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Il secolo dei genocidi - Bernard Bruneteau, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto dettagliato di tutti i capitoli

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 10/12/2016

giusy_fusca
giusy_fusca 🇮🇹

4.5

(84)

14 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Il secolo dei genocidi - Bernard Bruneteau e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Il secolo dei genocidi Bernard Bruneteau Introduzione: Come pensare i genocidi? 1. Lo sterminio: una pratica ancestrale dell’umanità? Lo sterminio è una pratica che si ritrova già nelle più antiche società organizzate. L’antichità fu piena di massacri più o meno programmati dai poteri politici. Il re assiro Sennacherib che passa a fil di spada tutti gli abitanti di Babilonia nel 689 a.C. e che devia il corso di un fiume per inondare la città è sicuramente il capostipite di una lunga stirpe di uomini malvagi. Atene punisce la città di Melo perché non l’ha sostenuta nel 416 a.C., all’epoca della guerra del Peloponneso, uccidendo gli uomini e riducendo in schiavitù donne e bambini. Un secolo dopo Alessandro Magno, adirato per la resistenza delle satrapie orientali dell’impero persiano, fece distruggere dai suoi soldati le città, incendiare i raccolti e uccidere i giovani. Nel 146 a.C. furono i romani a distruggere Cartagine e a uccidere 150000 abitanti e a ridurre in schiavitù i superstiti. Queste violenze non cessano nemmeno nel Medioevo e nell’età Moderna; per esempio ricordiamo la conquista dell'Iran nel’ XIII secolo da parte dei mongoli che distrussero la città di Herat e i suoi abitanti. La persecuzione dei cristiani in Giappone con 285000 morti tra il 1587 e il 1610. Ancora ricordiamo lo sterminio dei marrani, ebrei spagnoli, a Cordoba nel 1473. Dopo la scoperta dell’America (1492) cominciò la totale scomparsa dei tre milioni di arawak dei Caraibi e durante tutto il primo secolo della colonizzazione del nuovo mondo scomparvero circa il 90% delle popolazioni autoctone. Nell’America settentrionale gli indiani pequod della Nuova Inghilterra nel 1637 vennero letteralmente annientati e i pochi superstiti furono venduti come schiavi ai proprietari delle piantagioni della Virginia. La stessa cosa si ripete nel XIX secolo quando centinaia di migliaia di indiani scomparvero respinti sempre più a ovest oltre la frontiera degli Stati Uniti. Nella California settentrionale tra il 1851 e il 1880 gli yuki della Round Valley perdono il 90% dei loro effettivi a causa del rapimento delle donne, di carestie indotte, uccisioni ed epidemie. Alcuni sostenitori dei diritti umani hanno voluto celebrare il cinquecentesimo anniversario del 1492 ricordando il lato oscuro della conquista del Nuovo Mondo in quanto ai loro occhi Cristoforo Colombo avrebbe inaugurato una <<pace bianca>> particolarmente mortifera. Nella letteratura pacifista Cistoforo Colombo è assimilato a Himmler e lo sterminio degli amerindi viene considerato un vero e proprio genocidio. 2. Genocidio: origine, contenuto e problemi di una definizione giuridica. La parola genocidio (dal greco gènos, razza, stirpe e dal latino cidium, uccidere) fu coniata da Raphael Lemkin, un ebreo americano per indicare tutte le misure pianificate dai nazisti per annientare l’identità nazionale, religiosa ed etnica di alcuni popoli, in primo luogo ebrei e polacchi. Egli con il termine genocidio non si riferiva solo all’eliminazione fisica di massa, ma a tutte le azioni finalizzate a distruggere le basi di sopravvivenza di un gruppo o di un intera nazione come la Polonia che oggi entrano nel concetto di etnocidio. L’11 dicembre del 1946 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, durante la prima sessione, riconosce il crimine di genocidio con la risoluzione 96, che definisce il genocidio <<una negazione del diritto alla vita di gruppi umani>>, <<gruppi razziali, religiosi, politici e altri che siano stati distrutti in tutto o in parte>> e quindi come tale esso è un crimine di diritto internazionale. Il crimine di genocidio viene riconosciuto parte integrante del crimine contro l’umanità, anche se il crimine contro l’umanità colpisce una popolazione civile, mentre quello di genocidio mira a distruggere un ben determinato gruppo vittima. La mozione dell’Assemblea generale, con l’aggiunta di gruppi politici, non piaceva all’Unione Sovietica colpevole di crimini di diritto internazionale (genocidio era considerato anche l’annessione dei paesi baltici). Cosi il 9 dicembre 1948 fu considerato genocidio tutti gli atti <<commessi con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso>>. La convenzione del 1948 entra formalmente in vigore il 12 gennaio 1951 e 50 anni dopo vi aderiscono ben 130 paesi. Tuttavia la definizione di genocidio del 1948 non soddisfa i ricercatori che studiando e interpretano i grandi massacri. 3. Alla ricerca di una definizione storica. Il primo a voler correggere la definizione del 1948 è stato un professore olandese di diritto, Pietere N. Drost. Egli dedica nel 1959 due grossi volumi al <<crimine di stato>> in cui spiega i concetti di <<umanicidio>> e di <<genocidio>>. Egli definisce il genocidio come la <<distruzione fisica internazionale degli essere umani in ragione della loro appartenenza a una qualunque collettività umana>>. Negli anni sessanta Frantz Fanon, nella sua critica al colonialismo ricorda <<il genocidio esangue che consiste nel mettere in disparte un miliardo e mezzo di uomini>>, e Jean-Paul Sartre, che condanna la guerra degli americani in Vietnam. Ma la critica più radicale rivolta alla definizione del 1948 è indubbiamente quella di Leo Kuper in “Genocide” del 1981 e in “The Prevention of Genocide”. Secondo l’autore i genocidi vengono commessi contro gruppi razziali, etnici o religiosi sempre in seguito a conflitti e sempre a partire da considerazioni politico – ideologiche. La tesi di Kuper solleva però molti interrogativi allorchè egli mette insieme, senza soluzioni di continuità, casi di <<massacri genocidari>> con caratteristiche molto diverse fra loro, quali il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, quello di Dresda, l’occupazione cinese del Tibet, l’invasione di Timor Est da parte dell’esercito indonesiano o la guerra americana in Vietnam. Se gli esempi del Tibet e di Timor Est possono essere presi in considerazione, non sembra proprio che gli Stati Uniti abbiano avuto intenzione di distruggere i giapponesi, i tedeschi o i vietnamiti in quanto gruppi. Yehuda Bauer fa una distinzione tra genocidio propriamente detto, cioè riferito ad un massacro di massa selettivo allo scopo di denazionalizzare e ridurre in schiavitù un popolo e l’Olocausto il cui obiettivo è l’annientamento fisico pianificato, per ragioni ideologiche o pseudoreligiose, di tutti i membri di un gruppo nazionale etnico o razziale. Per Bauer quindi l’Olocausto sarebbe una forma estrema di genocidio per via della combinazione di tre elementi che non si trovano mai tutti assieme negli altri genocidi: l’intenzionalità puramente ideologica dei nazisti, la potenziale universalità della soluzione finale (braccare gli ebrei ovunque) e infine il perseguimento di uno sterminio totale. Secondo Lyman Legteres si deve considerare genocidio anche le vittime scelte in base alla loro appartenenza a una classe ritenuta dannosa come i Kulak e i borghesi nell’Unione Sovietica di Stalin. Infine, affinché il genocidio venga riconosciuto e trattato come crimine universale, bisogna considerare tutti i modi usati nel mondo per colpire un determinato gruppo. Gli studiosi Frank Chalk, Kurt Jonassohn e Israel Charny hanno dato una definizione di genocidio nel contempo restrittiva e inclusiva. Da una parte era necessario abbandonare la definizione troppo vasta del 1948 imponendo l’uso del termine etnocidio, che indicava tutti gli episodi storici di scomparsa culturale o linguistica di un gruppo, senza che fosse stato commesso un massacro, ma semplicemente sotto il peso della <<barbarie della civiltà>>. Dall’altra bisognava anche escludere gli eccidi di civili della guerra totale partendo dalla considerazione che i civili individualmente inermi sono parte integrante di un gruppo nazionale in guerra e che a Hiroshima erano stati uccisi dei nemici che avevano smesso di essere tali nel momento in cui il loro governo aveva capitolato. Chalk e Jonassohn hanno dato una definizione di genocidio semplice, precisa ed elastica: <<Il genocidio è una forma di massacro di massa unilaterale con cui uno stato o un'altra autorità ha intenzione di distruggere un gruppo, gruppo che è definito, cosi come i suoi membri, dall’aggressore>>. 4. Il presupposto dell’approccio comparativo. Secondo alcuni studiosi, paragonare i genocidi fra loro significherebbe sminuire la gravità di certi crimini e concedere loro delle circostanze attenuanti rispetto ad altri che hanno provocato altrettante vittime o anche di più. Cosi il fatto di proclamare, come fanno eminenti sovietici, che il terrore staliniano è razionale (in quanto basato su un ideologia che si suppone sia nata dall’Illuminismo) e che dunque non si può paragonare al terrore hitleriano antisemita, irrazionale, significa relativizzare i crimini del defunto regime sovietico. D’altro canto, dire che il genocidio degli ebrei è unico nella storia e che quindi non può essere paragonato a nessun altro genocidio, significa rendere ancora più incomprensibile gli atti concepiti, perpetrati e approvati dagli europei nel XX secolo. In realtà l’analisi comparata tenta semplicemente di dare un significato storico ad avvenimenti spesso indipendenti fra loro facendo emergere differenze e analogie e non intende assolutamente dimostrare che l’uno vale l’altro. Si tratta di paragonare l’intenzione di sterminio, elemento comune di tutte le azioni genocidarie, tenendo ben presente che ogni processo di annientamento è unico perché dipende da una serie di circostanze e da un contesto socio culturale ben precisi. in questo modo non ci può essere alcuna relativizzazione. Ma l'analisi comparativa implica anche il fatto di guardare con occhio critico i massacri perpetrati al di fuori del mondo occidentale, significa prendere coscienza che spesso un massacro compiuto in Africa e in Asia è sentito in maniera