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Il ritratto: storia e teorie dal Rinascimento all'eta dei Lumi Libro di Édouard Pommier, Appunti di Storia Dell'arte

Il ritratto: storia e teorie dal Rinascimento all'eta dei Lumi Libro di Édouard Pommier. Prima parte.

Tipologia: Appunti

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Scarica Il ritratto: storia e teorie dal Rinascimento all'eta dei Lumi Libro di Édouard Pommier e più Appunti in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! Parte prima: teorie italiane CAPITOLO 1: I PRIMI ABBOZZI 1. Petrarca e l’idea. Nella Storia Naturale Plinio il Vecchio parla di Apelle. Allo stesso modo, Petrarca parlò di Simone Martini, pittore del celebre ritratto di Laura. Paragonò la gloria di Mantova, patria di Virgilio, a quella di Siena, patria di Martini. La figura di Simone Martini può essere paragonata a quella di Apelle, considerando Virgilio come esempio massimo di poesia latina. Petrarca diede grande impulso alla cultura umanistica, attraverso la sua esaltazione del passato romano e degli uomini illustri. Pose le basi per le riflessioni sul ritratto fino al XVII sec. Per Petrarca il ritratto somigliante è un ritratto vero. Da questa massima si può intuire la ripresa del passo dell’Eneide sulle statue che respirano di Virgilio. Basandosi sull’aneddoto che vede Petrarca inviare a Carlo IV delle monete con l’effige di Cesare, subentra una sua domanda circa il ritratto: “forse le statue esprimono meglio le fattezze del corpo, ma la gloria delle imprese e le qualità dell’animo sono espresse meglio dalle parole”. Indipendentemente da ciò, Petrarca spiegò cos’è il ritratto nella seconda strofa del primo sonetto del Canzoniere (1336): Simone Martini ha avuto il privilegio di contemplare l’immagine divina di Laura, quell’immagine originaria che risiede nel pensiero di Dio creatore e che è infinitamente più bella della sua incarnazione terrena. Ciò si scontra con il pensiero precedente di Cicerone: l’artista non è né imitatore né interprete del divino, ma possiede in sé un modello di bellezza a cui attinge per le proprie opere. L’idea di ritratto di Petrarca è ambigua: non è fondato sulla somiglianza con una persona viva, ma sull’identità di questa persona con il pensiero del suo creatore. Questo testo scarta la ripresa di un modello, andando a fondare il così detto ritratto ideale. Giovanni Battista Gelli (1549) riguardo al sonetto petrarchesco disse: la Laura terreste non è altro che un ritratto, una replica indebolita della Laura pensata da Dio, della quale il ritratto di Simone Martini è solo un secondo ritratto. Va specificato che, per Petrarca, l’artista greco dell’antichità non sarebbe mai stato capace di realizzare una cosa simile, perché egli e l’artista cristiano provengono da due sistemi che li rendono inconfondibili. Alcuni anni dopo il ritratto di Laura divenne sempre più un feticcio per il Petrarca. Nonostante in Petrarca il ritratto non portò a nessuna teoria di un genere, scatenò i dibattiti su di esso, andando ad individuare alcune tipologie: il ritratto vivo, quello esemplare, quello ideale, immorale, quello fondamento della superiorità dei moderni sugli antichi. Vasari, tempo avanti, influento dal poeta, andrà a discutere sul tema della superiorità dello scritto sull’immagine. 2. Cennino Cennini e il realismo. Cennino Cennini con il suo Libro dell’arte (1400) ha realizzato il primo trattato in italiano sulle tecniche artistiche, per ampliare la conoscenza della pratica attraverso ricette precise. Ben conscio del ruolo ricoperto da Giotto, si inserì nella sua discendenza. Il testo di Cennini da importanza al disegno come mezzo espressivo, individuandone due tipi: il disegno mentale e quello su carta. Tuttavia, non dedicò nessun passo ai generi della pittura. Il ritratto non arrivò in quegli anni ad avere autonomia. Nonostante ciò, è intrinseca una costruzione gerarchica dei soggetti in pittura nell’opera di Cennini, di chiara impronta accademica: natura morta, paesaggio e poi uomo (non si sa se venne effettuata in base alla difficoltà o alla dignità del genere). Nello stesso trattato affrontò il tema del calco in gesso del viso su persona in vita, preoccupandosi di permettere la respirazione. Il calco del viso probabilmente veniva realizzato in occasione di un ritratto realista. Tuttavia, nell’introduzione Cennino affermò che la pittura è un arte di immaginazione (“Quello che non è, sia), aprendo alla discussione a riguardo. 3. Leon Battista Alberti: somiglianza e bellezza. Alberti dedicò a Brunelleschi (1436) la versione italiana del suo trattato sulla pittura (uscito già in latino). Alberti era già conscio che la sua opera era senza precedenti. A Firenze scoprì le opere di Masaccio, Ghiberti, Donatello e Brunelleschi, il cui talento non era paragonabile con quello degli antichi poiché non possedevano veri esempi di essi. La finalità del suo trattato era quello di far conoscere i princìpi dell’arte agli artisti, per fargli padroneggiare la tecnica e far diventare loro i continuatori dei geni del Rinascimento fiorentino. Inoltre, Alberti volle legittimare la pittura come attività nobile, al pari della poesia (arte liberale), dimostrando la dimensione scientifica di una creazione del genere. Nel trattato non si parla di ritratto. Alberti non era interessato alle categorie. Allusioni al ritratto sono inserite nella parte che tratta della rappresentazione del reale, con riferimento