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Il Quattrocento e il Cinquecento - R. Bruscagli, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

riassunto del manuale di letteratura italiana dell'umanesimo e del rinascimento

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Caricato il 28/04/2017

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Scarica Il Quattrocento e il Cinquecento - R. Bruscagli e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! 1 Il Quattrocento e il Cinquecento R. Bruscagli Cap. 1 - Il Quattrocento: idee, cultura, istituzioni 400-500 secoli dell’umanesimo e del Rinascimento > umanesimo da humanista, colui che si occupa degli studia humanitatis, discipline “liberali” (retorica, storia, poesia, filosofia) centrali per la formazione dell’uomo e cittadino.
 Quattrocento: rinnovamento negli studi che si realizza attraverso un ritorno all’antico > Petrarca protofilologo che ricostruiva la “vera versione” del classico non filtrata dalla mentalità medievale > culto della latinità (e grecità) > ricerca dei codici greci e latini, emblematica la figura di Poggio Bracciolini per la latinità (a Cluny codici ciceroniani, il De rerum di Lucrezio + Institutiones di Quintiliano).
 Restituzione vero dei testi > verità della storia (anche per agire in ambito ideologico - politico): applicazione “militante” della filologia da parte di Lorenzo Valla che invalidò la Donazione di Costantino e cfr Vulgata con quello tradotto da Girolamo (approccio “laico” alle Scritture, studiate nella loro storicità). Problema dell’imitazione dei classici > nel 400 meglio parlare di immedesimazione, non semplice copia. Su chi imitare e cosa imitare due diverse posizioni: Poliziano è per un classicismo eclettico, mentre Cortesi crede che si debba scegliere un unico modello. 400 secolo bilingue > latino depurato e rivisto diventa sempre più una lingua elitaria e si preferisce il volgare > Leon Battista Alberti propugna la pari dignità del volgare rispetto al latino, componendo una Grammatichetta della lingua toscana (prima grammatica della lingua italiana!) Accademie > associazioni e sodalizi intellettuali che liberamente si riuniscono intorno a una figura di spicco per discorrere di filosofia, teologia, letteratura; nel 400 celebre accademia platonica fiorentina di Marsilio Ficino + accademia Romana di Pomponio Leto, quest’ultima non propriamente ortodossa, venne accusata di cospirare contro il papa Paolo II e accusato di epicureismo, miscredenza, libertinismo. Le biblioteche si trasformano in centri di controllo filologico dei testi, messi a disposizione della comunità degli studiosi > Lorenzo il Magnifico incaricò Poliziano e Pico della Mirandola di un’imponente campagna di acquisti librari che diede la base per la più tarda apertura della Laurenziana. Un carattere diverso lo ebbero le biblioteche signorili delle corti italiane, specie nel nord: libri miniati (del resto l’introduzione della stampa da parte di Gutenberg non venne vista di buon occhio). Policentrismo dell’umanesimo italiano: da un lato idealmente unitario, perché città come Ferrara, Urbino, Milano, Mantova etc. erano sempre dotate di una sostanziale autonomia culturale; tuttavia policentrismo per mobilità culturale degli intellettuali, e dialettica fortissima di istituzioni e iniziative. Cap. 2: Firenze tra umanesimo civile e laurenziano Nel 400 letterario fiorentino, due momenti storico-letterari: - umanesimo civile: legame fortissimo cultura-politica attorno a figura di Coluccio Salutati > mito florentina libertas; - umanesimo laurenziano: mecenatismo di Lorenzo de Medici che tende a chiudere gli intellettuali in una gabbia dorata, allontanandoli dall'impegno civile in favore di una cultura storico-filologica. Se in un primo momento assistiamo alla predilezione per il gusto popolareggiante dei fratelli Pulci*, in un secondo momento Firenze si configura come capitale del neoplatonismo > sublimazione cristianesimo in Marsilio Ficino che ripropone nella Theologia le teorie sulla natura immortale dell’anima che finivano col porre l’accento sull’uomo e sulla sua centralità nell’universo; accanto a Marsilio figura di Pico della Mirandola, intellettuale eclettico che non volle mai identificarsi con una specifica scuola di pensiero, perché persuaso dell’esistenza di un sapere unico creatore di tutte le scuole di pensiero. + antiumanesimo di Girolamo Savonarola, frate domenicano presentato come anti-Lorenzo > propugnatore di una cultura cristiana in contrasto al pagano umanesimo del tiranno Lorenzo. Nonostante Savonarola rappresenti un fenomeno unico e contraddittorio dell’umanesio, in qualche modo partecipò all’ideale di 2 renovatio, per il suo vagheggiamento di Firenze come novella Gerusalemme purificatrice di tutta la cristianità. *all’umanesimo si intreccia inclinazione popolareggiante, in volgare prettamente fiorentino, generi prediletti umili di immediato intrattenimento, utilità pratica, come le novelle, i cantari cavallereschi, sacre rappresentazioni di gusto comico. Da non considerare una letteratura minore > vi rientra il Morgante di Luigi Pulci; del resto anche parabola letteraria di Lorenzo ha una