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Il sapore dell'Altro: antropofagia e letteratura, Sintesi del corso di Letterature comparate

Riassunto dell'intero manuale del professore La Mantia

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 01/09/2023

Rossy_sana
Rossy_sana 🇮🇹

4.3

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Scarica Il sapore dell'Altro: antropofagia e letteratura e più Sintesi del corso in PDF di Letterature comparate solo su Docsity! 1 Il sapore dell’altro Antropofagia e letteratura Introduzione In questo studio verranno utilizzati i termini cannibalismo e antropofagia in modo intercambiabile, alla stregua di sinonimi sebbene in alcune riflessioni siano considerati in maniera differente. Nel capitolo di Le damnés de la terre, Fanon offre una descrizione dell'immaginario geografico del mondo coloniale: Il mondo coloniale è un mondo scomparti. Il mondo coloniale è un mondo scisso in due la zona abitata dai colonizzati non è complementare la zona abitata dai coloni. Queste due zone si contrappongono, ma non al servizio di un'unità superiore. Rette da una logica puramente aristotelica, obbediscono il principio di esclusione reciproca. Come sostenuto anche da Maggie Kilgour, la tendenza dell'umanità a pensare in termini binari fornisce una tecnica attraverso la quale discernere la natura di come le culture dividono il loro mondo. La caratteristica strutturale più importante della mente umana è la tendenza a dicotomizzare e a tentare di mediare un'opposizione con un terzo concetto. L'uso della dicotomia consente un'an delle componenti culturali in categorie significative da sottoporre a interpretazioni emiche e/o etiche. In Occidente il termine cannibale si è lentamente espanso oltre la sua semplice definizione di umano che mangia la carne di un'altro umano. Secondo René Girard la fatica di darle riconoscimento andava attribuita al fatto che l'antropologia non ha ancora trovato il suo Freud e non è ancora stato elevata al rango di mito principale della modernità. Pur circondata da un'aura di indifferenza, l’antropofagia ha elevato il proprio status in quello di marcatore privilegiato delle differenze culturali, affiancandosi all'incesto, al parricidio e altri tabù freudiani. Le sue tracce si estendono a tutte le istituzioni sociali del ventunesimo secolo, infatti, si possono trovare nel polo negativo di una sequenza di diadi contrastive che non riflettono qualità reali o intrinseche: sono nozioni costruite sulla base di scarse informazioni provenienti da fondi distorte, cristiano/pagano, credente/non credente, civilizzato/selvaggio, Occidente/Oriente e soprattutto Sé/Altro. Come suggerisce Robert Stam, il cannibalismo è diventato il nome dell'altro. La sua categoria ha origini remote quanto la coscienza stessa. Nelle società primitive, nelle mitologie più antiche si trova sempre una dualità che è quella dell'uno uguale a sé stesso e dell'altro. Eli Sagan, nel controverso Cannibalism Human Aggression And Cultural Form, dopo aver suddiviso il mondo inumani subumani attribuisce a questo secondo gruppo una lunghissima lista di potenziali candidati: Gli oppressi, i dominati, le persone nere in una società di bianchi, gli eretici per la chiesa, i barbari per i romani, eccetera. L'altro può assumere la forma di qualsiasi cosa: uno straniero, una donna, un folle, un selvaggio senza storia, persino quella di un cannibale. 2 L'altro fornisce a una cultura un punto di riferimento, qualcosa che non è e qualcosa che deve sforzarsi di non essere. Pertanto l'esistenza stessa del soggetto europeo moderno dipendeva dalla dissoluzione dell'identità dei popoli nativi che avevano diffamato, conquistato e civilizzato. Il soggetto non è semplicemente eretto in relazione al suo oggetto, poiché è vero anche il contrario. In quest'ottica l'analisi del cannibalismo dovrebbe essere basata sulla considerazione che le rappresentazioni sono relazionali, locali e storicamente contingenti. A tal proposito Fanon scrive che quando i Negri affrontano il mondo bianco, c'è una certa azione sensibilizzante. Se la struttura psichica si rivela fragile, si assiste a un crollo dell'io. Il nero cessa di comportarsi da individuo azionale. Lo scopo della sua azione sarà l'altro in quanto solo esso può valorizzarlo. Trasposto sul piano razziale a quello antropofagico, si potrebbe dire che l'essere civilizzato esiste a causa del cannibale, così come il cannibale prende forma a causa dell'esistenza del mondo civilizzato. Il modo in cui gli occidentali vedono e leggono l'esotico segue una tradizione che non si basa su una realtà tangibile percepita, ma su una fantasia creata come metodo di sottomissione. L'altro viene presentato come una categoria di spettacolo visivo con cui il pubblico è invitato a immaginarsi in contrasto. La dialettica tra identità e alterità determina lego costruzioni che mettono in moto queste rappresentazioni al fine di servire a qualche scopo imperiale. L'idea di Europa come nozione collettiva si basa sulla capacità discorsiva di mettere gli europei in contrapposizione agli altri non europei. La storia intellettuale dell’Europa mostra una lotta tra coloro che riferiscono l'innocenza ecco loro che proclamano la loro barbarie appunto dato che civiltà e colonialismo sono intrecciati, la deduzione logica è che il cannibale può essere riscattato solo attraverso gli sforzi degli europei. Per giustificare alle loro azioni i conquistatori europei dovettero costruire un'identità per le popolazioni indigene che li collocava chiaramente sul gradino più basso della scala della civiltà. Pertanto la convinzione che gli stranieri siano cannibali sembra più un meccanismo per mantenere la propria identità, superiorità sociale, umanità, stato sociale. Prospettiva il modo migliore per elevarsi a un livello più alto di moralità e civiltà è degradare gli altri, Declassandolo a un livello inferiore di quello umano, dove diventano semplicemente altri. Questo richiama ciò che Piageaux definisce fobia ovvero un distacco nei confronti dell'altro. Egli individua nella fobia una delle attitudini fondamentali attraverso cui prende forma l'immaginario di un paese straniero all'interno della quale l'altro nemico è oggetto di inferiorità e l'io afferma la propria superiorità. La denigrazione dell'altro percepito attraverso stati di repulsione e di fascinazione meccanismi, di infantilizzazione, demonizzazione e analizzazione risponde a quella che è Jerry Philips ha chiamato la “pedagogia dell'umanizzazione”, ovvero una forma di autoritarismo coloniale che restituisce l'umanità al nativo grazie al “padre coloniale”. Comune è l'idea secondo cui le creature diaboliche scatenate dalla libertà anticivile, il cannibale si imponga come presenza eminente. L'altro più minaccioso non solo perché recante un aspetto diverso, ma anche perché è disposto a mettere a nudo la commestibilità di tutti i corpi trascendentali o meno. È comune anche l'idea secondo cui l'assenza di potere supremo porta a uno stato di caos caratterizzato dal cannibalismo, consumare il corpo umano è spesso visto come la peggior profanazione che si possa immaginare. La figura del 5 la modernità, l'imperialismo e l’ibridismo nell'eccezione bhabhiana: l’ibridità è il nome dato a sovvertimento strategico del processo di dominio ottenuto mediante un ripudio e la rivalutazione dell'assunto dell'identità coloniale. L'ibrido coloniale non è altro che lo sviluppo dello spazio ambivalente in cui il rito del potere è rappresentato nel luogo del desiderio. L'altro in quanto tale rappresenta un concentrato di ansia e costruzione, un'insieme di investimenti nervosi sia nella coscienza che nei processi di identità. il sei e l'altro non sono categorie unitarie stabili ma costrutti mutevoli e talvolta contraddittori. Da un lato, ci si trova di fronte a un modo di esposizione quasi etnografico, a una documentazione apparentemente fattuale dell'alterità. Dall'altro si assiste a una natura che ribolle di ansia per l'alterità radicale di cui è testimone e che fatica a contenere. Il mondo e così diverso nell'aspetto fisico, negli odori, nei cibi, che il cannibale diventa un catalogo di ciò che a malapena si può credere, una sorgente radiosa di alterità che spaventa se stessa. I confini che separano il sé e l'altro devono cominciare a dissolversi a collassare su se stessi. In Imperial Eyes, Mary Louise Pratt Ha coniato tre termini Che rappresentano la strategia della sua ricerca, rispettivamente: innocenza, auto-etnografia e zona di contatto. Proprio quest'ultimo si rivela utile per chiarire e semplificare il concetto di cannibale all'interno di questo studio. Secondo Pratt una zona di contatto è uno spazio sociale in cui due culture differenti, il sé e l'altro iniziano ad adattarsi reciprocamente, incontrandosi, scontrandosi, spesso in relazioni altamente squilibrate di dominio e subordinazione, come il colonialismo e la schiavitù; Pingui popoli geograficamente e storicamente separati entrano in contatto tra loro e stabiliscono relazioni continue di qualche tipo anche se queste possono essere caratterizzate da condizioni altamente asimmetriche di coercizione, disuguaglianza, subordinazione e di conflitto. Il cannibale e certamente una zona di contatto, ma anche un luogo di conflitto in cui i diversi gruppi si incontrano nel loro usi e nelle loro accentuazioni del termine, battendosi nel tentativo di reclamarne il significato. L'immagine dell'altro è integralmente correlata all'immagine del sé. Entrambi sono categorie che si costituiscono reciprocamente così come i loro significati rivelano la loro interdipendenza. In Occidente il cannibale è Il Messaggero del disordine, la provoca il caos morale è sceso su di noi. Attraverso l'ingestione, la digestione e la sussunzione, il cannibale colma il divario tra natura e civiltà, tra nord e sud, tra est e ovest, tra il sé e l'altro. “Solo il cannibalismo ci unisce”: le parole di Oswald de Andrade Ci esortano ad agire una doppia connessione: quella tra gli individui e quella rappresenta e passato. Comparso la fine degli anni ‘20, questo cannibalismo culturale si radicò nella pratiche antropofagiche degli indiani del Brasile che divennero leggendari della loro lotta contro gli invasori europei. Questa modalità di appropriazione implica la ricerca di una cultura ibrida nazionale in cui gli elementi spirituali, nativi, africani ed europei vengon riuniti in un atto di divoramento e digestione. In questo modo l’atto un tempo abominevole che ha contribuito alla quasi distruzione di popola indigeno si trasformano in qualcosa che tiene insieme i suoi discendenti. In questo senso l’antropofagia può essere vista come un ulteriore nome indicante il concetto di intertestualità di Julia Kristeva o per quello di dialogismo e di carnevalizzazione di Bachtin. 