all’antichità. Fece combaciare la forza divina della pittura con quella del ritratto, immagine dell’uomo: la forza divina sarebbe quella di far sì che, attraverso il ritratto, anche i morti sembrino ancora in vita (valore memoriale). L’osservatore nel ritratto è in primis attirato dal volto, che implica il riconoscimento. Alberti, infatti, desiderava che chi lo appressasse lo dipingesse in un ritratto, prima o poi. Il ritratto vivo non è solo presenza di un essere umano, ma anche presenza della dignità e della funzione che incarna (nel caso di Alberti, quello dell’intellettuale umanista). Leon Battista Alberti individua la funzione del ritratto con la propria fedeltà al reale. La perfezione morale per lui corrispondeva alla perfezione delle forme: la bellezza. L’antichità gli riserva un esempio, quello di Zeusi a Crotone. Subentra qui la contraddizione tra artista e modello: il duplice procedimento di modello e imitazione. Tale dicotomia si tradurrà nella ripresa di una soluzione a due livelli tratta dall’antichità. Da una parte la correzione dei difetti (Guarda Apelle e il ritratto “migliorato” dai difetti di Antigono) pur mantenendo la somiglianza. Il difetto era fattore discriminante nella gerarchia sociale. Dall’altra la riflessione sul modello di Zeusi, ossia la ripresa di determinate categorie in vista della creazione di un modello nuovo devoto alla bellezza. Alberti insistette molto sull’equilibrio da trovare tra il talento, ossia l’immaginazione che permette di concepire l’idea della bellezza, e il rispetto del modello da imitare. Si ritorna al medesimo quesito: somiglianza o bellezza? Nonostante l’impegno, Alberti produsse una serie di principi inapplicabili ma seducenti. 4. Il ritratto e la morte. La stampa dei suoi testi portò ad Alberti grande fama (1540/1547). Solo nel 1548 un titolo si può avvicinare a quello di Alberti: il Dialogo di Pittura di Paolo Pino. Questo testo ebbe veloce diffusione negli ambienti umanistici. Il tema più discusso era quello della pittura che fa sopravvivere l’uomo e il legame con l’amicizia. Un esempio è il duplice ritratto di Justus Pannonius e Galeotto Marzio da Narni realizzato da Mantegna. Il significato del doppio ritratto, segno della sopravvivenza dell’amicizia nell’oltretomba, è confermato da Erasmo da Rotterdam in una lettera a Tommaso Moro, che annunciò l’invio a quest’ ultimo di un dipinto in cui figura accanto al loro amico in comune Pierre Gilles. Questa idea si accantona all’espressione ‘’Leale ricordo”, che figura sul Timoteo di Van Eyck, e alle misteriose iniziali V.V collocate sui ritratti di Giorgione, Tiziano e Dürer: forse si possono tradurre con “Vivus Vivo” o “Vivens Vivo”, riassumendo la vita delle opere al di là della morte del modello e dell’artista. Il ritratto conserva l’aspetto degli uomini anche dopo la loro morte. forti, a “miglior senso”. Il racconto di Leonardo sembrò dimostrare la superiorità del ritratto sulla poesia, dell’immagine sul racconto. 2. Ritratti letterari. Il poeta è colui che attinge da diverse scienze per raccontare, come un composto bugiardo. Nei Ritratti di Luciano sì legge di Licino e Polistrato: il primo descrisse l’apparenza fisica di una donna che visto, mentre il secondo la ritrae senza averla mai vista. Ne usci un solo ritratto (morale), realizzato dalle due descrizioni. Si tratta di un ritratto più veritiero poiché unisce bellezza e virtù dell’anima. Le Eikones non furono l’unico motivo per cui nel Cinquecento nacque il ritratto della donna ideale. Al medioevo risale la descrizione che Sidonio Apollinare fece di Teodorico II: lo descrisse come un essere la cui bellezza si accosta alle virtù e qualità morali (435). Genere del ritratto della donna ideale, altri esempi: • Mathieu de Verdome (1175) e Geoffroi de Vinsauf (1210) • Descrizione della donna nel Romane de Thebes (XII), Chretien de Troyes. • Ritratto di Emilia nella Teseide di Boccaccio. • Descrizione di Alcina nell’Orlando Furioso di Ariosto. • Donna ideale di Pietro Bembo nell’ dialogo Gli Asolani (1505). • Gian Giorgio Trissino e la donna dei Ritratti (1514); inno a Isabella d’Este duchessa di Mantova. Trissino descrive la donna di divina bellezza, che non può essere paragonata a nessuna. Macro, il narratore, afferma che procederà come Zeusi alla creazione di una donna proprio come fece a Crotone. Manca tuttavia, per raggiungere la perfezione, il colore giusto. Macro arrivò infine ad affermare che il migliore dei pittori fu Petrarca, che realizzò il perfetto ritratto di Laura, confermando il primato della poesia sulla pittura (Omero, il migliore dei pittori). La perfezione della donna, per Trissino, si realizza attraverso la retorica e la poesia. Nella descrizione vocale delle donne non poteva mancare la descrizione dell’habito, ossia dell’apparenza (vesti, gioielli, ec), il quale però non ha valore senza la rivelazione delle qualità dell’anima, che né un pittore e né un poeta, ma solo un filosofo può descrivere. Le qualità erano: prudenza, dolcezza, forza, temperanza, continenza, giustizia, liberalità e magnanimità, e sono tratte de eroine della mitologia o dell’antichità. Trissino realizzò il ritratto di Isabella per chiederle un intervento a suo favore, essendo bandito da Venezia. Il ritratto di donna eccezionale che propone diverrà esempio nella pittura del rinascimento. Questo mischiò elementi reali (naturalismo) e elementi più astratti (esempi mitici e storici) di valore morale. Si tratta di un ritratto