produzione popolareggiante (con la Nencia), che affiancava a una neoplatonica e classica > convivenza, anche se mai pacifica, delle due culture. Lorenzo il Magnifico (1449-1492): formazione classica (greco, poesia, filos., musica) che non trascura educazione mondana e cortese. Si affaccia al mondo della letteratura e della poesia nel contrasto tra i gusti del nonno Cosimo (neoplatonico) e della madre Lucrezia Tamburini (gusto popolare in fiorentino). Il giovane Lorenzo come poeta abbraccia il versante materno (i fratelli Pulci gli sono molto vicini) con la Nencia da Barberino (lode parodistica delle bellezze della contadina, rovesciamento comico della bucolica classica). Conversione ficiniana con il De summo bono, dialogo tra Lauro (Lorenzo) e Marsilio, nel cui neoplatonismo L. sembra trovare motivo di rinnovamento interiore e ritrovata religiosità > tracce di questa svolta sono anche rilevabili nella lirica d’ispirazione amorosa (che continua fino agli anni 80, ma senza raccoglierla mai in un canzoniere); alla lirica si intreccia la composizione del Comento, prosimetro in stile Vita Nova, raccolta di rime commentate con cui L. voleva ridefinire la fisionomia di una tradizione culturale e rivendicare la capacità e la nobiltà della lingua toscana. Signoria occulta di L. in crisi con congiura de Pazzi del ’78, in cui Giuliano viene assassinato > per risolvere la situazione L. è costretto a negoziare con l’antimediceo per antonomasia, Ferrante re di Napoli: in dono a suo figlio Federico, L. porterà la celebre Raccolta aragonese, contenete le più grandi eccellenze letterarie italiane ma in realtà fiorentine (Dante, Cavalcanti, Cino, L. stesso + Giacomo da Lentini; no Petrarca, la tradizione italiana non era solo lui), sempre per ribadire superiorità culturale di Firenze.
 Importante dell’opera politica culturale di L.> suo coinvolgimento nelle feste fiorentine con cospicuo numero di canzoni che accompagnavano gli eventi > Canti di Carnasciale tutti a doppio senso osceno (arti, mestieri condizioni umane che alludono a pratiche sessuali) + trionfi (tra cui Quant’è bella giovinezza), carri allegorici in genere ispirati a mitologia: allusioni erudite che non perdono ascendente sulla gente comune. Morte la madre e la moglie L. si dedica al progetto di costruzione di una grande biblioteca con Pico e Poliziano; ultima produzione con avvicinamento alla devozione religiosa di forma popolare. Muore nel 1492. Luigi Pulci, cultura non particolarmente raffinata: rudimenti di latino + lettere sulle tre corone. Assiduo frequentatore del palazzo mediceo, Pulci su richiesta di Lucrezia Tornabuoni (madre di L.) comincia la stesura del Morgante (titolo non d’autore ma deciso a furor di popolo) nel 1461. La princeps del M. uscì prob. nel 1478 in 23 canti cui si aggiunsero altri 5 cantari, a partire dall’ed. fiorentina nell’83, il Morgante Maggiore, che conclude la materia con storia del tradimento di Gano e della morte di Orlando a Roncisvalle. Il M. non si distingue certo per originalità della trama, che ripropone canovacci noti della tradizione cavalleresca; in più Rajna ha scoperto una (peraltro non celata dall’autore) marcatissima allusione al Cantare d’Orlando, un manoscritto mutilo e adespoto reperito in Laurenziana: sarebbe certo eccessivo parlare di plagio, certo bisogna pensare a una comune dipendenza da uno dei tanti testi che raccontavano le storie di Orlando. L’originalità del testo è nello stile e nella lingua > spessore espressivo testo, coloritura espressionistica, noncurante del registro medio della comunicazione + rovesciamento del mondo carolingio con stile che incide sul contenuto -> tuttavia questa spinta parodizzazione è sintomo di un disagio più profondo che appare chiaramente nel Morgante maggiore, dato dalla progressiva emarginazione dalla brigata laurenziana (Pulci si era fatto dei nemici a seguito del suo disprezzo per il sincretismo religioso ficiniano)> il registro espressivo muta per farsi + dotto e serioso (cit. Bibbia, Paradiso dantesco) con condanna verso chi rifiuta la fede cristiana. Altre opere > passione per parola rara, lessico espressivo, vis comica nelle lettere , Vocabolarietto di lingua furbesca, Giostra. Negli ultimi tempi si avvicina all’ortodossia cattolica, tanto che un anno prima di morire scrive una Confessione dedicata alla Vergine; tuttavia non bastò e venne sepolto in terra sconsacrata. Agnolo Poliziano per Angelo Ambrosini (nasce a Mons Politianus), allievo di Ficino e di Pico, entra facilmente nelle grazie di Lorenzo, di cui diventa prima segretario personale, poi precettore di figli. Erudizione e passione filologica > vasta produzione di poesia latina, predilezione del metro elegiaco e riscoperta della selva staziana, per necessità di poesia malleabile. In volgare scrive esclusivamente poesia in forme metriche popolari (ballata); in ogni caso lo stile delle rime volgari è caratterizzato dalla docta varietas (mescolanza temi e motivi lirica volgare a fonti classiche). 