6 In Consuming Body le parole di Pasi Falk amplificano il bisogno d’incorporazione e divoramento, trasferendoli a una latitudine occidentali che ne corrobora la transculturalità. Secondo Falk, il cannibalismo negozia i confini dell’articolazione tra il Sé e l’Altro favorendo il loro sincretismo che è corporeo e culturale, poiché coinvolge un’interazione cosciente, intenzionale, strutturata e controllata. Questa è una parte intrinseca dell’angoscia e dell’estasi della comunione dove il consumo della vittima è l’imago Dei, mentre allo stesso tempo tempo un certo livello di individualità o separazione è essenziale per decostruire questo processo come un bisogno continuo. Come figura mostruosa il cannibale testimonia la nostra confusone psichica, illuminando le preoccupazioni riguardanti il nostro Sé materialista e mettendo in discussione la disumanità dell’uomo e di ciò che potremmo diventare. La nozione di cannibalismo verrà indagata passando al vaglio alcune teorie antropologiche inaugurate dal pioniere della dibattito antropofagico. La rigidità e la controversialità di Arena verranno mitigate da altri studiosi come Laurence Goldman: in Anthropology of Cannibalism, propone tra declinazioni del cannibalismo, rispettivamente sopravvivenza, esocannibalismo e endocannibalismo. Nel primo caso l’assunzione di carne umana, dettata dalla necessità estrema, risulta essere l’unica alternativa alla morte. In virtù di ciò, la condanna morale ed etica che prende sul responsabile di tale atto incontra tutta una serie di attenuanti che certamente non gli valgono l’assoluzione totale, ma nemmeno l’imprimatur abominevole. Al contrario, condanne e dileggi di ogni tipo accompagnino le altre due forme al di là delle loro peculiarità. Il suffisso èso connota questa pratica come il nutrirsi dell’Altro, inteso come estraneo, meglio esterno al proprio habitat sociale. Una sorta di spinta decentralizzata che allontana il mangiatore dal proprio baricentro culturale. Allo stesso modo èndo allude al consumo di carne all’intero della propria comunità. Si tratta della manifestazione più riprovevole, poiché le vittime spesso coincidono co i parenti stretti del carnefice, anche i più innocenti. Negli interstizi di queste tre forme di annidantesi altre “tattiche” antropofaghe, una sorta di sotto-categorie ribattezzate in questo studio come logogafia, necrofagia, somatogafia, ecofobia e melancofagia. 7 Parte prima: Cibo per l’anima Metafore commerciali Se sottoponessimo oggi il mondo a un banale esame dell’emocromo, questo rivelerebbe una grande alterazione dei valori base. La golosità, il peccato capitale degno di pena eterna, trattiene le sue vittime nell’incantesimo del piacere sensoriale, scagliandole verso il precipizio dell’impurità corporea, pur di appagare il bisogno e il consumo smodato di cibo. È conclamato che nella moderna civiltà dei consumi l’anoressia, la d’età compulsiva così come la dipendenza, la bulimia, l’alcolismo e altri comportamenti irrazionali e ossessivi riguardo all’investitore di cibo e bevande siano rubricabili alla voce della gola. Quasi due secoli dopo le osservazioni del filosofo francese dell’alimentazione Jean- Anthelme Brillat-Savarin sulle implicazioni fisiologiche e psicologiche dell’atto del mangiare, lo studio del cibo si è evoluto e ha incrociato molte discipline diverse, occupando stabilmente un posto fisso in quasi tutti i campi del sapere. Il cibo è ovunque: Programmi culinari, reality, chef come icone idolatrate, blog appositi o post sui social media, le stelle Michelin. i 50 migliori ristoranti del mondo e così via. In sostanza, chiunque si senta un buongustaio in virtù di ciò sente l'esigenza, quasi il dovere, di esprimersi al riguardo. Questo accade perché il cibo è stato inventato, classificato e scrutinizzato, goduto, consumato e divorato. Esso nutre e avvelena, conforto e tortura, divide e allo stesso tempo unisce individui e gruppi di persone. È essenziale, ma può anche essere opzionale, superfluo, talvolta stravagante; è parte integrante di numerosi rituali, serve come mezzo di comunicazione o come espressione di una vasta gamma di emozioni. Può essere oggetto di desiderio intenso, ammirazione, dipendenza, brama, paura, disgusto, ribrezzo, o può essere addirittura ignorato o rifiutato più o meno intenzionalmente. Il cibo include produzione, distribuzione, preparazione e consumo e in ognuno di questi processi ci sono regole, taboo, strutture, ordine, stili, moda e convenzioni da creare, rispettare e infine rompere. Mangiare è un'attività umana fondamentale, necessaria sia per la sopravvivenza dell'individuo che per la sua inestricabile connessione con la società. Il cibo è uno dei bisogni fisiologici di base di tutti gli esseri umani anche se non tutti mangiano nello stesso modo o per gli stessi motivi. Le abitudini alimentari e i rituali, la scelta dei compagni di sala e le ragioni di questi comportamenti diventano fondamentali per la comprensione della società umana. In questo modo esse diventano essenziali per la definizione del sé e strumentali nel definire la famiglia, la classe e persino l'appartenenza etnica, rivelando informazioni su comunità, economia, genere e altri aspetti dell'identità. Sembrerebbe che anche le caratteristiche più soggettive astratte della nostra individualità siano influenzate riflesse dai nostri modi di mangiare. Gli atti di definizione del sé ma anche quelli di autoidentificazione con una comunità per mezzo dello stomaco accennano un altro aspetto importante legato al cibo: la scelta. Ad esempio gli adolescenti spesso distinguono tra il cibo sano servito a casa e il cibo spazzatura 10 Il cibo può essere letto come un indicatore della determinazione di un personaggio a mantenere le sue radici alle sue tradizioni nonostante la discriminazione razziale mossa dal paese ospitante. Il cibo è una questione di gusto in quel senso di distinzione che Pierre Bourdieu identifica con ciò che accoppia e a sortisce i colori ma anche le persone innanzitutto dal punto di vista dei gusti. Bordeaux enfatizza la sua capacità intuitiva di connettere coloro che appartengono retaggi di classe simili, differenziandoli da tutti gli altri. In questo modo il gusto è intimamente legato a meccanismi di inclusione ed esclusione, di appartenenza e non appartenenza, implicando inevitabilmente una discriminazione condivisa. I soggetti dispostivi mossi dalla nostalgia di casa e da una sincera disponibilità a mantenere legami significativi e duraturi con le madrepatrie nella loro vita quotidiana durante la diaspora, cercano di riprodurre questo tipo di esperienze, considerandole parte fondamentale del loro serbatoio identitaria durante le fasi dello spostamento. Il gusto e l’olfatto sono responsabili di alcune delle espressioni della memoria più durature che funzionano come “punti di inflesso sensoriali nelle temporalità mescolate” di storie di migrazione e diasporicità. La versatilità del simbolismo del cibo consente anche un’interpretazione opposta: le pratiche alimentari possono rappresentare un mezzo di ribellione e di fuga dalla tradizione etnica. Esiste però anche una terza possibilità, una via mediana che, come suggerito da Gianfranco Marrone, si colloca tra il reazionarismo e il progressismo alimentare, ovvero la fusione alimentare: “la consuetudine culinarie non sono lo specchio di presunte identità etniche dure e urge, ma esisti momentanei e cangianti di traduzioni fra molteplici altre abitudini culinarie. Le tipicità gastronomiche non dipendono tanto da presunte qualità essenziali di territori fisici e geografici, ma si configurano per lo più come esiti storici e culturali di continui processi di ibridazione, trasferimento, trasposizione, traduzione.” Questa complessità si acuisce quando il soggetto non è più il cibo in sé, ma il cibo all’interno dei testi letterari. Questa parola di quattro lettere contiene tutti i significati e le connotazioni simboliche che possiamo immaginare. Per Terry Eagleton, il cibo costituisce un oggetto infinitamente interpretabile di emozione materializzata. Ovvero esso si presta a inesauribili decodificazioni come la letteratura che, in quanto relazione, non è riconducibile a esegesi fisse e definitive. Eagleton: “il cibo non solo cibo. Il cibo e infinitamente interpretabile, come un regalo, un veleno, ricompensa, seduzione, solidarietà, […] alcuni libri devono essere assaggiati, altri devono essere ingoiati, altri devono essere masticati e digeriti”. La citazione di Eagleton fa riferimento al processo di consumo del libro e al processo di consumo nel libro. Il processo di creazione del libro viene paragonato al processo di cottura. Tutto ciò che ha a che fare con il cibo dee essere lette tra le righe, ed è spesso difficile interpretare i suoi significati implicit, in quanto riguardano i pozzi più intimi e impenetrabili della (ir)razionalità umana. All’interno dei testi letterari il cibo parla e ha molto da dire. lo fa trasformandosi di continuo in una vasta gamma di voci e forme: soggetto, paesaggio terrestre, genere, polemica, movimento politico, dichiarazione estetica, connotazione etnica, tradizione, 11 spiritualità, armonia o disordine. È l'ingrediente chiave della letteratura, resa sua volta cibo per il pensiero e per l'anima. Il cibo nel testo letterario non è ciò che Barthes ha definito un bisogno primario. La narrazione storiografica di Salman Rushdie si basa sui chutney nei preparati da Saleem e sulla sua chutnificazione della storia, Con ogni capitolo allineato come un'etichetta su un barattolo di sottaceti alla fine di Midnight’s Children. Il cibo è memoria, il cibo è ironia, il cibo è drammaticità, il cibo è simbolo, il cibo è forma. In breve, ritornando a Eagleton, esso è interpretabile all'infinito. Ancora in Midnight’s Children, per la precisione nell'epilogo del libro, il narratore di Rushdie interrompe la propria narrazione per indugiare su cosa serva per la potenziale chutnificazione della storia. Mentre indugia lungo sul chutney, Saleem sta anche contemplando la forma del romanzo stesso. La sua narrazione e quella di Rushdie, procede ritagliando e preservando una porzione della storia, con un adeguato masala inserito per buona misura. Quando ci si avvicina alla fine, il narratore sta attento a lasciare un vasetto vuoto, Perché il processo di revisione deve essere continuo e incessante e perché la storia continuerà a scorrere molto tempo dopo la fine della sua storia. Essendo uno dei primi romanzi post-coloniali emergere dal subcontinente indiano, Rushdie fa ricorso alla chutnificazione er chiarire la sua tecnica che Linda Hutcheon chiamerà in seguito meta-narrazione storiografica. Il lavoro di Rushdie fu tra i primi a rientrare in questa modalità e le sue metafore storico-gastronomiche sono parti di grande di esso. Per Appelbaum l'interazione ci dice qualcosa sullo scrittore, sul personaggio, sulla scrittura, sulla cultura e virgola in definitiva, sul cibo di una data cultura. Studiare l'interazione gastronomica significa quindi studiare contesti letterari, materiali e culturali in cui è stata pronunciata. I temi relativi al cibo sono comuni a tutti i tipi di scrittura e sono spesso usati come i dispositivi letterari in termini di impatto visivo e verbale. Si può affermare che il cibo possiede la capacità di dire cose, di comunicare informazioni su di noi stessi come individui e sulle nostre più ampie affiliazioni di gruppo, così come sulle nostre convinzioni sociali e politiche. Definita a grandi linee, la comunicazione e il processo di condivisione e trasferimento di idee, di sentimenti e informazioni attraverso mezzi verbali e non verbali con i quali comprendiamo il mondo e cerchiamo di trasmettere tale comprensione agli altri. Il cibo viene considerato una forma di comunicazione perché è un mezzo non verbale utile a condividere significati con gli altri. Ne Il Triangolo Culinario, Levi Strauss, il primo antropologo esplorare questioni culturali come i costumi alimentari, i riti e gli stili di cucina da un punto di vista saussuriano, suggerisce che il cibo può essere interpretato usando i metodi che la linguistica strutturale applica al linguaggio, dividendo la cucina di una società in gustemes cioè unità costitutive di significato. Secondo Fischler, il cibo rappresenta per Levi Strauss ciò che i sogni rappresentano per Sigmund Freud. 