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Il teatro e il suo doppio, Dispense di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Pdf di dispense erogate dal professore

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 14/12/2021

FlavioDG
FlavioDG 🇮🇹

4.3

(41)

45 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Il teatro e il suo doppio e più Dispense in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio Piccola Biblioteca Einaudi Antonin Artaud IL TEATRO E IL SUO DOPPIO Questo volume vuole presentare l'essenziale del pensiero di Artaud nelle sue applicazioni al teatro. Vi figurano oltre al testo ormai classico /] teatro e il suo doppio altri scritti che completano l’immagine del teatro in Artaud: progetti drammatici, progetti di messa in scena, cronache drammatiche, recensioni, articoli. Le idee teatrali di Artaud hanno aperto un campo di esperienze e di ricerche, intorno ad alcune rivendicazioni fondamentali: sollevazione contro la dittatura del testo, coinvolgimento del pubblico, mobilitazione di tutte le energie fisiche attive nello spettacolo e loro codificazione in un linguaggio integrale. Ma per Artaud non si tratta semplicemente di modificare l'equilibrio istituzionale del teatro e di ridefinirlo sotto forma di un nuovo «paradosso sull’attore» (o sul regista). Un testo come // teatro e il suo doppio non appartiene agli uomini di teatro. Molto più che un discorso precettistico su come fare teatro è un’evocazione delle possibilità estreme del teatro, di quella tentazione (o «doppio») di azione assoluta, irreversibile («la crudeltà») che incombe sull’esibizione dei corpi nello spazio scenico. Prefazione di Jacques Derridaf{l} «...la danza | e di conseguenza il teatro | non hanno ancora cominciato ad esistere». Queste le parole che si possono leggere in uno degli ultimi scritti di Artaud (Le théàtre de la cruauté, in «84», 1948). E nello stesso testo, un poco più sopra, il teatro della crudeltà viene definito «l'affermazione | di una tremenda | e del resto ineluttabile necessità». Artaud non invoca dunque una distruzione, una nuova manifestazione della negatività. Malgrado tutte le devastazioni che deve compiere sul suo passaggio, «il teatro della crudeltà | non è il simbolo di un vuoto assente». Fsso afferma, produce l'affermazione nel suo rigore pieno e necessario. Ma anche nel suo senso più recondito, quasi sempre sommerso e distolto da sé: benché «ineluttabile», questa affermazione non ha «ancora cominciato ad esistere». Essa ha da nascere. Ora, una affermazione necessaria non può nascere se non rinascendo a se stessa. Per Artaud, l'avvenire del teatro - dunque l'avvenire in generale - si apre nell’anafora che risale all’imminenza di una nascita. La teatralità deve restaurare e attraversare da parte a parte «esistenza» e «carne». Varrà dunque per il teatro quello che diciamo del corpo. Sappiamo che Artaud viveva nell’'indomani di una perdita di possesso: il suo proprio corpo, la proprietà e l'appropriatezza, la pulizia del suo corpo gli erano state sottratte alla nascita da quel dio predatore che è nato a sua volta «nel suo farsi passare | per me» (ibid.){2}. Allo stesso modo, il teatro occidentale è stato separato dalla forza della sua essenza, allontanato dalla sua essenza affermativa, dalla sua vis affirmativa. E questa destituzione si è prodotta fin dall'origine, è il movimento stesso dell'origine, della nascita come morte. Ecco perché c’è un «posto vuoto» che «rimane su tutte le scene di un teatro nato morto» (Le théàtre et l’anatomie, in «La Rue», luglio 1946). Il teatro è nato nella sua propria sparizione e il germoglio di questo movimento ha un nome, è l’uomo. Al teatro si è sempre chiesto di fare qualcosa per cui non era fatto: «L'ultima parola sull'uomo non è stata detta. Il teatro non è mai stato fatto per descrivere l’uomo e quello che fa... E il teatro è questo pupazzo disarticolato, che musica di torsi in reste metalliche di reticolati ci tiene in stato di guerra contro l’uomo che ci fasciava... L'uomo è a mal partito in Eschilo, ma ancora si crede un po’ dio e non vuole entrare nella membrana, e in Euripide finalmente diguazza nelle membrane, dimenticando dove e quando egli fu dio» (ibid.). È dunque necessario risvegliare, ricostituire la vigilia di questa origine del teatro occidentale, declinante, decadente, negativo, per rianimare al suo oriente la necessità ineluttabile dell’affermazione. Necessità ineluttabile di una scena ancora inesistente, è vero, ma l'affermazione non è da inventare domani, in qualche «nuovo teatro». La sua necessità ineluttabile opera come una forza permanente. La crudeltà è sempre all'opera. Il vuoto, il posto vuoto e pronto per un teatro che ancora non ha «cominciato ad esistere», misura solo la strana distanza che ci divide dalla necessità ineluttabile, dell’opera presente (o meglio attuale, attiva) dell’affermazione. È nell'apertura unica di questo scarto che la scena della crudeltà proietta per noi il suo enigma. Ed è in questa direzione che procederemo ora. Se oggi, nel mondo intero - e ne abbiamo un gran numero di flagranti testimonianze - ogni audacia teatrale dichiara, a torto o a ragione ma con sempre maggiore insistenza, la sua fedeltà ad Artaud, la questione del teatro della crudeltà, della sua inesistenza presente e della sua ineluttabile necessità, ha valore di questione storica. Storica non perché si presti ad essere inscritta entro quella che viene chiamata la storia del teatro, non perché faccia epoca nel divenire delle forme teatrali o perché occupi un suo posto nella successione dei modelli di rappresentazione teatrale. È una questione storica in senso assoluto e radicale. Perché annuncia il limite della rappresentazione. Il teatro della crudeltà non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile. La vita è l'origine non rappresentabile della rappresentazione. «Ho detto “crudeltà” come avrei detto “vita”» (1932; da Euvres complètes, Gallimard, Paris 1956-66, t. IV, p. 137 [p. 228 in questo volume]). Vita che porta l’uomo ma che non è in primo luogo la vita dell'uomo. L'uomo non è che una rappresentazione della vita e tale è il limite - umanistico - della metafisica del teatro classico. «Possiamo dunque rimproverare al teatro, quale oggi si pratica, una spaventosa mancanza di immaginazione. Il teatro deve farsi uguale alla vita, non alla vita individuale, a quell’aspetto individuale della vita in cui trionfano i caratteri, ma a una sorta di vita liberata, che spazza via l’individualità umana e in cui l’uomo non è più che un riflesso» (IV, p. 139 [p. 230]). La forma più ingenua della rappresentazione non è forse la mimesis? Come Nietzsche - ma le affinità non si limitano a questo - Artaud vuole dunque rompere con la concezione imitativa dell’arte. Con l'estetica aristotelica3} nella quale ha potuto riconoscersi la metafisica occidentale dell’arte. «L'arte non è l'imitazione della vita, ma la vita è l'imitazione di un principio trascendente col quale l’arte ci rimette in comunicazione» (IV, p. 310). come dicono Nietzsche e Artaud - che assistono a uno spettacolo privo di volume e di profondità autentici, piatto, offerto al loro sguardo di voyeur. (Nel teatro della crudeltà, la pura visibilità non è suscettibile di voyeurismo). Questa struttura generale in cui ciascuna istanza è legata da un rapporto di rappresentazione a tutte le altre, in cui l’irrappresentabile del presente vivo è dissimulato o dissolto, eliso o convogliato nella catena infinita delle rappresentazioni, questa struttura non è mai stata modificata. Tutte le rivoluzioni l'hanno lasciata intatta, hanno anzi il più delle volte mirato a proteggerla o a restaurarla. È sempre il testo fonetico, la parola, il discorso trasmesso - eventualmente dal suggeritore che con la sua buca è il centro nascosto ma indispensabile della struttura rappresentativa - a garantire il movimento della rappresentazione. Per quanto rilievo possano assumere, tutte le forme pittoriche, musicali e perfino gestuali introdotte nel teatro occidentale non fanno altro, nel migliore dei casi, che illustrare, accompagnare, servire, abbellire un testo, un tessuto verbale, un logos che si dice in partenza. «Se dunque l’autore è colui che dispone del linguaggio della parola, e se il regista è il suo schiavo, ci troviamo di fronte a un semplice problema di parole. C'è una confusione di termini, dovuta al fatto che, per noi, e stando al senso che generalmente viene attribuito a questo termine di regista (metteur en scène), quest’ultimo altro che un artigiano, un adattatore, una sorta di traduttore destinato eternamente a trasferire un’opera drammatica da un linguaggio in un altro; e una simile confusione sarà possibile - e il regista sarà costretto a eclissarsi di fronte all'autore - solo finché si continuerà a dare per scontato che il linguaggio delle parole è superiore agli altri, e che il teatro non ammette al di fuori di esso altro linguaggio» (IV, p. 143 [p. 233]). Il che non implica, ben inteso, che sia sufficiente, per essere fedeli a Artaud, dare grande importanza e grandi responsabilità «al regista», conservando intatta la struttura classica. Attraverso le parole (o piuttosto attraverso l’unità di parole e concetto, come diremo più avanti, e la precisazione risulterà importante) e sotto l'ascendente ideologico di quel «Verbo [che] dà la misura della nostra impotenza» (IV, p. 277) e della nostra paura, è la scena stessa che si trova minacciata lungo tutta la tradizione occidentale. L'Occidente - e in ciò starebbe l'energia della sua essenza - non avrebbe mai cessato di lavorare all’obliterazione della scena. Perché una scena che si limita a illustrare un discorso non è più propriamente una scena. Il rapporto che la lega alla parola è la sua malattia e «noi ripetiamo che la nostra epoca è malata» (IV, p. 280). Ricostituire la scena, mettere finalmente in scena e rovesciare la tirannia del testo, è dunque un solo e medesimo gesto. «Trionfo della pura messa in scena» (IV, p. 305). L’oblio classico della scena farebbe dunque tutt'uno con la storia del teatro e con tutta la cultura dell'Occidente, avrebbe anzi reso possibile il loro espandersi. E tuttavia, nonostante questo oblio, il teatro e la messa in scena hanno conosciuto per più di venticinque secoli una ricchissima esistenza: esperienza di trasformazioni, e di rivolgimenti che non è possibile trascurare, malgrado l’imperturbata e impassibile immobilità delle strutture di base. Non si tratta dunque semplicemente di un oblio, o di una semplice sovrapposizione superficiale. Una certa scena ha mantenuto con la scena «dimenticata» ma in effetti violentemente cancellata, una comunicazione segreta, un certo rapporto di tradimento, se tradire è snaturare per infedeltà ma anche, malgrado tutto, lasciar tradurre e manifestare il fondo della forza. Si spiega così che il teatro classico, agli occhi di Artaud, non sia semplicemente l'assenza, la negazione o l'oblio del teatro, non sia un non- teatro: ma piuttosto un’obliterazione che lascia leggere ciò che essa ricopre, una corruzione anche e una «perversione», una seduzione, lo scarto di un’aberrazione il cui senso e la cui misura appaiono solo a monte della nascita, nell’antecedenza della rappresentazione teatrale, all'origine della tragedia. In direzione, ad esempio, dei «Misteri Orfici che affascinavano Platone», dei «Misteri di Eleusi» spogliati delle interpretazioni a cui si sono potuti sottoporre, in direzione di quella «bellezza pura di cui Platone ha dovuto incontrare almeno una volta in questo mondo la realizzazione completa, sonora, fluente e spoglia» (IV. p. 63 [p. 169]). Ed è appunto di perversione, non di oblio, che parla Artaud, per esempio in questa lettera a Benjamin Crémieux (1931): «Il teatro, arte indipendente e autonoma, non può esimersi, per resuscitare, o semplicemente vivere, dal mettere in evidenza ciò che lo differenzia dal testo, dalla parola pura, dalla letteratura, e da tutti gli altri mezzi scritti e stabilizzati. Si può benissimo continuare a concepire un teatro basato sulla preponderanza del testo, e su un testo sempre più verbale, prolisso e massiccio, al quale l'estetica della scena dovrebbe essere subordinata. Ma questa concezione che consiste nel mettere a sedere dei personaggi su un certo numero di sedie e di poltrone disposte in fila e nel raccontarsi delle storie, meravigliose finché si vuole, non è forse la negazione assoluta del teatro,... sarebbe piuttosto la sua perversione». Liberata dal testo e dal dio-autore, la messa in scena verrebbe dunque restituita alla sua libertà creatrice e instauratrice. Il regista e i partecipanti (che non sarebbero più attori o spettatori) cesserebbero di essere strumenti e organi della rappresentazione. Questo significa forse che Artaud si sarebbe rifiutato di dare il nome di rappresentazione al teatro della crudeltà? No, purché ci si intenda bene sul senso difficile ed equivoco di questa nozione. Certo, la scena non rappresenterà più, poiché non verrà più ad aggiungersi come un’illustrazione sensibile a Si intravvede così il senso della crudeltà come necessità e rigore. Artaud ci invita, è vero, a non pensare sotto il termine crudeltà niente altro che «rigore, applicazione e decisione implacabile», «determinazione irreversibile», «determinismo», «sottomissione alla necessità» ecc., e non necessariamente «sadismo», «orrore», «versamento di sangue», «nemico crocefisso» (IV, p. 120 [pp. 216-217]), ecc. (e certi spettacoli che oggi si pongono sotto il segno di Artaud sono forse violenti, o anche sanguinosi, ma non sono per questo crudeli). Tuttavia un’uccisione è sempre all'origine della crudeltà, della necessità che ha nome crudeltà. E in primo luogo un parricidio. L'origine del teatro, quale deve essere restaurata, è una mano protesa contro il detentore abusivo del logos, contro il padre, contro il Dio di una scena soggetta al potere della parola e del testo. «Per me nessuno ha il diritto di dirsi autore, e cioè creatore, se non colui cui spetta il trattamento diretto della scena. È appunto questo il punto vulnerabile del teatro quale viene considerato non soltanto in Francia, ma in Europa, e anzi in tutto l'Occidente: il teatro occidentale non riconosce come linguaggio, non attribuisce le proprietà e le virtù di linguaggio, non permette che si chiami linguaggio, con quella sorta di dignità intellettuale che si attribuisce generalmente a questo termine, se non al linguaggio articolato, grammaticalmente articolato, vale a dire al linguaggio della parola, della parola scritta che, pronunciata o no, non ha più valore di quanto ne avrebbe se fosse soltanto scritta. Nel teatro quale viene concepito da noi [a Parigi, in Occidente] il resto è tutto» (IV, p. 141 [pp. 231-32]). Che cosa diventerà allora la parola nel teatro della crudeltà? Dovrà semplicemente tacere o sparire? Niente affatto. La parola cesserà di dominare la scena ma sarà presente. Vi occuperà un posto rigorosamente delimitato, avrà una funzione entro un sistema al quale sarà ordinata. Sappiamo infatti che le rappresentazioni del teatro della crudeltà dovevano essere minuziosamente studiate in partenza. L'assenza dell'autore e del suo testo non lascia la scena in una condizione di abbandono. La scena non è disertata, esposta all’anarchia improvvisatrice, alla «vaticinazione aleatoria» (I, p. 239) alle «improvvisazioni di Copeau» (IV. p. 131 [p. 224]), all’«empirismo surrealista» (IV, p. 313), alla commedia dell'Arte o «al capriccio dell’ispirazione incolta» (ibid.). Tutto sarà dunque prescritto in una scrittura e in un testo la cui trama non assomiglierà più al modello della rappresentazione classica. Quale posto verrà dunque assegnato alla parola da questa necessità della prescrizione, che è invocata dalla crudeltà? La parola e la sua notazione - la scrittura fonetica, elemento del teatro classico - la parola e la sua scrittura non saranno abolite sulla scena della crudeltà se non nella misura in cui esse presumevano di essere un dettato: insieme citazione, recitazione e ordine. Il regista e l'attore non riceveranno più un dettato. «Rinunceremo alla superstizione teatrale del testo e alla dittatura dello scrittore» (IV, p. 148 [p. 237]). È la fine anche della dizione, che faceva del teatro un esercizio di lettura. Fine di ciò che «fa dire a certi amatori di teatro che un lavoro drammatico quando se ne dà lettura offre soddisfazioni più precise e maggiori dello stesso lavoro quando viene rappresentato» (IV, p. 141 [p. 232]). Come funzioneranno allora la parola e la scrittura? Ridiventando gesti: sarà ridotta o subordinata l'intenzione logica e discorsiva che fa assumere alla parola la sua trasparenza razionale e dissolve il suo corpo in direzione del senso, lascia che stranamente si sovrapponga ad esso il suo stesso costituirsi come qualcosa di diafano: decostituendo questo diafano, si mette a nudo la carne della parola, la sua sonorità, la sua intonazione, la sua intensità, il grido che l'articolazione della lingua e della logica non è ancora arrivata a raggelare del tutto, quel tanto di gesto oppresso che resta sempre nella parola, quel movimento unico e insostituibile che la generalità del concetto e della ripetizione non ha mai finito di rifiutare. Sappiamo quale valore Artaud attribuiva a ciò che viene definito - impropriamente in questo caso - onomatopea. La glossopoiesi, che non è un linguaggio imitativo né una creazione di nomi, ci riconduce su/ limite del momento in cui la parola non è ancora nata, quando l’articolazione non è già più il grido ma non è ancora il discorso, quando la ripetizione è quasi impossibile, e insieme con essa la lingua in generale: la separazione tra concetto e suono, tra significato e significante, tra pneumatico e grammatico, la libertà della traduzione e della tradizione, il movimento dell’interpretazione, la differenza tra l’anima e il corpo, il padrone e lo schiavo, Dio e l’uomo, l’autore e l'attore. È l’imminenza dell'origine delle lingue e di quel dialogo tra la teologia e l’umanesimo che la metafisica del teatro occidentale ha continuato a tenere aperto in un’inesauribile rimuginazionet5Ì, Si tratta dunque di costruire, più che una scena muta, una scena il cui clamore non si sia ancora placato nelle parole. Le parole sono il cadavere della parola psichica e occorre ritrovare, col linguaggio stesso della vita, «la Parola che è prima delle parole»iSì. Non è ancora intervenuta la logica della rappresentazione a separare il gesto dalla parola. «Aggiungo al linguaggio parlato un altro linguaggio, e cerco di restituire al linguaggio della parola, le cui misteriose risorse sono state dimenticate, la sua antica efficacia magica, la sua efficacia fascinatrice, integrale. Quando dico che non darò un testo scritto, voglio dire che non darò un testo drammatico basato sulla scrittura e sulla parola, che negli spettacoli che allestirò ci sarà una parte fisica preponderante, tale da non lasciarsi fissare e scrivere nel linguaggio abituale delle parole; e che bisognerà