che non esiste, che ricostruisce una bellezza fortemente spiritualizzata, ma preservata dall’astrazione totale attraverso la contemplazione di modelli reali. Trissino sapeva che l’Isabella descritta non esisteva più, o non era mai esistita (immaterialità rese più importante il racconto che il dipinto). Un altro esempio di ritratto letterario è quello di Agostino Nifo (trattato sul Bello del 1529). Rifiutò ogni idea di bellezza immateriale, e per descrivere la donna ideale scelse una donna reale, Giovanna d’Aragona: donna totalmente bella sia nell’anima che nel corpo (bellezza corporea e incorporea), dalle sembianze non umane ma divine. Nella sua opera segue una descrizione minuziosa del corpo. Per Nifo la bellezza umana corrispondeva ad un solo tipo umano, e non all’assemblaggio di parti (contro Zeusi). Un’idea più vicina a quella di Trissino e Zeusi è quella di Agnolo Firenzuola, che scrisse nel 1540 un trattato sulla bellezza delle donne. La donna ideale era la Chimera, elaborata tramite la selezione di quattro donne della società alta di Prato. Il suo testo letterario si riferiva ai pittori, formulando un’analisi tecnica dei colori e delle sfumature. Una novità non tratta dagli antichi era quella della forma del corpo: Firenzuola inserì nel testo incisioni con quattro tipologie di vaso, allusive alle varie forme di bellezza corporea. Infine, si cimentò nella descrizione della donna ideale per eccellenza, quasi a mo’ di gioco. Dopo il corpo, passò all’analisi delle caratteristiche individuali: leggiadria (bellezza del movimento), vaghezza (desiderio prodotto nell’uomo), venusta (dignità), aria (salute) e grazia (non so che). La Chimera doveva riunirle tutte. Il ritratto di Firenzuola si elevò su quello di Zeusi, cosciente di aver usato solo quattro modelli e non cinque, considerando dunque le donne di Prato più belle di quelle di Crotone. Tuttavia, non si occupò della bellezza dell’anima. Le teoria elencate posero una base per la riflessione della bellezza successivamente (Pino; Dolce), arrivando al trattato decisivo di Pietro Testa che riduce il pensiero ad una frase: “capelli biondi, sottili, lunghi, rilevati e semplicemente annodati […], dal sorriso che lascia intravedere solo cinque o sei denti”. Testa è analitico. Firenzuola probabilmente iniziò un processo di selezione importante. 3. Celebrazioni storiche. Una letteratura teorica e storica sulla pittura nacque solo dopo il 1540 circa. Iniziò la trattazione partendo da Giotto fino ad arrivare alla perfezione intesa come applicazione della prospettiva e dell’anatomia. La centralità dell’uomo anche in pittura fece progredire il ritratto (Raffaello, Tiziano come massimi). Le Vite di Vasari (prima edizione 1550): Giorgio Vasari trovò i primi esempi nella letteratura fiorentina di Boccaccio, Landini, nei trattati di Alberti, nei Commentari di Ghiberti e nella biografia di Brunelleschi. La resurrezione della pittura per Vasari avvenne da Cimabue e Giotto, passando per gli eredi Piero della Francesca, Masaccio, trovando massima esemplarità in Leonardo, Raffaello e Michelangelo, i quali hanno eguagliato gli antichi (se non superato). Tema cardine del testo vasariano è la resa del reale, iniziata con Cimabue e perfezionata dagli artisti della seconda e terza epoca. Il primo fu Leonardo, poi il giovane Raffaello, ma Vasari riconobbe come uno storico vero l’importanza dei pionieri, in primis Giotto. Nella biografia di Giotto venne espressa un’idea importante: la pittura ricomincia con il ritratto dal vero, perché illusione del reale, e introduce il “non visto”, ossia i sentimenti propri della vita interiore. L’elevazione del ritratto in Vasari riunì tutte le idee del Quattrocento. Vasari, inoltre, fece di Giotto il ritrattista di Dante: si tratta dell’incontro di due massimi maestri, uno di poesia e l’altro di pittura, uniti dal ritratto del primo e i versi del secondo nel X canto del Purgatorio (medesimo scambio tra Piero della Francesca e Federico da Montefeltro). La grandezza del pittore di ritratti risiede anche nella grandezza del suo modello. Vasari notò e annotò i “ritratti di naturale”, ossia quelli più vicini alla realtà, sempre più ricchi di dettagli materiali e accessori: personaggi di Uccello (palazzo Medici, Firenze), Benozzo Gozzoli (chiesa dell’Aracoeli di Roma) e Masaccio (Cappella Brancacci); ritratto di Francesco Pugliese di Filippo Lippi; ritratto di Maometto II di Gentile Bellini; ritratto di donna per Pietro Bembo di Giovanni Bellini; ritratto del doge Leonardo Loredan di Giorgione; la Monnalisa di Leonardo (questo ritratto implica l’utilizzo successivo di due termini, vita e verità, tanto essere vicino alla natura); ritratti di Sebastiano del Piombo per Marco Aurelio Colonna e Anton Francesco degli Albizzi; Raffaello con i famosi ritratti di Giulio II, Bindo Altoviti, Leone X con cardinali. Soprattutto con la descrizione di quest’ultimo ritratto, Vasari sembra concentrarsi solo ed esclusivamente degli oggetti, manifestando un sempre più marcato materialismo (che lo ha spinto ad apprezzare anche artisti minori). Fu così che la celebrazione del ritratto scivolò nell’esaltazione della natura morta, degli oggetti di arricchimento, tralasciando l’essenza e l’essenziale (preferendo le attrattive ingannevoli). Vasari venne implicato da Benedetto Varchi nel celebre paragone tra pittura e scultura, chiedendo quale di queste fosse per lui l’arte superiore. Vasari indicò la superiorità della