12 Levi-Strauss crede che il cibo funzioni come una sorta di linguaggio, meglio ancora di codice che esprime schemi di relazioni sociali. I dati in esso contenuti sono in grado di rivelare i diversi gradi di gerarchia, di inclusione ed esclusione, i confini e le transazioni che avvengono oltre questi confini. Levi-Strauss in Le Origini Delle Buone Maniere A Tavola, propone una classificazione dei significati alla base della cucina, immaginando un campo semantico triangolare i cui vertici corrispondono rispettivamente alle categorie del crudo, del cotto e del marcio, formando la struttura su cui si basa il pensiero umano sulla cultura e sulla natura. Levi Strauss sostiene che i cibi funzionano con un insieme complesso di opposizioni in un non- sistema di comunicazione verbale. Il dominio del cibo include l'appetito, il desiderio e il piacere, ma serve anche come punto di riferimento per la struttura della società e la sua visione del mondo. Le idee di Levi Strauss sono stata una fonte di ispirazione per altri studiosi di generazioni successive. Tra questi sia ha Roland Barthes. Per Barthes, il tentativo di leggere il cibo come testo è limitato ai componenti di un dato popolo e dipende innanzitutto dal completamento di un inventario integrale di tutti i fenomeni alimentari di una data società. queste informazioni vanno poi sottoposte a ciò che i linguisti chiamano prova di commutazione. Come accadrebbe in una lingua, queste unità o segni alla fine si combinerebbero per formare sistemi sintattici e semantici capaci di acquisire il loro significato in una data struttura di valori sociali assunti. Quello che mangiamo, con chi, dove e come non sono mai dettagli superficiali perché, come indicatore culturale cruciale, il cibo è una fonte di costante informazioni su noi stessi e sul patrimonio storico, economico e sul contesto culturale che ci circonda in un particolare momento. Il cibo e le bevande, per Barthes, funzionano come un segno che oltre a significare, serve a qualcos'altro, comunica qualcosa oltre sé stesso, forse qualcosa di diverso da sé stesso. Con il cibo non stiamo solo comprando consumando un prodotto sostanza ma ho un intero sistema o una catena di significati e circostanze. In due saggi del 1957, Barthes tenta una lettura effettiva del significato del cibo e delle bevande nella cultura francese, attingendo da una varietà di esempi che sembrano dimostrare l'essenziale franchezza del bere vino e del mangiare patatine fritte. Nel primo caso l'autore scrive che il bere vino è sentito dalla nazione francese come un bene che le è proprio, allo stesso titolo delle sue 360 specie di formaggi e della sua cultura. È definito una bevanda totem. Stessa dinamica si verifica per le patatine fritte: la patata fritta e nostalgica e patriottica come la bistecca. Questa relazione è ciò che Barthes descrive come un mito, il vino sorregge una mitologia svariata che non si preoccupa delle contraddizioni. La conclusione di questa breve lettura ribadisce l'esistenza del vino come una bella e buona sostanza, ricordando però che la sua produzione parte massiccia del capitalismo francese. Il semiologo di Cherbourg, lavorando sulla premessa di cibo come sistema di comunicazione, offre una visione psicologicamente e semioticamente orientata al culinario nel suo articolo tradotto in italiano in l'alimentazione contemporanea dove definisce il cibo non soltanto una collezione di prodotti, bisognosi di studi statistici e dietetici. E anche e 15 evitando certi lamenti miriamo ad avere un certo affetto nel nostro corpo o nella nostra mente. È innegabile che l’uomo sia fondamentalmente un animale carnivoro. Così come è innegabile che il suo palato venga stimato come il più vario e sofisticato di quello di qualsiasi altro essere sulla terra. Tale eccellenza gastronomica non è un processo innato, piuttosto il risultato di un affinamento gustativo-papillare. Nel corso del tempo, ripetuti attacchi di fame, in combinazione con l’ampliamento evolutivo e la complessità del cervello umano, hanno spinto la sperimentazione e la scoperta d ciò che era e on era commestibile. Statisticamente, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale per istinto, tradizione e scelta, è composta da carnivori. Del variegato e multiforme universo faunistico e ittico, sono pochissime le creature viventi sulla faccia della terra non ancora campionare e assaggiare dall’uomo. Anche il retaggio ornitologico è ben rappresentato. Pure in questo caso sono poche le specie di uccelli che l’uomo non ha catturato o ucciso e poi cucinato e divorato. In verità tale è l’avidità dell’uomo per la carne da spingerlo a esplorare la possibilità di creature più piccole ancora. Un tipo di piatto occupava e occupa una categoria distinta da tutte quelle finora inventariate; distinta da tutte quelle che dovrebbero essere elencate per completare il curioso catalogo delle pietanze carnivore. Ovviamente il riferimento corre alla carne umana. A prima vista, il cannibalismo, inteso nella sua versione più elementare come “il consumo solitamente rituale d carne umana da parte di un essere umano” o come “pratica di mangiare i propri simili”, è un tabù cross-culturale presente in numerose società e culture. Tale fenomeno solleva innumerevole domande e sorvola su altrettanto innumerevoli casistiche. Per esempio, Costantine ci pone di fronte a un dilemma di difficile scioglimento rosicchiare un organo umano sembra inequivocabilmente cannibalico, ma masticare un’unghia qualifica chi compie l’atto un mangiatore di unghie o un cannibale? Oppure, perché quando alcune povere anime si ritrovano intrappolate nel mezzo del nulla senza cibo e finiscono per dover mangiare i loro compagni, la maggior parte di noi concorda di non avere scelta e perdona generosamente la loro caduta in disgrazia? Tra questi due estremi si trovano un ventaglio di possibilità. Ciononostante, la tendenza moderna punta a seguire la linea semplice, aggrappandosi ancora alla sua inesattezza: tutto è buono o cattivo e il cannibalismo rientra chiaramente in quest'ultima categoria. Esso viene generalmente considerato innaturale e mostruoso perché ignora le norme ampiamente accettate dalla pratica alimentare. Esso incarna l'epitome della trasgressione dei confini corporei, nutritivi e culturali. Il corpo umano è considerato l'apice della catena alimentare e il cannibalismo crea ambiguità perché riduce il corpo a mera carne, elevandolo a un'entità simbolica altamente desiderabile. Di conseguenza tale pratica si configura come il più disgustoso e il più rarefatto dei gusti gastronomici. gli antropologi concordano su fatto che l'esistenza del cannibalismo, tranne nei casi di carestia, come caratteristica consolidata della vita sociale di una comunità, sia sempre stata intrecciata a tre motivi: magico, pietoso e dietetico. 16 Questi motivi hanno raccolto su sé stessi un corpo di leggende è straordinariamente dettagliato e vivace che può trascendere in vere e proprie mitologie. E tra queste la più universale riconosce un uomo che mangia parte del corpo di un altro uomo la possibilità di assorbire alcune delle qualità che gli appartenevano quando erano ancora in vita. le informazioni raccolte nel XVI secolo e all'inizio di quello successivo fanno supporre che la pratica del consumo di carne umana fosse rintracciabile in quasi ogni parte del mondo, tranne in Europa, come ingrediente riconosciuto dell'ordine sociale accettato. Sembra che i primitivi avessero allineato uomini e animali nel loro pensiero in base al quale la carne umana non andava considerata significativamente diversa da altri alimenti. Gli orrori mostrati dai popoli civilizzati furono sviluppati per convenzione, parallelamente alla loro reticenza a mangiare altri cibi considerati non ortodossi, non puliti o inadatti al consumo umano, proprio come il maiale e il cane sono impuri per tutti i popoli semitici. la repulsione per tali cibi è un'emozione straordinariamente profonda, non dettata da necessità biologiche. Le interpretazioni del cannibalismo hanno continuato ad essere strettamente inquadrate e articolate attorno a un indice eurocentrico piuttosto inquietante del consumo e di ciò che significa essere umani. Bisognerebbe interrogare criticamente le supposizioni che proliferano intorno al cannibalismo come indulgenze essenzialmente negativa e pratica che diminuisce l'umanità sia del mangiatore che del mangiato. Così come dovrebbe essere possibile ed epistolemologicamente significativo Analizzare il cannibalismo come qualcosa di anomalo, di inquietante, e strano le nostre aspettative di comunità e di uguaglianza senza invocare nozioni di primitiva ferocia, ma anche senza una debole e soffocante correttezza politica. Se il cannibalismo è un modo Norm di essere umani come una realtà dinamica e flessibile, allora nel nostro interesse individuale e collettivo sviluppare un ordine morale ed etico di auto conservazione attentamente negoziato, fondato sull'esclusione del mito dell'interezza, dell'umiltà dell'inconsapevolezza e della realtà delle interconnessioni di fluidità interagenti. Nel suo articolo Cannibalism, Consumerism and Profanation, Jordan Dominy sottolinea che la critica letteraria e culturale considera il cannibalismo come un tropo che opera in due modi: da un lato per enfatizzare la differenza tra la civiltà europea e la ferocia razzialmente diversa; dall'altro come metafora o strumento per evidenziare la vita del capitalismo consumistico, una tendenza che si verifica con l'emergere dei beni di lusso ampiamente disponibili e dalla classe media. Quasi dall'inizio, il discorso sul cannibalismo che utilizza l'aerofagia come cartina di tornasole per la civiltà ha generato una controtendenza relativizzate. Michel de Montaigne lo dimostra nel suo famoso saggio rinascimentale Des Cannibales: “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. sembra infatti che non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo”. 