trovare modi nuovi di registrare questo linguaggio, sia che ci si accosti ai modi della trascrizione musicale sia che si ricorra I una sorta di linguaggio cifrato. Per quanto concerne gli oggetti ordinari e anche il corpo umano, innalzati a dignità di segni, è evidente che ci si può ispirare ai caratteri geroglifici...» (IV. p. 112 [p. 209]). «Leggi eterne, che sono quelle di ogni poesia e di ogni linguaggio vitale; e fra l’altro, degli ideogrammi della Cina e degli antichi geroglifici egiziani. Lungi dunque dal ridurre le possibilità del teatro e del linguaggio solo perché non voglio dare testi drammatici scritti, io estendo il linguaggio della scena, ne moltiplico le possibilità» (p. 133 [p. 225]). Artaud ha avuto cura tuttavia di prendere distanza nei confronti della psicoanalisi e soprattutto nei confronti dello psicoanalista, di colui che della psicoanalisi crede di potere svolgere il discorso, di detenerne l’iniziativa e il potere di iniziazione. Perché il teatro della crudeltà è si un teatro del sogno ma del sogno crudele, vale a dire assolutamente necessario e determinato, di un sogno calcolato, controllato, in contrapposizione a quello che Artaud considerava il disordine empirico del sogno spontaneo. Nel trattamento teatrale del sogno, «Poesia e scienza devono ormai identificarsi» (p. 163 [p. 249]). Si deve, certo, procedere secondo questa magia moderna che è la psicoanalisi: «Propongo che si ritorni in teatro a quell'idea magica elementare, ripresa dalla psicoanalisi moderna» (p. 90 [p. 197]). Ma non bisogna cedere a quello che Artaud crede essere il brancolamento del sogno e dell'inconscio: «Propongo che si rinunci a quell’empirismo delle immagini che il sogno arreca in modo casuale e che vengono emesse in modo altrettanto casuale sotto il nome di immagini poetiche» {ibid.). Proprio perché vuole «vedere irradiarsi e trionfare sulla scena» «ciò che appartiene all’illeggibilità e alla fascinazione magnetica dei sogni» (II, p. 23 [p. 13]), Artaud rifiuta dunque lo psicoanalista come interprete, commentatore secondo, ermeneuta o teorico. Avrebbe respinto un teatro psicoanalitico con lo stesso vigore con cui condannava il teatro psicologico. E per le stesse ragioni: rifiuto dell’interiorità segreta, del lettore, dell’interpretazione direttiva o della psicodrammaturgia. «Sulla scena l'inconscio non avrà un ruolo specifico. È già abbastanza grande la confusione che esso produce, a cominciare dall'autore, poi da parte del regista e degli attori, e fino agli spettatori. Tanto peggio per gli analisti, i cultori dell'anima e i surrealisti... I drammi che noi daremo si pongono decisamente al riparo da qualsiasi commentatore segreto» (II, p. 45 [p. 31]){®}. Per la sua posizione e il suo statuto, lo psicoanalista appartiene alla struttura della scena classica, alla sua forma di socialità, alla sua metafisica, alla sua religione ecc. Il teatro della crudeltà non sarà dunque un teatro dell'inconscio. Quasi il contrario. La crudeltà è la coscienza, è la lucidità esposta. «Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata». E questa coscienza ha vita da un assassinio, è la coscienza dell'assassinio. È quanto accennavamo poco più sopra. Artaud lo dice nella Prima lettera sulla crudeltà: «È la coscienza a conferire all'esercizio di qualsiasi atto della vita un colore di sangue, una nota crudele, poiché è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno» (IV, p. 121 [p. 217]). Forse è anche contro una certa descrizione freudiana del sogno come adempimento sostitutivo del desiderio, come funzione vicariale, che insorge Artaud quando vuole attraverso il teatro restituire al sogno la sua dignità e farne qualcosa di più originario, di più libero, di più affermatore, che un'attività seconda di sostituzione. Forse è contro una certa immagine che egli si faceva del pensiero freudiano, che scrive nel Primo manifesto: «Ma considerare il teatro una funzione psicologica o morale di seconda mano, e credere che i sogni stessi non siano altro che una funzione sostitutiva, significa diminuire la portata poetica profonda sia dei sogni che del teatro» (p. 110 [p. 207]). Infine un teatro psicoanalitico rischierebbe di essere dissacrante, di corroborare l'Occidente, se è vero che nel suo progetto il teatro della crudeltà è un teatro ieratico. La regressione verso l'inconscio (cfr. IV, p. 57 [p. 164]) fallisce se non risveglia il sacro, se non è esperienza «mistica» della «rivelazione», della «manifestazione» della vita, nel suo emergere primo‘10, Abbiamo visto per quali ragioni i geroglifici dovevano sostituirsi ai segni puramente fonici. Occorre aggiungere che questi ultimi comunicano meno dei primi con l'immaginazione del sacro. «E io voglio [in un altro passo Artaud dice “io posso”] col geroglifico di un soffio ritrovare un’idea del teatro sacro» (IV. pp. 182 [p. 262], e 163 [p. 249])). Una nuova epifania del soprannaturale e del divino deve prodursi nella crudeltà. Non malgrado ma grazie all’estromissione di Dio e alla distruzione della meccanica teologica del teatro. Il divino è stato corrotto da Dio. Vale a dire dall'uomo, il quale, lasciando che Dio lo separasse dalla Vita, lasciando usurpare la propria nascita, è divenuto uomo per avere macchiato la divinità del divino: «Poiché lungi dal ritenere il soprannaturale, il divino invenzione dell’uomo, io penso che l'intervento millenario dell’uomo ha finito per corrompere il divino» (IV, p. 13 [p. 128]). La restaurazione della divina crudeltà passa dunque attraverso l'uccisione dell’uomo, di Dio, e cioè in primo luogo, dell’uomo-Diot1tà, Forse potremmo ora domandarci non già a quali condizioni un teatro moderno può essere fedele a Artaud, ma in quali casi gli è certamente infedele. Quali possono essere i temi dell’infedeltà, anche in coloro che si richiamano a Artaud nelle forme militanti e clamorose che conosciamo? Ci accontenteremo di nominare questi temi. È senza alcun dubbio estraneo al teatro della crudeltà: l’happening sostituisce l’agitazione politica a quella rivoluzione totale che prescriveva Artaud. La festa deve essere un atto politico. 5. Qualsiasi teatro non-politico. Vogliamo dire che la festa deve essere un atto politico e non la trasmissione più o meno eloquente, pedagogica, educata di un concetto o di una visione politico-morale del mondo. Per riflettere - ma non ci è possibile farlo in questa sede - il senso politico di questo atto e di questa festa, l’immagine della società che attrae il desiderio di Artaud, dovremmo evocare, riscontrandovi la più grande divergenza all’interno di un’affinità estrema, il modo in cui Rousseau mette in rapporto la critica dello spettacolo classico, l'ideale della festa pubblica sostituita alla rappresentazione, con un certo modello di società perfettamente presente a se stessa, in piccole comunità che rendano inutile e nefasto, nei momenti decisivi della vita sociale, il ricorso alla rappresentazione. Alla rappresentazione, cioè alla supplenza, alla delega sia politica che teatrale. Se ne potrebbe dare una dimostrazione precisa: è in generale sulla figura del rappresentante - qualunque cosa egli rappresenti - che Rousseau rivolge il suo sospetto nel Contratto sociale come nella Lettera a d’Alembert, dove egli propone di sostituire alle rappresentazioni teatrali delle feste pubbliche senza esposizione e senza spettacolo, senza «niente da vedere», e nelle quali gli spettatori diventeranno attori essi stessi: «Ma che oggetto avranno insomma questi spettacoli? Niente, se si vuole... Piantate in mezzo a una piazza un pennone inghirlandato di fiori, chiamate a raccolta il popolo, e avrete una festa. Fate di meglio ancora: date gli spettatori in spettacolo; trasformateli in attori». 6. Qualsiasi teatro ideologico, qualsiasi teatro di cultura, qualsiasi teatro di comunicazione, di interpretazione (nel senso corrente e non nel senso nietzschiano del termine, ben inteso), che cerchi di trasmettere un contenuto, di diffondere un messaggio (quale che ne sia la natura: politica, religiosa, psicologica, metafisica, ecc.), che dia da leggere a un uditorio il senso di un discorso413%, che non si esaurisca completamente con l’atto e col tempo presente della scena, che non si confonda con essa, che possa essere ripetuto senza di essa. Questo punto sembra costituire l'essenza profonda del progetto di Artaud, la sua decisione storico-metafisica. Artaud ha voluto dissolvere la ripetizione in generale. La ripetizione era per lui il male: intorno a questo centro si potrebbe organizzare tutta una lettura dei suoi testi. La ripetizione separa da se stessa la forza, la presenza, la vita. Questa separazione è il gesto economico e calcolatore di ciò che si differisce per conservarsi, di ciò che riserva il dispendio e cede alla paura. Questa potenza della ripetizione ha presieduto a tutto ciò che Artaud si è proposto di distruggere, e ha vari nomi: Dio, l’Essere, la Dialettica. Dio è l'eternità in cui la morte si protrae indefinitamente, in cui la morte come differenza e ripetizione nella vita, non finisce mai di minacciare la vita. Non è il Dio vivente, è il Dio-Morte che noi dobbiamo temere. Dio è la Morte. «Poiché anche l'infinito è morto | infinito è il nome di un morto | che non è morto» (in «84»). Non appena si ha ripetizione, c’è Dio, il presente si tiene in serbo, si riserva, vale a dire si sottrae a se stesso. «Lassoluto non è un essere e non lo sarà mai perché non può esserlo senza crimine contro di me, cioè senza strappare a me un essere, che ha voluto un