5 perché garantisce diversamente dalla corte una quasi totale assenza di gerarchia tra i partecipanti che spesso partecipano insieme a progetti di scrittura; di contro le università nel 500 non vivono un periodo particolarmente brillante perché si coltivavano saperi ormai arretrati + controllo castrante della Chiesa. Centro nuovo della cultura erano le tipografie, perché gli editori non stampano più solo per gli umanisti ma inseguono lettori di ogni livello ed estrazione > 500 smercio e diffusione di opere destinate al vasto pubblico , con concreto successo economico. Condizione intellettuali: Anche se all’inizio del 500 la situazione cortigiana è quella cui si aspira, Ariosto nelle Satire si descrive mal pagato, poco apprezzato: valore letterario a corte non è riconosciuto e il signore tratta il poeta come un impiegato qualsiasi. Diversa è la situazione che leggiamo nel Cortegiano, ma è bene ricordare che tratteggiava una corte laica, che nel 500 lascia spazio alla carriera ecclesiastica perché sentita come più sicura; tuttavia il Concilio di Trento riforma la figura dell’ecclesiastico, e le corti richiedono ai laici un compito circoscritto, specializzato > cortigiani come funzionari. Stampa: se da un lato il mercato del libro si espande smisuratamente, dall’altro forte azione della censura sopr. con Indice dei libri proibiti stilato nel momento del Concilio di Trento (che proibiva, oltre a molti scritti eterodossi, anche molti autori in volgare e edizioni Bibbia in volgare) e azioni censura protestanti come Elisabetta d’Inghilterra che fece distruggere libri proibiti e perseguì stampatori. + censura forme più raffinate, come riscrittura, sopr. del Decameron, per difendere il buon nome della Chiesa > passo indietro rispetto allo spirito della verità filologica 400sca. Questione lingua: Nei primi anni del 500 Italia non è ancora un paese moderno, pronto a dare vita a uno stato nazione unificato, e per contrasto esaspera l’esigenza di cerare un’identità italiana se non politica almeno linguistico-culturale. Ma quale lingua usare? anche Dante nel DVE se lo era chiesto. Due posizioni fondamentali: 1) la favella (parlata) - lingua cortigiana > lingua come gesto sociale, di comportamento all’interno di un gruppo ristretto, per questo non persegue unità nazionale, ma solo delle corti. Va in crisi, che il sistema cortigiano, con guerre d’Italia; 2) lingua letteraria > opzione di Pietro Bembo, avverso alla favella poiché legata a sistema politico frammentato, insiste su netta distinzione tra lingua parlata (partita persa: come Dante, Bembo constata l’assenza di un centro capace di porsi come luogo di elaborazione di una lingua unitaria) e lingua scritta, letteraria, percepita come fissa e stabile e rappresentativa almeno dell’élite intellettuale ita. Petrarca x poesia, Boccaccio x prosa.
 ↘︎ reazione polemica dei toscani, che contrappongono a lingua letteraria di due sec. fa, l’autorità della loro lingua d’uso. Ampliamento della società letteraria: nelle corti appartenenza all’aristocrazia è condizione preliminare che facilita l’esercizio delle lettere alle donne + artisti scrittori, come Michelangelo con le sue Rime, Benvenuto Cellini con la sua Vita, o Giorgio Vasari che racconta le Vite di illustri artisti. Cap. 7: Niccolò Machiavelli Firenze, 1469, da famiglia non molto facoltosa. Si sa pochissimo della sua gioventù, ma ricevette educazione tradizionale, lontana dalle raffinatezze della corte medicea (studio latino ma non greco). Negli anni dal 98 al 1512 viene chiamato a reggere la Cancelleria comunale, accumulando però un’esperienza politica ben al di là delle sue competenze da segretario (diverse missioni speciali o incarichi di ambasceria anche all’estero) e in questi anni scrive opuscoli di riflessione politica più ampia, non funzionale immediatamente al suo lavoro. Quando i Medici tornano in città e il governo del gonfaloniere Pier Soderini viene abbattuto, anche M. viene travolto dalla disgrazia del suo superiore: coinvolto erroneamente in una congiura antimedicea viene condannato nel 1513 a un anno di confino nella sua tenuta a San Casciano, dove comporrà il Principe e completerà i Discorsi. Non sarebbe esatto sostenere che la carriera di M. sia da suddividere nel periodo politico e in quello del forzato otium letterario (come peraltro afferma lui stesso nel prologo della Mandragola): è poeta anche negli anni della segreteria (composizione dei Decennali, l’inizio dell’Asino d’oro e volgarizzazione dell’Andria di Ternzio) + scritti politici ci presentano l’M. come acuto saggista e analista politico che elabora vera e proprio teorema politico letterariamente elaborato. Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, opere principali di M., diversissime tra loro che però portano avanti la comune affermazione dell’autonomia della prassi politica a scapito di ogni idealismo astratto; lo stato è solo colto in momenti diversi della sua esistenza (Principe: momento fondazione stato, di 6 disconnessione rispetto al regime precedente; Discorsi: obiettivo sulle istituzioni dello stato, si punta a individuare i fattori di durata). Le opere insieme delineano una fenomenologia dello stato che muta. Principe: primo frutto dell’otium forzato a San Casciano e primo tentativo di riaffacciarsi alla scena pubblica fiorentina (dedica ai Medici, a Lorenzo duca di Urbino), buttato giù di getto nel 1513; scopo pratico che non esaurisce significato dell’opuscolo che tradisce una certa ambizione teorica (definizione di principato e mantenimento di questa forma statale) + rigorosa intelaiatura strutturale dimostra volontà di dominare una materia complessa. Opera di 26 capitoli scandita in 4 parti: varia tipologia principati; ragioni di forza e debolezza degli stati + tema delle armi e virtù del principe; tema della fortuna; esortazione a liberare Italia dai barbari. Se inizialmente il principe ideale viene modellato sulla forma dei trattati umanistici dello Speculum principis, nei capitoli successivi M. rivolta le doti positive asserendo la necessità, per il principe, di essere anche crudele e sleale. Ultima arte del Principe connette discorso teorico a contesto politico ita: sistema corti 400sco capitolato perché no esercito, no guadagno favore del popolo, no guardarsi da famiglie aristocratiche. Ita è caduta in preda al fiume rovinoso della fortuna (inafferrabilità del reale per suo continuo mutamento) > nessuno ha su di lei reale potere tuttavia è meglio reagire con impeto; di qui esortazione a scacciare i barbari. Dal 1515 si allenta rigore del confino, M. rientra nelle alte cerchie intellettuali e culturali di Firenze. In seguito sua frequentazione degli Orti Oricellari i Discorsi prendono forma (1517) + Mandragola 1518 (forse per nozze di L. de Medici), procura immediata popolarità. Scarto decisivo rispetto a teatro arrostisco del teatro comico rinascimentale x modernità inedita di situazioni e linguaggio (fonti volgari che si rifanno a novellistica boccaccesca). Non dimentica lezione del Principe, di cui proietta, nel microcosmo di una vicenda privata, le ferree regole dell’utile, facendo emergere la verità effettuale dei comportamenti umani. Novità che pesano anche sulla Clizia (rappresentata nel 1525), che è un totale rifacimento della commedia classica, perché viene trasformato in un dramma familiare; non più padre che s’incapriccia della figlia adottiva, ma vera e propria amara lezione finale, impartita attraverso una comicità necessariamente umiliante. Da riflessione politica machiavelliana si sviluppa altra riflessione storiografica con l’Arte della guerra (1519/1520), trattato dialogico eh tratta tema delle milizie > ribadisce avversione verso mercenari e necessità di un esercito proprio, di cui però ne constata amaramente l’impossibilità > storico della realtà, non riformatore. ↘︎ cambiamento che culmina nella ultime opere, Vita di Castruccio Castracani e sopr. le Istorie fiorentine (completate nel 1525 in seguito a incarico dello studio fiorentino proveniente da Giulio de’ Medici), in cui l’esercizio della storiografia non è solo dilettevole, racconto ornato degli avvenimenti, ma interpretazione di essi; per non rischiare alcuna compromissione ideologica, M. decide di fermarsi alla morte del Magnifico nel 1492. Esperienza umana e letteraria di grande complessità. M. non riuscì mai a ritornare sulla ribalta della scena politica. Post 26 riceve anche piccoli incarichi pubblici ma nel 27 il sacco di Roma e tracollo di papa Clemente VII (Giulio) a Firenze sommovimento antimediceo: restaurata la repubblica, in M. viene visto un simpatizzante del Medici e si trova ancora dalla parte sbagliata. Muore nel 1527. Cap. 8: Francesco Guicciardini Firenze 1483. Forte ambizione politica lo porta a intraprendere studi giuridici, che per un momento vorrebbe interrompere per la carriera ecclesiastica, stroncata dal padre che non intende avviare un sacerdozio senza vocazione. Torna a studi legge, intraprende carriera di avvocato, matrimonio politico con una Salviati (principali avversari del gonfaloniere Soderini); nel 1511 incarichi come ambasciatore presso re di Spagna, rientra a casa nel 13 dove torna all’avvocatura e prepara ascesa politica > salita al soglio pontificio di Leone X, G. nominato avvocato concistoriale del papa e poi governatore di Modena e Reggio. Sua carriera si arresta bruscamente per morte del papa, e servizio sotto papa Clemente VII ha esito disastroso: gli consiglia alleanza con Francia vs imperatore, che porta al sacco di Roma. G. lascia la luogotenenza, e rientra in patria a repubblica instaurata e in un clima avverso alla politica da lui stesso creata. Nel 28 si trasferisce a Montici, ove riordina i suoi Ricordi, ma ozi letterari durano poco > 1529 trattato di Barcellona imperatore restituisce Firenze ai Medici, assediando la città. Guicciardini lascia Fi per Roma e subisce la conquista dei beni. Durante assedio conclusosi nel 30con capitolazione repubblica, G. scrive le Considerazioni intorno ai discorsi di Machiavelli , ultima redazione dei Ricordi. 7 Opere di G. per la maggior parte non destinate alla pubblicazione, per due motivi: in parte si tratta di opere private, “libri di famiglia” (Memorie di famiglia, le Ricordanze, i Ricordi); i trattati politici invece non sono pubblicabili a causa del contrasto fra pensiero politico di G. e sue funzioni pubbliche, vd Dialogo del Reggimento di Firenze: soggetto dell’opera verte su ordinamento del libero governo fiorentino che contesta con attaccamento che lo lega ai Medici > proposta è quella di un governo misto che preservi esigenze di rappresentatività politica da parte del popolo e bisogno di prestigio dei grandi, sia ambizione del singolo di emergere come primo cittadino, anche in una condizione di libertà. Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio (1530) commento polemico che prende le distanze da alcune idee cardine per propugnare concezione relativistica della storia, da cui non si può trarre nessuna regola ferma: ogni realtà ha le sue regola da valutare a partire da esperienza concreta. 1530 anche anno della redazione definitiva dei Ricordi, zibaldone di pensieri e massime che derivano dall’esperienza dell’autore e spaziano dalla politica alla morale; opera emblematica del procedere asistematico del pensiero di G., insofferente a ogni ricomposizione organica della realtà. Ricordi sono desolata percezione della fine di un’epoca, che rompe con tradizione umanistica della storia magistra. G. distrugge il principio di causalità, nega esemplarità antico per abbracciare una “varietà di circostanze”, per cui non sono le leggi del mondo a mutare, ma semplicemente non sono penetrabili dall’uomo. Storia d’Italia sorta di testamento ideologico. Personale sfortuna di G. viene a coincidere con destino Ita, di cui G. sceglie di narrare la storia dal 1494 fino alla morte di Clemente VII nel 1534. 20 libri, scritti secondo regole della storiografia classica - solennità formale e accuratezza stilistica. Scrupolo di verità storica con accurata ricognizione delle fonti + approfondita analisi psicologica personaggi. G. illustra scenario che ha condotto a Guerre d’Italia come conseguenza combinazione di debolezze umane > storia diviene terreno su cui sondare capacità umana di scambiarsi col mutevole; anche su uomo non ha dominio del mondo esterno, resta comunque sempre padrone di sé, del suo intelletto > recupero del valore morale umanistico della storia: non insegna a vivere, ma rende uomo consapevole del valore della sua esistenza. Cap. 9: Classicismo e anticlassicismo cinquecentesco Petrarchismo: è il Bembo con le rime negli Asolani - un prosimetro (1505) e poi col suo canzoniere (1530) a tracciare la strada della lirica 500sca imperniata su stretta imitazione del modello petrarchesco. Innanzitutto ebbe carattere nazionale, unificante e diciamo democratico perché non occorreva complessa educazione letteraria per scrivere un sonetto (infatti alla ribalta anche donne e artisti) + fenomeno di alta società letteraria perché aiuta la comunicazione fra letterati > antologie di rime come imprese collettive. Diede una svolta vera e propria al petrarchismo Giovanni Della Casa che con le sue Rime, pubblicate postume nel 1558, culmina processo di drammatizzazione del petrarchismo con temi esistenziali di amara riflessione sulla vita e uomo (enjambemente e ricorso a sintassi di grande respiro oratorio). Modellizzazione dei comportamenti: visto come nel Cortegiano di Baldesar Castiglione la questione della lingua si configuri come problema di “buone maniere” > 4 libri in forma di dialogo tenuto nel 1507 alla corte di Urbino da famosi letterati e gentiluomini di palazzo che delineano, passando da argomenti più seri a più frivoli, un modello ideale di moralità e umanità. Il perfetto uomo di corte non si riduce a rispetto della gelida etichetta ma possiede realmente tutte le virtù richieste (possedere le arti da disinvolto dilettante disinteressato) + servizio amoroso, cortese, platonico (altamente spiritualizzato). La fitta trattatistica successiva tende a specializzarsi in ambiti più circoscritti; esempio lampante ne è il Galateo di Giovanni Della casa che si ritaglia la forma più limitata di na normativa dei comportamenti quotidiani conformi alle regole della buona società. Il D.C. sceglie di non parlare in prima persona ma di mascherarsi dietro la figura del “vecchio idiota” illetterato che, allontanandosi da ogni ambizione morale e psicologica, non persegue la virtù aborrendo il vizio, ma insegna a un giovane parente semplicemente come essere simpatico e beneducato. Settore particolare della trattatistica rinascimentale è quello dei trattati sull’amore, in genere di impronta platonizzante, come gli Asolani di Bembo (1505) in cui 3 gentiluomini e 3 gentildonne discutono sulla bontà o meno del sentimento amoroso, decidendo poi per la sua bontà. Aristotelismo e poetiche del 500: Nel 500 maturo(anni 50-70) influsso forte di Aristotele e della sua Poetica che detta le leggi e regole della nuova letteratura in volgare - in concorrenza con Ars poetica di Orazio (bibbia teorica del classicismo). Anche nell’aristotelismo cinquecentesco, permangono capisaldi della 10 insanguinato accanto a sette lupi, credendola morta, fugge col velo per uccidersi (III atto). La sua amata, che invece è incolume, subisce lo stesso shock, poiché il pastore Ergasto la informa che Aminta si è gettato da una rupe. Resa consapevole dei propri sentimenti dalla tragica notizia, Silvia pensa di raccogliere il corpo di Aminta e suicidarsi (IV atto), ma anche il giovane pastore è scampato miracolosamente alla morte. Dopo tante vicende tristi e fortunose, i due giovani si ritrovano