diversa rispetto ad un massacro che colpisce una popolazione europea. Adolfo Pèrez Esquivel , premio Nobel per la pace nel 1980, ha parlato di <<genocidi silenziosi>> a proposito delle popolazioni indigene dell’America Latina. In Australia, negli anni novanta, i discendenti degli aborigeni annientati nel XIX secolo, hanno lottato per ottenere questo riconoscimento, tanto che nel 1997 una commissione per i diritti umani li ha dichiarati ufficialmente vittime di genocidio. Per quanto riguarda l’Europa, non sembrano pienamente legittime nemmeno le rivendicazioni dei tedeschi espulsi con la forza dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia tra il 1945 e il 1948, cosi come quelle dei portavoce degli italiani giuliano – dalmati, civili e militari, uccisi in massa in quegli stessi anni dai partigiani titini. Premettendo che tutti i genocidi sono diversi gli uni dagli altri, è possibile, stabilendo dei termini di riferimento adeguati, discernere uno o più tipi di genocidio. Si tratta di un lavoro delicato che deve evidenziare quelle caratteristiche che possono mettere un genocidio in relazione ad altri, ma anche di verificare se l’episodio in questione deve essere riconosciuto come genocidio vero e proprio. Lo storico americano Norman G. Finkelstein mette in discussione il dogma dell’<<unicità>> dell’Olocausto considerandolo una strategia ideata per interessi politici ed economici da organizzazioni e da intellettuali sionisti. L’accusa è di sfruttare la sofferenza degli ebrei creando una specie di <<industria dell’Olocausto>>. Israel Charny ha evidenziato quattro elementi necessari per procedere a un’analisi comparativa dei genocidi: la definizione del gruppo vittima, il livello di intenzionalità, il profilo degli esecutori e le varie forme di perpetrazione del genocidio. Nella definizione del gruppo vittima, ciò che conta è l’insieme delle giustificazioni ideologiche, la sua razionalità. Tutti i criteri – politici, sociali, religiosi, ideologici – risultano validi per caratterizzare le vittime come un pericolo mortale per il progetto se non addirittura per l’esistenza stessa dell’aggressore. È l’intenzione che distingue il genocidio dal massacro in tempo di guerra o in una insurrezione. Pianificato o preannunciato, il genocidio lascia generalmente delle prove documentarie l’analisi delle quali permette di stabilire se l’intenzione era quella di annientare un gruppo in tutto o in parte. Gli esecutori del genocidio possono essere vari; l’élite del terrore ma anche la <<gente comune>>. Da non confondere gli esecutori dai testimoni, i <<vicini>>, come gli Stati, il cui silenzio e la cui passività rendono spesso il genocidio tecnicamente possibile. Per quanto riguarda le varie forme di perpetrazione del genocidio, esse si distinguono in sistematiche o sporadiche, totali o selettive, milioni i feriti su un totale di 70 milioni. La guerra del 1914 – 18 con le sue carneficine e il suo terrore insostenibile, ha reso banale la scomparsa di milioni di uomini, per esempio facendo accettare il fatto che la metà delle vittime di guerra non abbia sepoltura. Il consenso alla morte di massa è inscindibile dall’improvvisa dissacrazione della vita umana. Ma al consenso a questa morte di massa anonima si è spesso aggiunto il piacere di dare la morte come dimostra il fatto che i soldati ideavano sempre nuove armi per il combattimento ravvicinato. Ma non dobbiamo considerare soltanto lo scontro frontale degli avversari nelle due opposte trincee. Nella guerra totale, il conflitto mortale coinvolge tutte le forme sociali con una violenza inaudita e multiforme che va dalle atrocità commesse durante l’invasione, alla durezza dell’occupazione militare con le sue requisizioni e rappresaglie, dai trasferimenti forzati delle popolazioni fino al loro internamento in massa nei campi di concentramento. Dunque anche il civile è considerato un nemico oggettivo e costituisce di per sé una minaccia anche se non compie alcuna azione. Le atrocità avvenute durante le prime settimane di guerre sono molto istruttive sotto vari aspetti: esse sono commesse dalle truppe tedesche in Belgio, e nella Francia settentrionale; dalle truppe russe nella Prussia orientale e in Galizia, dalle truppe austriache in Serbia o da quelle francesi in Alsazia. Questi soprusi a poco a poco mitizzati e privati di qualsiasi connotazione reale, sono invece reali e praticati su vasta scala e rivelano anche la volontà di mostrare la potenza del vincitore, la sua inarrestabile superiorità. Secondo un criminologo svizzero il sistema con cui l’esercito austro – tedesco compì le atrocità in Serbia è quello dello sterminio. Questa volontà di sterminio di tipo etnico può dunque essere messa a confronto con comportamenti analoghi riscontrabili su scala maggiore nella seconda guerra mondiale. Tuttavia la realtà sulle atrocità è stata giustificata in nome di un nemico barbaro e perciò oggetto di tutto l’odio possibile e questo ci permette di capire perché venga accettata una guerra lunga, perché si voglia continuare fino in fondo senza tregua né negoziati malgrado indicibili sofferenze. Ora, partendo dall’affermazione che la cultura del nemico è responsabile dello scoppio della guerra e del suo barbaro svolgimento, si opera una distinzione manichea tra coloro che combattono per il bene e rappresentano ciò che è umano e un nemico che invece è il male cioè l’inumano se non addirittura l’a-umano. Il nemico totale, già considerato barbaro diventa prima semplice animale e poi animale nocivo. La morte di un nemico disumanizzato, brutale e violento non suscita più alcuna pietà. L’alta mortalità durante gli anni di guerra non è dovuta quindi solo alle innovazioni tecniche e all’eccessiva quantità di armi usate, ma anche alla creazione di una <<cultura di guerra>> imperniata sull’odio per il nemico. La violenza estrema che ne consegue, subito accettata, poi esercitata e infine banalizzata, conferisce al primo conflitto mondiale un carattere totalmente nuovo e smentisce la famosa tesi di Norbert Elias sulla pacificazione dei rapporti sociali in Europa avvenuta a partire dal XIX secolo, cioè la cosiddetta dinamica dell’occidente che viene costantemente invalidata dai comportamenti di tutte le parti in guerra. L’annuncio della sconfitta della Germania senza aver perso nessuna delle battaglie più importanti, comporta la ricerca della figura del traditore in un mondo estraneo alla guerra che è considerato la causa del fallimento. Questo rappresenta il punto di incontro tra la cultura di guerra tedesca e l’esplosione di antisemitismo popolare che in Germania accompagna l’annuncio della sconfitta. L’antisemitismo si era già manifestato verso la fine del 1916 quando il governo imperiale aveva ordinato di reclutare nell’esercito anche gli ebrei per evitare che li si accusasse di non assolvere fedelmente gli obblighi militari. Questo antisemitismo è un sintomo del processo di brutalizzazione indotto dalla guerra perché proprio allora appare la caricatura dell’ebreo dalla fisionomia criminale. Cosi l’identità del traditore è bella e pronta all’indomani della sconfitta. Ma la guerra, per molti tedeschi e soprattutto per Hitler, si era fermata ma non conclusa nel 1918, bisognava vendicare il paese, prendersi una rivincita, sterminare il traditore <<giudeo – bolscevico>>. Sia il bolscevismo che il fascismo affondano le proprie radici nella prima guerra mondiale in quanto, secondo quanto dice Francois Furet, ereditano dalla guerra di cui sono figli i loro principi elementari. Entrambi traspongono nella sfera politica ciò che hanno imparato nelle trincee, l’abitudine alla violenza, la semplicità delle passioni estreme, la sottomissione dell’individuo al gruppo e infine l’amarezza per i sacrifici inutili o traditi. Bisogna a questo punto ricordare la violenza esercitata da milioni di muzik con la divisa dell’esercito zarista, contadini – soldato, disertori o smobilitati, durante l rivoluzione russa del 1917.si assiste cosi all’emergere di un vero e proprio <<potere soldato>> alla base del futuro bolscevismo di trincea. I bolscevichi perpetrarono a partire dal 1918 violenze atroci contro i militari catturati, (gettati vivi negli altiforni) ma anche contro i civili, nemici del popolo (borghesi incaprettati e gettati in mare), tutti crimini che vengono commessi su una base di classe. Nicolas Werth vede giustamente la Russia di quegli anni come un laboratorio sperimentale della violenza. Ovviamente questa violenza multiforme getta le basi del terrore istituzionalizzate da Lenin a partire dal settembre 1918in quanto anch’esso derivato dalla brutalizzazione operata dalla guerra. La guerra civile dei bolscevichi portata alle estreme conseguenze non dipende soltanto dalle circostanze, ma costituisce lo sbocco voluto di una teoria politica nata all’ombra della guerra totale e che investiva i suoi sostenitori di una missione fondamentale, annullare qualsiasi possibilità di resistenza della borghesia, annullare le sue truppe in quanto nemico interno. È il preludio delle future violenze dello stalinismo, nonché delle strategie di rapida distruzione delle classi condannate dalla storia. Con la fine della prima guerra mondiale, con i trattati di pace, i nuovi confini territoriali e i conseguenti scossoni rivoluzionari, emerge un fenomeno nuovo in Europa, quello dei rifugiati e degli apolidi. Un milione e mezzo di russi bianchi, 300.000 armeni, 500.000 bulgari e un milione di greci abbandonano il loro paese di origine. Contemporaneamente, numerosi stati europei emanano alcune leggi che permettono di privare del diritto di cittadinanza coloro che durante il conflitto sono stati giudicati antinazionali: la Francia fin dal 1915, la Russia nel 1921, il Belgio nel 1922, l’Italia nel 1926, l’Austria nel 1933… La filosofa vedeva nel problema dei rifugiati il tramonto dello Stato nazionale e la fine dei diritti umani. La condizione di queste persone che non godono più della tutela dei diritti umani è la stesa delle minoranze intrappolate entro i confini dei nuovi stati creati dal trattato di Versailles: si tratta di tedeschi, ungheresi, rumeni, ucraini, ma soprattutto delle due minoranze senza patria per antonomasia, ebrei e zingari. Ciò significa che solo i cittadini che costituivano il gruppo dominante all’interno di una nazione godevano dei diritti istituzionali, le minoranze erano soggette invece a una legge eccezionale internazionale. L’imponderabile minacciava i popoli senza stato come giustamente intuì un giurista della commissione americana a Versailles. Capitolo secondo: Armenia, 1915: il primo genocidio moderno. Nel 1915 scompare metà della comunità armena dell’impero ottomano a causa della politica di sterminio adottata dal governo dei Giovani turchi Enver, Tal’at e Gemal, appartenenti al comitato di unione e progresso salito al potere con la rivoluzione del 1908. L’avvenimento può essere analizzato in due modi: il primo tipo di analisi attribuisce questi eventi alla tradizionale recrudescenza ottomana. Il secondo tipo invece li considera come un crimine di guerra. L’avvenimento comunque ha un carattere profondamente nuovo, l’eradicazione programmata degli armeni dall’altipiano anatolico è stata pianificata dall’autorità dello stato che agiva in nome di un progetto ideologico globale: eliminare un gruppo ritenuto infamante. L’operazione condotta il 24 aprile 1915 inaugura l’era moderna del genocidio. 