giorno essere dio mentre questo non è possibile, perché dio non può manifestarsi tutto in una volta, dato che egli si manifesta una quantità infinita di volte in tutte le volte dell'eternità nell'infinito delle volte e dell'eternità, e ciò dà luogo al perpetuo» (1945). Altro nome della ripetizione rappresentativa: l’Essere. I'Essere è la forma sotto la quale indefinitamente la diversità infinita delle forme e delle forze di vita e di morte può mescolarsi e ripetersi nelle parole. L’Essere è la parola chiave della ripetizione eterna, la vittoria di Dio e della Morte sul vivere. Come Nietzsche (per esempio nella Nascita della filosofia) Artaud rifiuta di sussumere la Vita sotto l’Essere e inverte l'ordine della genealogia: «In primo luogo vivere ed essere secondo la propria anima, il problema dell'essere non è che la conseguenza di questo» (1945). Infine la Dialettica è il movimento attraverso il quale il dispendio è recuperato nella presenza; è l'economia della ripetizione. L'economia della verità. La ripetizione riassume la negatività, raccoglie e serba il presente passato come verità, come idealità. Il vero è sempre ciò che si lascia ripetere. La non-ripetizione, il dispendio risoluto e senza riscatto nell'unica volta che consuma il presente, deve porre fine alla discorsività spaurita, all’ontologia incollocabile, alla dialettica, «perché la dialettica... una certa dialettica... è ciò che mi ha perduto...» (1945). La dialettica è sempre ciò che ci ha perduti perché è ciò che sempre tiene conto del nostro rifiuto. Come della nostra affermazione. Rifiutare la morte come ripetizione, è affermare la morte come dispendio presente e senza riscatto. E inversamente. È uno schema che incombe sulla ripetizione nietzschiana dell’affermazione. Il dispendio puro, la generosità assoluta che offre l’unicità del presente alla morte per fare apparire il presente come tale, ha già cominciato a voler serbare la presenza del presente, ha già aperto il libro e la memoria, il pensiero dell'essere come memoria. Non voler serbare il presente, è voler preservare ciò che costituisce la sua insostituibile e mortale presenza, ciò che in esso non si ripete. Godere della differenza pura. Tale sarebbe, ridotta al suo disegno esangue, la matrice della storia del pensiero quale si pensa da Hegel in poi. La possibilità del teatro è il fulcro obbligato di questo pensiero che riflette la tragedia come ripetizione. In nessun luogo la minaccia della ripetizione è così bene organizzata come nel teatro. In nessun luogo si è così prossimi alla differenza, della ripetizione originaria, vale a dire l'origine della tragedia come assenza di origine semplice. In questo senso la dialettica è la tragedia, la sola affermazione possibile contro l’idea filosofica o cristiana dell'origine pura, contro lo «spirito dell'origine»: «Ma lo spirito dell'origine non ha cessato di farmi fare delle sciocchezze e io non ho cessato di dissociarmi dallo spirito dell'origine che è lo spirito cristiano» (1945). Artaud sapeva che il teatro della crudeltà non comincia né si attua nella purezza della presenza semplice ma già nella rappresentazione, nel «secondo tempo della Creazione», nel conflitto delle forze che non ha potuto essere un'origine semplice e nel quale la crudeltà può si cominciare a esercitarsi, ma deve anche in qualche modo lasciarsi smussare. L'origine è sempre smussata. Tale è l'alchimia del teatro: «Forse, prima di andare oltre, qualcuno ci potrebbe domandare che cosa intendiamo per teatro tipico e primitivo. Ed entreremo così nel cuore stesso del problema. Se infatti si pone la questione delle origini e della ragione d’essere (o della necessità primordiale) del teatro, troviamo da un lato e sul piano metafisico, la materializzazione, o piuttosto l’esteriorizzazione di una sorta di dramma essenziale che contiene, in forma insieme molteplice e unitaria, i principi essenziali di ogni dramma, già orientati e divisi, non tanto da perdere il loro carattere di principi, ma quanto basta per contenere in modo sostanziale e attivo, cioè pieno di risonanze, infinite prospettive di conflitto. Analizzare filosoficamente un tale dramma è impossibile, e solo sul piano poetico... E questo dramma essenziale - ce ne rendiamo conto perfettamente - esiste, ed è a immagine di qualcosa di più sottile della Creazione stessa, che dobbiamo pure rappresentarci come il prodotto di una Volontà unitaria - e senza conflitto. Dobbiamo pensare che il dramma essenziale, il dramma che era alla base di tutti i Grandi Misteri, sposa il secondo tempo della Creazione, quello della difficoltà e del Doppio, quello della materia e del condensarsi dell'idea. Si direbbe che là dove regnano la semplicità e l'ordine non possa esserci teatro né dramma, e il vero teatro nasce, come del resto la poesia, ma per altre vie, da un’anarchia che si organizza...» (IV. pp. 60-62 [p. 167]). Dunque anche il teatro primitivo e la crudeltà cominciano con la ripetizione. Ma l’idea di un teatro senza rappresentazione, l’idea dell’impossibile, se non ci aiuta a organizzare la pratica teatrale, ci permette forse di pensarne l'origine, l’imminenza e il limite, di pensare oggi il teatro a partire dall'apertura della sua storia e nell'orizzonte della sua morte. Lenergia del teatro occidentale si lascia così circoscrivere nella sua possibilità, che non è accidentale, che è per tutta la storia dell'Occidente un centro costitutivo e un luogo strutturantef15ì, Artaud si è tenuto nell’estrema prossimità del limite: la possibilità e l'impossibilità del teatro puro. La presenza, per essere presenza e presenza a sé, ha già cominciato da sempre a rappresentarsi, da sempre è già stata smussata. L'affermazione stessa deve smussarsi ripetendosi. Ciò significa che l'uccisione del padre che apre la storia della rappresentazione e lo spazio della tragedia, l'uccisione del padre che Artaud vuole in sostanza ripetere nella massima prossimità alla sua origine ma in una sola volta, questa uccisione non ha fine e si ripete indefinitamente. Essa comincia col ripetersi. Si smussa nel commento dl se stessa. In questo senso, si potrebbe dire che Artaud, su questo versante del limite, e nella misura in cui ha voluto salvare la purezza di una presenza senza differenza interna e senza ripetizione (0, ciò che paradossalmente diventa la stessa cosa, di una differenza pura'!8ì), ha desiderato l'impossibilità del teatro, ha voluto, proprio lui, cancellare la scena, non vedere più quello che accade in una località sempre abitata o insidiata dal padre e soggetta al ripetersi dell'uccisione. Non è forse Artaud che vuole ridurre l'archiscena quando scrive in Ci-gît: «Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, | mio padre, mia madre | e io»? Di essersi posto al limite della possibilità teatrale, e avere voluto insieme produrre e annientare la scena, egli aveva la nozione più acuta. Dicembre 1946: E ora, dirò una cosa che potrà forse sbalordire molte persone, io sono il nemico del teatro lo sono sempre stato. Quanto io amo il teatro, Tanto io sono, per questa ragione stessa, il suo nemico. Come si vede chiaramente subito dopo, è al teatro come ripetizione che egli non può rassegnarsi ed è al teatro come non-ripetizione che non può rinunciare: Il teatro è uno straripamento passionale, uno spaventevole transfert di forza dal corpo al corpo Questo transfert non può riprodursi due volte. Non c'è nulla di più empio del sistema dei Balinesi che consiste, dopo avere una volta prodotto quel transfert, invece di ricercarne un altro nel ricorrere a un sistema particolare di sortilegi per privare la fotografia astrale dei gesti ottenuti. Il teatro come ripetizione di ciò che non si ripete, il teatro come ripetizione originaria della differenza nel conflitto delle forze, dove «il male è la legge permanente, e ciò che è bene è uno sforzo e già una crudeltà aggiunta all'altra», tale è il limite di una crudeltà che comincia dalla sua propria rappresentazione. La rappresentazione non ha dunque fine. Ma è possibile pensare la chiusura di ciò che non ha fine. La chiusura è il limite circolare all’interno del quale la ripetizione della differenza si ripete indefinitamente. Vale a dire il suo spazio di gioco. Questo movimento è il movimento del mondo all'esistenza di tutti, non ha impedito gli atteggiamenti agiografici, il proliferare di una mediocre aneddotica, patetica o pittoresca, e l’intemperanza delle diagnosi postume sul versante clinico: fenomeni tanto più invadenti - e tanto più incongrui - quanto più rigoroso e approfondito si va facendo, negli anni, l'interesse per il pensiero di Artaud, e quanto più vasta è la consapevolezza della sua importanza. La situazione è in parte analoga - e questo è più grave - dal punto di vista bibliografico. Scritti inediti, frammenti e lettere continuano a uscire sporadicamente su riviste. L'edizione delle Euvres complètes intrapresa nel 1956 presso Gallimard e fornita di un sempre più ampio corredo di note, è arrivata nel 1971 al IX volume, che comprende Les Tarahumaras e le Lettres de Rodez (1945), mentre un X volume è annunciato. Sempre presso Gallimard sono usciti: nel 1969 la raccolta di Lettres à Gènica Athanasiou; e nel 1970 una nuova edizione del I volume delle opere, notevolmente arricchita e accompagnata da un volume supplementare (Supplément au Tome premier), contenente lettere e testi. Alcuni tra i contributi più importanti dal punto di vista delle conoscenze biografiche e bibliografiche si trovano in: «K» («Revue de la poesie»), n. 