finalmente uniti (V atto). L’”Aminta” prende avvio nel segno di Amore in persona, il mitico figlio Venere, che in abiti pastorali recita il prologo, dichiarando di aver eluso i controlli della madre per rifugiarsi nelle selve e ispirare «nobil sensi a’rozzi petti», ovvero per diffondere anche tra i selvatici abitatori della pastorale il potere gentile, civilizzatore, del sentimento amoroso. Nel corso della storia, emerge poi la contrapposizione fra le coppie Aminta-Silvia e Tirsi-Dafne. I due giovani incarnano il momento della scoperta dell’amore, caratterizzato da ritrosie, rivelazioni improvvise, audacie, timidezze, ma soprattutto da un estremismo di sentimenti che non conosce mezze misure, si tratti della passione di Aminta o della durezza di Silvia ( e non a caso ambedue passano attraverso la risoluzione veramente tragica ed estrema del suicidio, poi fortunatamente sventato). Diversamente da loro, in speculare opposizione al radicalismo della giovinezza, Tirsi e Dafne, rappresentano il controcanto della maturità, assennata e un po’ cinica. Affermando di essersi lasciati alle spalle i furori delle passioni, entrambi concepiscono l’amore in termini di tranquillo edonismo e agiscono sulla scena allo scopo di unire i due amici inesperti. Uno spazio a parte merita la figura del satiro. Nel secondo atto, il suo intervento funge da veicolo di un messaggio ideologico disturbante. Il satiro, infatti, sostiene che Silvia sdegna il suo amore non perché egli sia fisicamente sgradevole, ma perché egli è povero, e perché anche l’amore, ormai, si compra e si vende: «Non son io brutto, no, né tu mi sprezzi/perché sì fatto io sia, ma solamente/ perché povero sono (...)». Inoltre, il satiro presenta la sua passione per Silvia nei termini brutali di un’attrazione sessuale violenta, che non arretra di fronte alla prospettiva dello stupro.
 Ma ciò che disturba, nel Satiro, è il sospetto che egli non faccia altro che rivelare la trama che muove anche gli altri personaggi, pur tanto più amabili di lui. Quando progetta lo stupro di Silvia, infatti, il Satiro è animato da impulsi passionali non diversi da quelli di Aminta: e in fondo, cos’altro ha consigliato Tirsi al suo giovane amico, se non si sorprendere la fanciulla mentre si bagna nuda alla fonte, e di farla sua, con le buone o con le cattive? Dal punto di vista delle fonti e dell’appartenenza di genere, nell’”Aminta” il Tasso ricava numerose suggestioni da autori classici (Teocrito, Virgilio) e umanistici (Poliziano, il Sannazzaro nell’”Arcadia”), oltre che da una più specifica tradizione rappresentativa, che era nata e si era evoluta sui palcoscenici ferraresi nei tre decenni precedenti (costituita dall’”Egle” di Giraldi, per esempio). Di fronte a una tale tradizione, il Tasso mostra una volontà di aristocratico decoro: elimina ogni intrusione comica, limitando i suoi personaggi a ninfe costumate e nobili pastori; concentra il tema amoroso intorno all’unica coppia dei protagonisti; nobilita il montaggio drammaturgico attingendo addirittura al modello tragico. La favola dell’”Aminta” si articola in due parti ben definite. Nella prima parte, ad annodare l’intrigo sono i maturi consiglieri, Tirsi e Dafne, i quali usano invano la loro esperienza per vincere le ritrosie di Aminta e Silvia. Nella seconda parte, la favola adotta un modello del tutto diverso. Escludendo i meccanismi comici, il Tasso qui lascia l’iniziativa nelle mani della fortuna, che entra in scena almeno tre volte (sotto forma di lupo, velo, cespuglio) e orchestra l’intreccio su aristoteliche «peripezie», ovvero attraverso i colpi di scena o mutamenti di sorte che governano, secondo il filosofo greco, la favola della tragedia. 3. Il poema di una vita Al centro di tutta l’attività letteraria di Torquato Tasso c’è il poema della Crociata. Esso è insieme un concreto progetto epico, perseguito sino dall’adolescenza con lucida fermezza, e un sogno di gloria e di fama.: il sogno di emulare lo straordinario successo del più popolare classico moderno, l’”Orlanfo furioso”, ma con un poema aggiornato alle esigenze di una cultura ben più esigente e teoricamente agguerrita rispetto a quella della rifondazione letteraria primo-cinquecentesca. Pur deciso a sfidare gli aristotelici sul loro stesso terreno, e a dare quindi alla moderna letteratura italiana un poema epico, all’antica, degno di Virgilio e di Omero, il Tasso non perde mai di vista l’intento primo, che è 11 quello di piacere non solo agli «intendenti», ma al più vasto pubblico dei lettori; replicando se possibile la straordinaria popolarità dell’Ariosto. Il “Gierusalemme”:D’altronde col frammento del “Gierusalemme”, sbozzato ad appena quindici anni, il Tasso dimostra di avere già le idee chiare. Prima ancora di averlo teorizzato nei “Discorsi”, egli ha fatto la sua scelta: il suo sarà un poema epico, non romanzesco, di soggetto storico, non di fantasia, e ispirato a un soggetto – la prima crociata – che unisce insieme le armi e la missione religiosa, e che nell’Europa cinquecentesca, ossessionata dal pericolo turco e prossima alla data epocale della battaglia di Lepanto (1571), evoca evidentemente potenti suggestioni attualizzanti.