17 Montaigne, in occasione di un incontro con alcuni indigeni del Brasile, paragonava la cosiddetta barbarie di quest'ultimi che mangiano i prigionieri catturati in guerra, con gli atti abominevoli dei soldati portoghesi che li avevano soggiogati. Il filosofo francese giunse alla conclusione che il mondo occidentale contemporaneo fosse in realtà più barbaro delle Americhe appena scoperte nonostante le preoccupazioni ben pubblicizzate verso l'antropofagia. In effetti, secondo le fonti di Montaigne, alcuni dei brasiliani più crudeli smisero di mangiare i prigionieri di guerra catturati e, per punire meglio i loro nemici, iniziarono a impiegare metodi di tortura appressi dai soldati portoghesi. Montaigne, pur ritenendo corretto condannare i mangiatori di carne brasiliani, si scagliava contro colori, i quali chiudendo un occhio su quelle che considerava pratiche ben peggiori che si verificavano proprio in quella terra civilizzata. Des Cannibales interessante per la sua introspezione, per il suo rifiuto antesignano della xenofobia e, soprattutto, per il suo relativismo morale, ripensa il cannibalismo come un sito in cui la critica culturale e filosofica si incontrano e attraverso il quale indagare il rapporto tra domestico ed estraneo. In Montaigne il cannibalismo diventa un volano del discorso contro-coloniale ante litteram, uno strumento di auto-illuminazione utile a sovvertire le saggezze nazionali convenzionali. Il cannibalismo era allo stesso tempo un prisma che rifrangeva le predizioni dell’alterità così come una pratica attraverso la quale il Sé si trovava di fronte all’umanità in generale. Secondo Kilgour l’interpretazione di Montaigne rilasciò un’ansia cge avrebbe continuati a montare e tralignare nei secoli successivi, poiché il fascino del cannibale metteva in discussione le nuove nozioni di identità e individualità. Il cannibalismo era un effetto del desiderio europeo per l’esotico. In altre parole, l’antropofagia come indicatore dell’Altro indigeno selvaggio era un affetto del desiderio di un Altro che osservava il sedimentarsi della propria identità nobile e civile. la posizione assunta da Montaigne e veicola nel suo saggio suggerisce come l’antropofagia segni una sorta di grado zero della cultura umana. Essa serve a definire l’Altro, a contrassegnare le persone come appartenenti o escluse da un gruppo o da una collettività più o meno ampia; la trasgressione ultima e originale e la sua soppressione è il punto di partenza per qualsiasi tipo di contratto sociale e per qualsiasi tipo di società. Per Montaigne l’antropofagia implica una forma di incorporazione dell’Altro non riducibile solo alla riproduzione violenta dell’identità. Per Freud, il cannibalismo è una forma di aggressione orale derivante dalla scena primario accompagnato da sentimenti di ambivalenza verso la vittima. Freud fornisce un ponte tra antropologia e psicoanalisi tracciando un’analogia tra il cannibalismo e la fase orale dello sviluppo psicosessuale. Nell’incorporazione orale e nei suoi correlati di desiderio le relazioni oggettuali e le fantasie stabilite si rifanno a uno studio preistorico dello sviluppo sociale umano. La filogenesi prefigura l’ontogenesi soprattutto nel pasto totemico di Totem e Tabù, in cui il padre primordiale viene assassinato e divorato da figli dell’orda che ne incorporano e sublimano il desiderio, la forza e l’autorità nelle loro struttura identitaria. Secondo lo psicanalista viennese la civiltà stesse deve la sua esistenza a un atto originale di cannibalismo. Il tabù dell’incesto, la religione e la morale apparivano in primo luogo come 20 l'esame di questo materiale delle interpretazioni che ne sono state proposte giungere una più chiara comprensione della natura e della funzione antropologica durante il secolo scorso. La tesi di Arens è ben nota: la credenza in un risultato prefigurato contraddice gli obiettivi dell'oggettività. L'interesse dell'occidente per il cannibalismo lo predispone ad accettare questa pratica senza prove sufficienti a sostegno di tali affermazioni. Anche se l'usanza fosse nata in una particolare area da condizioni di carestia, da necessità dietetiche occasionali o dalla carenza di proteine, sarebbe necessaria qualche ulteriore ulteriore stimolo ideologico e emotivo per superare le istintiva ripugnanza al cannibalismo e per confermarla in una pratica irregolare. Il cannibale non è mai stato visto in azione e per questo si configura come un mito politico letterario costruito dall'europa e dagli occidentali su basi ideologiche e per finalità di conquista culturale, con l’obiettivo di screditare l’accusato. Arens giunge alla conclusione che escludendo il cannibalismo di sopravvivenza virgola non è riuscito a scoprire per nessuna società ha una documentazione adeguata suona qualunque forma di usanza antropofagia. Il resoconto di standard avevano perlopiù un chiaro motivo per considerare certe società come cannibali e i testi in questione erano costruiti per un particolare pubblico, pieni di incongruenze che li avrebbero resi inaffidabili. Secondo Arens l'accusa di cannibalismo era semplicemente un modo per denigrare i risultati culturali di una società. Questo era certamente vero per gli spagnoli che distrussero una cultura azteca altamente sofisticata e socialmente complessa. Si trattava di un modo per creare un confine tra il civilizzato e il selvaggio, tra culture chiuse e autosufficienti, sorde, e culture aperte, permeabili e udenti. Il tabù o la pratica del mangiarsi tra uomini sono un'imputazione sono un'imputazione delegittimante dell'altro, del selvaggio o dell'alieno. Così Arens da al suo discorso le sembianze di un'accusa, Affermando che il vero fenomeno universale non è l'antropologia, quando piuttosto l'idea che gli altri siano cannibali. In questo modo gli europei, fornendo una fantomatica giustificazione al colonialismo, alla conquista e allo sterminio stesso dei popoli nativi, hanno spostato le proprie ossessioni cannibali su società non bianche le quali potrebbero non aver condiviso la visione occidentale del cannibalismo. E il colonialismo per vari aspetti ha generato nuove esperienze di desiderio, gusto, disgusto e appetito. Questo comprende una parte cruciale di ciò che Spivak definisce categorical imperative: un imperativo categorico che costituisce il soggetto del cannibalismo e la sua abilità a mascherarsi come un dominio occidentale naturale e legittimo. La politica coloniale parlava spesso in una lingua indiscutibilmente viscerale: i suoi esperimenti, Gli impegni e i traumi venivano dimostrate attraverso la bocca, nel ventre, negli organi olfattivi e nelle terminazioni nervose. Nella prima metà del ventesimo secolo gli esploratori missionari che si avventurarono negli altopiani della Nuova Guinea, imposero rapidamente una regola ferrea per la tribù locale dei Fore: Il cannibalismo in qualsiasi forma era severamente vietata. Altrove coloro che sono stati accusati di consumare altri esseri umani, sono stati brutalizzati, ridotti in schiavitù assassinati. L'esempio più famigerato di questa pratica iniziò negli ultimi anni del quindicesimo secolo, quando milioni di indigeni che vivevano 21 nei Caraibi e in Messico furono classificati come cannibali per ragioni che avevano poco a che fare con il consumo di persone. In conseguenza di ciò essi vennero derubati, picchiati, conquistati e uccisi, tutto per il semplice capriccio dei loro nuovi padroni spagnoli. Atrocità simili furono compiute su vasta scala da una successione di potenze europee che strapparono il Sud America, l'Africa e l'Indo-pacifico e selvaggi mangiatori di uomini. Le osservazioni di Arens portano alla luce alcune delle intuizioni del pensiero post- coloniale nella piena osservanza delle statuto ideologico e teorico di Edward Said. L’immagine europea dell’oriente allude ad un concetto di alterità e di ossessiva diversità messo in discussione attraverso una critica all’eurocentrismo. Secondo Said, l’Orientalismo produce un’immagine dell’Oriente che è anche un sistema morale in cui l’oriente viene corretto per il semplice fatto che si trova fuori dai confini dell’Europa. Come l’Orientalismo anche il cannibalismo è il risultato delle percezioni, delle opinioni e dei discorsi popolari occidentali che hanno influenzato il modo in cui gli studiosi affrontano gli argomenti. Il cannibale è un costrutto, un prodotto del colonialismo, mantenuto attraverso il discorso. Edward Gein rappresenta il livello di degenerazione culturale e sociale degli aztechi che si dice abbiano sacrificato e cannibalizzato un grand numero Di persone per la loro religione. Quindi, l'immagine del cannibale è il prodotto di un complesso reticolato di interazioni e presupposti. Anche per arens il cannibalismo è un discorso sull'altro e la sua presunta esistenza si intrinseca come pratica discorsiva, come termine all'interno del discorso coloniale per descrivere il feroce divoramento della carne umana praticato da alcuni selvaggi. L'accelerazione di questo processo materiale portò con sé una costante consapevolezza della varietà e delle differenze umane nonché una crescita di ansia per la condizione della civiltà europea. Questa costruzione Civita imperiale coincise con la nascita di quello che oggi riconosciamo come sostegno e promozione dell'idea di razza. Il cannibalismo arrivò a rappresentare un segno naturale di depravazione razziale o di classe. Le spettò di diritto lo status di una caratteristica razziale intrinseca virgola di una lussuria razziale associata non solo ai popoli esotici ma anche alle classi subalterne le sue caratteristiche li rendevano inferiori agli europei civilizzati. I razzismo divenne un elemento fondamentale per l'imperialismo, poiché esso opera per minare la comprensione e l'empatia fra i gruppi e per perpetuare o estendere una struttura economica e politica oppressiva. Il cannibale si distingue dagli altri agenti di razzializzazione e di disumanizzazione per la sua natura ambivalente e reciproca. Studiosi del calibro di Peter Hulme e George Jahoda Affermarono che i popoli nativi chiamavano gli europei cannibali e li temevano per la loro reputazione antropofaga. La relazione cannibale è il vuoto di potere che esiste tra colonizzatore e colonizzato. Nell'opera di teoria post coloniale di The location of culture o Homi Bhabha dedica un capitolo alla questione dell'alterità, affermando che si tratta di un apparato che si fonda sul riconoscimento e ripudio delle differenze razziali, culturali e storiche. L'obiettivo del discorso coloniale e creare un'immagine dei colonizzati come popolazione composta da tipi degenerati in base alle loro origini razziali, per poter in tal modo giustificare la conquista e fondare dei sistemi di amministrazione e istruzione, che è anche il suo imperativo. 22 Per foucault un discorso è un'area fortemente delimitata dalla conoscenza sociale, un sistema di affermazioni all'interno del quale il mondo può essere conosciuto. E attraverso di esso che il mondo viene portato in essere. Per Baba il discorso coloniale palesa la profondità e la complessità della relazione tra colonizzatore e colonizzato può esplicitamente in termini di razza. In questo specifico contesto, dove squilibri radicali di privilegio, benessere e possesso separano i gruppi marginali da quelli dominanti, si giocano estreme asimmetrie di potere. Non solo i conquistatori erano uomini, ma consideravano i popoli nativi femminili. Su questo aspetto la teoria posso coloniale e femminista si intersecano nel discorso cannibale. Il risultato è una doppia alterizzazione: il cannibale sia razionalizzato che femminizzato. Le donne venivano rappresentate come il corpo atavico e autentico della tradizione nazionale, mentre gli uomini rappresentavano l'agente progressista della modernità nazionale. Ritornando ad Arens, egli non nega che l'antropologia possa verificarsi in condizioni di fame e non ignora del tutto le forme di antropofagia rituale anche se si ha l'evidenza che l'attribuzione del consumo di uomini a popoli non occidentali in generale e a primitivi e selvaggi sia un'ossessione europea. Il negazionismo di arens equivarrebbe al rifiuto di altre esperienze abominevoli quali l'olocausto. Sebbene l'imputazione del cannibalismo non abbia portato a livello genocida del delirio nazista, né e tantomeno ai conseguenti campi di concentramento, appartiene alla classe generale di termini che isolano l'altro come un alieno, un oggetto da odiare virgola in ultimo da sterminare. Kilgour afferma che l'attribuzione del cannibalismo è una manifestazione di superiorità morale. Ciononostante la studiosa canadese credo che la funzione