1-2, giugno 1948 (testi di Artaud e testimonianze); «Revue 84» (testi di Artaud e testimonianze nel fascicolo 5-6 e in diversi fascicoli, tra il 1948 e il 1950); «France-Asie», n. 30, settembre 1948 (Hommage à Antonin Artaud: testimonianze e documenti inediti); André Frank, Antonin Artaud, in «La Revue Théatrale», a. V, n. 13, estate 1950, pp. 26-37; Paul Arnold, Note biographique e Bibliographie, in Lettres d’Antonin Artaud à Jean-Louis Barrault, préface de Paul Arnold et note liminaire d’André Frank, ed. Bordas («Documents de la Revue Théàatrale»), Paris 1952; Marie-Ange Malausséna (la sorella di Artaud), Antonin Artaud, in «La Revue Théatrale» a. VIII, n. 23, 1953, pp. 39-57; «Cahiers de la Compagnie Renaud-Barrault», n. 22-23 (Antonin Artaud et le théàtre de notre temps), maggio 1958 (comprende tra l’altro: Paule Thévenin, 1896-1948 [nota biografica, pp. 17- 45] e Jean Capin, Bibliographie des écrits sur Antonin Artaud [pp. 216-219]); «La Tour de Feu», n. 63-64 (Antonin Artaud ou la santé des poètes), dicembre 1959 (comprende tra l’altro: Marie-Ange Malausséna, Note bio- bibliographique [pp. 79-82] e Jean Digot, Derniers écrits sur Artaud [pp. 83-84]); Georges Charbonnier, Essai sur Antonin Artaud, Seghers («Poètes d’aujourd’hui», n. 66), Paris 1959; Jean Hort, Antonin Artaud le suicidé de la société, ed. Connaître, Genève 1960; «La Tour de Feu», n. 69, aprile 1961 (numero dedicato nella prima parte a testi di e su Artaud); «Tel Quel», n. 20, inverno 1965 (comprendente undici lettere di Artaud ad Anais Nin, due studi di J. Derrida e Ph. Sollers, e un articolo biografico di Paule Thévenin: Antonin Artaud dans la vie); Otto Hahn, Portrait d’Antonin Artaud, Ed. Le Soleil Noir, Paris 1968; «Cahiers de la Compagnie Rénaud-Barrault», n. 69, 1969 (riedizione parziale e arricchita dei contributi compresi nel fascicolo n. 22-23, già citato); Daniel Joski, Antonin Artaud, Editions Universitaires («Classiques du XX siècle», n. 109), Paris 1970 (succinta monografia, corredata di cronologia, bibliografia e repertori); Alain Virmaux, Antonin Artaud et le théatre, Seghers, Paris 1970 (studio sistematico e comparativo, con lettere inedite, testi rari, bibliografia); Jean-Louis Brau, Antonin Artaud, Ed. de la Table Ronde, Paris 1971 (la biografia più particolareggiata, al momento attuale). Su Artaud regista, a parte i progetti di messinscena per da Sonate des Spectres di Strindberg e Le Coup de Trafalgar di Vitrac (tradotti in questo volume), la documentazione vera e propria è, naturalmente, scarsa. Alcune fotografie delle scene di Les Cenci sono state pubblicate sulla rivista «La Béte Noire» nel 1935, e riprese nel 1948 dalla rivista «K». Inoltre, in «Cahiers de la Compagnie Renaud-Barrault», n. 51, novembre 1965, sono riprodotte (pp. 20-37) le Notes de mise en scène d’Antonin Artaud pour «Les Cenci», per la scena III dell'atto I (scena del banchetto). Biografia di Artaud. Antonin Artaud nacque a Marsiglia il 4 settembre 1896. Suo padre, che portava il nome di Antoine-Roi, apparteneva a una famiglia di armatori e commercianti. Sua madre, Euphrasie Nalpas, proveniva da una famiglia di origine greca, che si era da tempo fissata a Smirne. Il rapporto filiale e la stessa nascita furono per Artaud un tema di rivolta non biografica ma metafisica; della sua infanzia pare che non amasse parlare. Sappiamo che essa trascorse tra la Provenza e alcuni soggiorni presso la nonna materna, Mariette Schiley (o Chilé) il cui soprannome («Nené» o «Neneka») sembra riecheggiare in quelli delle attese creature mitiche da lui evocate ancora negli ultimi anni. Tra i pochi episodi menzionati dai biografi: meningite a cinque anni, pericolo di annegamento a dieci. Seguì regolarmente gli studi al Collège du Sacré-Coeur di Marsiglia, dove, a quattordici anni, diede vita, coi compagni, a una piccola rivista letteraria, firmando col pseudonimo Louis des Attides. Delle sue prime poesie, che, più tardi, uscirono regolarmente in rivista (su «La Criée» di Marsiglia; «Demain»; «Action», dove fu introdotto nel 1921 da Max Jacob), una (Le navire mystique) reca la data del 1913; della stessa epoca sono alcuni racconti (le une e gli altri sono riportati nel I volume delle Euvres complètes). Intorno al 1915 fu colto dai primi dolori di origine nervosa. Si racconta anche di un’acuta crisi di misticismo, e che un giorno avrebbe distrutto tutti i propri manoscritti e distribuito i libri agli amici. Dopo qualche mese trascorso nella casa di salute di La Rouguière, presso Marsiglia, fu comprende anche un breve testo drammatico, Le Jet de Sang; Le pèse-nerfs (collana «Pour vos beaux yeux»). Ma non tardarono a manifestarsi i contrasti in seno al gruppo surrealista: le posizioni di Artaud erano tacciate di individualismo, e la pratica del mestiere di attore era considerata una concessione abusiva al mondo borghese. Nel settembre 1926 Artaud, insieme con Robert Aron e Vitrac, impostò il programma di un'attività teatrale autonoma, con la fondazione del Théatre Alfred Jarry; a questo fine chiese un aiuto finanziario al dottor René Allendy (direttore, alla Sorbona, di un Groupe d’études philosophiques et scientifigues pour l’examen des tendances nouvelles), che lo accordò; la somma raccolta risultò insufficiente a garantire le sorti dell'impresa, ma l’incoraggiamento del dottor Allendy e di sua moglie, Yvonne Allendy (che collaborò con Aron nei compiti di direzione del nuovo complesso) fu di importanza decisiva; nel numero di novembre della «Nouvelle Revue Frangaise» uscì il primo manifesto del Théatre Alfred Jarry. Il progetto di una regolare attività di spettacoli provocò, in novembre, la rottura formale col gruppo surrealista, dal quale Artaud, come già Vitrac, venne espulso. Agli attacchi contenuti nel pamphlet Au grand jour (1927), a firma di Aragon, Breton, Eluard, Péret, Unik, seguì una dura replica di Artaud in A la grande nuit cu le bluff surréaliste (pubblicato a cura dell'autore nel giugno 1927). Abbandonò intanto l’idea di un matrimonio, staccandosi da Génica; per qualche tempo abitò con sua madre che, dopo la morte del padre (1924), lo aveva raggiunto a Parigi; poi tornò a vivere, la maggior parte del tempo, in camere d'albergo. Nel maggio 1927, nella sala dell’Atelier offerta da Dullin, ebbero inizio le prove del Théatre Alfred Jarry. Il primo spettacolo messo in scena da Artaud si svolse il I° e 2 giugno al Théàtre de Grenelle. Comprendeva: Ventre brùlé ou la Mère folle, «pochade musicale» di Artaud, con musiche di scena di Maxime Jacob (il testo di Ventre brùlé è andato perduto, ma il suo argomento è stato sommariamente ricostruito, sulla base delle testimonianze degli attori e dei critici, da Robert Maguire, che lo espone nel suo studio Le hors thééatre [lo si può leggere in: Henri Béhar, Etude sur le théétre dada et surréaliste, Gallimard, Paris 1967, pp. 229-30]; Les Mystères de l’Amour, tre atti di Roger Vitrac, con bozzetti di Jean de Bosschère; Gigogne, atto unico di Max Robur (pseudonimo di Robert Aron). Il 14 gennaio 1928, alla Comédie des Champs-Elysées, fu presentato un secondo spettacolo, comprendente: un atto del Partage de Midi, «rappresentato contro la volontà dell'autore», «in virtù di questo assioma: che un’opera pubblicata appartiene a tutti» (calato il sipario, Artaud annunciò agli spettatori che la pièce era di Paul Claudel, ambasciatore di Francia negli Stati Uniti, qualificandolo «un infàme traître») e il film La Madre di Pudovkin, programmato «in primo luogo per le idee che contiene, poi per le sue qualità intrinseche, infine per protestare contro la censura» (che ne aveva impedito la programmazione in Francia). Terzo spettacolo: Le Songe cu Jeu de Réves di Strindberg, che Artaud poté mettere in scena con un finanziamento indiretto dell'ambasciata di Svezia: questa circostanza suscitò lo sdegno dei surrealisti che intervennero (2 e 9 giugno al Théàtre de l’Avenue) per provocare disordini; al secondo spettacolo, Artaud ritenne opportuno chiedere soccorso alla polizia, che operò qualche fermo. L'episodio venne aspramente commentato da Breton nel Second manifeste du surréalisme. Infine il 24 e 29 dicembre 1928 e il 5 gennaio 1929, alla Comédie des Champs-Elysées, venne presentato Victor ou les Enfants au Pouvoir, «dramma borghese» in tre atti di Vitrac. La breve attività del Théatre Alfred Jarry - cui avevano collaborato tra gli attori Génica Athanasiou, Tania Balachova, Etienne Decroux, Raymond Rouleau - non si chiudeva con un completo insuccesso. Ma le difficoltà economiche e di ogni genere (oltre al non perfetto accordo tra Artaud e Vitrac, che emerge dalla loro corrispondenza) ne resero impossibile il proseguimento. Nel marzo o aprile 1930 Artaud e Vitrac riassunsero polemicamente questa esperienza nell’opuscolo Le Théatre Alfred Jarry et l'hostilité publique. Negli anni stessi del Théatre Alfred Jarry Artaud si dedicò attivamente anche al cinema. Nel fascicolo di novembre 1927 della «Nouvelle Revue Frangaise» uscì, preceduto da una introduzione intitolata Cinéma et réalité, il suo soggetto La Coquille et le Clergyman; il film venne poi realizzato da Germaine Dulac senza la collaborazione di Artaud, che intervenne con alcuni amici alla proiezione (Studio des Ursulines, febbraio 1928) manifestando la sua protesta. Il progetto di una casa di produzione per cortometraggi, concepito con gli Allendy, non ebbe seguito. Gli altri soggetti cinematografici redatti da Artaud - Les Dix-huit Secondes (pubblicato per la prima volta sui «Cahiers de la Pléiade», primavera 