1. L’acquisizione di una mentalità omicida all’epoca di Abdu ul-Hamid La questione armena diventa parte integrante della questione d’Oriente nell’ultimo terzo del XIX secolo. Il termine questione era un eufemismo del linguaggio diplomatico per definire la situazione dell’impero ottomano periodicamente in conflitto con le sue minoranze., macedone, greca, serba, albanese o armena. Questi conflitti furono affrontati in termini di diritto internazionale con il trattato di Berlino del 1878 che poneva fine alla guerra russo – turca e con l’introduzione degli articoli 23 e 61 inserì la situazione degli armeni e dei macedoni tra le preoccupazioni della diplomazia internazionale e imponeva ai turchi delle riforme. Le origini della questione armena risalgono agli anni 1840-60 quando le province orientali dell’impero dove si concentra il 70% dei due milioni di armeni ottomani, entrano in una fase di anarchia amministrativa. I motivi sono molteplici: i notabili locali rifiutano la centralizzazione, il potere illimitato acquisito dai capi delle tribù curde, la sempre maggiore importanza dei capi e degli ordini religiosi, l’afflusso di tre milioni di rifugiati musulmani a causa della crisi dei Balcani e del conflitto con la Russia. Il risultato di tutto ciò è un deterioramento catastrofico delle condizioni di vita degli armeni. L’ostilità nei confronti della centralizzazione di Costantinopoli viene vista come una mancata osservanza dei rescritti imperiali finalizzati a promuovere l’uguaglianza giuridica tra musulmani e non musulmani. L’insediamento dei rifugiati musulmani, in condizioni precarie e di miseria, avviene in un clima di risentimento generale. Infine le autorità religiose strumentalizzano a fini economici questa intolleranza diffusa reclamando l’espropriazione delle terre armene. Nel 1876 salì al trono Abdu ul-Hamid il quale non attuò alcuna riforma e si adoperò ad affermare la supremazia musulmana nei territori dell’impero e rafforzò la cultura del disprezzo per il Kaliv, miscredente. Si attribuirono funzioni militari e amministrative ai capi delle tribù curde, incaricati di mantenere l’ordine ai confini orientali dell’impero. Questo contesto politico deteriorava sempre più le condizioni di vita delle comunità armene e soprattutto rendeva possibile l’insorgere di una violenza di massa negli anni novanta dell’800. I massacri del 1894-96 sono compiuti senza che le potenze firmatarie del trattato di Berlino intervenissero. Gli armeni avevano sperato nell’aiuto delle potenze europee ma inutilmente. La conseguenza fu la creazione dei primi partiti politici armeni inizialmente sotto forma di organizzazioni rivoluzionarie semiclandestine con aspirazioni insieme socialiste e nazionaliste: il partico socialdemocratico Hnchak fondato a Ginevra nel 1887 e la Federazione rivoluzionaria armena fondata nel 1890. Queste organizzazioni contribuiscono a far precipitare gli avvenimenti… 2. La novità radicale dell’avvenimento del 1915 A partire dal 1915, tre mesi dopo la terribile sconfitta subita dai turchi a Sarikamish contro i russi comincia il genocidio degli armeni. Secondo la versione turca la deportazione degli armeni è un operazione dovuta a esigenze militari e di sicurezza, ma le testimonianze dei rappresentanti della comunità internazionale presente sul posto permettono di far sapere al mondo che non si tratta di un semplice trasferimento di popolazione in una zona di guerra, bensì un vero e proprio omicidio di massa esteso al paese intero. I testi diplomatici e le testimonianze ci dicono che le autorità turche hanno preparato le grandi operazioni di deportazione. Infatti quel fatidico 24 aprile 1915 un ordine del Ministero degli Interni portò all’arresto di tutti i notabili, gli intellettuali e i maggiori esponenti della comunità armena accusati di essere ostili allo stato e inclini al tradimento. Un corrispondente tedesco parla di arresti di massa a gruppi di 200 o 1000 persone. Solo a Istanbul sono internate e poi uccise o deportate verso l’interno 2345 persone. Interi gruppi di armeni arruolati nell’esercito dal novembre del 1914 venivano disarmati e massacrati. I ragazzi tra i 15 e i 20 anni e gli uomini di età compresa tra i 45 e i 60 anni prima venivano impiegati nei lavori di manutenzione stradale e poi uccisi. Il fatto di separare uomini e donne è una caratteristica importante dell’operazione del 1915 in quanto mira a distruggere i legami familiari, cioè la linfa vitale del popolo armeno. La legge temporanea di deportazione del 27 maggio 1915 serve a dare una parvenza di legalità a tutta questa gigantesca operazione. Con essa si autorizza i comandanti dell’esercito a procedere alla deportazione a causa di una situazione di pericolo e si autorizza anche la liquidazione dei beni dei singoli individui trasferiti altrove. Il governo ansioso di agire nell’apparente legalità precisava in un articolo che le somme cosi ottenute sono lasciate in deposito nelle casse del Ministero delle Finanze a nome dei loro legittimi proprietari, ma i legittimi proprietari non tornarono mai più dal trasferimento altrove. Nella maggior parte dei casi la popolazione è deportata senza la minima resistenza, in convogli scortati da militari e, anche se non viene uccisa in massa è comunque sterminata lungo il percorso dalle malattie, dagli stenti e dalle privazioni (lungo il percorso era proibito ai deportati di procedere a dorso d’asino o di altri animali che hanno portato con se e che comunque vengono rubati dai briganti; la razione dei viveri è scarsissima e le tribù di predoni curdi sono incitate alla violenza, al saccheggio, allo stupro e al furto nei confronti dei deportati). Alla fine dell’estate del 1915 in Anatolia non ci sono più armeni. Su una popolazione di circa 1.500.000 persone, 300.000 hanno potuto rifugiarsi in Russia, le altre sono morte o ridotte in fin di vita Aleppo, meta del calvario. La strategia adottata dai turchi consiste innanzitutto nel lasciar marcire per svariate settimane le popolazioni deportate nei campi di transito alla periferia di Aleppo per poi spostarle da un campo di concentramento all’altro lungo l’Eufrate sino alla fine di un processo di selezione naturale. Se poi la faccenda va per le lunghe, le autorità ordinano delle liquidazioni di massa. Generalmente questi campi si trovano in avvallamenti o depressioni del terreno che con le piogge invernali si trasformano in torrenti fangosi e perciò il tasso di mortalità al loro interno è altissimo. Nel giugno 1916 la vicedirezione di Aleppo decide di farla finita con i deportati rinchiusi nei campi lungo l’Eufrate. Gli ultimi massacri sono compiuti al dicembre di quell’anno nella regione di Deir-es-Zor, dove decine di migliaia di armeni vengono liquidati dai ceceni e dalle tribù nomadi locali, cui i turchi hanno demandato questo compito. L’atto finale è lo sterminio di 2.000 orfani che vengono condotti nel deserto e fatti saltare in aria dalle , o rinchiusi in grotte e bruciati vivi. Nell’autunno del 1918 sono 630.000 le persone decedute nei campi della Siria e della Mesopotamia mentre i circa 240.000 superstiti si sono fusi con la popolazione locale, cioè si sono convertiti all’islam. Oggi nessuno nega più le deportazioni del 1915, né i massacri, né l’altissimo numero di vittime. I veri problemi riguardano il grado di responsabilità delle varie parti coinvolte. Secondo Toynbee il governo centrale imponeva e controllava l’esecuzione del piano che soltanto lui aveva concepito e i ministri Giovani turchi e i loro complici di Costantinopoli sono direttamente e personalmente responsabili dall’inizio alla fine del gigantesco crimine che ha devastato il vicino Oriente nel 1915. 