del cannibalismo consista nella sua utilità come forma di critica culturale. Dopo Arens La natura dell’argomento di Arens evidenzia le contraddizioni negli studi occidentali sulle pratiche alimentari non occidentali. L’antropologia e gli studi letterari hanno saputo assorbire questa rottura epistemologica inaugurata da quell’attacco alla saggezza convenzionale rappresentato da The Man-Eating Myth. L’eleganza semplicistica del suo saggio furono trasferite in un dibattito arricchito di contributi e voci autorevoli il cui appetito venne alimentato dell’ inevitabile conflitto suscitato dalle diverse strategie di ricerca coinvolte. Nell’introduzione a Cannibalism and Colonial World, Peter Hulme afferma che in modo in cui l’occidente ha intenso pratiche cannibali non giustifica i criteri che costituiscono tale attribuzione basata sulla quasi completa assenza dell’esperienza europea con la società in questione. Nel mondo attuale e postmoderno le idee di esotismo e primitivismo hanno smarrito la fede negli ideali occidentali. L’esotismo che Lindenbaum definisce un costrutto occidentale legato all’ impulsò di esplorazione, conquista e catalogazione, in una realtà sempre più problematica con il riconoscimento di spazi geografici, sociali e concettuali sempre più ibridi, ha ridotto le proprie distanze, avvicinandosi al centro. La differenza tra il sé e l’altro è meno definita, annebbiata da 25 fondamentale per stabilire l'autorità dei membri della classe colonizzatrice. In questo senso gli stereotipi sono un ottimo esempio del nesso tra pratiche materiali del colonialismo e i linguaggi e le rappresentazioni che crea per prosperare. Per Bhabha lo stereotipo è sia una modalità complessa, ambivalente virgola che ci impone non solo di ampliare i nostri obiettivi critici e politici ma che modifica il nostro stesso oggetto di analisi. Lo stereotipo è in qualche modo una scorciatoia mentale che dipende dal potere e dalla conoscenza per essere costituito. Il colonizzato è concepito come al di fuori della cultura e della civiltà occidentale punto in seconda battuta affinché il il progetto coloniale funzioni, i colonizzati devono essere addomesticati per debellare la loro radicale alterità punto il soggetto colonizzato deve essere collocato all'interno della cultura e della civiltà occidentale. Il risultato finale è un doppio paradosso punto da un lato l'imperativo di esagerare le differenze dell'altro ma anche di renderle stabili, conoscibili; dall'altro, apparentemente in contrasto con questa prima caratteristica, un tentativo di formulare una categoria di uguaglianza, una griglia o uno schema concettuale attraverso il quale quest'altra può essere fissata e compresa. Bhabha chiama questa ambiguità “l'ambivalenza produttiva del discorso coloniale”. L'altro deve essere un chiaro segno di differenza culturale ma è contemporaneamente un oggetto del desiderio: quello di essere conosciuti e di essere posseduti. L'ambivalenza ne assicura la ripetibilità in diversi contesti storici e geografici punto il discorso coloniale è in balia delle sue stesse contraddizioni nel cercare di fare due cose contemporaneamente: interpretare il colonizzato come l'altro ma anche come simile. In questo modo finisce per non fare né l'una né l'altra cosa correttamente, costringendo il soggetto colonizzato ha un perpetuo movimento e facendolo scivolare tra somiglianza e differenza. Secondo Bhabha il meccanismo psicologico responsabile della creazione dello stereotipo è lo stesso di quello alla base della nazione freudiana di feticcio. In quanto presenta di quel nella che è il fallo materno, e nello stesso tempo, la sua assenza. Il feticcio opera come una regressione alla scema della fantasia originale che si compone di due parti: la scoperta traumatica della differenza e la minaccia di perdita che rappresenta per il soggetto narcisistico o originario. A seguire il tentativo di recupero: la speranzosa sovrapposizione di un’altra immagine per normalizzare la differenza. Secondo Caminati si ail feticcio che lo stereotipo hanno una struttura comune: l’ansia per l’ignoto. Come sottolineato da Giorgio Agamben il feticcio è, insieme, il segno di qualcosa e della sua assenza. Il feticcio non è infatti un unicum irripetibile, ma è, al contrario, qualcosa di surrogabile all’infinito. Lo stereotipo e il feticcio collegano ciò che è sconosciuto e inquietante (differenza sessuale/razziale) a ciò che è familiare e accettato (oggetto/stereotipo feticcio). Si tratta di un rapporto utile a capire la persistenza e la resistenza di fenomeni razzisti, perlomeno a livello rappresentativo. Le forme dell’antropofagia Sebbene non esiste alcuna tipologia universalmente accettata in relazione all'antropologia, è possibile ridurla a tre filoni o categorie: 26 • Sopravvivenza: Il primo caso è rappresentato dal cannibalismo materiale, di sopravvivenza o della fame. Questo tipo di cannibalismo è visto come un fenomeno nutrizionale economico è presente un modello utilitaristico e adattivo due persone. Ovvero le persone, altrimenti contrari all'idea, sono spinte a esso per sopravvivere, adattandosi a condizioni avverse e stressanti come ultima risorsa per salvarsi. Queste idee tende a sminuire la natura eroica del cannibale di Montaigne, ma rimuove anche lo stigma morale, poiché tutte le civiltà erano e sono potenzialmente cannibaliche. La fame sembrerebbe giocare un ruolo fondamentale in ambito antropofago. In alcune circostanze il cannibalismo della fame è stato trattato come rivoltante e riprovevole, indicatore di un grave disturbo di personalità e di una psicosi. • Esocannibalismo: o esofagia. Si tratta del consumo degli estranei (per lo più nemici, schiavi o prigionieri di guerra). Chi la pratica vede nell’assorbimento di certi individui dotati di pericolose forze il solo mondo di neutralizzare queste ultime e anche di metterle a profitto. Il cibo che si assorbe trasferisce a chi lo mangia alcune caratteristiche del cibo: così assimilando parti del corpo di una persona ci si impadronisce anche delle qualità appartenute a lei. • Endocannibalismo: o endofagia, conosciuto anche come cannibalismo affettivo. In questo caso, ci si riferisce al consumo di carne di un membro dei proprio gruppo, generalmente in relazione di parentela o di discendenza con l’esecutore famelico. Questa santissima trinità antropologa è stata esemplificata da Costantine in tre termini più immediati, meglio ancora tre ragioni essenziali per cui l’antropofagia è stata e viene ancora praticata: dovere o cannibalismo culturale, disperazione e desiderio. In altra parole: perché devono, dovrebbero, o vogliono. Il cannibalismo è ora ampiamente visto come una pratica culturale complessa e diversificata il cui significato è determinato dall’apparato storico-sociale in cui è attuato piuttosto che da un modello universale prestabilito. Esso non riguarda solo il mangiare, ma è un mezzo per messaggi che hanno a che fare con il mantenimento, la rigenerazione e, in alcuni casi, il fondamento dell'ordine culturale. La figura del cannibale sta crescendo la sua presenza all'interno della moderna cultura popolare sino quasi a raggiungere uno stadio di normalizzazione come avveniva nell'epopea e nel folklore a partire dagli albori del tempo. Tale cambiamento è fissato tra gli anni 80 e 90. In questo decennio il mostro si è evoluto: da criminale e grottesco a figura di culto, a idolo mostro, sostituito dall'eroe umano, con cui il lettore spettatore è portato a immedesimarsi e a percepirne il mondo immaginario attraverso i suoi occhi e la sua narrazione. Ciononostante la paura sopita è rimasta, raffigurando sulle pagine stampate e sugli schermi televisivi e cinematografici, memorizzata in nuove creature come predatori alieni, zombie, vampiri, lupi mannari. Nella cultura popolare la rappresentazione dell'umano come cannibali riflette gli atteggiamenti culturali prevalenti nei confronti dell'appetito e del corpo umano, generalmente considerato entro i confini della norma culturale. Al contrario i cadaveri 27 viventi di vampiri e zombie sono chiaramente fuori dalla norma, nell'aspetto e nel comportamento. Tutto si complica con i cosiddetti cannibali umani. Una loro presunta classificazione sfuggirebbe a imbrigliamento sovrannaturali e demoniaci. Gli errori del cannibalismo si estendono ben oltre la prospettiva di essere mangiati. La carne umana è l'ultimo tabù culinario e il cannibalismo l'ultimo atto di trasgressione punto si tratta di un atto inaccettabile anche in contesti in quella violenza estrema e autorizzata. Diventare un cannibale significa attraversare una linea che divida il mondo della civiltà illuminato da un'oscurità esterna popolata da pazzi, criminali e devianze sociali. Gli umani che un tempo rappresentavano il volto del cannibalismo nella cultura popolare erano comodamente rimossi dalla nostra vita quotidiana: confinati su isole tropicali, in mezzo giungle lontane. I cannibali umani immaginari degli ultimi decenni sono più vicini a casa e più sottili nei loro travestimenti. Questo ci rende consapevoli che anche noi possiamo essere consumati, persino da un nostro pari. Kilgour sostiene che la presenza del cannibalismo nella letteratura assomiglia a un attacco all'occidentale che si fonda sulle idee di progresso, produzione e autonomia. il cannibale rappresenta inversamente la regressione, il consumo e l'annientamento del corpo individuale. Oggi il cannibalismo è lo specchio del tardo capitalismo. Per analogia questi modi produttivi di consumo, derivano da un fondamento condiviso di terrore, violenza, sacrificio e sfruttamento. Il neo-cannibalismo trasforma il cannibalismo in una struttura metaforica del consumo che lo allontana dal corpo, deresponsabilizzandolo dei suoi raccapriccianti eccessi. 30 dell’atto primitivo e violento di uccidere. L’opera poi acquista gradualmente i contorni di una storia di conversione che avviene col riconoscere un “essere oltre l’umano”, ma anche prima dell’umano (il termine “non umano” è tutto ciò che non è inteso come umano, cioè ciò che è la vita stessa). Questo incontro, però, dev’essere visto come un incontro con l’Impuro, che passa per la bocca, attraverso l’incorporazione dell’Altro: G.H. non solo uccide e tocca lo scarafaggio, ma lo avvicina alle labbra nel tentativo di mangiarlo (ripete il rituale Tupinamba). Queste riflessioni sembrano indicare chela donna può muoversi liberamente tra l’essere umano e l’essere non umano: digerito lo scarafaggio, lei diviene temporaneamente non umana occupando il regno immanente dell’insetto ed è attraverso questa esperienza di prospettivismo o mimetismo cannibale che le proprietà, le sostanze, i componenti che informano G.H. cambiano, mutano, si alterano. 