse del suo aristocratico pubblico: il forte paladino Orlando, il saggio difensore della fede, cade in presa all’amore, come uno degli eroi dei romanzi bretoni. Boiardo porta così, per la prima volta, a compimento quella fusione dei due cicli cavallereschi, il carolingio e l’arturiano, che già era stata avviata nei secoli precedenti. Nel poema si intrecciano armi ed amori, a cui fa da sfondo un altro elemento tipicamente bretone, il meraviglioso fiabesco, affidato alla presenza di fate, maghi, mostri, incantesimi ecc. Gli ideali del poeta sono infatti l’amore e la forza guerriera, virtù inseparabili del perfetto cavaliere, poiché solo Amore può procurare onore e gentilezza. Al centro del poema si collocano dunque le armi e gli amori. A differenza del Pulci, che negli stessi anni affronta nel Morgante un’analoga materia, i valori del mondo cavalleresco sono da Boiardo profondamente sentiti. Il poeta ritiene che quei valori, che nel corso della civiltà urbana sembravano tramontati, rivivevano nella società cortigiana, in particolare in quella ferrarese, appassionata di prodezza, lealtà e cortesia, avida di amori galanti. Per lui quindi i valori cavallereschi non sono solo sogni da proiettare in un passato mitico, ma sono praticabili nel presente. => Boiardo = cantore della cavalleria: il suo poema vibra di entusiasmo per le azioni valorose, i gesti magnanimi, gli amori sublimi. Tuttavia quel mondo cavalleresco non è più quello espresso dalla civiltà medievale. Boiardo è immerso nella civiltà umanistica del suo tempo, di conseguenza per lui la cavalleria è ormai svuotata degli originari contenuti religiosi, etici e politici, e si è riempita di valori moderni, quelli umanistico - rinascimentali. In primo luogo, la prodezza cavalleresca non è più solo forza guerriera, ma è la virtù dell’individuo libero, attivo, energico, che sa superare ogni ostacolo e imporre il suo dominio sulla Fortuna. Compare perciò il tema della virtù umana che vince la Fortuna. Il culto della vita attiva si manifesta come individualismo proteso all’affermazione di sé, alla conquista della gloria e della fama. L’onore perde la sua fisionomia feudale e rispecchia l’esigenza tutta umanistica del primeggiare. La lealtà e la cortesia assumono l’aspetto moderno del rispetto per la personalità altrui, anche dei nemici, e della tolleranza verso credenze diverse. L’individualismo deve venire integrato dalle doti intellettuali, dalla cultura. Orlando è infatti rappresentato come un cavaliere colto, filosofo. Anche l’amore è lontano dalla visione cortese di origine feudale. L’amore non è altro che manifestazione di gioia ed energia. Angelica, infatti, non ha nulla a che vedere con le creature angeliche dello Stilnovismo, è una donna seducente e tenera, sensuale e capricciosa, crudele e appassionata, protesa a soddisfare il suo desiderio amoroso. Per trovare antecedenti a una figura così nuova, si può solo risalire a certe complesse eroine boccacciane. L’ironia di Boiardo nel poema non è quella di uno spirito adulto e disincantato che guardo con distacco la realtà del mondo cavalleresco MA il sorriso del Boiardo è l’effetto di una partecipazione goduta allo slancio vitale che anima le sue storie, mira a rendere quel mondo più familiare e simpatico anche i lettori. La struttura narrativa è composta di numerose avventure meravigliose, battaglie, duelli, incontri con mostri, giganti, fate ecc Vi è un proliferare rigoglioso dell’intreccio. Il fluire della narrazione sembra poter continuare all’infinito, senza mai arrivare ad un punto finale. Tuttavia le vicende dell’uno sono seguite sino ad un certo punto, poi interrotte per seguire quelle di un altro, poi riprese, mescolate, creando l’impressione di una selva lussureggiante. Questa tecnica si chiama entrelacement. ecclesiastiche. Da allora il transito da intellettuale cortigiano a intellettuale uomo di Chiesa non sarà più possibile. Con il Concilio la vita ecclesiastica diventa una professione riservata, nasce il prete da una parte e il laico dall’altra. Ormai le corti laiche chiedono ai letterati compiti circoscritti, specializzati, impiegatizi; si assiste a fine ‘500 a una marcata professionalizzazione del lavoro intellettuale, che tende a trasformare gli antichi cortigiani in segretari del principe, in semplici funzionari. Non serve più l’ampio respiro e l’ampia libertà degli studia humanitas, servono competenze precise, professionalità spendibili e una straordinaria capacità di adattamento. Nella sua organizzazione culturale, il ‘500 vive una paradossale contraddizione. Da una parte il mercato del libro si espande smisuratamente presso ogni classe sociale; dall’altra