 Il “Gierusalemme” arriva appena a condurre l’esercito di Goffredo sotto le mura di Gerusalemme: ma l’empito “garibaldino” (come felicemente lo definì Carducci) di queste poche ottave esercitò un lungo influsso sulla fantasia del Tasso, che rifuse gran parte del frammento nei primi tre canti della “Liberata”. “Rinaldo”: Rispetto alla novità esplosiva del “Gierusalemme”, il “Rinaldo” è sembrato alla maggior parte della critica un intermezzo, un entr’acte (Caretti), o, peggio, uno «sgusciante compromesso», che testimonierebbe l’esitazione di cautela con cui il giovane poeta diciottenne si espone per la prima volta al giudizio del mondo. Non più un poema epico, ma un romanzo; non più un’azione storica, ma il solito repertorio “meraviglie” e di “magie; nessun serio rapporto con la storia presente, ma il racconto idealizzato della prima educazione cavalleresca, di uno dei più amati e tradizionali eroi carolingi, Rinaldo di Montalbano. Tuttavia, nell’indirizzo ai lettori il Tasso esplicita dei principi di poetica inspirati senz’altro a una volontà di mediazione, ma tutt’altro che ingenui o disarmati. Egli dichiara apertamente di non volersi obbligare né «a le più severe leggi d’Aristotile», né ai «troppo affezionati de l’Ariosto»; dunque il so poema non perseguirà una unità della favola strettamente intesa, né rinuncerà alla piacevolezza degli episodi; per altro, egli non riprodurrà il sistema ariostesco e, specialmente, si sottrarrà alla configurazione “orale”, dialogica e interlocutoria, del narratore ariostesco, che trovava nei proemi morali del “Furioso” la sua sigla più esplicita. Di fatto, il “Rinaldo” propone la consueta materia romanzesca, ma entro una tecnica narrativa all’antica, “epica” in quanto rinuncia radicalmente all’”entrelacement” e alla simulazione di oralità di ascendenza boiardesca e ariostesca. “Discorsi dell’arte poetica”: intervengono subito a superare con aristotelica lucidità l’esperimento del “Rinaldo” disegnando già, in filigrana, la macchina della “Liberata”. Di un poema, cioè, di materia vera, tolta dalla storia e non inventata; intessuto tuttavia di magie e di incanti, grazie alla formula del «meraviglioso cristiano» (ovvero di un soprannaturale non solo credibile, ma da credersi a norma della religione professata dal lettore); di ambientazione cronologica né troppo antica, né troppo recente, in modo da salvaguardare al poeta una discreta «licenza del fingere»; di favola intera, una e di ragionevole grandezza, rispetto alle favole spesso incomplete, episodiche e d sproporzionata lunghezza dei romanzi tradizionali; di stile sublime, dunque retoricamente alto e sostenuto come quello della tragedia, ma non “semplice” come quello, bensì “magnifico”, dunque ornato e ricco di abbellimenti formali. La “Gerusalemme liberata”: mantiene fede ai “Discorsi”, e, più in generale, al proposito di creare un epos moderno senza distruggere l’eredità del romanzo, ma includendola e filtrandola entro un organismo narrativo interamente nuovo.. Il miracoloso equilibrio del poema regge, però, per poco tempo. Dubbi personali, esasperati dalle critiche dei revisori romani, che turbano il Tasso facendogli presagire un’accoglienza tutt’altro che tranquilla al proprio poema, compromettono rapidamente quell’equilibrio.
 Abbandonata la “Liberata” al suo destino, dopo Sant’Anna il Tasso torna sul poema della Crociata, e ne fa, ancora una volta, il fulcro centrale della sua ultima e stremata stagione poetica. Ne esce la “Gerusalemme conquistata”, un poema tutto diverso.
 Conformato ai dettami della Controriforma, si è detto spesso: e certo non manca un’esibizione più ostentata di costrizione religiosa, e le occasioni liturgiche e cerimoniali si dilatano acquistando un carattere più invasivo e spettacolare.
 Ma è la favola della “Liberata”, soprattutto, che il Tasso distrugge modellandola nella “Conquistata” sull’esemplare omerico dell’”Iliade”, in una ricerca di grandiosità classicista e di formale ortodossia epica in cui non c’entra tanto la Controriforma, quanto un gusto poetico ormai radicalmente mutato.