31 “Necrofagia”: divorare le vittime De la postcolonie e Necropolis sono i lavori più rappresentativi di Achille Mbembe, uno dei pensatori più brillanti del postcolonialismo. Le sue riflessioni oscillano tra le nozioni di postcolonia e necropolitica da un lato, ed il desiderio di demistificazione dell’immaginario africano dall’altro: in particolare, l’autore sottolinea l’inadeguatezza del modello giuridico di sovranità per la postcolonia africana osservando che anche i regimi africani non sono mai stati caratterizzati dal rispetto per gli individui in qualità di cittadini, provvisti di diritti e libertà di iniziativa. In Necropolis Mbembe adotta il termine “mondi di morte” per riferirsi a forme di esistenza sociale in cui le popolazioni sono sottoposte a condizioni di vita che conferiscono loro lo status di morti viventi. Il necropotere implica la sottomissione della vita al potere della morte la capacità di decidere chi deve vivere e chi deve morire: la differenza tra la vita e la morte è sfumata all’interno di un quadro che spinge sulla loro stessa indistinguibilità. La necropolitica è un quadro che illumina il modo in cui i governi assegnano un valore differenziale alla vita umana e questa incessante fabbricazione di “mondi di morte” è condotta attraverso 3 fattori principali: produzione di morte su larga scala, necroeconomia e confinamento. La necropolitica implica quindi un radicamento conchiuso dei dispositivi politici, economici e militari, orientato all’eliminazione delle popolazioni umane. Mbembe individua nel razzismo il criterio principale che consente di svolgere ed espandere la necropolitica nella società: accanto ad un razzismo istituzionale vi è il nanorazzismo, che si dispiega nelle relazioni sociali quotidiane ed è volto a stigmatizzare ed umiliare quelli che non sono considerati come “noi”. A livello sociologico, invece, il disegno proposto da Mbembe è finalizzato a restituire agli africani il senso della loro interezza, del loro valore come soggetti africani autonomi. Il soggetto africano è stato smembrato, frammentato e reso inesistente dalla violenza fisica e psichica della schiavitù e della colonizzazione: l’analisi di Mbembe, quindi, mette insieme oppressore e oppresso, l’élite corrotta ed i suoi sudditi in un processo che egli sostiene sia continuo. L’opposizione non è di per sé una risposta poiché il rapporto postcoloniale non è in primo luogo un rapporto di resistenza o di collaborazione ma piuttosto un rapporto di convivenza: un rapporto reso difficile del fatto che il comando ed i suoi “sudditi” sono costretti a condividere uno stesso spazio vitale. Per Mbembe è necessario trascendere che l’idea di una modalità di opposizione binaria, per abbracciare un modello più articolato in cui le forze del potere coercitivo si rivelano linguaggi simbolici, feticizzati in una varietà di rituali quotidiani. 32 Somatofagia (divorare il corpo) - La donna da mangiare di Margaret Atwood Verso un’antropofagia dell’emancipazione Nella produzione letteraria di Margaret Atwood il cibo gioca un ruolo abbastanza importante. Già dalle prime pagine dei suoi romanzi si possono incontrare rappresentazioni o descrizioni culinarie. La fame fisica del personaggio o la sua inappetenza la cucina e gli alimenti che assaggiano sono ritratti in dettaglio, talvolta ai limiti dell’ossessione. In un’oscurata ricognizione della funzione del cibo nei testi letterari, Silvana Ghinazza dice si può parlare del cibo, o attraverso il cibo; il cibo può entrare infatti nel testo letterario a veri livelli. Può costituire l’oggetto, la materia della rappresentazione; può fornire riferimenti a prodotti, piatti, consuetudini di un tempo e di un territorio determinati. può insomma, svolgere nel testo molte funzioni, a livello tematico e stilistico. Questo corposo elenco è certamente suscettibile di ulteriori innesti nel casa della narrativa atwoodiana, In cui il contingente massiccio di immagini legate a forme di ingestione, digestione e divoramento può essere ricondotto a tre funzioni denominabili rispettivamente come distonica, elegiaca e sintomatica. Nel primo caso la presenza e la descrizione del cibo garantisce una visione più ampia della realtà, un dilatarsi dell'accadere, una sorta di distonia per l'appunto. Grazie a ciò è possibile ritrarre fenomeni e stati emotivi altrimenti destinati al silenzio quali la depressione, la paura, il piacere o i fenomeni di spaesamento. In seconda battuta tale dilatazione acquista delle coordinate temporali: parte della narrativa della Atwood È una celebrazione del passato virgola di un mondo fisico che è svanito. Si tratta di un tentativo di fermarsi per riportare indietro il tempo. Questo sforzo di celebrare e descrivere il mondo presente è riconducibile visibile nell'apparato gastronomico presente nella narrazione della scrittrice canadese, dove il cibo gioca un ruolo essenziale nel divenire diacronico e storico dei personaggi e degli intrecci dell'autrice nordamericana. Le sue descrizioni sono sempre colorate da sentimenti forti virgola che siano una nostalgia della propria gioventù o la fame simbolica dell'amore, della compagnia, della libertà o anche del sostegno della propria comunità. Infine la questione sintomatica: il cibo si fa termometro della discriminazione e della differenza sessuale che degenera spesso in violenza, collegandosi in questo modo con l'esperienza del potere e dell'impotenza nei rapporti con i ricordi repressi, problematici o cari. Nella produzione letteraria di Atwood si indaghi i divieti all'esibizione pubblica dell'appetito femminile, nonché i tabù sociali che circondano le relazioni tra donne e cibo in termini politici. In The CaLit Foodbook, una sorta di civilizzato simposio letterario, la scrittrice scrive che non siamo solo fisicamente, ma mentalmente affamati. Entrambi i tipi di nutrimento sono necessari, per la nostra sopravvivenza e sono legati a questioni di potere e genere. Secondo la scrittrice canadese il cibo non ha solo una rappresentazione tangibile, ma anche un livello simbolico e metaforico. 35 Secondo studiose come Shannon Hengen e Carol Adams, lo sguardo patriarcale non vede la carne frammentata di animali morti tra cibo appetitoso, e la stessa oggettivazione può essere ed è applicata alle donne. A stretto giro altri gruppi alimentari di aggiungono a quelli che lei rifiuta: è come se il suo fisico agisse autonomamente, come se tra i due contendenti si fosse accesa una disputa, un’accusa psicomachia che riguarda il controllo di Marian. Se la mente la spinge verso l’adesione completa alle regole del suo tempo, il corpo la esorta a non arrendersi a un mondo fatto di consumismo e sessismo in cui le donne sono un prodotto di consumo. Tale consapevolezza diventa la principale causa della sua “presunta” anoressia; il suo corpo, riluttante ad ogni forma di cibo, diviene qualcosa di inconsumabile, l’unica condizione per evitare di essere mangiata dal dominio e dall’oppressione maschile, per ritrovare la libertà all’interno di un mondo che disprigiona le donne in quello che potrebbe essere definito un comodo compaio di concentramento. Così per riscattare il suo ruolo di vittima prepara e sforna una torta a forma di donna, a sua immagine e somiglianza; il tentativo di offrirla a Peter per simboleggiare il modo in ci lui ha cercato di consumarla, fallisce. Il ragazzo anziché mangiarla scappa via, così Marian decide di mangiarla, decide di mangiarsi, un gesto che viene considerato rivoluzionario e sovversivo. La torta a forma di donna rappresenta un enigma per Peter e Duncan, come la Sfinge per Edipo. Quando Marian capisce il suo ruolo nella società, Peter fugge, ma Duncan come Edipo, risolve l’enigma. Il banchetto cannibale che chiude la seconda parte del romanzo viene portato a termine e alla fine rimangono solo le briciole. Questo fa riaccendere l’appetito di Marian che si libera del giogo maschilista riacquistando la sua individualità e la sua capacità di mangiare. Marian ha imparato che la politica sessuale significa mangiare ed essere mangiati. Il finale enigmatico e la responsabilità individuale lasciano aperta: i pericoli dell'autoconsumo e della mercificazione sia soggettiva che oggettiva sono sempre presenti. Essere consumatori implica una responsabilità, ma nel caso di questo romanzo il mangiare viene visto sia come un atto di aggressione sia come un atto di condivisione della vita quotidiana. Sembra che, nonostante Marian abbia imparato dalle proprie esperienze, sia ritornata alla vita dell’inizio del romanzo, come un’accettazione delle regole del tempo in cui vive. Le sue ribellioni era più contro il matrimonio con Peter che contro quello che in realtà simboleggia, ovvero il dominio maschile. Nel romanzo, il significato di chi cerca di mangiare chi, della sottomissione e delle protesta è generale. Il rapporto di Marian con Peter è del tutto conformista fino a quando non si sottrae a questa complicità e resiste alla reintegrazione diventando una consumatrice. La circolarità del corpo cannibale È interessante notare che Marian è in grado di reprimere o quantomeno inibire la voracità di Peter solo divorando sé stessa. Con questo Marian inverte simbolicamente i ruoli di consumatore e consumato attraverso un gesto auto-cannibalico. Quella della torta 36 rappresenta certamente il momento clou del romanzo. Ma il raggiungimento di tale catarsi è dovuto ad un altro momento importante che è quello del digiuno, alla rinuncia di ogni tipo di alimenti. Il mangiare la torta è la scena della redenzione e la redenzione è una riorganizzazione di un corpo disorganizzato. Il romanzo propone due tipi di cannibalismo: • Quello simbolico che si traduce in una discesa nel sistema; • Quello affettivo, reale, anoressico che si incarna nella creazione di un corpo che si nutre costantemente di sé stesso e dei suoi affetti. Quando si mangia troppo poco e per molto tempo, il corpo inizia a a nutrirsi dei propri muscoli e del grasso che li ricopre. Marian non solo dissocia la mente dal suo corpo perché è controllata e consumata da Peter, ma arriva addirittura a identificare il suo corpo con gli alimenti. Qualunque siano le cause di questo disturbo, è impossibile non richinare l’attenzione sulle sue implicazioni sociali. L’anoressia è diventata l’icona enigmatica dei nostri tempi. La (dis-)organicità del corpo Antonin Artaud ritrova la scena e la parola in occasione di una trasmissione radiofonica per il ciclo La voix des poètes, da cui si ha la messa in scena “Per farla finita col giudizio di Dio”. Il pezzo venne sospeso a asta della sua presunta oscenità e blasfemia della Radiodiffusion française. Va puntualizzato che la scelta di un testo radiofonico dipese da la necessità di sperimentare e creare una nuova forma di linguaggio/scrittura orale/vocale basato sui ritmi del corpo e opposto a quello alfabetico. E proprio in questa circostanza che Artaud espone uno dei concetti più famosi e impalpabili della sua poetica, il Corpo senza Organi: si tratta del culmine di un pensiero virgola di un progetto biopolitico. L'ultima prosa di Artaud ha espresso in modo coerente e coeso la battaglia persa per istituire il controllo assoluto sulla persona e sull'identità. Il corpo non era solo preda delle autorità di forze esterne, il suo funzionamento interno era soggetto anche agli organi che lo costituiscono. Per ristabilire l'autonomia del corpo era rifare l'anatomia dell'uomo che per vivere davvero e non solo esistere, deve liberarsi di tutti i fluidi corporei, oltre che della carne morbida che lo tradisce con l'illusione di essere. Rimosso e rinnegato tutto questo ammasso cellulare-plasmatico- calcico, l'uomo può finalmente liberarsi anche degli organi. Qui gli organi, o meglio la struttura organizzativa del corpo ostacolano il contatto dell'uomo con una realtà più infinita. Analogamente al modo in cui gli organi di un corpo hanno bisogno di cibo somministrato dall'esterno per essere digeriti, la mente, funzionando metaforicamente come lo stomaco, assorbe gli elementi linguistici esterni per dare forma a parole e frasi. Gli apparati che costituiscono il corpo organico reclamano continuamente