pittura, come lo stesso Varchi fece (1547). Come tesi argomentativa parlò del ritratto di Papa Paolo III di Tiziano che, apparendo vero a chi lo osservava, sembrava quasi reale (riprendendo il famoso aneddoto dell’uva di Zeusi). Dalla resurrezione alla perfezione, la pittura italiana ha compiuto il suo ciclo, da Giotto a Tiziano. Tuttavia, Varchi si spinse più in là con un secondo problema: chi fosse più abile, tra poeta e pittore, a rendere la vita dell’anima. Benedetto Varchi affermò che il poeta si occupasse meglio dell’anima, mentre il pittore del corpo. Le idee del Vasari purtroppo non risposero alle domande sorte successivamente: i ritratti hanno qualcosa da dire? Che rapporto c’è tra pittore e modello? Il ritratto dal vero potrebbe essere compreso solo dai conoscitori?. Nel suo Dialogo, Ludovico Dolce parlò di Tiziano in modo innovativo: egli non considerava vivi i suoi ritratti, inoltre questi utilizzava il ritratto come mezzo per fare carriera e ricevere remunerazione, oltre che diventare famigliare ai principi. Tiziano ritrova presso Carlo V gli stessi favori che Apelle aveva ricevuto da Alessandro Magno. Carlo V lo definì: “Apelle dei nostri secoli”. La definizione non è solo la pittura che resuscita nei ritratto con Giotto, ma è il pittore migliore dell’antichità che si è rincarato nel migliore del XVI secolo. 4. Ritratti emblematici. Giorgio Vasari nel 1534 produsse due ritratti e ne scrisse dei commenti: il ritardo di Alessandro de Medici e quello di Lorenzo il Magnifico, morto nel 1492. Per quest’ultimo si parla di ritratto somigliante, poiché in assenza di modello si trae ispirazione da ritratti precedenti o dalle informazioni di testimonianze fidate che hanno visto il modello. Vasari espose il suo concetto di ritratto: somigliante e riconoscibile. La nozione di realismo non è legata la presenza del reale: infatti, un dipinto accanto ad un modello, somiglia sempre ad un dipinto poiché si ha la certezza, osservandolo, che si tratti di una simulazione. Nonostante ciò, un ritratto è anche un invenzione. L’invenzione è la capacità del pittore di trovare i mezzi per rappresentare una storia in pittura. Vasari mise in ballo il cosiddetto “piacere del riconoscimento”, ossia l’azione di decifrazione alla quale prende lui stesso piacere per il ritratto di Alessandro. Allo stesso tempo, Vasari non fornì alcun esempio di lettura dei ritratti che evocò nelle Vite. Per quanto riguarda il ritratto di Lorenzo, esplicitò la qualità del modello, il messaggio politico, morale e culturale e il patrimonio di virtù che volle condividere con la posterità. Nel caso di Alessandro, il pittore si compiacque della sua invenzione, di aver dipinto l’uomo secondo il suo capriccio, e di avergli dato un significato. I simboli dipinti dal Vasari sono diversi: le armi sono simboli di difesa; la posizione seduta il possesso del potere; la sciarpa rossa il sangue; le rovine indicano la guerra del 1530; il cielo sereno la tranquillità dopo l’assalto; i corpi senza arti nella decorazione del trono sono i vinti, ecc. La descrizione del Vasari portò alla nascita di un nuovo genere di ritratto, quello emblematico: esso esplicita attraverso figurazioni estrinseche il carattere del modello, le sue azioni, cioè sia fenomeni visibili che invisibili. In ritratto iniziò a trasformarsi in un oggetto complesso a più livelli. La compressione di taluni simboli non era per tutti. Di pari passo iniziò a dilagare una moda a Firenze, quella di scrivere lettere in modo criptato, geroglifico (lettera sul ritratto di Alessandro de Medici di Vasari). Ritratto criptato: l’interesse per l’interpretazione misterica dell’universo in Vasari subentrò dopo aver fatto la conoscenza di Pietro Valeriano, erudita che stava creando l’edizione critica del testo Hieroglyphica di Orapollo. Per comprendere il modello va considerato l’incontro del Vasari con Paolo Giovio a Roma nel 1532 (appassionato e collezionista d’arte). Da qui venne l’idea delle Vite. (ritratto naturale di Rinaldo degli Albizzi; ritratto dei Pazzi, i congiuranti attribuiti dal Vasari allo stesso pittore ma non vi è certezza su ciò). Fu così che riconoscimento e ritratto d’infamia si unirono per un fine di giustizia pubblica. 1) Battista Armenini fece un ritratto di un soldato spagnolo che lo aveva insultato per sostenere la sua lamentela a riguardo. 2) Annibale Carracci (dalla biografia scritta dal Bellori): fece il ritratto a memoria di banditi che lo avevano depredato per incastrarli e riottenere il proprio bottino. 3) Gregorio Comanini: la funzione del riconoscimento del ritratto, in conformità con il modello, porta alla sua riuscita, perché permette di riconoscere la persona rappresentata (piacere del riconoscimento). Teorie sul ritratto iperrealista: 1) Federico Zuccari, trattato del 1607: volle dimostrare l’eccellenza della pittura, la cui finalità è l’imitazione perfetta della natura e, per provare che i moderni non erano inferiori agli antichi, raccontò due vicende legate a ritratti che seppero ingannare: ritratto Leone X di Raffaello al quale un cardinale si inginocchiò per far firmare una bolla; ritratto di Carlo V di Tiziano con il quale il principe Filippo iniziò una discussione. 2) Filippo Baldinucci, nella sua biografia su Bernini, parlò del ritratto/busto di Pedro de Foix Montoya: paragonato al suo modello, è tuttavia il ritratto a figurare più vivo e vero. Il potere dell’immagine realista non induce alla sospensione del giudizio dei sensi, ma stimola l’immaginazione e dirige la volontà dello spettatore. 