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Il Teatro e il suo Doppio, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Arti e scienze dello spettacolo

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 02/01/2021

francesco-falagni
francesco-falagni 🇮🇹

5

(2)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Il Teatro e il suo Doppio e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! IL TEATRO E IL SUO “DOPPIO”: ANTONIN ARTAUD Antonin Artaud è stato, assieme a Stanislavskij e Brecht, il più autorevole teorico del teatro del ‘900, non tanto per i risultati ottenuti (in quanto il suo teatro non fu mai all’altezza dei “manifesti” pubblicati) quanto per l’originalità dei sui scritti e dei suoi trattati. Per Artaud, come per Brecht, il dramma è uno strumento di rivoluzione, capace di riordinare l’esistenza umana. Artaud si preoccupò di separare il teatro come doveva essere (“il compimento dei più puri desideri umani”) dal teatro come era allora (“superficiale e posticcio, di consumo momentaneo”). Tuttavia, l’obiettivo di Artaud – a differenza di altri registi-pedagoghi del ‘900 – non era quello di trasformare l’uomo socialmente, ma psicologicamente, liberando tutte quelle forze oscure e nascoste che fanno parte di ogni individuo. Così Artaud e Brecht si trovano in due posizioni diametralmente opposte: Brecht voleva affermare un teatro che stimolasse lo spettatore, inducendolo al ragionamento e all’analisi, mentre Artaud voleva un teatro senza alcuna riflessione razionale che ostacolasse il risveglio dello spirito interiore dell’uomo. Artaud porta le teorie simboliste e surrealiste al loro limite più estremo. Secondo Artaud, il teatro dovrebbe “rituffarsi nella vita”, ma non alla maniera dei naturalisti, bensì ad un livello mistico, metafisico; compito degli scenografi e degli attori è rivelare la vita segreta dei grandi drammi, creando un teatro dove il pubblico non venga per osservare, ma per partecipare emotivamente. Queste idee sono tutte sviluppate da Artaud nei suoi manifesti scritti fra il 1926 ed il 1929 a sostegno della sua organizzazione teatrale, il teatro Alfred Jarry. Artaud prometteva un teatro che avrebbe mostrato allo spettatore le angosce e le inquietudini della vita reale, in cui sarebbero entrati in gioco molti fattori: “lo spirito, ma anche i sensi e la carne”. Si sarebbe dovuto avere un teatro “di magia”, rivolto non allo sguardo o alla mente, bensì “agli aspetti più segreti del cuore”. Nel saggio Il teatro Alfred Jarry, Artaud respinge le neonate accuse alle proprie idee dicendo che il suo teatro era uno spettacolo “libero” (come la poesia, la musica e la pittura), ma anche un “teatro totale” di pura esperienza; l’obiettivo di Artaud era extra-teatrale, cioè una reintegrazione della vita stessa secondo una visione quasi allucinatoria della realtà umana. Durante i primi anni ’30, Artaud scrive una serie di saggi che formano la sua opera più importante, Il teatro ed il suo “doppio”(1938); il saggio, contenuto nell’opera, dedicato agli attori balinesi segna un evento assolutamente importante: la visione dei danzatori balinesi, da parte di Artaud, contribuì ad una svolta nel suo pensiero. Infatti, fino al 1926, Artaud aveva affermato che la recitazione e la messinscena avrebbero dovuto essere considerate come i segni visibili di un linguaggio che invece è “invisibile e segreto”; tuttavia, il modello per questi segni non gli fu molto chiaro fino a che non vide i danzatori balinesi: divenne quindi concreta l’idea di un teatro puro, dove tutto diviene oggettivo solo nel momento stesso in cui si trova sulla scena. Le parole erano eliminate: gli attori diventavano “geroglifici animati”, le cui grida ed i cui gesti risvegliavano nel pubblico una risposta emotiva, non traducibile in un linguaggio logico e discorsivo. Fin