3. Il progetto ideologico dei giovani turchi L’ambasciatore americano Henry Morgenthau, nella sua “Ambassador Morgenthau’s Story”, riferisce una sua conversazione con il ministro dell’interno turco Tal’at il quale spiega l’atteggiamento del proprio partito nei confronti degli armeni in tre punti: 1) gli armeni si erano arricchiti a spese dei turchi; 2) essi si erano sottratti al loro dominio e avevano creato uno stato indipendente; 3) avevano aiutato i loro nemici, i russi del Caucaso, provocando la loro sconfitta. Per quanto riguarda l’accusa di arricchimento in realtà si riferisce al processo di sviluppo economico e culturale della comunità armena nel corso del XIX secolo. Per quanto riguarda la seconda accusa, in realtà gli armeni con la nascita di vari partiti politici non mirano all’indipendenza, bensì alla riorganizzazione del sistema ottomano per mezzo di riforme che dovrebbero condurre all’autonomia culturale in un contesto federale. Infine la presunta connivenza con la Russia deve essere vista come l’espressione di una volontà, anch’essa moderata, di riformare il sistema istituzionale. La Russia infatti è considerata come una potente leva esterna capace di indurre il Comitato di unione e progresso ad attuare le riforme politiche interne. Queste riforme che li armeni richiedevano da decenni dovevano risultare dall’accordo dell’8 febbraio tra la Turchia e le potenze. Esso prevedeva che nelle province orientali dell’impero fossero mandati degli ispettori europei per vigilare sui rapporti che intercorrevano fra le varie comunità. Il vero motivo per cui gli armeni vengono visti come un pericolo mortale dai Turchi è dovuto al cambiamento del contesto geopolitico, dato che a cominciare dall’ottobre 1908, quando i Giovani turchi sono al potere da soli tre mesi, la Turchia subisce una sconfitta dietro l’altra: la Bulgaria ottiene l'indipendenza, la Bosnia Erzegovina diventa un protettorato austriaco, la Tripolitania è conquistata dagli italiani e infine battuti nel 1912 dalla lega balcanica, i turchi devono abbandonare la penisola balcanica. In pochi anni l’impero ottomano era stato privato della sua natura multiculturale e plurinazionale e infatti nel 1913 gli armeni rappresentavano l’ultima grande minoranza non musulmana a carattere nazionale. In seguito a questi cambiamenti geopolitici il governo rompe con l’ottomanismo pluralista del Tanzimat secondo il quale le nazionalità dell’impero si sarebbero spontaneamente integrate nel sistema ottomano senza rinunciare alla propria religione. I membri dell’Ittihad prima denunciano che l’uguaglianza promessa dagli editti del 1839 e del 1856 è irrealizzabile e poi ne dichinarono l’inutilità data l’assenza quasi totale di minoranze. (I nazionalisti poi accusano il sultano di non essere riuscito a impedire la secessione degli albanesi e dei macedoni). I Giovani turchi vogliono creare una nazione turca omogenea, nella quale gli armeni rappresentano un corpo estraneo, un pericolo, un ostacolo essendo legati dal punto di vista religioso ed economico all’Occidente ed essendo concentrati nelle regioni orientali cioè in un territorio che i turchi considerano proprio il cuore della loro nazione situato proprio al confine con il nemico russo. Ed è proprio la volontà di rendere radicalmente omogenea la nazione Turca che portano al genocidio degli armeni. Il momento propizio per ottenere i loro piani, fu la prima guerra mondiale a cui i Giovani turchi parteciparono a fianco della Germania. Tal’at, in uno dei suoi memorandum inviati a Berlino, dice che bisogna eliminare subito gli armeni a causa della loro ideologia nazionalista di stampo socialdarwinista. 4. Il genocidio armeno tra oblio, negazione e riconoscimento tardivo Dopo l’armistizio del 30 ottobre 1918 le potenze alleate, Russia inclusa, manifestarono l’intenzione di applicare i principi del diritto internazionale ai responsabili dei massacri degli armeni. Basandosi sulla Convenzione dell’Aia del 1907 che stabiliva il principio assoluto della protezione dei civili, una commissione dopo un lungo lavoro decise che bisognava prendere dei provvedimenti giudiziari nei confronti dei colpevoli. Cosi il tribunale di Sevres del 10 agosto del 1920 inserì vari articoli in cui veniva richiesto che un tribunale designato dagli Alleati processasse i responsabili dei massacri. Ma subito sorgono dei disaccordi tra le controrivoluzionari, da liquidare subito e le cui famiglie furono deportate; i semplici sfruttatori, da deportare con le famiglie e infine quelli giudicati leali, trasferiti ai margini dei distretti in cui risiedevano. L’esistenza di questa ultima categoria mostra che non tutti i Kulak erano considerati dannosi per natura e che quindi solo una parte di essi è destinata a essere eliminata socialmente e fisicamente. Lo sterminio di una parte dei Kulak non costituisce un fine di per se stesso, ma è invece solo un mezzo per quanto assurdo e orribile per arrivare ad una società socialista collettivizzata. Inoltre l’intenzione non è sempre chiara. Bisogna dunque ammettere che la repressione non segue criteri di classe rigorosi, come era avvenuta negli anni 20; non colpisce un gruppo stabile e ben definito per cui non si può parlare di genocidio. È più giusto invece usare il termine di genocidio per riferirsi alla carestia del 1932-33 che imperversò soprattutto in Ucraina e che non ebbe nulla a che vedere con i disordini che accompagnarono la rapida collettivizzazione e la dekulakizzazione. 3. La carestia-genocidio del 1932-33 in Ucraina Boris Pasternak, invitato dal governo sovietico a visitare le campagne per documentarsi sulla nuova vita dei villaggi collettivizzati, fu talmente sconvolto da ciò che vide, soprattutto in Ucraina dopo la carestia del 1932, che si ammalò e non riuscì più a scrivere per un anno: villaggi abbandonati, cadaveri lungo le strade, campi incolti. La carestia che colpì l’Ucraina nel 1932-33 è considerata da molti studiosi, sia ucraini che occidentali, un vero e proprio genocidio. Bisogna però innanzitutto puntualizzare che essa non può essere associata alla collettivizzazione e alla dekulakizzazione perché essa comincia dopo tali avvenimenti. In secondo luogo la carestia non è provocata tanto da cattivi raccolti ma dal fatto che le requisizioni da parte dello Stato erano altissime. Nelle case non viene requisito solo il grano, ma qualsiasi tipo di alimento e di semente e perfino gli animali domestici. La carestia viene aggravata durante il secondo semestre del 1932 da una serie di misure atte ad annientare i contadini. Come ad esempio la famosa legge delle spighe che prevede la pena di morte per chiunque attenti alla proprietà dello Stato, cioè per i colcosiani affamati che rubano il grano non ancora mietuto o il divieto imposto ai contadini di comperare il pane. Viene anche stilata una lista nera che comprende 400 Kolhoz sospetti di rubare il grano nelle campagne. Nella primavera del 1933 in Ucraina milioni di persone sono già morte, le epidemie si diffondono e si registrano anche casi di cannibalismo. Quelli che erano fuggiti nelle città vengono rinchiusi in vagoni, capannoni e aree recintate ad aspettare la morte. Intanto lo Stato sovietico esporta enormi quantità di grano grazie alla legge delle spighe. Raggiunto lo scopo voluto le requisizioni vengono sospese nell’autunno del 1933 mettendo cosi fine alla politica di carestia. I fatti provano senza dubbio che l’intenzione fosse quella di affamare a morte la popolazione contadina ed in particolare gli Ucraini. Infatti le zone particolarmente colpite dalla carestia sono la Repubblica d’Ucraina, ma anche il Kuban, il Caucaso settentrionale e la Valle del Don, zone altamente popolate da ucraini. La carestia dunque è stata creata ad arte nel territorio ucraino per ragioni politiche, quella principale è l’annientamento della nazionalità che vi risiede. Infatti quando scoppia la carestia esiste un popolo ucraino costituito essenzialmente dai contadini delle campagne mentre nelle città gli ucraini sono nettamente in minoranza rispetto ai russi. La collettivizzazione delle fattorie ucraine è già avvenuta e viene giustificata come mezzo per distruggere l’agricoltura contadina individuale. L’intenzione manifesta è quella di denazionalizzare l’Ucraina in modo da facilitare la sovietizzazione. Il mezzo di cui si serve Stalin è la carestia artificiale che miete vittime senza fare distinzione tra amici e nemici del regime, né tra bambini e adulti. In questa operazione non viene colpita solo la popolazione civile ma un gruppo nazionale in quanto tale, quindi questo crimine è un genocidio. Purtroppo, malgrado le numerose ricerche, l’esistenza di testimonianze ormai riconosciute come attendibili e infine nonostante gli sforzi della diaspora ucraina in tutto il mondo, la carestia genocidio degli anni trenta rimane poco conosciuta dall’opinione pubblica occidentale o, se anche lo è, viene semplicemente assimilata a una terribile conseguenza della <<guerra contadina>> condotta da Stalin. 4. La politica di deportazione etnica tra il 1937 e 1949 Negli anni 30 e 40 le deportazioni di persone in quanto componenti di un gruppo continuarono. La politica di deportazione colpì dodici piccole nazionalità del territorio dell’URSS oltre ad alcuni cittadini originari di nazioni occupate dai sovietici, paesi baltici, confini orientali della Polonia. Nel febbraio 1944 120.000 uomini del NKVD dirigono una gigantesca operazione di deportazione: mezzo milione di ceceni e di ingusci sono caricati su 180 convogli diretti verso i Kolhoz poverissimi del Kazakistan. Lo stesso destino tocca ai tatari di Crimea e poi ai turchi mesketi, curdi e Kemsini delle regioni limitrofe della Georgia. Il caso della Polonia e quello dei paesi baltici sono un po’ diversi dato che le loro popolazioni sono state deportate parzialmente. Vengono deportate in primo luogo le classi dirigenti, contadini agiati, proprietari terrieri, commercianti e imprenditori, cioè tutti coloro che il PCUS ritiene <<elementi estranei alla società>>. Lituani, lettoni ed estoni vengono deportati in Siberia in tre riprese, nel giugno del 1941, tra il 1944 e 1945 e infine nel 1949. Tra il settembre del 1939 e il giugno del 1941 il gruppo che viene punito perché antisovietico è costituito dai polacchi residenti nelle regioni orientali al confine con l’Ucraina, la Bielorussia e la Lituania. 