3) Francesco Bocchi, commento al David di Donatello: lo scultore seppe bene rapprendere l’espressione dell’anima e dello stato d’animo (Pathos e Ethos) in una determinata situazione. Donatello seppe rendere tale espressione nel ritratto di un eroe ideale, dandogli la capacità di esercitare tutta la sua forza su coloro che lo guardano (ex. Busti degli antenati per i romani, che sostenevano il loro coraggio). 4) Trattato sulla nobiltà della pittura, Romano Alberti: la pittura, il ritratto, supera di gran lunga anche l’eloquenza. Il tutto può essere riassunto con la storia raccontata da Plutarco, in cui Cassandro si mise a tremare dinanzi la statua di Alessandro Magno, pensandolo lì in carne ed ossa. Questa volta il sottile equilibrio tra natura e arte stabilito da Vasari si è infranto. 2. Fisiognomica. Pomponius Gauricus nel suo trattato di scultura (1504) tentò di spiegare come “immaginare l’apparenza dei morti a partire dai loro noti caratteri morali (grazie ai libri di storia). La risposta fu la fisiognomica. Diversamente dall’anatomia, la fisiognomica era intesa da lui come la rappresentazione esatta del reale e la traduzione concreta della vita interiore, con lo scopo di ricostruire scientificamente i tratti dei personaggi illustri del passato. La fisiognomica venne ripresa dai pensieri di Aristotele che la definiva la scienza delle passioni naturali dell’anima e delle ripercussioni che fanno subire al corpo cambiandosi in segni di fisionomia. Ciò venne ripreso nel II sec. Da Polemone di Laodicea e dal medico ebreo Adamantius (testi in greco). La prima versione latina di Polemone risale al III/IV secolo. La base aristotelica con il tempo si arricchì di credenze astrologiche e occulte arabe, influenzando l’occidente medievale. Nel XV secolo tali idee vennero riprese da Michele Savonarola e Bartolomeo Cocles, ma arricchite di dettagli: le somiglianze con gli animali, l’influenza del clima, il segno delle passioni abituali, il ruolo degli umori, i caratteri specifici maschili e femminili. Gauricus tradusse in latino il testo di Adamantius e formò così il tuo trattato di scultura, la scienza delle forme del corpo interpretate come espressioni dell’anima. Leonardo da Vinci rimase affascinato dalla fisiognomica, ma la considerò sempre mancare di serietà scientifica. Gauricus partì dalla storia, dalla lettura e dal carattere per realizzare il ritratto di una persona. Spiegò che la fisiognomica si divideva in nazionalità, sesso e caratteristiche individuali, e introduce le analogie tra forme umane e animali. Per lui lo scultore doveva essere esperto di fisiognomica per rappresentare correttamente i grandi uomini dei quali si ignorano i tratti. Il trattato di Gauricus non ebbe molta fama. Il passo più interessante fu quello in cui considera le analogie animali; nella misura in cui si crede di conoscere le caratteristiche di un animale, permette di rivelare le qualità o i difetto degli uomini. Il testo di Gauricus influenzò un altro trattato, quello di Giambattista della Porta (1586) sul medesimo tema: accostamenti sulla somiglianza di diversi individui con certi animali. Le varie illustrazioni, i ritratti dei personaggi dell’antichità e la chiarezza strutturale comportarono la grande diffusione del testo nel XV. L’opera affine di Girolamo Caldano (1658) si accostò più alla magia. Seppur ilare, il testo di Gauricus ci permette di comprendere come l’artista tentava di rapportarsi con il modello. 3. Ritratto memoriale. Riflessioni del Vasari sul valore memoriale del ritratto: le idee si mescolano a ciò che lesse nella Storia Naturale di Plinio (specialmente riguardo le maschere funerarie e i ritratti di uomini celebri il cui primo collezionista fu Marco Terenzio Varrone). I ritratti veneziani, il cui primo artista fu indicato Giovanni Bellini dal Vasari, rimasero aderenti alla vita privata. Altra pratica era il ritratto di uomini illustri: De Viris Illustribus di Petrarca (1330), su modello di Plutarco; Giotto e il ritratto di Roberto I di Napoli a Castel Nuovo, assieme a nove eroi della Bibbia di dell’antichità; sala degli uomini illustri nel palazzo del Capitano a Padova; loggia di Andrea del Castagno e Domenichino nel palazzo Vecchio di Firenze con le sale delle donne della Bibbia e dell’antichità, assieme a tre poeti e uomini di stato (Dante, Petrarca e Boccaccio) e quella degli eroi della storia romana. Lombardo da Seta spiegò l’importanza di questi ritratti: avere sotto gli occhi coloro che ti eri impegnato ad amare per la grandezza delle loro imprese. Come nella storia romana, il ritratto era inteso come esemplarità morale e politica, in identificazione con gli eroi antichi. La relazione di questi ritratti aveva fini politici e morali, legato al messaggio di potere che si voleva proclamare mediante la scelta di taluni eroi dei quali ci si faceva vanto. Paolo Giovio nel 1521 dedicò due camere (sotto la protezione di Minerva e Mercurio) ai ritratti dei grandi uomini di lettere, finché fossero esempio di emulazione e valore di virtù (tra cui Petrarca, Dante, Alberti, Boccaccio, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola..). Nel 1540 fece realizzare una villa sul lago di Como, sulle antiche rovine della villa di Plinio il giovane. La villa era intesa come tempio di virtù, museo, dedicato al piacere del pubblico. Il termine museo tornò in auge dall’antichità: si intendeva anticamente