la chiusura autoritaria della società esige un controllo capillare delle opinioni e delle idee e, di conseguenza, dei libri. Con il Concilio di Trento la volontà di controllo si accentua e si perfezione. Nel 1559 esce l’Indice dei libri proibiti, un indice durissimo che proibiva oltre agli scritti eretici ed eterodossi, anche molti volgari. Comparve la censura che poteva anche solo censurare nel senso di rassettare alcune parti. Mentre altrove si consolidano i nuovo stati-nazioni e si perfezionano le strutture unitarie, la nostra penisola si rivela incapace di superare il suo particolarismo e impotente a creare un’egemonia capace di unificare il paese. Questo avrà delle conseguenze che si concluderanno, almeno formalmente, solo nel 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia. Di fronte alla frammentazione linguistica della penisola ci si chiedeva quale italiano si dovesse usare in Italia? Questa questione l’aveva già affrontata Dante nel De vulgari eloquentia. Solo che allora si trattava davvero di fondare un letteratura italiana con poco alle spalle, ora si tratta di rifondarla potendo contare su modelli prestigiosi. Dato un paese senza cento e senza unità è possibile che questo paese possa dotarsi di una lingua e di una letteratura unitaria?  questione della lingua  le posizioni più importanti furono due: quella di colore che era interessati alla lingua parlata e quella di chi invece mirava alla lingua letteraria, cioè alla lingua degli scrittori.  1) la prima posizione è incarnata dai sostenitori della cosiddetta lingua cortigiana, come Baldasar Castiglione. Essi considerano la lingua come gesto sociale, come comportamento. Essi non sono affatto preoccupati, in prima istanza, di come si debba scrivere, ma di come di debba parlare, e parlare in una società raffinata ed esigente come quella cortigiana. La lingua è considerata all’interno di un codice complessivo, essa viene discussa come un fatto di educazione, di belle maniere. A loro non importa che una stessa lingua sia parlata in tutto il paese, o meglio in tutte le corti d’Italia, importa che ovunque, a corte, si parli con l’identica raffinatezza e pulizia di modi e di stile. Si tratta tuttavia di un progetto precario.  2) la seconda posizione è quella di Pietro Bembo (1470-1547), nel suo dialogo Prose della volgar lingua, il suo primo obiettivo polemico è la lingua cortigiana, di cui dimostra l’improponibilità come lingua nazionale proprio perché lingua varia, legata a un sistema politico frammentario che non da nessuna garanzia di unità e di regolarità. Bembo, come Dante, constata l’assenza in Italia di un centro, di una capitale capace di porsi come il luogo di elaborazione autorevole di una lingua nazionale. L’Italia, dunque, destinata a rimanere divisa in tante realtà locali, non può aspirare a una lingua d’uso unitaria; tuttavia potrà mantenere la sua identità culturale assicurandosi lo strumento di una lingua letteraria, fissa e stabile. L’opzione di Bembo è il ritorno alla lingua dei grandi toscani del ‘300, in particolare Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Si tratta di una scelta vincente perché è una scelta praticabile. La codificazione del volgare come lingua colta e letteraria e insieme l’ampio sviluppo della stampa producono un notevole allargamento della società letteraria. In particolare, arrivano adesso alla scrittura, due categorie sociali che finora ne erano rimaste ai margini: le donne e gli artisti. Soltanto nella letteratura del ‘500 le donne fanno gruppo. L’espansione della letteratura femminile è soggetta a varie limitazioni. L’appartenenza all’aristocrazia è ancora una condizione preliminare che facilita l’esercizio delle lettere alle donne del Rinascimento. Il ‘500 annovera anche un’altra categoria di persone a cui era concesso uno stile di vita più libero: la cortigiana, una prostituta di alto livello, sia per la selettiva aristocrazia delle frequentazioni, sia per la non comune raffinatezza dell’educazione, sia per la capacità di intessere relazioni non solo amorose, ma intellettuali e artistiche. Fino al ‘400 essere artista voleva dire essenzialmente essere un artigiano. Nel ‘500 la situazione cambia: le migliori condizioni economiche degli artisti, ormai protetti e ricercati dai potenti mecenati, sono la premessa per accedere al mondo della cultura e talvolta della letteratura. Così nel corso del secolo anche gli artisti cominciano a scrivere, non solo trattati tecnici o sistemazioni stereografiche inerenti al loro campo d’azione, ma anche autobiografie come Cellini o rime come Michelangelo.
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