1.5 milioni di polacchi vengono deportate verso la Siberia o l’Asia centrale nel corso di quattro grandi operazioni e solo 630.000 fanno ritorno nella repubblica popolare polacca dopo il 1945. La sparizione di 950.000 individui di nazionalità polacca ha indotto Alexandra Viatteau a parlare di genocidio sovietico in Polonia. Infatti secondo lei lo sterminio ha colpito tutta la nazione o soprattutto coloro che rappresentavano la <<colonna vertebrale della Polonia>>, tutti colpevoli del <<crimine di nazionalità polacca>>. Secondo alcuni autori le deportazioni operate dai russi erano dovute a una politica di sicurezza infatti vengono colpiti innanzitutto i popoli situati in prossimità di confini o in regioni strategiche difficili da difendere (Caucaso, Baltico, confini polacchi). Infine alcuni popoli sono stati perseguitati perché in passato hanno opposto resistenza alla penetrazione dei russi prima (ceceni) e poi alla collettivizzazione (calmucchi e ingusci) sono considerati traditori per aver collaborato con l’aggressore nazista. Ma la pulizia etnica non porta necessariamente al genocidio perché malgrado l’elevata mortalità durante le deportazioni e l’abbandono in zone inospitali, è improbabile che i russi intendessero distruggere questi popoli nella loro totalità. L’intenzione consapevole non è tanto quella di distruggere fisicamente questi popoli, quando quella di salvarli per rieducarli a modo loro. Ciò che bisogna far scomparire è la nazione in quanto tale, e per questo motivo i russi non lasciavano i deportati privi di viveri, nei vagoni c’erano sacchi e stufe e ai deportati era concessa la possibilità di una redenzione e a volte anche di un inserimento nella società sovietica. La politica russa mira a sradicare le culture nazionali sospette perché ritiene che una coscienza di gruppo si trasmette attraverso la cultura e non la biologia. La mancanza di un ideologia razziale articolata, a differenza della Germania nazista in cui non erano previsti né l’assimilazione, né il reinserimento di un <<nemico>> nel corpo politico nazionale, il carattere di questa politica di pulizia etnica e infine il fatto che la mortalità dei deportati durante gli spostamenti non fosse intenzionale, fanno si che la Russia di Stalin non possa essere considerata colpevole del crimine di genocidio nel senso proprio del termine anche se alcuni specifici massacri potevano assumere una forma esteriore. Capitolo quarto: Il genocidio estremo: lo sterminio degli ebrei d’Europa. Il genocidio degli Ebrei chiamato Olocausto o Shoah , è stato interpretato in tre modi diversi. La prima interpretazione vede l’Olocausto come il catastrofico atto finale di una storia plurisecolare di persecuzioni che ha le sue origini nella visione antisemita degli europei. La seconda invece lo considera un avvenimento importantissimo nella storia tedesca e vuole comprenderlo a partire dalla nazione che lo aveva accettato e dal regime che lo aveva perpetrato, o mettendo l’accento sull’intenzione ossessiva dei dirigenti nazisti e sulle predisposizioni dei tedeschi comuni o insistendo sul funzionamento delle strutture dello Stato. La terza interpretazione tende a fare dell’Olocausto un evento a se stante considerando il contesto in cui è maturata la decisione genocidaria e le circostanze politiche, militari e logistiche che hanno innescato i meccanismi dello sterminio. Gli storiografici alla fine hanno convenuto che bisogna considerare l’ideologia antisemita del razzismo, il particolare momento in cui un regime policratico, il peso della guerra e che non bisogna mai separare lo studio delle vittime da quello degli aggressori o dei testimoni. 1. Le fasi del genocidio Il genocidio ha provocato la scomparsa di 5 milioni di ebrei europei tra il 1941 e il 1945. Esso trova le sue ragioni soprattutto nell’ideologia antisemita di tutto il popolo tedesco che considera gli ebrei un corpo estraneo nella nazione ed è infastidito dal fatto che essi occupano posizioni sempre più influenti nella società. Dopo il 1933 questo antisemitismo passivo determinò un atteggiamento cieco e indifferente di fronte alla politica di segregazione e, benché episodi di violenza come quello della Notte dei cristalli del novembre 1938 suscitino l’indignazione dell’opinione pubblica, l’indifferenza della popolazione aumenta a mano a mano che cresce il sostegno nei confronti della politica generale del regime e dei suoi successi eclatanti in campo economico, diplomatico e ben presto militare. Questo clima antisemita popolare contribuì notevolmente alla preparazione dell’annientamento degli ebrei accelerato poi dalla guerra. Il dibattito sull’Olocausto si è concentrato a lungo sulla contrapposizione di due tesi dette rispettivamente intenzionalista e funzionalista. Per la prima Hitler è intenzionato fin dall’inizio a distruggere fisicamente gli ebrei e la soluzione finale è il risultato di un programma pianificato. Per la seconda invece la soluzione finale è connessa ad esigenze politico-militari che si manifestano a partire dal 1941 e non certo l’esito di un piano razionale. A confutare la prima tesi sta il progetto iniziale di deportare gli ebrei in Madagascar. D’altra parte la progressiva e continua radicalizzazione ideologica operata dal Führer crea un clima favorevole alle iniziative di eliminazione fisica degli ebrei, iniziative poi facilitate dalla guerra. Comunque, qualunque fossero le intenzioni del Führer, i suoi discorsi preannunciavano l’annientamento della razza ebraica Europea nel caso di una nuova guerra mondiale provocata dalla <<lobby ebraica finanziaria internazionale>> legittimando anche le azioni più estreme e garantendo a tutti che la liquidazione fisica degli ebrei era una giusta soluzione. Il processo di annientamento degli ebrei avviene in 4 fasi: 1) Tra giugno e novembre 1941 viene fucilato circa un milione di persone più oltre 400.000 l’anno seguente. I membri della comunità ebraica vengono ritenuti nemici, bocche inutili, propagatori di epidemie, sono cioè individui superflui. In questa fase vengono pianificate le deportazioni a Est. 2) Tra dicembre 1941 e febbraio 1942 sarebbe maturata la scelta del genocidio in risposta alla dichiarazione di guerra degli Stati Uniti che i nazisti interpretano come una mossa della <<finanza ebrea internazionale>>. Dopo lo scacco subito con l’operazione Barbarossa le deportazioni in altri paesi non era più possibile. I ghetti erano pieni e bisognava trovare una soluzione alternativa, lo sterminio. Di fatto dal novembre 1941 nel distretto di Kalisch si comincia a sperimentare il Camion a gas per uccidere donne e bambini. 3) Tra il mese di marzo e l’estate 1942 si assiste all’attuazione del genocidio organizzato con la costruzione e la messa in funzione delle fabbriche della morte, operazione Reinhard. Sono inaugurati i lager di Belzec, Sobibòr e Treblinka dove vengono usati rapidi metodi di annientamento e poi Aushwitz. 4) A partire dall’estate 1942 e per un periodo di tempo poco meno di tre anni il sistema genocidio industriale funziona causando la morte di quasi 3 milioni di persone portati dai ghetti dell’Europa orientale e dal resto dell’Europa occupata. A capo di questa organizzazione logistica c’è Adolf Eichmann. Con Aushwitz si troviamo di fronte ad un organizzazione puramente tecnica destinata a far scomparire l’essere fisico senza lasciare traccia. Gli studi di Dieter Pohl e di altri sul genocidio della Galizia mostrano la stretta collaborazione tra tutte le istituzioni tedesche – SS, polizia, amministrazione civile, Wehrmacht – nel perseguimento del loro obiettivo ultimo. Ma queste ricerche mostrano anche l’ingegno della polizia ausiliaria e dei reparti ausiliari locali dell’esercito nelle operazioni di ricerca, raccolta, assassinio e deportazione degli ebrei. Il massacro del 10 luglio 1941 nella cittadina di Jedwabne vicino Byalistock, nell’area polacca che i sovietici avevano occupato dopo il settembre 1939, ha un valore emblematico, in poche ore, 1600 ebrei furono assassinati dai loro vicini polacchi, mentre i pochi tedeschi presenti si limitavano a scattare foto. Per poter analizzare le motivazioni dei responsabili locali del genocidio e il tacito consenso della popolazione spettatrice, bisogna prendere in esame i rapporti che intercorrevano tra le comunità alla vigilia della guerra contro l’URSS e in particolare il ricordo delle violenze subite in passato. Per quanto riguarda il primo punto, gli ebrei, secondo le popolazioni locali occupate dall’US (baltici, polacchi, ucraini, ecc.) avevano sostenuto o addirittura collaborato con l’amministrazione sovietica tra settembre e1939 e giugno 1941. Per quanto riguarda il secondo punto, negli anni della Grande guerra, della rivoluzione bolscevica, della guerra civile che né conseguì e poi delle guerre locali successive al primo conflitto mondiale si manifestò una violenza moderna fatta di massacri di massa, deportazioni, terrore organizzato, e tutto ciò in un clima di caos economico e sociale dovuto al crollo delle autorità e delle istituzioni tradizionali. In quel periodo si accumulò un potenziale di violenza che è all’origine delle atrocità commesse nel 1941, come ha dimostrato lo storico candese Piotr Wrobel. Si accumulò in quel periodo tanto odio da trasformare le vittime in carnefici. 2. La globalità della politica nazista di sterminio La politica nazista non può essere circoscritta solo all’antisemitismo in quanto l’eliminazione di non ebrei, malati di mente, zingari, omosessuali, prigionieri sovietici, ha mostrato come l’antisemitismo si inserisse in una politica razzista globale che si combinava con progetti igienisti, demografici e sociali. Prendendo in esame le tre fasi del progetto nazista potremo osservare che il genocidio fu il prodotto di molteplici apporti sociali tra cui quello di una folta schiera di esperti, scienziati, medici, biologi, giuristi, urbanisti e geografi sensibili alle parole di Hitler che diceva di non avere pietà per le persone condannate a morte dal destino. Accettando la concezione dei nazionalsocialisti secondo cui l’uomo è un anello della natura viva, il Terzo Reich pone al centro di tutte le proprie preoccupazioni la natura, la vera natura selvaggia, che deve essere sottratta alle aggressioni della cultura artificiale, provocata dalla modernità, al liberalismo economico e alla filosofia del progresso responsabili di aver trasformato l’uomo nell’essere dell’anti natura per eccellenza. Come reazione a questo processo l’uomo nuovo nazista deve essere un uomo rigenerato, un uomo che ritrova il paradiso perduto da cui sono esclusi gli eredi dell’Illuminismo. Partendo da questa visione del mondo dominato dalle leggi naturali, il Terzo Reich restituirà alla natura i suoi diritti in tutti i campi e sopprimerà tutto ciò che ostacola la vita (ariana). La biopolitica nazista persegue allora due obiettivi: la rivoluzione nazionalsocialista intende fare appello alle forze che tendono all’esclusione dei fattori di degenerazione biologica e al mantenimento della salute ereditaria del popolo. In altri termini, essa mira a rafforzare la salute della popolazione nel suo complesso e a eliminare le influenze che nuocciono allo sviluppo biologico della nazione. La preoccupazione per la vita e la salute porta ad una parte a una politica sanitaria a 360°: fu sconsigliato l’uso di coloranti, dei conservanti alimentari, fu imposto il pane integrale, furono condotte energiche campagne contro il tabacco, fu condotta una vera e propria guerra contro il cancro; dall’altra, alla soppressione della vita non ritenuta degna di essere vissuta. Nel luglio 1933 una legislazione eugenetica autorizzava la