come il totale di quei luoghi collocati attorno alla biblioteca, protetta dalle muse (museion). I ritratti collocati all’interno del museo Gioviano si dividevano in 4 classi: uomini morti ma di eccellenza spirituale; uomini di talento eccezionale; artisti, autori, scrittori, uomini di spiritualità; papi, regnanti e uomini di potere di qualunque grado. Nel 1546 Paolo Giovio produsse un testo che conteneva le spiegazioni su ritratti; dedica gli elogia agli uomini di lettere; una seconda opera del 1551 elogia gli uomini di guerra (pubblicazione 1571/1577 a Basilea). Tra gli artisti si annoverano Da Vinci, Michelangelo, Andrea del Sarto, Baccio Bandinelli, Tiziano. Giovio precisò che la sua intenzione era quella di includervi le incisioni delle opere migliori di questi pittori. La collezione di tipo enciclopedico, però, non contiene solo esempi da seguire, ma anche personalità meno positive per evocare una storia che contiene anche dei nemici. Tra i quasi quattrocento dipinti, rimangono solo quaranta di essi. Si conosce poco dell’origine di essi, che volevano essere dei ritratti fedeli. La funzione era quella memorativa e didattica legata alla conformità con il modello: unicum tra tratti esteriori e interiori. Un esempio è il Andrea Doria raffigurato come Nettuno di Bronzino. Oltre ciò ci sono copie di opere scomparse e forse ritratti immaginari (su modello di Gauricus). L’impresa di Giovio ha comportato la familiarizzazione con il termine museo, e ha fatto del ritratto un ausilio presto indispensabile per il discorso storico. Lo stesso Vasari, nella dedica a Cosimo I delle Vite (seconda edizione del 1568), annunciò la sua volontà di inserire prima di oggi biografia il ritratto inciso dell’artista (anche se preferiva a colori). Osservò poi: “i ritratti disegnati non somigliano mai tanto bene quanto fanno quelli coloriti”. È chiaro che l’illuminazione è utile per conoscere meglio gli artisti in questa circostanza. Si può attribuire a Giovio la scelta di Vasari di inserire i ritratti nella sua grande opera. La collezione di Giovio attirò molte personalità: artisti vennero mandati al museo per disegnare i ritratti che conteneva; su volontà di Cosimo I Cristofaro Dell’Altissimo fece delle copie da collocare in palazzo Vecchio e nella galleria degli Uffizi. Grazie a Cosimo la collezione passò da privata a pubblica. Anche Lomazzo, nel suo trattato (1584) disse che, sotto esempio di Giovio, anche i principi hanno realizzato dei musei, con dipinti, ritratti, statue e medaglie di uomini celebri. Fu così che con Giovio il ritratto venne consacrato ufficialmente nel suo ruolo di esempio politico e morale, così come di partner obbligatorio nel discorso storico. CAPITOLO 4: CRITICA DEL RITRATTO 1. Critica sociale del ritratto. Nel 1545 Vasari scrisse a Leone Leoni una lettera che esplica la celebrazione del potere dell’illusione del ritratto. La posizione del Vasari è dura: istituisce una sorta di diritto al ritratto che dovrebbe essere riservato a personalità suscettibili di interesse presso la posterità con l’esempio della loro vita. Si tratta di ritratto memoriale, in senso letterale e restrittivo: la memoria non si trasmette nell’ambito privato, ma in quello dell’intera società. Il ritratto non concerne una stirpe familiare ma una collettività che non riceve nulla da un sarto o da un macellaio. Il suo aristocratico disprezzo per gli uomini dei misteri manuali è provocato probabilmente da un effettiva proliferazione del ritratto nelle classi quasi popolari. Il ritratto di impieghi umili è un tema raro: ad esempio il Ritratto di un sarto di Giovanni Battista Moroni e le Macellerie dei Carracci. Nel 1549 il teorico Francisco de Holanda terminò un piccolo trattato la cui diffusione è rimasta molto limitata. Il testo esplica la grandezza che risiede nel fatto stesso di fare il ritratto: l’arte di trattare del naturale è ciò che solo Dio ha fatto e sa fare. È proprio grazie a ritratto, arte di rappresentare l’uomo, che la pittura è un’arte Divina perché imita nei confronti dell’uomo il gesto creatore di Dio. Segue • Ritratto del Cardinale Bentivoglio, Anton Van Eyck. • Ritratto di Marc Antonio Pasqualini: musicista ripreso mentre viene incoronato da Apollo, dio della musica. È un ritratto in azione. • Ritratto di Clemente IX di Carlo Maratta. • Ritratto di Carlo Cesare Malvasia della duchessa di Mantova: la donna venne resa più bella. Aiutare la natura: Agucchi aveva inventato questa formula per giustificare l’esigenza di un ritratto intellettuale, in azione, destinato al piacere dei conoscitori. Il ritrattista non doveva essere un solo ‘facitore di ritratti”. 3. Superare la realtà. La rigidità teorica sul ritratto fino al 1580 non impedì al pittore di esprimere la propria realtà in modo più libero. Nel Tempio della pittura Lomazzo parlò della collezione di Rodolfo II e degli enigmatici ritratti di Arcimboldo: di tratta di ritratti che mischiano elementi reali, della natura, con l'immaginazione propria del pittore. I ritratti di Arcimboldo per Lomazzo sono una forma di imitazione del reale attraverso l'invenzione e l'immaginazione. Lomazzo spiegò che la resa del reale è un problema per il pittore, ma può essere aggirato mediante una ricostruzione in accordo con la tesi che vede la natura imperfetta. Gregorio Comanini, 1590: nel suo trattato sulla pittura trattò del problema dell'imitazione; ripesca le idee platoniche di imitazione eikastica (del reale) e fantastica. Citò