necessità specifiche che se non soddisfatte generano disfunzioni di differente entità: quello respiratorio pretende ossigeno, quello riproduttore invoca sesso, quello digerente e esige cibo. Il desiderio di unità e diviene presenza senza differenze comporta una entità pienamente autonoma che non dipende da nessuno e da niente. A differenza del significante, il corpo attuale di Artaud non ha bisogno di fare affidamento su altri elementi 37 per acquisire significato. Artaud Mira a raggiungere direttamente il corpo, a liberarlo da tutti quelli anatemi, quello e strutture politiche influenze organizzative che lo tengono in ostaggio: Chiesa, stato, capitale, manicomio e tecnologia. Il linguaggio di Artaud è esso stesso ridotto e affilato per esprimere il suo bisogno di tagliare, distruggere e riformulare il corpo. Il suo grido d'aiuto è stato raccolto da Deleuze e Guattari. In Millepiani, i due autori evolvono la denuncia degli organi di Artaud in modo tale da localizzare l'esperienza dei corpi nella società e nella cultura. Il CsO è un processo fatto si assi, vettori, gradienti e soglie. Artaud immagina un circuito: una circolazione di fenomeni sensoriali o sinestetici che si alimentano dentro e fuori l’uno dall’altro. Il linguaggio e il CsO usato per proiettarlo possono moltiplicarsi selvaggiamente in modo parallelo all’industria, al denaro e allo stato sociale. L’operazione di Marian è quella di rifarsi un corpo senza organi, è quella si insorgere attraverso un idiosincratico processo disdico di assimilazione ed espulsione, ingestione e digestione. Si tratta di un percorso circolare in cui il corpo di ribella al giudizio divino, innanzitutto estromettendo dal proprio corpo tutto ciò che ha ingerito da fuori e che può essere strumento di soggezione per l’Altro. Quindi: negazione genitalità, per sottrarsi alla legge di Peter nel caso del romanzo della Atwood e del Padre in generale; rifiuto anoressico- bulimico del cibo e quindi della stessa struttura biologica del corpo. A questi due processi di negazione si aggiunge anche l’espulsione violenta del materiale fecale, che viene considerato come impuro, colpevoli di aver inquinanti il corpo penetrando dall’esterno. L’ossessione di Artaud per i processi digestivi è bene documentata nei suoi cahier. Anche la Atwood cita riferimenti scatologici, rispetto a quelli di Artaud questi riferimenti acquistano proporzioni più circoscritte, servono a decostruire i parametri di perfezione femminile che sanciscono la sottomissione di un genere all’altro. Il dolore di cui soffre il corpo di Artaud è senz’altro quello originato dal “giudizio di Dio”, così come il corpo di Marian patisce il giudizio della società canadese e maschilista in cui vive. Il lavoro del poeta marsigliese si colloca sulla linea di confine “né dentro né fuori”, ovvero nella stare al limite. Questa unità intensiva in cui di manifesta il Corpo senza Organi è complementare al corpo con organi. L’uno non può essere senza senza l’altro. Il corpo senza organi di Marian è un corpo sui generis, determinato poiché disinnesca la carica inorganica quando ritorna a mangiare, riattivando le funzioni cataboliche, sociali e politiche. Per trovare il suo equilibro personale Marian ricomincia a mangiare e inizia a cercare un nuovo lavoro: diventa consumatrice. Il suo corpo, dopo aver mangiato la torta, acquista forza e vigore come coloro che si cibano del corpo del nemico per acquisirne il valore e il coraggio. Il risultato è un essere che prova a fondere il sé e l’Altro. Secondo Ellmann il digiuno autoimposto è storicamente declinato in due profili: lo scioperante della fame e l’anoressica. Tra le due forme così simili c’è un’importante differenza polita: nel primo caso, la sofferenza inflitta al corpo si colora di tinte di malcontento e di protesta autolaceranti; nel secondo caso, sostituto dell’isteria, lo stesso rifiuto la porta in un abisso patologico. 40 novello Prometeo, di colui che sfida la hybris divina per riportare la speranza tra quei pochi uomini rimasti. Più avanti nel romanzo si parla della provvisorietà e reperibilità delle poche risorse alimentari rimaste (scatolame, prosciutti, fagioli, mais…): la narrazione in The Road inizia quasi un decennio dopo la catastrofe sicché l’abbondanza alimentare sembra essere svanita ed ecco perché il cibo rappresenta una delle principali preoccupazioni dell’uomo e del ragazzo. Tuttavia il consumo esasperato di carne umana svolge un ruolo significativo nelle dinamiche e nelle strategie del romanzo: i pochi sopravvissuti devono mangiare per sopravvivere, pertanto si nutrono di qualunque genere alimentare che incontrano lungo la strada. L’antropofagia scorre in modo implicito ed esplicito all’interno della storia. Possiamo dire che The Road è un romanzo intriso di cannibalismo e di quest’ultimo possiamo identificare 3 livelli: ecofagia, cannibalismo tradizionale e mnemofagia. I travestimenti del cannibale Ecofagia: divorare il pianeta Nel romanzo è importante ammettere che il cambiamento climatico è transitato: la biosfera appare distrutta, nulla cresce sul suolo, non vi è più alcuna creatura esistente al di là di quei pochi umani sopravvissuti, il paesaggio è costellato di alberi decrepiti, mucchi di cadaveri mummificati, di città deserte, di grandi magazzini fatiscenti ed altri detriti. I personaggi, d’altro canto, sembrano inferiori al paesaggio e questo perché gli soccombono innanzi: da subito è chiaro che la coppia è costretta a muoversi verso sud perché “non sarebbe sopravvissuta un altro inverno qui”, segnalando la propria indipendenza dalla natura. La Terra dunque è prossima all’estinzione, allo stesso modo anche la cultura è stata quasi spazzata via. Il naturale e l’umano dipendono l’uno all’altro a tal punto che la distruzione dell’uno comporta necessariamente la scomparsa dell’altro. C’è una costante minaccia di morte in The Road (per fame, malattia, divorazione…), d’altronde per McCarthy la rappresentazione della morte rappresenta quasi un imperativo morale per il lavoro di uno scrittore ed ignorarla significherebbe non essere seri, non dare peso alle esigenze del mondo. Al centro del discorso sul cambiamento climatico risiede l’ansia di sapere se ci siamo preoccupati abbastanza della salute del pianeta e del futuro, che coincide con quello dell’uomo: la studiosa Adeline Johns-Putra si concentra sulla nozione di “cura” mettendo in discussione la credenza che la cura dei figli sia equiparabile o sostituibile alla cura dell’ambiente. In generale, il cannibale descritto in The Road, quale incarnazione del consumismo capitalistico, sottolinea come quest’ultimo trasformi non solo la natura e gli animali in risorse, ma anche i corpi umani che il mercato e lo Stato considerano un alimento materiale e vulnerabile posseduto dai suddetti apparati. Un ultimo aspetto da analizzare è quello riguardo il consumo di prodotti globalmente impiegati (scena della lattina di Coca- Cola): durante il loro cammino i due protagonisti entrano in un supermercato ormai abbandonato e distrutto e trovano una lattina di Coca-Cola. Perché, in un testo dove la fine del mondo è il risultato forse di un consumo eccessivo, tale prodotto che ne rappresenta il 41 simbolo dovrebbe essere così celebrato? Rappresentando l’immagine iconica di un’intera cultura, la presenza dell’”onnipotente bibita analcolica” all’interno del romanzo suggerisce un’interpretazione che suggerisce un’interpretazione che oscilla tra denuncia e nostalgia: probabilmente il fatto che di una bevanda venduta milioni di volte al giorno in passato ne sia rimasta solo un esemplare rende ancora più evidente che gli USA, con le loro cultura e stile di vita, siano definitivamente tramontati. Ecofagia: divorare il pianeta Nel romanzo il cannibalismo è la condizione normale di una nuova e tormentata cultura che l’uomo ed il ragazzo sperimentano in prima persona. Il lettore viene a sapere dell’esistenza dei mangiatori di uomini prima ancora che i due protagonisti ne incontrino uno. In una delle scene iniziali, ad esempio, la donna confessa di provare paura che lei e suo figlio vengano violentati, uccisi ed infine divorati: le sue paure sono incentrate su due forme di consumo corporeo, quali lo stupro ed il cannibalismo, ed in questa scena gli stereotipi razzializzati del cannibale si collocano nel nesso tra violenza carnale ed antropofagia. Inoltre, i cannibali in The Road sono l’incarnazione del male ma anche del consumismo, i sopravvissuti all’apocalisse che ha spazzato via quasi tutta la vita. Ovviamente l’uomo ed il ragazzo non consumano carne umana: mentre molti superstiti trovano nel cannibalismo l’unico strumento di autoconservazione, i due si limitano a mangiare qualunque sostanza edibile incrocino sul loro cammino tranne la carne umana. La caccia al cibo acquista una connotazione specifica: da un lato permette alla coppia di vivere, ma allo stesso tempo la rende disponibile ad altri sopravvissuti alla fame, condannandola così all’isolamento ed alla diffidenza. Invece di esplorare nuove modalità di organizzazione sociale e cooperazione, The Road ricorre al nucleo familiare ed alla relaizone padre-filgio come perno della società. Mnemofagia: profanare i ricordi Nel romanzo, il ragazzo può essere considerato come una sorta di Messia-Salvatore: egli è colui che porta la luce, il drago fuoco di Dio, l’unica speranza per l’umanità. Secondo le parole di Dominy, il romanzo si fonda su concetti apparentemente contrastivi (profezia, profanazione e capitalismo): la religione è “ciò che sottrae cose, luoghi, animali o persone all’uso comune e li trasferisce in una sfera separata. Non solo non c’è religione senza separazione, ma ogni separazione contiene o conserva in sé un nucleo genuinamente religioso”. Dominy crede anche che la presenza dei cannibali in The Road dimostri quanto tale separazione sia totale, riguardi ogni cosa, persino il corpo umano che si consuma o si fa spettacolo (come nel caso della macabra installazione di esseri umani trucidati e divorati). La profanazione, il ritorno al profano, può avvenire solo attraverso il ragazzo che incarna l’Eucarestia, e come tale, nella costante minaccia di essere divorato, egli corre il rischio di diventare l’ostia letterale e metaforica: talvolta i cannibali rifiutano direttamente un corpo, nutrendosi d i un suo rimpiazzo simbolico. Il mondo contemporaneo è di per sé restio alla vecchia morale, la speranza è fallita, le circostanze sono brutali, affidate nient’altro che agli istinti di autoconservazione. L’idea di consumismo totalizzante 42 presuppone che l’atto di cannibalizzazione possa estendersi anche a forme di consumo che si verificano al di là del corpo fisico dell’individuo o della comunità: secondo Deborah Root “consumare lo spirito di qualcuno, la sua storia, il suo passato, i suoi ricordi e farlo in modo tale da apparire bello ed eroico”. Sostanzialmente è quanto fa il ragazzo, la cui condizione di Messia non dipende solo dalla sua capacità di separare e riportare gli oggetti dal sacro al profano, piuttosto dalla sua attitudine a profanare l’apparentemente inutile, quello che il capitalismo ha dismesso ed espulso. Tuttavia, il costante rifiuto del ragazzo e del padre di mangiare la carne umana mostra che la loro negazione dello status di consumo del corpo reale è l’unica soluzione per impedire al capitalismo di creare l’Improfanabile. Il “mistero” delle storie L’ultima immagine del romanzo appare sbalorditiva e criptica nel suo essere quasi disconnessa dalla narrazione precedente per tono, tempo e prospettiva: essa solleva più domande che risposte fungendo da suo epilogo indefinito. Il romanzo si chiude con la descrizione della trota di fiume che un tempo popolava il pianeta prima dell’apocalisse. La trota rappresenta uno dei tanti miracoli della natura andati distrutti, rivela la delicatezza e la fragilità di quella stessa natura suscettibile agli effetti di qualsiasi tipo di inquinamento: allo stesso tempo, però, la sua assenza segna la separazione, il distacco dal passato, l’impossibilità di riportare la terra al suo stato precedente. Ci troviamo di fronte al ricordo di un’epoca che non c’è più, ma anche un epitaffio di ciò che potrebbe ancora essere perduto. 