sterilizzazione di persone affette da malattie ereditarie, infermi e alcolisti e successivamente fu loro vietato il matrimonio cosi come le leggi di Norimberga avevano vietato agli ebrei di sposarsi con i cittadini tedeschi. Sette anni dopo, dato che la guerra offre l’opportunità di adottare misure più radicali, Hitler ordina personalmente la liquidazione fisica dei malati di mente e poi dei non vedenti e degli epilettici con una rapida procedura. I malati di mente di tutte le età vengono registrati, trasferiti in centri di cura dove, dopo una selezione fatta dai medici delle SS vengono eliminati entro 24 ore in camere a gas camuffate da docce. Dal 1941 si cominciano a selezionare individui in cattive condizioni di salute che sono rinchiusi nei campi di concentramento e poi trasferiti nei campi di eutanasia dove vengono gassati. Ma soprattutto quando il regime deve bloccare il programma dell’Aktion T4 (fabbriche della morte) include gli asociali tra le persone da eliminare in modo da continuare ad usare il personale dell’Aktion T4 con le stesse mansioni. (Nell’Aktion il personale ha compiti ben precisi; c’è chi prepara le camere a gas, chi le pulisce). Gli asociali sono gli zingari nomadi e sono costretti a pagare il loro soggiorno obbligato, poi vengono sterilizzati e infine viene impedito loro di contrarre matrimonio. Successivamente un centro di ricerca sull’igiene mentale, esperti di antropologia razziale, studiano gli zingari e concludono che è biologico il loro comportamento criminale e asociale. Lo zingaro ormai e la vittima designata da due utopie, quella che mira a creare una comunità priva di devianze sociali e quella che intende preservare la purezza della razza. Come conseguenze gli zingari vengono cercati, portati nei campi di concentramento da dove a partire dall’inverno del 1939-40 si contano centinaia di morti per il freddo e gli stenti. Con la guerra nel 1941 anche gli zingari della Russia cominciano ad essere sterminati insieme agli altri in quanto accusati di fare da informatori del bolscevismo ebraico (170.000 sono le vittime in tutta Europa). Tuttavia nonostante l’elevato numero di morti, il genocidio degli zingari non può essere paragonato a quello degli ebrei il cui numero di sopravvissuti fu decisamente inferiore. Questo perché gli zingari occupano un posto insignificante e il governo centrale non esprime chiaramente l’intenzione di sterminare gli zingari e il loro sterminio varia a seconda delle situazioni locali. Per esempio in Serbia vengono uccisi solo 1000 zingari dei 115.000, mentre detenuti sono sempre in ceppi legati gli uni agli altri e patiscono la fame, è quella di ottenere la confessione di crimini e di complotti che giustificano l’arresto e confermino l’onnipotenza dell’Angkar, confessione che poi comportava la condanna a morte. Ai prigionieri condannati, veniva fracassato il cranio con l’impugnatura di un piccone in un’area attigua al carcere, mentre la musica rivoluzionaria diffusa dagli altoparlanti cercava di coprire le urla dei condannati privati degli abiti da un servizio speciale della prigione che poi venivano distribuiti nei villaggi vicini. 2. L’Angkar e i suoi esecutori La grande massa dei cambogiani per molto tempo ignorò che fosse ai vertici del potere. Solo nel settembre del 1977 l’Angkar rivelò di essere il partito comunista della Kampuchea e Pol Pot il suo segretario generale. I cosiddetti Grande fratelli (gli uomini che costituivano il nucleo del comunismo cambogiano) scelsero la clandestinità anche una volta giunti al potere perché dovevano per prima cosa dissimulare ciò che non erano (dei contadini) e ciò che erano fondamentalmente, cioè degli intellettuali francesizzati provenienti da famiglie benestanti e ben inserite. Pol Pot infatti, il cui vero nome era Saloth Sar, nato nel 1928 era figlio di un ricco proprietario terriero legato alla famiglia del re Monivong, allevato nell’ambiente del palazzo reale da una cugina di suo padre che faceva parte del corpo di ballo del re. Per sei anni novizio in un monastero buddista, aveva frequentato una scuola francese e aveva vinto anche una borsa di studio in Francia. Eppure il <<Fratello Numero Uno>> ha considerato come nemici da eliminare per primi i proprietari terrieri, i rappresentanti della vecchia società monarchica (per esempio le 300 ballerine del palazzo reale), il clero, gli intellettuali e tutto coloro che erano legati al vecchio imperialismo coloniale. Il soggiorno a Parigi dei futuri dirigenti dell’Angkar e delle loro stesse mogli, li ha spinti ad aderire al comunismo proprio, mentre era in atto la guerra fredda. Ma i futuri dirigenti Khmer si avvicinano al comunismo soprattutto attraverso un PCF (partito comunista francese) profondamente staliniano. Infatti è proprio a Parigi che essi hanno letto i libri sacri del comunismo: il manifesto del partito comunista di Marx. L’imperialismo fase suprema del capitalismo di Lenin. Il marxismo e la questione nazionale di Stalin e soprattutto la storia del partito comunista bolscevico dell’URSS in cui si vede Stalin trionfare senza pietà su tutti i nemici interni. Tornati in Cambogia quasi tutti vivono modestamente con i loro stipendi di insegnanti e contemporaneamente cercano di creare una rete di militari clandestini, oppositori della monarchia e sostenitori dell’antiamericanismo neutralista di Sihanouk. Ma essi vivono soprattutto l’esperienza della repressione quando tra il 1955 e il 1960 i servizi di sicurezza della monarchia fanno sparire circa l’80% dei dirigenti comunisti e poi a partire dal 1962 quando il partito popolare, dietro il quale si nascondono i comunisti, viene dichiarato fuorilegge. Pol Pot e Ieng Sary si danno alla macchia nel 1963 seguiti poi da altri militanti accusati di essere filocinesi. Il periodo di clandestinità dura fino al 1970 e coincide con quello in cui il comunismo cambogiano cambia strategia ; è il periodo in cui un proletariato intellettuale revanscista adotta un’ideologia antiurbana e antioccidentale. Ma soprattutto il gruppo dirigente si chiude sempre più in se stesso, nelle sue certezze e nella sua paranoia. Infine il periodo in cui il movimento dei Khmer rossi si costituisce, si consolida e si espande, coincide con quello della rivoluzione culturale cinese (1966-75) promossa da Mao e dal gruppo estremista di Jian Qing (la signora di Mao). Nel 1966 e nel 1970 lo stesso Pol Pot compie i suoi primi viaggi in Cina e ha potuto riflettere sullo slogan delle guardie rosse che riprendeva una citazione di Mao: la classe capitalista è la pelle; gli intellettuali sono i capelli che spuntano sulla pelle. Quando la pelle muore non ci sono più capelli. Questa esperienza cinese è alla base dello scoppio di un complesso di odi accumulati da quei dirigenti storici che una volta al potere rivolsero le loro persecuzioni verso il regime monarchico che li aveva respinti e braccati, ma anche verso la repubblica che li aveva combattuti. Parecchie centinaia di ufficiali furono gettati con le loro famiglie falesie di Bokor, un dirupo alto 500 metri, da dove erano stati gettati alcuni prigionieri Khmer rossi all’inizio della lotta armata. Ma quell’odio era legato anche allodio verso le città in quanto simbolo di un economia parassitaria e oppressiva. I dirigenti di Angkar nutrono anche un profondo odio per il mondo occidentale, cioè verso sia l’imperialismo che il neocolonialismo americano. I giovani cambogiani militanti venivano reclutati direttamente dai fratelli maggiori nelle università, nelle campagne e tra le minoranze tribali. I giovani accedevano al cuore del partito progressivamente in tre fasi, partendo come semplici appartenenti alla Lega della gioventù comunista, per diventare poi membri candidati e infine militanti con pieno diritto. A ogni grado di anzianità corrisponde generalmente un prefisso: compagno per il basso, fratello maggiore per quello intermedio e Angkar loeu per il livello più alto. I professori universitari tengono seminari clandestini che trattavano argomenti quali il coraggio civile, la giustizia sociale, la corruzione. Lo stesso Pol Pot con una retorica buddista, piena di esempi immaginosi, sapeva conquistare il proprio uditorio soprattutto quando evocava la nuova società futura dove non ci sarebbero state più imposte da pagare perché tutti avrebbero lavorato. Gli emarginati provenienti dai villaggi acquisirono importanza sempre maggiore all’interno dell’apparato repressivo dei Khmer rossi, come sottolineano numerose testimonianze: anche il PCK, come aveva già fatto in principio il partito cinese, cominciò a reclutare vagabondi, trafficanti, alcolisti, violenti, analfabeti, cioè tutta la feccia della Cambogia rurale che era convinta di aver trovato una nuova dignità nella cieca esecuzione degli ordini di Angkar considerato un padre e una madre. La vittoria dei Khmer rossi, inaspettata date le loro scarse risorse, è dovuta soprattutto all’odio profondo di alcune categorie nei riguardi di un ordine politico, sociale o generazionale che li aveva maltrattati o esclusi. 