dall’inizio della sua carriera di poeta e di attore (con Charles Dullin), Artaud era ossessionato dall’incapacità delle parole ad esprimere il mondo interiore di ogni individuo; i danzatori balinesi gli dimostrarono come era possibile utilizzare un sistema di segni spirituali capace di sostituire la parola. Il teatro, per Artaud, doveva essere liberato dalla sua sottomissione al testo, così come il corpo dell’attore doveva essere liberato dalla sua subordinazione alla mente. Il linguaggio da usare, quindi, non doveva più essere umanistico e realistico, bensì un linguaggio della magia. Il termine “crudeltà” fu scelto da Artaud per definire il suo nuovo teatro, nel 1932, dopo aver scartato termini come “assoluto”, “metafisico”, “alchimistico”; pubblicò ben due manifesti de Il teatro della crudeltà, nel 1932 e nel 1933. Sin dall’inizio, Artaud precisò che non si trattava di un’interpretazione morale e fisica della crudeltà: lo spargimento di sangue e di carne martoriata costituivano un aspetto secondario della questione (ma comunque presente), lasciando posto ad una crudeltà intesa come forza ed energia creativa, come impulso ir- razionale la cui legge unica è il Male. L’unico vero compito del teatro di Artaud era offrire allo spettatore una rivelazione, cioè rivelare il cuore di tenebra presente nella vita stessa. Di conseguenza, tutte le convenzioni della società moderna, specie quella occidentale (cioè la sua morale, i suoi tabù, le sue istituzioni), sono per Artaud inutili tentativi di negare questa crudeltà cosmica: per Artaud la sproporzione esistente fra i sentimenti ed il linguaggio andava inquadrata in una più generale crisi culturale (come si legge nella prefazione). Nel saggio Il teatro e la peste, Artaud paragona il teatro alla peste, in quanto – come la peste – è capace di rivelare lo spirito represso in ogni uomo. Il teatro, come la peste, spinge in superficie la crudeltà nascosta; libera le possibilità più oscure. Alcuni critici hanno acutamente individuato nel teatro di Artaud una tendenza anticonvenzionale: se per secolo si è parlato del teatro come “purgazione” dei sentimenti e dei valori negativi, con il Teatro della Crudeltà abbiamo una sorta di anti-purgazione: esso evidenzia come l’animo umano sia caratterizzato da lati oscuri ed energie dolorose, senza possibilità di conciliazione. Il concetto di “doppio” di Artaud fu fonte di malintesi: egli spiegava il titolo del suo libro dicendo che “se il teatro è il doppio della vita, la vita è il doppio del vero teatro”; i doppi del teatro sono allora la metafisica, la poesia, la crudeltà. Il doppio del teatro non è la realtà quotidiana, sempre più vuota ed insignificante, ma piuttosto la realtà archetipica e pericolosa. Il concetto di “doppio” viene applicato da Artaud anche a proposi- to dell’attore: L’attore deve vedere il suo corpo come il doppio di uno “spettro”, plastico e mai compiuto, simile al ‘Ka’ delle mummie egiziane; ogni parte del corpo ha uno speciale potere mistico ed ogni emozione ha una base organica. Ogni differente metodo di respirazione può essere analizzato per il contenuto simbolico. Il saggio più importante a riguardo dell’attore è sicuramente Un’atletica affettiva: secondo Artaud l’attore è simile ad un vero e proprio atleta fisico, ma con una correzione importante: l’attore è un atleta affettivo, è un atleta del cuore. All’attore compete la sfera affettiva: tutti i mezzi della lotta, del pugilato, dei cento metri e del salto in alto trovano analogie organiche nell’esercizio delle passioni. Anche qui, però, Artaud corregge la questione: si tratta di un rovesciamento, per il quale mentre il corpo dell’attore è sostenuto dal respiro, il respiro dell’atleta si sostiene sul corpo. Il problema della respirazione è fondamentale per Artaud: ad ogni sentimento, ad ogni