 L’assedio di Gerusalemme è ora lucidato attentamente su quello di Troia; i personaggi sono sovrapposti studiosamente, uno per uno, a quelli dell’”Iliade”; Rinaldo (ribattezzato Riccardo), soprattutto, viene chiamato a reincarnare Achille, dando un movimento narrativo della sua “erranza” un significato tutto diverso: basterà sottolineare come, ritornato alle tende latine dopo la prigionia presso Armida, Riccardo non torni a 12 combattere con i suoi, ma abbia bisogno del sacrificio dell’amico Ruperto (novello Patroclo) per tornare in battaglia. 8. Dentro e fuori Sant’Anna Il vacillare delle certezze poetiche del Tasso, al tempo della revisione “romana del poema”, si accompagna via via a sintomi sempre più gravi di inabilità psichica. Scrupoli religiosi esasperati, crisi depressive, manie di persecuzione finiscono col guastare i rapporti del Tasso col duca Alfonso, sempre più sospettoso delle imbarazzanti ripercussioni che le inquietudini tassiane potevano avere sulla riputazione della corte. Nel Marzo 1559, approfittando di una crisi nervosa a cui si era abbandonato Torquato durante le feste per le nozze del duca con Margherita Gonzaga, Alfonso lo fa rinchiudere come «pazzo frenetico» nell’ospedale di Sant’Anna. Qui Torquato Tasso rimane recluso per sette anni, fino al luglio del 1586, quando, per mediazione del principe di Mantova Vincenzo Gonzaga, egli viene finalmente liberato. Intanto, durante gli anni di prigionia, era iniziata la storia della “Gerusalemme liberata”, lontana dal controllo del suo autore, tramite le prime stampe pirata: quella del 1580 (in soli 14 canti), col titolo “Goffredo”, seguito dalla prima integrale, nel 1581, uscita a Parma presso l’editore Viotti per cura di Angelo Ingegeri. Il successo fu immediato, ma il poeta vi poté partecipare solo da lontano. Uscito da Sant’Anna, il Tasso attraversa un periodo di grande attivismo letterario, procedendo a una vera e propria ristrutturazione della sua intera carriera poetica.
 Per prima cosa riprende il frammento tragico del “Galealto” e lo riscrive e completa col titolo il “Re Torrismondo” (1587); riscrive e pubblica i “Discorsi dell’arte poetica” come “Discorsi del poema eroico” (sempre nel 1587); progetta un’edizione complessiva delle sue rime (di cui usciranno solo la “Parte prima”, 1591, e la “Parte seconda”, 1593, delle tre progettate) sia delle prose (fra cui i 25 dialoghi composti durante la detenzione a Sant’Anna); si dedica alla composizione di opere di stampo religioso e devozionale (“Il Monte Oliveto”, “Le lagrime di Maria Vergine, ecc.); soprattutto, riscrive da cima a fondo la “Liberata” pubblicata finalmente nel 1593, col nuovo titolo “Gerusalemme conquistata”, e con dedica al cardinale Cinzio Aldobrandini, nipote del papa. 9. L’ultimo Tasso: il Re Torrismondo 
 Tasso aveva iniziato una tragedia nel 1573, subito dopo l’”Aminta”, lasciandola interrotta al secondo atto; il frammento era stato pubblicato nel 1582 (a sua insaputa) col titolo “Galealto re di Norvegia”. Una volta uscito dal carcere Tasso riprende in mano il testo e gli dà forma compiuta col nuovo titolo “Il re Torrismondo”, che esce a stampa a Bergamo nel 1587, con dedica al suo liberatore Vincenzo Gonzaga. La favola descrive i tormenti del re di Gozia Torrismondo, diviso tra l’amore per Alvida, figlia del re di Norvegia Araldo, e la lealtà verso l’amico Germondo, re di Svezia, innamorato anch’egli di Alvida.
 Ingannando padre e figlia, Torrismondo ha chiesto la donna in sposa ad Araldo con l’intenzione di consegnarla a Germondo, che non si era fatto avanti in prima persona a causa dell’inimicizia che lo divideva da Araldo. Mentre tornavano in Gozia, però, Torrismondo e Alvida si sono innamorati e hanno avuto un furtivo rapporto sessuale. Dopo alterne vicende, cin Germondo che sembra disposto a tirarsi indietro, Torrismondo scopre che Alvida è sua sorella (IV atto). Siamo alla catastrofe. Alvida rifiuta di credere alla storia dell’incesto (rivelatele da Tossismondo) e si suicida, pensando di non essere più amata. Torrismondo la segue nella morte, ma prima di uccidersi invia una lettera a Germondo, disperato per la duplice morte dell’amico e dell’amata, chiude la tragedia con una sconsolata considerazione sulla vanità dell’esistenza. Anche da un semplice sommario della trama, è evidente che il Tasso incrocia nel “Torrismondo” due tragedie diverse, rispondenti a due diverse problematiche morali. Da una parte c’è la tragedia “cavalleresca”, che vede il protagonista lacerato fra gli obblighi dell’amicizia e dell’amore: è una tragedia tipicamente cortese, in cui si affrontano Amore e Onore e nella quale è messa a repentaglio l’integrità della figura di Torrismondo come cavaliere come principe. Dall’altra parte c’è la tragedia basata sull’incesto, e per di più sull’incesto inconsapevole: Alvida infatti non è soltanto la donna amata dal’amico Germondo, ma è anche la sorella del protagonista, e il rapporto consumato con lei non infrange soltanto il patto di lealtà che lega i due protagonisti maschili, ma si configura come l’infrazione di un tabù ancestrale. Le due trame tragiche corrispondono all’impiego, da parte del Tasso, di due fronti letterarie ben diverse tra loro: la tragedia “cortese” deriva dalla “Historia de genti bus septentrionalibus” del vescovo di Uppsala Olao
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