3. Genocidio “cambogiano” o genocidio “comunista”? I dirigenti della Kampuchea democratica sostenevano di non ispirarsi ad alcun modello straniero e che la loro rivoluzione non poteva essere paragonata a nessun’altra. Il genocidio sembra fondamentalmente <<cambogiano>> favorito, secondo alcuni storici, da circostanze locali e regionali. I bombardamenti degli Stati Uniti che rasero al suolo decine di villaggi contribuirono alla nascita del partito di Pol Pot. Essi, secondo il giornalista americano William Shawcross, costituirono un buon argomento per reclutare giovani contadini, accecati dall’odio e fanaticamente devoti a un potere che si presenta in veste di vendicatore. Ma i bombardamenti giustificano poi anche l’epurazione degli elementi moderati che il PCK intraprese prima del 1975 nelle zone liberate. Inoltre, combattenti Khmer rossi di base erano sempre più pervenuti contro le città fino a considerare la capitale cambogiana con il suo governo filoamericano e i suoi abitanti occidentalizzati come l’incarnazione stessa del male assoluto. La violenza dei Khmer rossi sarebbe stata dunque in primo luogo una reazione e il dramma finale un genocidio per procura. Secondo Serge Thion in Cambogia non c’è stato alcun genocidio. Per Thion la sovramortalità sarebbe dovuta principalmente all’eliminazione dell’organico del regime di Lon Nol (nemico politico dichiarato, controrivoluzionario) alle purghe all’interno del PCK e alle esecuzioni compiute a livello locale da quadri che non riuscivano a sostenere psicologicamente il peso delle loro nuove responsabilità, esecuzioni che quindi sarebbero state ordinate dal governo centrale. A questo tipo di interpretazione globalizzante e riduttiva, si può contrapporre il lavoro condotto dall’antropologo May Ebihara sul villaggio cambogiano di Sobay. Egli ci mostra come i contadini poveri che si erano rifugiati a Phnom Penh a causa dei combattimenti furono ritenuti nemici, gente senza valore, assimilati al <<nuovo popolo>> e come tali sottoposti a maltrattamenti, lavori forzati. In questo villaggio su un totale di 139 abitanti, 70 morirono durante i quattro anni di potere Khmer rosso. Il direttore del Cambodian Genocide Program, attribuisce le persecuzioni dei Khmer rossi a motivi di razza. L’ossessione di Pol Pot e dei suoi uomini per la razza non avrebbe equivalenti in nessun altro regime che si ispira al modello bolscevico. Questa variabile razzista, unita alla brutalizzazione dei comportamenti indotta dalla guerra e alle pratiche ereditarie dal modello rivoluzionario comunista spiegherebbe l’entità del genocidio. Questa interpretazione che mira chiaramente ad allontanare l’esperienza cambogiana dal modello comunista e ad avvicinarla al nazismo non convince pienamente. È vero che Pol Pot ha il <<Khmer originel>> fin dagli anni del suo soggiorno a Parigi, ma forse è esagerato trasformarlo nel principio motore della sua politica. Anche se il tasso di sterminio delle minoranze (36.5 %) è superiore alla media nazionale (25%) è comunque inferiore a quello di alcune categorie sociali o professionali vittimizzate (50%). Del resto non è stato fatto alcun tentativo di concentrare e ghettizzare le minoranze per sterminarle. Esse vengono massacrate perché si oppongono più o meno apertamente al nuovo regime: i cham non hanno voluto rinunciare alla loro religione e ai loro imam; la minoranza vietnamita fu perseguitata solo durante la guerra contro il Vietnam a partire dal 1978. Si ricorre al razzismo per indicare in modo radicale che un individuo non fa parte di quella Cambogia ideale definita dagli ideologi Khmer rossi. Per quanto riguarda la sciarpa blu (sciarpa tradizionale Khmer) che alcuni deportati avrebbero indossato, essa non ha certo la stessa funzione del marchio infamante che aveva la stella gialla imposta dai nazisti agli ebrei; si tratterebbe semplicemente di un capo di abbigliamento, privo di qualsiasi significato, che lo stesso Pol Pot a volte ha sfoggiato davanti alle telecamere. Alcuni osservatori particolarmente attenti hanno attribuito i crimini sanguinosi perpetrati da Khmer rossi ad una cultura specificamente cambogiana. Per esempio è stato messo in relazione il rispetto quasi religioso nei confronti dell’anonimo Angkar degli inizi, con l’antica cultura induista che considerava l’autorità come un’incarnazione divina e che perciò tendeva al fatalismo o persino alla passività di fronte alle direttive del potere. Francois Bizot, invece ha suggerito che la teoria rivoluzionaria dei dirigenti Khmer rossi si ispirasse piuttosto ai miti e alle regole del buddismo come ad esempio la rinuncia ai beni materiali e ai legami familiari. Lo storico Alexander L. Hinton ha mostrato come la violenza genocidaria della Kampuchea democratica sia stata in parte l’espressione del modello culturale cambogiano improntato alla vendetta sproporzionata (una testa per un occhio). Infatti i posti di maggior poter a livello locale sono assegnati alle categorie più assetate di vendetta: contadini senza terra, giovani emarginati che ogni giorno restituiscono centuplicati, allo sventurato <<nuovo popolo>> delle città, quegli oltraggi che essi stessi hanno subito dalla vecchia società. Infine viene messa in atto la forma più estrema di Kum: la distruzione non solo del nemico ma anche della sua discendenza, la sua famiglia, la sua classe. Studiando più da vicino il piano strategico dell’eliminazione ci si rende conto che il massacro nasce da una volontà esasperata di purificare la società Khmer estirpando il suo tumore borghese per cominciare una nuova era dell’ anno zero. Fin dalle prime settimane il regime procede all’eliminazione fisica della borghesia in quanto tale, cioè dei traditori; parallelamente venne avviata l’operazione destinata a trasformare in breve tempo tutte le categorie contaminate dallo spirito borghese in contadini. L’ultima tappa di questa logica folle fu l’eliminazione (1977) delle tendenze borghesi che avrebbero potuto ancora essere presenti nel vecchio popolo (il resto della società) oppure che avrebbero potuto riemergere all’interno del partito stesso. Infatti la metà dei componenti del partito sarebbe stata vittima delle purghe. La rivoluzione socialista di cui parla Pol Pot si ispira dichiaratamente a due modelli: il piano di Stalin e il grande balzo in avanti della Cina. Anche la Kampuchea democratica al pari dell’URSS nel 1930, doveva avere il proprio piano per instaurare il socialismo in tempi brevi. Il piano quadriennale dei Khmer rossi, presentato nel 1976, caratterizzato da provvedimenti irrealistici (triplicare il rendimento del riso per ettaro come pure le superfici coltivate) non era affatto fattibile. Una volta al potere Pol Pot adottò una linea maoista, quella del Grande balzo che avrebbe dovuto condurre dopo anni di sforzi, alla felicità. Ma il comunismo cambogiano ha caratteristiche diverse da quello russo e cinese e ciò spiega il suo radicale ricorso al genocidio. Innanzitutto è un partito particolarmente esiguo in termini numerici e debole sul piano teorico. Ciò spinge il PCK a sterminare subito tutti i dirigenti del vecchio regime per paura sia di soccombere di fronte alla loro superiorità numerica sia che essi possano influenzare con le loro idee i pochi effettivi rivoluzionari. Un’altra caratteristica del comunismo cambogiano è la sua condizione di isolamento e segregazione che alimentò una mostruosa paranoia e una maggiore tendenza alla criminalità. In definitiva il regime dei Khmer rossi era profondamente comunista, ma l’applicazione radicale e violenta della loro politica derivava dalla cultura della società da cui essi provenivano , dai modelli totalitari attraverso i quali essi si erano avvicinati al comunismo, dalle circostanze che li avevano indotti ad agire e che avevano plasmato il loro partito. 4. A quando il processo ai Khmer rossi? Nella risoluzione del 12 dicembre 1977 sulla situazione cambogiana, l’assemblea generale delle Nazioni Unite, riferendosi agli anni 1975-79, parlò esplicitamente e per la prima volta di atti di genocidio. Questo lungo silenzio e la mancata punizione dei responsabili dei crimini in Cambogia è dovuto al fatto che, quando i vietnamiti sconfissero le forze Khmer rosse si paventò la possibilità che la Cambogia potesse diventare terreno di scontro della guerra fredda. Il timore di un nuovo espansionismo sovietico attraverso il suo alleato vietnamita portò a costituire una strana coalizione di cui facevano parte la Cina, i paesi dell’ASEAN (associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico) e gli Stati Uniti per costringere il Vietnam a ritirare il proprio esercito. Ciò significava sostenere i Khmer rossi e ciò implicava anche quegli stessi Khmer rossi legati al governo cambogiano in esilio guidato da Sihanouk, fossero accettati quali legittimi rappresentanti della Cambogia in seno all’ONU. Ciò comportava il fatto di dover tenere nascosto il rapporto della Sottocommissione per i diritti umani e quando le forze vietnamite si ritirarono dalla Cambogia i dirigenti Khmer rossi non poterono rimanere esclusi dalla conferenza per riportare la pace in Cambogia. Naturalmente la parole genocidio non fu pronunciata. Ma quando Pol Pot nel 1997 fu destituito da parte dei suoi stessi seguaci, gli irriducibili rimasti nel Nord del paese, a Anlong Veng, il governo, spinto dagli Stati Uniti, chiese l’aiuto dell’ONU per far processare l’ex dittatore come capo espiatorio. Con la morte di Pol Pot confermata nell’aprile del 1998 viene rilanciata l’idea di creare un tribunale internazionale ad hoc per processare tutti gli ex dirigenti Khmer rossi ancora in vita. Ma il processo avrebbe dovuto riguardare gli anni compresi tra 1970 (colpo di Stato di Lon Nol) e 1998 e giudicare i vari crimini commessi in questo periodo: soprusi dell’esercito repubblicano, i bombardamenti americani, l’occupazione vietnamita e i crimini dei Khmer rossi. In seguito si cerca di addossare tutta la responsabilità dei crimini a due soli capi espiatori dei Khmer ross che non potevano essere integrati nel nuovo governo: Ta Mok, l’ex responsabile sanguinario della regione sud occidentale del paese, e Duch, già direttore del centro di sterminio S-21, che furono incarcerati nella primavera 1999 accusati di crimini contro la sicurezza interna dello Stato. Nel 2001 promulgata una legge che istituiva un tribunale speciale a carattere internazionale, per discutere dei crimini cambogiani, ma nel febbraio 2002 l’ONU si rifiutò di parteciparvi per mancanza di garanzie sufficienti sull’indipendenza di quel tribunale. Il governo di Phnom Penh riaprì i negoziati con l’ONU e riuscì ad ottenere, il 17 marzo 2003, la firma di un accordo di cooperazione tra i giudici internazionali e cambogiani. L’istituzione di un tribunale penale internazionale per giudicare i responsabili degli atti di genocidio commessi tra il 1975 e 1979 sarebbe stata un’occasione unica per chiarire molti problemi, ciò avrebbe permesso di provare l’intenzionalità politica e ideologica e di non ridurre il fenomeno Khmer rosso a una forma di contingenza, come invece tendono a fare alcune interpretazioni culturaliste e avrebbe altresì permesso di riaffermare che democrazia e giustizia sono complementari di uno Stato di diritto. Ma il processo contro i responsabili dei crimini che non sembra non dover mai arrivare, al cambogiano di oggi non resta altro che ritrovare la propria memoria in lutto nella grande opera del cineasta Rithy Panh, che mette in scena con passione <<la terra delle anime erranti>>, quella