movimento, ad ogni affetto corrisponde un diverso respiro; i tempi della respirazione danno una forma al cuore umano. Ogni attore non è guidato che dall’istinto: ma l’attore dotato trova nel proprio istinto la propria arte, e per Artaud bisogna finirla con le stupide tendenze del teatro contemporaneo, dove l’istinto viene soffocato a favore della tecnica. Le idee di Artaud circa la consistenza dell’anima e delle passioni è molto chiara: l’attore deve credere alla materialità dell’anima; deve sapere che una passione è materia, in modo da poterla dominare. Raggiungere le passioni attraverso le proprie forze, senza considerarle un’astrazione, dà all’attore la sua maestria. Conoscere il segreto del ritmo delle passioni, del tempo musicale che ne regola il battito, è l’aspetto più importante per l’attore del teatro di Artaud. Negli anni dopo il 1936, il teatro di Artaud venne sempre più ad identificarsi con il corpo: Antonin Artaud concepisce la scena come "luogo dove si rifanno i corpi", quindi come luogo di rigenerazione fisica che dovrebbe dare vita ad un corpo nuovo capace di liberare l'uomo da tutti i suoi automatismi. Per raggiungere questo obiettivo, l'uomo ha un solo modo: un durissimo lavoro su se stesso. Quindi l'espressione "rifare il corpo" ha un significato duplice: lavoro su se stessi e ricerca sulle azioni fisiche. Si tratta di due fra le maggiori novità, per quanto riguarda il teatro, dell'intero secolo ma è bene precisare che si tratta anche di due novità che si concretizzano dentro e fuori il teatro. La ricerca sulle azioni fisiche, ad esempio, si afferma in teatro con Stanislavskij ma ha alle sue spalle un più ampio fenomeno di riscoperta del corpo che non nasce dal teatro e che va ben al di là di esso (poiché caratterizza la cultura e la società dalla fine dell'800 in poi e che possiamo riassumere con l'espressione tedesca "korperkulture"). Artaud parla di necessità di "rifare i corpi" per sottolineare uno dei problemi centrali della cultura occidentale dentro e fuori dal teatro: quella di pensare mezzi per agire sul cervello umano. Ma il quadro non sprigiona idee chiare: le idee che esso raccoglie sono tutte metafisiche. Anzi, Artaud aggiunge che la grandezza poetica di queste idee deriva proprio dal fatto di essere metafisiche. L’idea stessa di “caos” presente nel quadro si aggiunge al Meraviglioso e all’Equilibrio: e secondo Artaud questo dipinto è ciò che dovrebbe essere il Teatro. Ma per farlo, il teatro dovrebbe saper parlare il linguaggio che gli è proprio: invece, dice Artaud, la situazione è ben diversa. E pone una domanda: perché in Occidente tutto ciò che è specificamente teatrale (cioè tutto ciò che non è contenuto nel dialogo) rimane in secondo piano, quasi non fosse poi così importante? Il dialogo non appartiene specificamente alla scena, appartiene al libro; la scena è un luogo fisico e concreto che dev’essere “riempito” e che pretende di parlare un suo linguaggio concreto. Questo linguaggio, per Artaud, deve innanzitutto soddisfare i sensi, poiché esiste una poesia per i sensi come ne esiste una per il linguaggio, ed è un linguaggio puramente teatrale poiché i pensieri che esprime sfuggono al linguaggio articolato. Il linguaggio fisico, materiale e solido, del teatro è nettamente differente dalla parola: esso consiste in tutto ciò che occupa la scena, in tutto ciò che può manifestarsi ed esprimersi materialmente sulla scena, e che si rivolge innanzitutto ai sensi. E’ un linguaggio fatto per soddisfare i sensi. Si può così sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio, che si svilupperà in un campo non appartenente alla parola. Questa poesia utilizza tutti i mezzi di espressione utilizzabili su un palcoscenico – musica, danza, plastica, pantomima, mimica, intonazione, architettura, illuminazione, scenografia