Arcimboldo per i suoi ritratti composti da elementi tratti dal reale che non hanno nessun rapporto né tra loro né col volto umano; può essere paragonato ad un inventario naturale e descrittivo del reale. La composizione è il risultato dell'immaginazione del pittore. Si può parlare di un nuovo rapporto tra modellato, idea e immaginazione. Mostrando le qualità del personaggio rappresentato, quelle che non ricadono sotto i sensi, attraverso oggetti realistici Arcimboldo unì nei suoi ritratti le osservazioni scientifiche al meraviglioso attraverso la combinazione tra il naturalismo e dell’immaginario. Giovanni Antonio Massani, 1646: affermò che nell’imitazione del reale l’artista debba aiutare la natura. Nel suo testo pose il problema dell’imitazione degli “oggetti peggiori del vero o più vili o difettosi”. Cito Annibale Carracci che diceva che il gioco e lo scherzo non erano solo dell’uomo ma anche degli animali (grottesco). In questo caso non si tratta di alterare l’oggetto: lo scherzo intorno a quell’oggetto, la deformità o la sproporzione sono naturali, e comporta il ridere con essa per la sua “ricreazione”. In tal senso, il pittore poteva imitare i giochi della natura ma poteva allo stesso modo aiutarla, condurla alla perfezione. Al riso che provoca la deformità si aggiunge allora il piacere che dà l’imitazione sapiente e ragionevole. La teoria in questo senso giustifica l’invenzione della caricatura che Annibale Carracci avrebbe ideato fondandola sulla conoscenza delle intenzioni e delle imperfezioni della natura. Nella lettera scritta da Annibale Carracci a Massani il pittore ci spiegò che l’artista di caricatura raggiunge Raffaello perché come lui realizza l’intenzione della natura, ma in senso inverso, e che la caricatura è un modo di incarnare l’ideale. Dunque, il ritratto naturale di Arcimboldo e la caricatura del Carracci sono due forme di trasgressione alle costrizione che i teorici fecero gravare su ritratto e sul problema dell’imitazione. Altro problema sollevato dal Vasari riguarda il ritratto degli uomini incerti, ossia quelli di cui non si conosce bene l’identità (ritratti degli antenati dei Frangipani): quei personaggi di cui si conoscevano solo i nomi e le dignità. 4. Critica religiosa al ritratto. Il trattato di Lomazzo ricorda che la costruzione che grava sull’esercizio del ritratto non è solo di ordine politico e sociale, ma anche religioso e morale. Un ritrattista abile conferiva alla sua opera la nobiltà, creando un’immagine esemplare. In questo caso, Cristo può essere paragonato egli stesso ad un pittore che ha creato la natura e l’uomo. I miti cristiani sull’origine del ritratto, che legittimavano lo sviluppo dell’immagine nella pietà e nella liturgia cristiane, erano come il parallelo dei miti greci. Nel 1582 Gabriele Paleotti, arcivescovo di Bologna, scrisse il Discorso intorno alle immagini sacre e profane, un vasto trattato destinato a porre la pittura al servizio della dottrina cattolica. Le sue considerazioni sul ritratto si accostarono a quelle immagini sacre che il cristiano deve ricreare e venerare. Le immagini dell’antichità per lui non erano opere d’arte ma testimonianze di un’epoca pagana, che perseguitava il cristianesimo: non era lecito, dunque, conservarle in luoghi pubblici ma bisognava nasconderle in luoghi privati; tuttavia affermò che si potesse trarre un insegnamento morale da quelli che sono i personaggi mitici, noti per le loro virtù. Il ritratto storico, ereditato dall’antichità, era sottoposto a pregiudizio sfavorevole. Tuttavia, Paleotti affermò che, per quanto riguarda il ritratto dei principi, vigeva un discorso diverso. I sovrani illuminati dal cristianesimo erano dei fedeli dal potere legittimo, luogotenenti di Dio. Il ritratto del Principe era legato alla categoria delle insegne del potere. Se il principe voleva far creare una statua di sé stesso non era giudicabile per vanità. In ogni circostanza, la statua doveva essere rispettata, se non riverita. Dopo il ritratto antico, che partecipa del male, e il ritratto regale, che partecipa del sacro, Paleotti affrontò il ritratto dei privati. Questi ritratti portavano con loro il marchio della vanità, quindi del peccato e della morte (riprese il mito di Narciso; confronto tra le idee sul ritratti dei filosofi antichi e i santi). Si può desumere dall’idea di Paleotti che c’erano specifiche modalità di applicazione nel trattato: vi sono alcune tesi che consentono di regolamentare il ritratto. Sentimenti: sono buoni i ritratti che consentono di acquietare la mancanza di un caro. Tecnica: il ritratto può costituire un buon allenamento per il pittore. Moralità: il ritratto può essere l’immagine esemplare di una persona di dignità politica, religiosa, sociale o culturale (ritratti incisi dei pittori nelle Vite del Vasari). In ogni caso, in funzione della sua esemplarità, il ritratto doveva essere fedele al modello e attenersi all’essenziale: infatti, erano proibiti accessori frivoli o/e animali. I ritratti dovevano essere riservati ad uso strettamente privato. Un ritratto imperioso era quello delle donne: il pittore doveva scegliere bene le commissioni e creare un ritratto su modello dal vivo, non di nascosto. Il ritratto per eccellenza era quello dei santi, immagini di verità: nel caso di santi morti da tanto, il pittore doveva cercare delle immagini antiche, preferibilmente del volto. Il ritratto del santo non doveva mai essere mescolato alle immagini profane. L’attuazione