45 Se in Goya il cannibalismo è utilizzato come metafora del governo antiliberale durante le guerre napoleoniche tra diciottesimo e diciannovesimo secolo virgola in Bourgeois esso attinge a una dimensione intima e personale, alla propria storia familiare, acquistando anche una valenza narcisistica e incestuosa. La Dall'altro lato c'è Giocasta, la quale sembra guidare le scelte critiche del soggetto femminile. quest'ultimo potrebbe suggerire il rimpianto di una madre per aver partorito e il suo desiderio di non separarsi dal figlio. Da una prospettiva edipica questa fantasia potrebbe anticipare il sogno della regina tebana di non dividersi dal proprio figlio accogliendolo come suo marito. Bourgeois realizza diversi dipinti e disegni intitolati Femme-maison: Immagini in cui il corpo o la testa di una donna sono stati sostituiti dalla rappresentazione di una casa in modo tale che è difficile sapere se l'organismo che sta invadendo lo spazio architettonico o l'architettura che imprigiona il corpo. L'immagine della casa riaffiora nella serie di incisioni intitolate He Disappeared In To Complete Silence. Ci si trova di fronte a un'opera bidimensionale composta da 9 stampe calcografiche monocrome accompagnate nella parte sinistra da piccoli testi enigmatici in prosa che raccontano di solitudine, mancanza di comunicazione, relazioni frustrate e piccole tragedie umane che finiscono sempre su una nota di disperazione. Il fatto che non ci sia una corrispondenza esatta tra immagini e narrazioni suggerisce una strategia di straniamento, conferendogli così una nota di perturbante. Se ci si ferma a contemplare le incisioni si possono trovare immagini sorprendenti: grattacieli antropomorfi che si curvano sotto il peso delle loro teste mutilate, ghigliottine solitarie che sembrano attendere le loro vittime, torri traboccanti di viscere con occhi scavati e gambe mozzate. ci si trova di fronte a costruzioni geometriche riprodotto in toni scuri, che seguono un principio fondamentale della geometria euclidea, ovvero che le parallele non si toccano mai. Il parallelismo esclude ogni specie di contatto, la distanza rimane costante nel tempo. Le figure presenti in questa serie appaiono isolate, impenetrabili, evocando la l'alienazione e la distanza psicologica che separa le persone. Il trattamento brutale a cui è sottoposto il corpo della donna e il disprezzo mostrato nei suoi confronti definiscono il movente di tale cannibalismo per rancore aggressività. Si allontani dall'ipotesi di un imprecisa azione rituale, dove la morte si trasforma in un rinnovamento della vita e in una rigenerazione di ciò che è stato smembrato. L'ostilità domestica si risolve in quella che potrebbe essere una forma di dominio finale conseguito attraverso il consumo dell'altro ridotto a cibo. I consumatori della Bourgeois sono cannibali inconsapevoli, non sanno cosa mangiano, né tantomeno agiscono a scopo di lucro. Colui che fece a pezzetti la moglie rifiuto in qualche modo di separarsi da lei. Nel volume Louise Bourgeois. The Woven Child, Lynne Cooke suppone che è il modello a cui si riferiscono questi testi possa coincidere con quello dei racconti popolari delle fiabe. molti di essi iniziano in maniera classica, proiettando così la situazione verso un passato indifferenziato, riproducendo la struttura binaria dei personaggi che è caratteristica del genere. Le versioni di Bourgeois si rivelano ingannevoli, tradendo le aspettative del lettore o spettatore riguardo la possibilità di un esito spensierato e felice 46 della vicenda. E come se dietro queste storie ci fosse uno schema ricorrente: all'inizio il personaggio è contento perché aspetto un evento o è in possesso di qualcosa di piacevole; alla fine la sua felicità mi ha distrutta sia quando cerca di comunicarla senza riuscirci, sia quando provo a negare il bisogno stesso di comunicazione. I protagonisti sono miserabili perché non possono né sottrarsi all'isolamento che è diventato una condizione della loro stessa identità né accettarlo pienamente. Questi lavori sono intrinseci di un umorismo acido che li allontana dal mondo dei bambini, sono prive di contenuto morale e non lasciano spazio alla speranza. A rafforzare questa separazione contribuisce anche l’immagine della casa, che non è più un luogo sicuro, non è più in grado di proteggere dai pericoli dello sradicamento, di opporre una rigida barriera tra l'interno e l'esterno. Al contrario essa si configura come un eremo isolato, la responsabile di nuove dolorose cesure stenosi, ma anche l'espressione di una crisi sessuale. I figli ripetono il crimine più volte in rituali religiosi sacrificali e festivi, sia per spiare una colpa schiacciante sia per mantenere la comunità e l’uguaglianza tra loro. Questa parabola evoca l’installazione di The Destruction Of The Father. La figura del padre rappresenta lo slancio, il movente della pratica scultorea di Bourgeois. 50 anni dopo, Bourgeois torna sul luogo del delitto per consumare un’altra volta il parricidio, dando vita a un’opera quale luogo dell’oralità che rivela il primitivo filo di vendetta, un banchetto per liquidare metaforicamente il potere del padre. Se da un lato il parricidio è metaforico, le conseguenze di tale atto avranno ripercussioni tangibile sulla psiche e sulla pelle dell’artista, contribuendo ad un processo di disintossicazione da un passato intriso di paure e ansie. Sottotitolato Evening meal, il riferimento al pasto serale, alla cena, suggerisce l’idea di una festa sacrificale, di un grande rito cannibalico. Le dimensioni dell’opera sono particolarmente grandi. La struttura è suscettibile di più interpretazioni che vanno da una specie di caverna gigantesca orale, una grotta sotterranea che richiama l’inconscio, Sino ad ipotizzare un utero, meglio ancora un'enorme vagina dentata. Al centro di questo spazio illuminato da una luce rossa e posto un lungo tavolo imbandito di avanzi di un pasto cannibale composto da carcasse di animali e raccolti dai mercati locali e colate nel gesso. Intorno al desco troviamo noduli di lattice che richiamano morbidi cuscini a forma di glutei e seni che sporgono dal pavimento e pendono dal soffitto. Essi rappresentano il palato. Le sculture di Bourgeois sono spesso il risultato Della detonazione di uno schizzo su carta. In questo frangente il disegno in questione mostra un ovale galleggiante alle cui estremità stanno una donna circoscritta da una cornice a forma di casa, è un uomo disteso a terra dalla cui schiena fuoriesce un coltello, lo strumento di un potenziale omicidio. All'interno di questo ovale si trovano incastonate facce di bambini le cui dimensioni rotonde irregolari ricordano i cumuli rugosi che coprono la tavola che Bourgeois ha predisposto per il suo pasto sacrificale serale. In The Destruction Of The Father Bourgeois va alla ricerca di materiali nuovi: la scultura non si limita più a evocare il corpo, ma diventa essa stesso un corpo modellato su vere membra di animali, rappresentando non solo un rito sacrificale ma rappresenta esso 47 stesso un sacrificio. Ci si trova di fronte a un'altro affare di famiglia provocato dal rancore filiale alimentato dal risentimento, dove l'oggetto del cannibalismo incestuoso di Untitled è rovesciato nell'uccisione nella dichiarazione del padre tirannico da parte dei figli. Sarebbe meglio dire della figlia dato che solamente Bourgeois ha banchettato con il padre, usurpando il ruolo del figlio nella lotta contro il suo dominio. Sebbene claustrofobico, il sito è praticamente vuoto, come se il massacro rituale fosse stato completato con l'ospite d'onore debitamente e interamente consumato. La macabro carneficina immaginata da barrois è un modo per liquidare il passato, vendicandosi finalmente del tradimento traumatico di un padre. E non è un caso Che Bourgeois compisse questo atto di esorcismo poco dopo la morte del marito: liberandosi così dal suo ruolo di moglie e madre, compie questo banchetto rituale per distruggere l'immagine onnipresente dei genitori, delle figure autoritarie. Si possono trovare delle somiglianze della fantasia cannibalica di Bourgeois con la vicenda freudiana di totem e tabù: Un padre accaparratore e onnipotente che vuole possedere tutte le donne, una ribellione fraterna che si conclude con il brutale assassinio del patriarca. Va però rimarcato come l'artista si discosti dal pensiero dello psicanalista viennese riguardo alcuni punti significativi. Nel saggio di Freud le donne non sono altro che oggetto di scambio in una storia di alleanze e rivalità esclusivamente maschili; nella fantasia di Bourgeois all'omicidio del padre partecipano anche le donne o forse sarebbe meglio dire che si tratta principalmente di donne che compiono il parricidio. La morte del padre non implica affatto il rafforzamento della legge ma la sua eliminazione: sono le donne a prendere il controllo, divorando il padre in un ultimo gesto di ribellione anti-patriarcale. Quello del parricidio è un gesto che è possibile estendere anche ai padri irritanti e castrati del mondo dell'arte. Soprattutto i surrealisti suscitarono in Bourgeois un rapporto di amore odio. Se da un lato ella venne attratta dalla loro potenziale abilità nella riorganizzazione molecolare della materia e della loro illimitata fusione delle forme; Dall'altro lato, insensibile al loro prestigio, ne prese le distanze, li rifiuto con violenza, contestando atteggiamenti elitari, egocentrici, ai limiti della misoginia artistica. A proposito di surrealismo sembra evidente il richiamo al già citato quadro di Dalì, Cannibalismo Autunnale, dove una coppia di semi-umani posti sopra un comò, in mezzo al paesaggio dell‘Empordà, si divorano in un eterno bacio cannibale. Lui infila il cucchiaio in uno dei suoi seni mentre lei taglia una piccola fetta del torace dell’uomo. Entrambi non hanno facce perché quando si uniscono perdono la loro individualità per diventare una massa amorfa. Questi avanzi di un pasto cannibale sembrano anticipare gli avanzi di The Destruction Of Father, ma soprattutto di quella successiva: Confrontation. L’opera confrontation è realizzata in legno, lattice e tessuto, al centro campeggia qualcosa che assomiglia sia alle barelle portatili utilizzate per trasportare i feriti e i morti in tempo di guerra chi ha un tavolo o persino ha un catafalco sacrificale. Altri elementi che lo costituiscono sono un telo blu che drappeggio su di essa che può alludere a un panno chirurgico, a una tovaglia o a un lenzuolo funebre. Su di esso sono disposti due grandi tumuli emisferici rievocanti genitali maschili e femminili, mentre i lati si trovano oggetti
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