ecc. – ed ognuno di questi mezzi ha una propria arte o poesia intrinseca che, fondendosi con gli altri mezzi espressivi, crea una successione di reazioni e di momenti di poesia. Una forma di questa poesia spaziale è propria del linguaggio dei segni: in questo caso abbiamo a che fare con il linguaggio teatrale puro, che sfugge alla parola; un linguaggio fatto di segni, gesti, atteggiamenti. Artaud parla a tal proposito di pantomima non pervertita, cioè una pantomima diretta, i cui gesti – anziché rappresentare parole – rappresentano idee, atteggiamenti dello spirito, aspetti della natura, aspetti astratti. Tali segni rappresentano veri e proprio geroglifici: dentro di essi, l’uomo è un elemento come gli altri, che grazie alla sua doppia natura aggiunge un importante prestigio all’arte del teatro. Ed è tale linguaggio – capace di evocare nello spirito immagini di intensa poesia naturale o spirituale – a dare bene l’idea di ciò che potrebbe essere a teatro una poesia dello spazio indipendente dal linguaggio articolato. Artaud è insomma convinto che il teatro vive a malincuore sotto la dittatura della parola: il linguaggio di segni e di mimica, cioè la pantomima non pervertita, rappresenta qualcosa di specificamente teatrale che spesso viene confuso con “attrezzi del mestiere” o con ciò che si intende per “regia”. Questo modo di vedere le cose è sbagliato ed in opposizione ad esso Artaud afferma che il linguaggio specifico del teatro nasce dalla scena, senza passare per le parole. E’ il regista a costruire teatro, non il testo scritto e parlato. Quindi un teatro che vada a subordinare la regia e lo spettacolo – cioè tutto ciò che fa parte del linguaggio della scena – al testo, è un teatro di idioti, di pazzi, di pedanti… in una sola parola di “Occidentali”. E’ vero che il linguaggio della scena, quello specificamente teatrale, è meno adatto ad illustrare un carattere, a raccontare pensieri, ad esporre con chiarezza i fatti, rispetto a quello verbale: ma chi l’ha detto che il teatro è fatto per esprimere tutto ciò? Il teatro contemporaneo è in decadenza perché ha perduto la sua dimensione originaria, il culto, il rito, il pericolo; perché ha rotto i ponti con l’anarchia profonda che è alla base della poesia. E la vera poesia è metafisica: essa rimette in discussione i rapporti fra oggetto e oggetto, tra forma e significato. Nel teatro Orientale di tipo metafisico, dice Artaud, tutto l’insieme dei gesti, movimenti, segni, sonorità che costituisce il linguaggio della scena porta necessariamente il pensiero verso un atteggiamento che Artaud definisce metafisica in atto; cosa che invece non avviene nel teatro Occidentale di tipo psicologico. I mezzi di espressione di cui il teatro e la regia dispongono sono veramente molti ed è inutile elencarli; Artaud si limita a due esempi: 1) il linguaggio articolato: fare la metafisica del linguaggio articolato significa indurlo ad esprimere ciò che solitamente non esprime; significa utilizzarlo in modo diverso, singolare, restituendogli un potere originario: quelle di scuotimento fisico. Artaud suggerisce di considerare il linguaggio sotto forma di Incantesimo. 2) L’accezione religiosa e mistica del teatro: per Artaud bisogna abbandonare l’accezione umana, attuale e psicologica del teatro per ritrovare quella accezione che il teatro ha smarrito: religiosa e mi stica. Artaud dà inizio ad un altro breve saggio, Il teatro alchimistico, affermando che tra l’alchimia ed il teatro esiste una misteriosa identità: il teatro, come l’alchimia, è legato ad una serie di fondamenti comuni a tutte le arti; ma sia l’alchimia che il teatro sono entrambe arti virtuali, tali cioè da non contenere in se stesse né il loro obiettivo né la loro realtà. Se l’alchimia, grazie ai suoi simboli, è come il Doppio spirituale di un’operazione che