pratica delle idee di Paleotti è riscontrabile nella collezione di ritratti donata, tra il 1607 e il 1618, da Federico Borromeo, arcivescovo di Milano alla biblioteca Ambrosiana: si dispiega dall’origine del cristianesimo fino al XVII secolo. Si trattava di ritratti somiglianti ispirati e documentati da informazioni fornite dalle fonti scritte e dalla tradizione della chiesa. Il ritratto per Paleotti rivela problematiche: al codice moralizzante molto ferreo basato sulla religione si contrappone l’insistenza a favore del realismo, del rispetto della verità. A partire dal 1540 ci fu una limitazione del diritto del ritratto: la corrispondenza fra la ritrattista Lavinia Fontana e Alonso Chacon mostrò il timore dell’uomo di apparire vanitoso se si venisse a sapere dell’esistenza di un suo ritratto. È stupefacente come le posizioni restrittive di Paleotti, comprensibili in seguito al concilio di Trento, siano ancora difese nel 1653 da un pittore come Pietro da Cortona e dal gesuita Giovan Domenico Ottonelli. I coautori di un Trattato denunciarono l’evoluzione perversa del ritratto: il ricordo si trasforma in idolatria, soprattutto quando è commissionato da un modello ancora in vita. E da loro accettabile, al contrario, se il ritratto era su richiesta di un amico, così che esso assumesse la forma edificante di un Memento Mori. Il principe, come il santo, costituisce una categoria fuori dalla norma: il ritratto del principe non era immagine di vanità ma immagine di una rappresentazione di Dio (assolutismo). Il principe, difensore di Dio, aveva due personalità, ossia quella pubblica e quella privata. La personalità pubblica era quella degna di ritratto. Per quanto riguarda il ritratto di una donna, ciò che contava era l’intenzione del committente. Indipendentemente dalla malizia, il pittore doveva essere consapevole dell’onestà della donna. Se il ritratto serviva ad alimentare il desiderio sessuale del committente, il pittore sarebbe caduto nel peccato mortale. Non era accettabile in nessun modo il ritratto di nascosto. Seguendo quelle che erano le costruzioni convergenti del magistero religioso, della gerarchia sociale e delle teorie filosofiche dominanti, l’arte del ritratto non era solo difficile, ma poteva essere anche pericolosa. 5. Proposte per una gerarchia dei generi. Passeri riportò un’osservazione interessante di Giovanni Lanfranco: il pittore di tratti è particolarmente esposto ai capricci della clientela; egli venne incaricato durante il suo soggiorno a Napoli di fare ritratto della sposa del viceré di Spagna: in quell’occasione constatò che il dipinto era criticato dalle dame di corte che non vi trovano la perfetta somiglianza. Questa potrebbe essere la sventura di ritratti quando restano soggetti alla censura della plebe è più ignorante. Coloro che erano parte della plebe non erano parte solo popolo di ignoranti, ma erano anche tutti coloro che si aspettano una somiglianza troppo fedele e non capivano i tormenti che lo stato di incompletezza della natura infliggeva i teorici dell’arte. Le riflessioni mosse da Lanfranco fanno riflettere sulla situazione ambigua del ritrattista, il cui prestigio non poteva che soffrire di tutte le restrizioni apportate, di carattere sociale, filosofico o religioso. Il giudizio mosse verso la proposta di gerarchizzare i generi: • Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura (1620): Fu il primo attentare una classificazione gerarchica dei generi della pittura e, implicitamente, a raccogliere e irrigidire la tradizione italiana in materia di teoria artistica. È il tema del dipinto che determina il suo posto nella scala gerarchica, dall'oggetto inanimato, al primo livello, fino alle figure umane atteggiate per rappresentare una storia, passando attraverso i paesaggi con esseri animati e il ritratto. Mancini distinse il ritratto semplice dal ritratto in azione, nel quale si può decifrare un racconto: il solo criterio del ritratto semplice è la perfezione della somiglianza; al contrario, il ritratto in azione mette in scena dei sentimenti (tipologia che non era di facile comprensione per il rozzo, poiché mette in ballo l'intelletto). • Vincenzo Giustiniani: Creò una classificazione delle maniere dei pittori in 12 livelli quasi contemporanea a quella di Giulio. Lo scopo era fornire all'amatore alcuni orientamenti per guidare le sue scelte il momento della produzione artistica. La classificazione si divide in tre gruppi in base a criteri diversi: tecnica (il disegno o la copia); criteri di genere (il ritratto, i fiori, l'architettura, il paesaggio, la grottesca); criteri di stile, ossia coloro che inventano attraverso l'immaginazione, al contrario di coloro che copiano la scienza della natura con le proporzioni, con i colori e con la luce, fino ai più grandi, ossia coloro che conservano la loro maniera, la loro personalità, davanti alla natura e al modello. Il ritratto si trova in una posizione inferiore nella gerarchia dei generi di Giustiniani. Ciò non toglie che il teorico affermò che il ritratto veniva praticato anche da pittori grandissimi come Carracci, Caravaggio, Guido Reni. La classificazione finale dipende dal genio del ritrattista, che impone la sua maniera. Tale classificazione confronta il conformismo di una regola alla libertà mentale del Giustiniani: il grande ritrattista conserva la sua maniera, vorrà dire le sue personalità e libertà davanti al
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