di Bophana e dei milioni di altre persone stritolate dalla <<macchina di morte Khmer rossa>>. Capitolo sesto: L’etnismo genocidario del dopo guerra fredda e la nascita di una giurisdizione internazionale permanente. Dopo la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino, non si è certamente instaurata la pace nel mondo. In effetti, nell’ex Iugoslavia, in Afghanistan, Liberia, Somalia, nel Caucaso, in Ruanda e Burundi si possono contare in pochi anni oltre a 14.5 milioni di rifugiati e 12 milioni di profughi e 2 milioni di morti. Con la fine della guerra fredda è scomparso il mondo bipolare, sono crollate le ideologie e l’universalismo e sono emersi i particolarismi con la conseguente riaffermazione della storia, della cultura, della religione e dell’etnia. Questa nuova esigenza di identità ha moltiplicato le crisi e i conflitti regionali, soprattutto laddove convivono civiltà diverse. Ma la fine della guerra fredda coincide anche con la scomparsa del nemico ideologico e geopolitico e si è creato un nuovo rapporto con l’altro, il nemico nascosto. L’ossessione di un nemico interno, al tempo stesso vicino e lontano, porta a conflitti tra comunità la cui visione del mondo non è più universalistica, ma ha piuttosto finalità particolaristiche, etnonazionali o tribali confessionali. Dal Caucaso ai Balcani fino all’Africa dei Grandi Laghi i conflitti degli anni 90 hanno un elemento in comune, malgrado la diversità dei loro contesti: il rifiuto o l’esclusione dell’Altro. Il caso del Caucaso post sovietico è esemplare; l’indipendentismo estremistico dei ceceni, cosi come l’azione repressiva dei soldati moscoviti, si basavano sui ricordi incrociati delle rivolte e dei tradimenti degli uni, delle oppressioni e delle deportazioni commesse dagli altri a partire dal XIX secolo. La lotta feroce degli osseti ortodossi contro i vicini ingusci musulmani è riconducibile alla presunta collaborazione di questi ultimi con l’occupazione nazista. Le violente misure di espulsione adottate dagli armeni nell’Alto Karabah nei confronti degli azeri turchi e musulmani sono vissute come una rivincita sui responsabili del genocidio del 1915. L’ex Iugoslavia e l’Africa dei Grandi Laghi sono cosi molto significanti. 1. Bosnia: la “pulizia etnica” tra nazionalismo essenzialista e politica della memoria presidenza e la presenza dell’ONU. Agli hutu sembra proprio di essere stati sconfitti, gridano al tradimento e creano una coalizione per la difesa della repubblica. A partire dal dicembre 1993 gli hutu si preparano alla riscossa, basta solo aspettare l’occasione o provocarla per ottenere il massacro. L’occasione arriva con la morte del presidente Habyarimana: l’aereo su cui viaggia è abbattuto nei cieli della capitale il 6 aprile 1994 da un misterioso missile. Il giorno dopo comincia lo sterminio dei tutsi. Le donne vengono violentate da malati di AIDS fatti uscire apposta dagli ospedali. Lo stupro è stato preso in considerazione dal tribunale penale internazionale solo nel 1995 e considerato un grave crimine pari alla tortura. Negli anni seguenti sono stati imprigionati più di 120.000 ruandesi. Il 1 gennaio 2003, il presidente Paul Kagame, un tutsi andato in esilio in Uganda, con la liberazione di 40.000 detenuti ha dato prova di voler attuare una riconciliazione basata sulla rinuncia a qualsiasi riferimento all’identità etnica: vittime e carnefici convivono insieme. 3. La corte penale internazionale e la sua genesi Il 18 maggio 1915 i governi di Gran Bretagna, Russia e Francia avevano lanciato un avvertimento congiunto alla Turchia per informare i membri del governo ottomano che sarebbero stati considerati responsabili dei massacri in corso degli armeni. Dopo la seconda guerra mondiale la Società delle Nazioni Uniti incaricò una commissione di giuristi di elaborare il progetto di una corte competente per giudicare i crimini che violavano <<l’ordine pubblico internazionale della legge universale della natura>>. Il piano della convenzione fu predisposto negli anni 30 e prevedeva la creazione di una Corte penale internazionale che giudicasse i crimini di terrorismo. L’8 agosto 1945 fu istituito dalle potenze vincitrici il tribunale internazionale di Norimberga per giudicare i crimini di guerra e contro l’umanità. In seguito fu riproposto di istituire una corte penale internazionale permanente per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio (10 dicembre 1948). Ma la guerra fredda e le divergenze fra stati impongono una pausa di 40 anni a questi progetti. Nel 1992, le tragedie della Iugoslavia e del Ruanda, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite chiede alla Commissione per il diritto internazionale di elaborare il progetto di uno statuto approvato nel luglio 1994. Il 18 luglio 1998 è stato adottato a Roma lo Statuto di una Corte penale internazionale. La Corte, legata alle Nazioni Unite e permanente, ha sede all’Aia e impegnerà 18 giudici a tempo pieno, eletti per nove anni con scrutinio segreto dall’Assemblea degli Stati-parte. Dovrà giudicare i responsabili (di età superiore a 18 anni al momento dei fatti) di crimini che offendono profondamente la coscienza umana. L’art. 17 dello Statuto di Roma definisce il principio centrale su cui questa Corte si fonda: la complementarietà, cioè questa corte può esercitare le proprie funzione unicamente qualora le autorità nazionali competenti non manifestino la volontà o siano nell’incapacità di perseguire l’autore di un crimine internazionale. Per quanto riguarda il genocidio, lo Statuto di Roma ha ripreso alla lettera il testo della Convenzione del 1948 che riteneva punibile l’istigazione diretta e pubblica al crimine. L’art.30 poi amplia il concetto di intenzione, fondamentale per definire il genocidio; l’intenzione non riguarda solo il comportamento criminale ma anche le sue conseguenze; inoltre viene introdotta anche la nozione di consapevolezza. Infine la Corte sarà competente solo per i crimini commessi sul territorio degli Stati parte. Conclusione: Perché il XX secolo è il secolo dei genocidi? 1. Le conseguenze della “razionalità” totalitaria La logica totalitaria (tutto è possibile) rappresenta il denominatore comune dei regimi che hanno commesso i maggiori massacri del XX secolo, ciò vale per l’URSS di Stalin, la Germania nazista, la Kampuchea democratica, ma anche in parte per gli altri regimi. Per esempio lo Stato dei Giovani Turchi nel 1915, il potere hutu del Ruanda negli anni 90. Seconda la logica totalitaria il genocidio viene concepito come un modo necessario per porre fine ai conflitti e per rinsaldare la società attorno a un ideale unitario. Per ottenere questo bisogna far pulizia dei nemici pericolosi definiti nocivi, microbi, parassiti, ora scarafaggi (tutsi), cani (musulmani). L’immaginario del corpo sociale che bisogna pulire delle sue impurità e viscosità ha una cosi grande forza di suggestione proprio perché è accompagnato dalla consapevolezza di una minaccia percepita come imminente e mortale. La percezione della minaccia arriva a creare un’ossessione e a identificare il gruppo dominato o rivale con l’incarnazione collettiva del male. Questa mitizzazione della minaccia è tanto più efficace quanto più si basa su un fondo di verità. Cosi ad esempio gli ebrei erano una minaccia per i loro rapporti con l’universalismo moderno e per la loro presenza ai vertici del comunismo mondiale, soprattutto nel partito bolscevico. I dirigenti nazisti persuasero sempre più che la categoria del giudeo bolscevico dovesse essere colpita nel suo complesso. Ricordiamo ad esempio la deportazione di alcuni gruppi etnici, soprattutto tedeschi del Volga). 2. Le risorse della modernità Secondo Bauman il genocidio moderno è un genocidio che mira ad uno scopo. Sbarazzarsi dell’avversario non è di per se uno scopo. È il mezzo per raggiungere uno scopo, un passo che bisogna compiere se si vuole raggiungere la meta del percorso. Lo scopo è dato dalla visione grandiosa di una società migliore o radicalmente diversa. Il genocidio moderno è un elemento di ingegneria sociale mirante a realizzare un ordine sociale in una società perfetta. Bauman definisce il genocidio moderno, il lavoro di un giardiniere che elimina le erbacce e i parassiti che deturpano la bellezza del giardino perfetto. Le vittime di Hitler e Stalin sono state eliminate proprio per creare questo giardino perfetto (la società completamente comunista o la comunità pura ariana) ed è proprio per questo che, secondo il sociologo inglese di origine polacca questi massacri rappresentarono la concretizzazione più coerente e più vera del processo civilizzatore. 3. Gli imperativi della (ri)costruzione dello Stato I regimi genocidari sono tutti più o meno Stati revisionisti, cioè regimi che vogliono costruire, consolidare o ridefinire uno Stato ordinato. Questo è il caso per esempio della Turchi dei Giovani Turchi che i dirigenti rivoluzionari del Comitato di unione e progresso intendono ricostruire per affrontare la triplice sfida della pressione delle potenze straniere, della modernizzazione e della rivendicazione delle minoranze nazionali dell’impero. Questo fenomeno è ancora più evidente tra la prima e la seconda guerra mondiale in Unione Sovietica e Germania, entrambe impegnate in una strategia che rimette in discussione l’ordine democratico e liberale stabilito a Versailles dalle potenze occidentali. Per i dirigenti della Kampuchea democratica bisogna sottrarsi definitivamente al dominio dell’imperialismo e istituire un regime socialista nuovo, insieme alla Cina maoista. Per i rappresentanti del potere hutu invece occorre, a partire da fine 1993, liberarsi della pressione dell’occidente che cerca di far applicare gli accordi di Arusha, cioè di convivenza civile tra hutu e tutsi. Infine nella Serbia di Milosevic dal 1983 si afferma un comunismo nazionale con mire espansionistiche che sfida l’occidente e le potenze musulmane che ostacolano i legittimi interessi serbi. Cosi qualsiasi minoranza viene sospettata e stigmatizzata in base a un comportamento reale o presunto che dimostra quanto essa sia legata o contaminata dal nemico esterno cioè dalla o dalle potenze dominanti di un ordine internazionale ritenuto ingiusto o oppressore.
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