risulta efficace soltanto sul piano della materia reale, il teatro dev’essere a sua volta considerato il Doppio non di quella realtà quotidiana di cui è divenuto solamente una copia inerte, ma di un’altra realtà rischiosa ed alternativa. Tutti i veri alchimisti sanno che il simbolo alchimico è un miraggio come lo è il teatro: a noi sfugge il simbolismo materiale, ma ciò non vuol dire che il nostro spirito non sia in grado di decodificarlo. Il teatro a cui Artaud allude, ovviamente, non ha niente a che vedere con quello sociale o d’attualità. SUL TEATRO BALINESE Lo spettacolo del teatro balinese, fatto di danza, canto, pantomima e pochissimo teatro psicologico come lo intendiamo noi in Occidente, riporta il teatro ad un piano di creazione autonoma e pura, in una prospettiva di allucinazione a noi sconosciuta. Le situazioni, che nel teatro occidentale danno motivo di esistenza allo spettacolo, sono nel teatro balinese soltanto un pretesto. Il dramma non si sviluppa come conflitto di sentimenti, ma come conflitto di posizioni spirituali, ridotte a schemi e a gesti. I Balinesi realizzano l’idea di teatro puro dove tutto vale ed esiste solo in quanto si oggettivizza sulla scena. E al contempo ci mostrano la centralità del ruolo del regista, la cui capacità creativa elimina le parole. I temi sono sempre vachi, astratti, generici; ad essi, dà vita solamente il complesso moltiplicarsi degli artifici scenici. Ciò che risulta interessante di questo insieme di gesti, atteggiamenti e modulazioni della voce è il fatto che questi “fantocci animati” utilizzano ogni punto dello spazio scenico, dando origine ad un nuovo linguaggio fisico basato sui segni e non sulle parole. Gli attori sembrano geroglifici animati. Anche i costumi contribuiscono a restituire un contenuto simbolico, adattandosi allo stato di “trance” dell’attore. I segni spirituali hanno un preciso significato: esso viene comunicato solamente al nostro intuito, ma con una violenza tale da impedire ogni trascrizione in un linguaggio logico e discorsivo. E, per quanto riguarda il “realismo”, le continue allusioni e metafore non impediscono al “doppio” di recitare in modo realistico, terrorizzato dalle apparizioni dell’aldilà. I Balinesi hanno un’intera gamma di gesti e di posizioni mimiche per ogni circostanza della vita e restituiscono alla convenzione teatrale il suo più alto valore; uno dei motivi per cui restiamo affascinati da questi spettacoli sta appunto nell’uso di una partitura precisa da parte degli attori, senza nessuna sbavatura. Ma è anche lo studio profondo e particolareggiato effettuato per raggiungere questi risultati. Qui non esiste improvvisazione (intesa come “spontaneità”): ogni movimento, gesto o stato d’animo non risponde a necessità psicologiche bensì ad una sorta di esigenza spirituale. Ogni gesto ripetuto alla perfezione dà l’idea di freschezza e di libertà, di spontaneità ed immediatezza. Il nostro teatro occidentale, invece, non ha mai avuto niente di tutto ciò. E’ un teatro esclusivamente verbale che ignora tutti gli altri elementi che costituiscono il teatro vero e proprio, il teatro puro (movimenti, forme, colori, vibrazioni, atteggiamenti, grida). Questi spettacoli del teatro balinese si avvalgono di un linguaggio di cui noi occidentali abbiamo perso la chiave: con il termine linguaggio, Artaud allude a quel particolare linguaggio teatrale che è estraneo a qualsiasi lingua parlata. I nostri spettacoli, fatti puramente di dialogo verbale, non possono essere paragonati al trionfo della spiritualità e della perfezione del teatro balinese. Anzi, nonostante non siano spettacoli incentrati sul tessuto verbale, l’aspetto più impressionante per noi occidentali è proprio l’intellettualità che si percepisce nella sottile trama dei gesti e nelle modulazioni della voce, nell’uso dello spazio scenico e nell’intreccio dei suoni. Ogni cosa in questo teatro balinese è calcolata con minuzia matematica. Nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione personale. Ed è proprio questa sensazione di vita superiore e perfetta a colpire maggiormente lo spettatore occidentale, che assiste a qualcosa di molto simile ad un Rito piuttosto che ad una rappresentazione. Tuttavia, Artaud arriva anche a fare un’analisi della differenza fra il nostro teatro e quello balinese che prescinde dalla perfezione di quest’ultimo: secondo lui, ciò che più impressione del teatro balinese è comunque l’aspetto rivelatore della materia; essa pare disperdersi in gesti e segni capaci di insegnarci l’identità metafisica del concreto e astratto, e di insegnarcela in gesti fatti per durare. Questo teatro utilizza la Parola prima della parola (impulso psichico segreto). Il teatro balinese è un teatro che elimina l’autore a favore di quello che noi occidentali chiamiamo “regista”: ma il regista diviene una sorta di mago, un maestro di cerimonie sacre. E la materia su cui lavora e i temi che propone vengono forniti dalla natura più primitiva. Per questo in tali spettacoli c’è un qualcosa che supera il “divertimento”, cioè il passatempo inutile ed artificioso: lo spettacolo è un Rito, un momenti di purgazione, di esorcismo. TEATRO ORIENTALE E TEATRO OCCIDENTALE Per noi occidentali la parola è tutto in teatro, e non esiste possibilità di espressione al di fuori di essa; quindi il teatro è una sorta di ramo della letteratura, o comunque ad essa è legato, trasformandosi in una semplice applicazione sonora del linguaggio. Quindi non assistiamo al teatro bensì alla rappresentazione di un testo. Questa idea di supremazia della parola nel teatro è talmente radicata in noi che, secondo Artaud, il teatro ci appare un semplice riflesso materiale del testo, mentre tutto ciò che va oltre il testo ci sembra appartenere al campo della regia, considerata come qualcosa di inferiore al testo. Quindi, vista questa sudditanza del teatro alla parola, ci viene da chiederci se ilt eatro abbia o no un linguaggio proprio (come ha il cinema), se è insomma un’arte indipendente ed autonoma come la musica, la pittura o la danza. Secondo Artaud, questo linguaggio, ammesso che esista, si identifica necessariamente con lo spettacolo, inteso come: 1) materializzazione visuale e plastica della parola; 2) il linguaggio di tutto ciò che si può rappresentare indipendentemente dalla parola. Considerando questo linguaggio dello spettacolo il linguaggio teatrale puro, si tratta poi di scoprire se esso può raggiungere gli stessi obiettivi della parola, cioè verificare se esso è in grado non di precisare pensieri ma di far pensare (cioè indurre lo spirito ad assumere atteggiamenti profondi). In una parola, dice Artaud, porre il problema dell’efficacia intellettuale di un linguaggio che utilizzi solamente forme, rumori, gesti; quindi il problema dell’efficacia intellettuale dell’arte. E’ solo una povertà della nostra cultura occidentale confondere arte ed estetismo, cioè credere che possa versi una pittura che si esaurisca nel dipingere, una danza che si esaurisca nel danzare e, quindi, un teatro che si esaurisca nel visualizzare un testo scritto. L’obiettivo reale del teatro, e questo ce lo insegna proprio il teatro orientale, non è quello di risolvere conflitti sociali o psicologici, bensì esprimere in modo obiettivo verità segrete, di mettere in luce con gesti attivi le verità nascoste. Fare del teatro un’arte capace di esprimere attraverso l’intera drammaturgia della forma equivale a restituirgli la sua dimensione originaria, metafisica e religiosa. BASTA CON I CAPOLAVORI Per Artaud bisogna farla finita con l’idea malsana che i capolavori siano
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