1949), Deux Nations sur les Confins de la Mongolie, Les 32, Vols, Le Maître de Ballantrae da Stevenson, La Révolte du Boucher (pubblicato sulla «Nouvelle Revue Frangaise», giugno 1930) (e tutti compresi nel III volume delle @Euvres complètes) - non vennero mai realizzati. Nel giugno 1929 tenne una conferenza allo Studio 28 sul tema: Le cinéma parlant est-il un monstre? A proposito dell'avvento del sonoro, Artaud si mostrò, all’inizio, piuttosto negativo; ma la sua posizione si andò rapidamente adeguando: e alle sue interpretazioni nel cinema muto (la piti celebre è quella nella Passion de Jeanne d’Arc di Dreyer) ne seguirono altre in film parlati. Soffrì di nuovo, in quegli anni, di un acuto disagio fisico e psichico, di dolori violenti, cui seguivano l’uso dell'oppio e le cure di disintossicazione. Nel 1929 uscì presso l'editore testimonianza di André Frank, che era allora suo segretario, iniziò anche le prove, in settembre; ma finì per rinunciare. Ebbe inizio allora la fase più avventurosa e oscura dell’esistenza di Artaud; il 10 gennaio 1936, s’imbarcò ad Anversa, quasi senza denaro, alla volta del Messico, alla ricerca di un'esperienza decisiva. Il 30 gennaio sostò all’Avana, il 7 febbraio arrivò a Vera Cruz. A Città del Messico, per procurarsi denaro, tenne alcune conferenze all'università: Surréalisme et révolution, L'homme contre le destin, Le thé&tre et les dieux; tentò inoltre di organizzare un'esposizione di pittura, e scrisse alcuni articoli per il giornale «Nacional»: Le théatre de l’après-guerre à Paris, Lettre ouverte aux gouverneurs de l'Etat du Mexique, Bases universelles de la culture, Premier contact avec la révolution mexicaine, Une Medée sans feu, La jeune peinture francaise et la tradition, Le théatre francais cherche un mythe, Ce que je suis venu faire au Mexique, La culture éternelle du Mexique, La fausse supériorité des élites, Secrets éternels de la culture, Les forces occultes du Mexique, L’anarchie sociale de l'art, Le rite des rois de l’Atlantide, Une race principe, La montagne des signes, Le pays des rois-mages, che furono raccolti e pubblicati nella versione spagnola nel volume México, curato da Luis Cardoza y Aragon per la Universidad Nacional Auténoma de México (1962). (I testi messicani di Artaud si possono leggere oggi nei volumi VIII e IX delle CEuvres complètes, rispettivamente nelle sezioni Messages révolutionnaires e Les Tarahumaras). In giugno parti per le regioni interne, accompagnato da una guida indiana, sulle tracce delle tribù dedite all'uso e al culto religioso del peytol. Il racconto di questo viaggio apparve, non firmato, col titolo Au pays des Tarahumaras, sul numero di agosto 1937 della «Nouvelle Revue Frangaise» (nel 1945 usci il volume Voyage au pays des Tarahumaras, nella collana «Lage d’or» diretta da Henri Parisot). Nel novembre 1936 Artaud venne rimpatriato. Per qualche tempo frequentò assiduamente Barrault, al Grenier des Augustins. Nel periodo confuso e difficile che segui ebbe per un momento l’idea di sposarsi (con una ragazza di buona famiglia di Bruxelles), tenne in Belgio tempestose conferenze, ne venne espulso. Si orientò verso l'astrologia, il linguaggio dei tarocchi, le conoscenze esoteriche: e ne diede un’accesa testimonianza in un nuovo testo, Les nouvelles révélations de l’étre, che fece uscire nel 1937 presso Denoél, firmandosi «Le Réveélé». Attribuiva, in quegli anni, un particolare potere magico- profetico a un bastone che gli era stato regalato da René Thomas: sosteneva che era appartenuto a san Patrizio, patrono degli irlandesi. Intorno a questa idea nacque il suo progetto di un pellegrinaggio in Irlanda. Il 14 agosto 1937 sbarcò a Cobh, il 17 raggiunse Galway, e si spinse poi fino alle isole Aran (rese celebri poco tempo prima dal film di Flaherty). Le vicende di questo viaggio sono in gran parte ignote. Dopo il 21 settembre, data di una lettera a Jacqueline Breton, si persero le sue tracce. In Irlanda Artaud si riaccostò al cattolicesimo, come raccontò poi in una lettera a Jean-Louis Barrault del 5 ottobre 1943. In circostanze imprecisabili, sarebbe stato arrestato e trattenuto in prigione per alcuni giorni, poi rimpatriato d'autorità. Durante il viaggio di ritorno sulla nave Washington, Artaud, profondamente esasperato e demoralizzato, ebbe una colluttazione col personale di bordo (o tentò di gettarsi in mare). Fu immobilizzato e rinchiuso, e allo sbarco a Le Havre, venne internato in manicomio, dove gli fu applicata la camicia di forza. A partire da quel momento, Artaud trascorse nove anni consecutivi nelle cliniche. (Intanto, nel 1938, usciva finalmente, presso Gallimard, la raccolta dei suoi scritti sul Teatro della Crudeltà sotto il titolo Le Théatre et son double). Faticosamente rintracciato dalla madre e dagli amici, fu trasferito prima a Sotteville, presso Rouen (per qualche tempo non diede segno di riconoscere nessuno e smise completamente di scrivere), poi a Sainte-Anne (aprile 1938), a Ville-Evrard (dal febbraio 1939 al gennaio 1943), da dove indirizzò le prime lettere ai Breton, a Roger Blin, a Dullin, chiedendo soccorso e denunciando il trattamento durissimo cui era sottoposto. Nel febbraio 1943, grazie all'intervento di Desnos e di Eluard, poté essere affidato al dottor Ferdière, alla clinica di Rodez, dove riprese a scrivere, traducendo e raccogliendo appunti in vista di un libro che avrebbe dovuto intitolarsi Pour le pauvre Popocatepet] la charité essé-vé-pé. («Ce qui veut dire - commentava Artaud, in una lettera a Adamov in data marzo 1946, apparsa su “L’Arche” del giugno 1946 - que je quémande une petite éruption’ de volcan avec l’engloutissement de 300 villes, et non seulement comme avec la bombe athomique au Japon, l’engloutissement d'une seule ville, mais avec 300 000 habitants...») Le lettere inviate da Artaud a Henri Parisot, a partire dal settembre 1945 (dove fra l’altro condannava aspramente una sua fugace adesione al cristianesimo), furono pubblicate da quest’ultimo nel 1948 sotto il titolo Lettres de Rodez (ed. cLM), seguite nel ‘49 dal Supplément aux Lettres de Rodez, suivi de Coleridge le traître (ed. GLM): esse costituiscono, accanto agli altri testi degli ultimi anni, una testimonianza impressionante dell'esperienza estrema di Artaud: di come la sua stessa personalità, il suo linguaggio, la sua mitologia profonda trovassero realizzazione attraverso la tragica esperienza della «follia». Le circostanze della guerra e dell'invasione avevano reso ancora più dura l’esistenza dei ricoverati, aggiungendovi gravi privazioni materiali, e ostacolando qualsiasi tentativo di soccorso dall'esterno. Alla fine della guerra Artaud, distrutto nel fisico, e quasi irriconoscibile, - il 1° aprile 1922: L’Hétellerie, intermezzo di Francisco de Castro (parte di un cieco, e bozzetti per i costumi); Visite de Condoléances di Calderén de la Barca (parte di Don Luis); il 20 giugno 1922, al Vieux-Colombier: La Vie est un Songe di Calderén de la Barca (parte del re Basilio, e disegni per scene e costumi); novembre 1922, al Théàtre Montmartre (Théatre de l’Atelier): La Mort de Souper di R. Semichon, da La Condamnation de Banquet di Nicole de La Chesnaye (parte di Apoplexie); il 21 dicembre 1922, per l’'Atelier: La Volupté de l'’Honneur di Pirandello (parte di un membro del consiglio di amministrazione); Antigone di Cocteau, da Sofocle, con scene di Picasso e musiche di Honegger (parte di Tiresia); il 13 febbraio 1923, per l’Atelier: Monsieur de Pygmalion di Jacinto Grau (parte di Pedro Urdemalas); il 21 marzo 19283, per l’Atelier: Huon de Bordeaux di Alexandre Arnoux (parte di Carlomagno). Alla Comédie des Champs-Elysées (direzione Hébertot): il 18 maggio 1923: ripresa di Androclès et le lion di G. B. Shaw, regia di Pitoéff (parte di Retiarius); - l'8 giugno 1923: ripresa di Liliom di Molnar, regia di Pitoéff (parti di un detective e di un poliziotto); il 29 ottobre 1923 (Studio des Champs-Elysées): Le Club des Canards Mandarins di Henri Duvemois, regia di Komisarjevsky (parte di una guardia); il 22 novembre 1923: La petite Baraque di A. Blok, regia di Pitoéff (parte del primo mistico); ripresa di Celui qui regoit les Gifles di Andreev, regia di Pitoéfi (parte di Jackson); ripresa di Six Personnages en quéte dAuteur di Pirandello, regia di Pitoéff (parte del suggeritore); - il 26 marzo 1924: R.UR. di Karel Capek, regia di Komisarjevsky (parte di Marius, robot). FEbbe anche tre ruoli nelle proiezioni cinematografiche che accompagnavano la rappresentazione di Mathusalem di Ivan Goll (Théàtre Michel, 1924, regia di Jean Painlevé). Artaud partecipò infine come attore a due degli spettacoli da lui stesso diretti, interpretando «La Théologie» nel Songe di Strindberg (Théatre de l’Avenue [Théatre Alfred Jarry], 2 giugno 1928) e il personaggio di Cenci in Les Cenci(Théàtre des Folies-Wagram, 6 maggio 1935). Artaud attore di cinema. Nel cinema, Artaud partecipò ai seguenti film muti: - Fait divers di Claude Autant-Lara (1923): parte di Monsieur 2; - Surcoufdi Luitz Morat (1924); - Le Juif errant di Luitz Morat (1926); - Graziella di Marcel Vandal (1926); - Napoléon di Abel Gance (1926): Marat; - La Passion de Jeanne d’Arc di Dreyer (1928): il Monaco Massieu; - L’Argent di Marcel LHerbier (1928). Inoltre, ai seguenti film parlati: - Tarakanova di Raymond Bernard (1930): un giovane tzigano; L'Opera de Quant’Sous (edizione francese) di Pabst (1930); - Verdun, Vision d'’Histoire di Léon Poirier (1930): l’Intellettuale; - Faubourg Montmartre di Raymond Bernard (1931); - La Femme d'une Nuit di Marcel L'Herbier (1931); - Les Croix de Bois di Raymond Bernard (1931); - Coups de Feu à l’Aube, di Serge de Poligny e A. Zeisler (1932; girato a Berlino); - Mater Dolorosa di Abel Gance (1933; versione parlata); - Liliom di Fritz Lang (1934); - L’Enfant de ma Saur di Henry Wulschleger, col comico Bach (1934); - Sidonie Panache di Henry Wulschleger, col comico Bach e Fernandel (1933); - Lucrèce Borgia di Abel Gance (1933): Savonarola. - Koenigsmark di Maurice Tourneur (1935): il bibliotecario. Contenuto del volume. Questo volume vuole presentare l'essenziale del pensiero di Artaud nelle sue applicazioni al teatro, attraverso due momenti principali: attività del Théatre Alfred Jarry; idee e programmi intorno al Teatro della Crudeltà. Sono stati aggiunti alcuni tra i numerosi scritti che completano il quadro dei rapporti di Artaud col teatro: progetti drammatici, progetti di messinscena, cronache drammatiche, recensioni, articoli. Tutti gli scritti riprodotti qui in traduzione sono tratti dai volumi II e IV delle Euvres complètes. I testi dei manifesti e programmi del Théàtre Alfred Jarry sono tratti dal II volume delle uvres complètes di Artaud (pp. 11-79). Erano apparsi quasi tutti senza nome d’autore; ma, secondo la testimonianza di Yvonne Allendy, sarebbero stati redatti personalmente da Artaud. In particolare: - il manifesto Le Théétre Alfred Jarry usci nel numero di novembre 1926 della «Nouvelle Revue Frangaise», introdotto da questa presentazione: «De jeunes écrivains fondant le Théatre Alfred Jarry. Ils nous demandent de publier quelques passages de leur manifeste»; l'articolo su «Six Personnage en quéte d’Auteur» è la Comédie des Champs-Elysées uscì nel numero di maggio 1923 della rivista «La Criée» di Marsiglia (la prima rappresentazione dello spettacolo è del 18 aprile); in CEuvres complètes, II, pp. 160-62; la recensione di «Les Mystères de l’Amour» par Roger Vitrac (uscito in volume prima di essere rappresentato) apparve sul numero di settembre 1925 della «Nouvelle Revue Frangaise»; in Euvres complètes, II, pp. 163-65; l'articolo su La grèéve des théatres uscì sul numero di maggio 1932 della «Nouvelle Revue Frangaise»; in CEuvres complètes, II, pp. 171-72; A propos d’une pièce perdue, si riferisce al progetto di un adattamento del Tieste di Seneca, a cui Artaud intendeva dare il titolo Le Supplice de Tantale, e di cui parla come se lo avesse già steso, in una lettera a Barrault; in Euvres complètes, II, pp. 185-91. Quanto alle parti che compongono Le Théàtre et son double (13 edizione: Gallimard, collezione «Métamorphoses», Paris, febbraio 1938; 2° edizione, 1944; riprodotto nel IV volume delle Euvres complètes, pp. 11- 171; ripubblicato a parte in edizione tascabile, Gallimard, collezione «Idées», Paris 1966): - la Préface: Le théétre et la culture, ha un precedente nel saggio apparso nel 1935 sulla rivista «La Béte Noire», sotto il titolo Le théétre et la culture ou le réveil de l’oiseau-tonnerre; - Le théatre et la peste, corrisponde, con qualche variante, al saggio apparso con lo stesso titolo sul numero di ottobre 1934 della «Nouvelle Revue Frangaise», il quale riproduce a sua volta il testo di una conferenza tenuta alla Sorbona il 6 aprile 1933; - La mise en scène et la métaphysique corrisponde, con qualche variante, al saggio apparso con lo stesso titolo sul numero di febbraio 1932 della «Nouvelle Revue Frangaise», il quale riproduce a sua volta il testo di una conferenza tenuta alla Sorbona il 10 dicembre 1931; - Le thééatre alchimique apparve per la prima volta in spagnolo (E/ teatro alquimico), sul fascicolo di autunno 1932 della rivista argentina «Sur» (per iniziativa di Jules Supervielle); Sur le théàtre balinais corrisponde, nella prima parte, all'articolo Le théétre balinais è l'Exposition coloniale, apparso sul numero di ottobre 1931 della «Nouvelle Revue Francaise»; Théàtre oriental et théé&tre occidental, scritto nel 1935, apparve per la prima volta nell'edizione in volume; En finir avec les chefs-d’auvre apparve per la prima volta nell'edizione in volume; - Le théatre et la cruauté apparve per la prima volta nell'edizione in volume; - Le théatre de la cruauté (Premier manifeste) corrisponde, con qualche variante, al testo uscito nel numero di ottobre 1932 della «Nouvelle Revue Frangaise»; - le Lettres sur la cruauté apparvero per la prima volta in volume; - le Lettres sur le langage apparvero per la prima volta in volume; - Le théatre de la cruauté (Second manifeste) fu dapprima pubblicato a parte, come opuscolo di 16 pagine (Denoél, Paris 1933); - Un athlétisme affectif, destinato alla rivista «Mesures», apparve invece per la prima volta in volume; - delle Deux notes: Les Frères Marx riprende con qualche variante l'articolo Les Frères Marx au cinéma du Panthéon, apparso nella rubrica cinematografica della «Nouvelle Revue Francaise» del gennaio 1932; Autour d’une mère, riprende l'articolo consacrato da Artaud, sul numero di luglio 1935, allo spettacolo Autour d’une mère che Barrault aveva tratto da Faulkner e messo in scena il 4 giugno 1935; - Le Théatre de Séraphin, scritto per la rivista «Mesures» e destinato a essere compreso nella prima edizione in volume di Le Théatre et son double, finì per non esservi incluso, e apparve per la prima volta in volume a parte, nel 1948 (collezione «LAir du Temps», ed. Bettencourt); poi nei «Cahiers de la Pléiade», primavera 1949; di nuovo in volume nel 1950 (stampatore Belmont) con disegni di Wols. Si trova nel IV volume delle Euvres complètes, pp. 175-82. È incluso nell'edizione tascabile (Gallimard, collezione «Idées», Paris 1966) di Le Théétre et son double. GUIDO NERI Il Teatro Alfred Jarry 1926 Il teatro partecipa del discredito in cui, una dopo l’altra, cadono tutte le forme d’arte. In mezzo alla confusione, all'assenza, al deterioramento di tutti i valori umani, all’angosciosa incertezza in cui siamo immersi riguardo alla necessità e al valore di questa o quell’arte, di questa o quella forma d'attività dello spirito, la più colpita è probabilmente l’idea di teatro. Si cercherebbe invano nella massa di spettacoli presentati ogni giorno qualcosa di adeguato all'idea che ci si può fare di un teatro assolutamente puro. Se il teatro è un gioco, troppi gravi problemi ci assillano perché possiamo distrarre la sia pur minima parte della nostra attenzione a vantaggio di qualcosa di così aleatorio come questo gioco. Se il teatro non è un gioco, se è una realtà vera, il problema che abbiamo da risolvere è quello dei mezzi attraverso i quali restituirgli quest'ordine di realtà, fare di ogni spettacolo una sorta di avvenimento. Immensa è la nostra incapacità di credere, d’illuderci. Le idee di teatro non hanno più per noi il prestigio, il mordente, quel carattere di cosa unica, inaudita, intera che conservano ancora certe idee scritte o dipinte. Nel momento di proporre quest'idea di un teatro puro, nel cercare di darle forma concreta, una delle prime domande che dobbiamo porre è se potremo trovare un pubblico capace di accordarci il minimo necessario di fiducia e di credito, insomma di far lega con noi. Perché, a differenza dei letterati o dei pittori, non ci è possibile fare a meno del pubblico, che diviene del resto parte integrante del nostro tentativo. Il teatro è la cosa più impossibile da salvare al mondo. Un'arte interamente fondata su un potere d’illusione, che essa è incapace di suscitare, non ha ormai che da scomparire. ...Le parole hanno o non hanno potere d’illusione. Hanno valore in se stesse. Ma scene, costumi, gesti e grida false non sostituiranno mai la realtà che ci aspettiamo. L'importante è questo: la formazione di una realtà, l'irruzione inedita di un mondo. Il teatro deve darci questo mondo effimero, ma vero, questo mondo tangente al reale. Sarà questo stesso mondo o altrimenti faremo a meno del teatro. Che cosa c’è di più abietto e nello stesso tempo di più biecamente spaventoso dello spettacolo di uno spiegamento di polizia. La società conosce bene queste messe in scena, basate sulla tranquillità con cui dispone della vita e della libertà delle persone. Quando la polizia sta preparando una retata, pare di assistere alle evoluzioni di un balletto. Poliziotti che vanno e vengono. L'aria è lacerata da lugubri fischi. Da tutti i movimenti si sprigiona una specie di dolorosa solennità. A poco a poco il cerchio si stringe. Quei movimenti che prima sembravano fine a se stessi, a poco a poco svelano il loro scopo e tutto diventa chiaro, e in particolare quel punto dello spazio che ha fatto da perno. È una casa di aspetto qualsiasi; le sue porte all'improvviso si spalancano e ne esce in corteo un branco di donne, che camminano come se andassero al macello. La questione si complica, la retata era diretta non a una certa società equivoca ma soltanto a un ammasso di donne. Emozione e sbigottimento sono al colmo. Mai messinscena più bella si è conclusa con un simile finale. Noi siamo certamente colpevoli come quelle donne e crudeli come quei poliziotti. È proprio uno spettacolo completo. Ebbene, il teatro ideale è questo spettacolo. Quell’angoscia, quel senso di colpa, quella vittoria, quell’'appagamento esprimono a meraviglia il tono e il senso della condizione mentale in cui lo spettatore si dovrà trovare quando uscirà dal nostro teatro. Sarà scosso e sconvolto dal dinamismo interno dello spettacolo, e questo dinamismo sarà in diretta relazione con le angosce e con le preoccupazioni di tutta la sua vita. L'illusione non si fonderà più sulla verosimiglianza o l’inverosimiglianza dell’azione, ma sulla forza comunicativa e la realtà di tale azione. Ecco dunque dove vogliamo arrivare. Vogliamo arrivare a questo: che ad ogni spettacolo allestito è per noi in gioco una partita grave, e che tutto l'interesse del nostro sforzo sta in questo carattere di gravità. Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. Alla loro e alla nostra. Giochiamo la nostra vita nello spettacolo che si svolge sulla scena. Se non avessimo ben chiara e profonda coscienza che una parte della nostra vita profonda vi è impegnata, non riterremmo necessario proseguire la nostra esperienza. Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi a una operazione vera, dove sono in gioco non solo il suo spirito ma i suoi sensi e la sua carne. Andrà ormai a teatro come va dal chirurgo o dal dentista. Con lo stesso stato d'animo, pensando evidentemente di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro, Se non fossimo persuasi di colpirlo il più gravemente possibile, ci considereremmo impari al nostro impegno più assoluto. Egli deve essere convinto che siamo capaci di farlo gridare. ricompensare i nostri sforzi e la nostra pazienza. E su questo miracolo contiamo. Il regista, che non obbedisce a nessun principio, ma che segue l'ispirazione, avrà o non avrà la trovata che ci occorre. In funzione del lavoro che dovrà allestire, scoprirà o non scoprirà l’ingegnosa invenzione che colga nel segno, troverà o non troverà l'elemento d’inquietudine atto ad immergere lo spettatore nel dubbio ricercato. Ogni nostro risultato è in funzione di questa alternativa. È evidente tuttavia che lavoreremo su testi determinati; le opere che rappresenteremo appartengono alla letteratura, dopo tutto. Come faremo a conciliare il nostro desiderio di libertà e d'indipendenza con la necessità di uniformarci a un certo numero di esigenze imposte dai testi? Per la definizione che cerchiamo di dare al teatro, una sola cosa ci sembra invulnerabile, una sola cosa ci pare vera: il testo. Ma il testo in quanto realtà distinta, che esiste per se stessa, che basta a se stessa, non nel suo spirito che siamo pochissimo disposti a rispettare, ma semplicemente come spostamento d’aria provocato dalla sua enunciazione. Questo, e non altro. Perché ciò che ci sembra essenzialmente insopportabile nel teatro, e soprattutto essenzialmente deperibile, è ciò che distingue l’arte teatrale dall'arte pittorica e dalla letteratura: tutto quell’apparato odioso e ingombrante per cui un’opera scritta si trasforma in spettacolo invece di restare nei limiti della parola, delle immagini e delle astrazioni. Vogliamo ridurre al minimo questo apparato e questa ostentazione visiva e sottometterli all'aspetto di gravità e al carattere d’inquietudine dell’azione. Il Teatro Alfred Jarry Programma della stagione 1926-27 Il Teatro Alfred Jarry darà nel corso della stagione 1926- 27 almeno quattro spettacoli. Il primo sarà presentato il 15 gennaio 1927, alle 15, sulla scena del Vieux-Colombier (21, rue du Vieux- Colombier). Comprenderà: La Peur c’est l’Amour4t!8ì, Dialogo di Alfred Jarry (prima rappresentazione). Le Vieux de la Montagne. Lavoro schematico in 5 atti, di Alfred Jarry (prima rappresentazione). Les Mystères de l’Amour. Lavoro in 3 atti, di Roger Vitrac (prima rappresentazione). Gli spettacoli successivi saranno composti da: La Tragedia del Vendicatore, di Cyril Tourneur (prima rappresentazione). Il Sogno, di August Strindberg (prima rappresentazione). Le Jet de @Sang, di Antonin Artaud (prima rappresentazione). Gigogne, di Max Robur (prima rappresentazione). Un lavoro di Savinio. Manifesto per un teatro abortito Nell’epoca di confusione in cui viviamo, epoca colma di bestemmie e delle fosforescenze di un rinnegamento infinito, in cui tutti i valori sia artistici che morali sembrano sprofondare in un abisso senza altro esempio in nessuna epoca dello spirito, ho avuto la debolezza di credere che avrei potuto fare un teatro, che avrei potuto almeno avviare il tentativo di ridare vita al valore universalmente disprezzato del teatro, ma la stupidità di alcuni, la malafede e la spregevole canaglieria di altri me ne hanno distolto per sempre. Di questo tentativo rimane ai miei occhi il seguente manifesto: Il... gennaio 1927 il teatro A... darà il suo primo spettacolo. I suoi fondatori hanno la più acuta consapevolezza dello stato quasi di disperazione che il lancio di un simile teatro presuppone. E vi si accingono non senza una sorta di rimorso. Non è il caso di farsi illusioni. Il teatro A... non è un affare, s'intende. Ma è qualcosa di più: un tentativo nel quale le menti di alcuni giocano tutto per tutto. Non crediamo, non crediamo più che ci sia qualcosa al mondo che si possa chiamare teatro, non vediamo a quale realtà una simile denominazione possa applicarsi. Una confusione terribile pesa sulle nostre vite. Siamo - nessuno potrebbe negarlo - dal punto di vista spirituale, in un’epoca critica. Crediamo a tutte le minacce dell'invisibile. E contro l'invisibile noi lottiamo. Siamo Antonin Artaud 13 novembre 1926. PS. Quei rivoluzionari di carta stercoraria che ci vorrebbero far credere che fare teatro oggi sia (come se ne valesse la pena, come se fosse cosa in qualche modo rilevante, /a letteratura, come se non fosse altrove che da sempre abbiamo rivolto le nostre esistenze), quei loschi figuri ci vorrebbero dunque far credere che fare teatro oggi sia un tentativo controrivoluzionario, come se la Rivoluzione fosse un'idea tabù, su cui sia da sempre proibito intervenire. Ebbene, io non accetto idee tabù. Per me vi sono molti modi d'intendere la Rivoluzione e, fra questi, il modo Comunista mi sembra di gran lunga il peggiore, il più ristretto. Una rivoluzione di poltroni. Non m'importa proprio niente, lo dico chiaro e forte, che il potere passi dalle mani della borghesia in quelle del proletariato. Non sta in questo per me la Rivoluzione. Essa non consiste in una semplice trasmissione dei poteri. Una Rivoluzione che ha messo al vertice delle sue preoccupazioni le necessità della produzione e che perciò insiste nel fare affidamento sul progresso meccanico, come mezzo per migliorare la condizione operaia, è per me una rivoluzione di castrati. Ed io non mi nutro di quell’erba. Ritengo invece che una delle ragioni principali del male di cui soffriamo sia nella frenetica esteriorizzazione e nella moltiplicazione della forza, spinta all'infinito; consiste inoltre in un’anormale facilità introdotta negli scambi da uomo a uomo, tale da non lasciare più al pensiero il tempo di riprendere radici in se stesso. Siamo tutti in preda alla disperazione della macchina, a tutti i livelli della nostra riflessione. Ma le vere radici del male sono più profonde, e ci vorrebbe un intero volume per analizzarle. Per ora mi limiterò a dire che la Rivoluzione più urgente da fare è in una specie di regressione nel tempo. Torniamo alla mentalità, oppure semplicemente, alle abitudini di vita del Medioevo, ma veramente, e per una specie di metamorfosi nelle essenze, e mi convincerò allora che avremo fatto la sola rivoluzione di cui valga la pena parlare. Vi sono bombe da mettere in qualche posto, ma alla base della maggior parte delle abitudini del pensiero presente, europeo o no. Di tali abitudini i signori surrealisti sono impregnati molto più di me, ve lo assicuro, e il loro rispetto per certi feticci fatti uomini e la loro genuflessione davanti al Comunismo ne è la prova più evidente. È certo che se avessi dato vita a un teatro, avrei realizzato qualcosa di così poco affine a ciò che si ha l'abitudine di chiamare teatro, quanto la rappresentazione di una qualsiasi oscenità assomiglia a un antico mistero religioso. A. A. 8 gennaio 1927. Teatro Alfred Jarry Stagione 1928 Il Teatro Alfred Jarry si rivolge a tutti coloro che nel teatro non vedono uno scopo ma un mezzo, a quanti si dànno pensiero di una realtà, di cui il teatro non è che un segno e che il Teatro Jarry si sforzerà di riscoprire attraverso le occasioni dei suoi spettacoli. A partire dal Teatro Jarry, il teatro non sarà più quella cosa chiusa, limitata entro lo spazio ristretto del palcoscenico, ma tenderà ad essere veramente un atto, su cui giocano tutte le sollecitazioni e tutte le deformazioni delle circostanze, e in cui il caso riacquista i suoi diritti. Una messinscena, un lavoro, saranno sempre rimessi in causa, riveduti, in modo che gli spettatori, tornando dopo alcune sere, non avranno mai lo stesso spettacolo sotto gli occhi. Il Teatro Jarry romperà dunque col teatro, ma obbedirà inoltre a una necessità interiore, in cui lo spirito ha una parte predominante. Non solo sono abolite le basi esterne del teatro, ma anche la sua profonda ragion d'essere. Una messa in scena del Teatro Jarry sarà avvincente come un gioco, come una partita a carte, a cui partecipino tutti gli spettatori. Nella vita, il Teatro Jarry si sforzerà di tradurre ciò che la vita dimentica, dissimula, o che è incapace di esprimere. Tutto ciò che proviene da un errore fecondo dello spirito, da un'illusione dei sensi, le incidenze dei sentimenti e delle cose che colpiscono prima di tutto con una specie di densità materiale, saranno presentati nella loro In terzo luogo, dopo l’opera di un uomo, in cui egli esprime le proprie idee, idee che per fortuna sono, in questo caso, abbastanza universali e necessarie, dopo l’opera oggettiva e rovente, nella quale si troverà soddisfatta una certa idea di apparato, vi sarà ciò che chiamiamo l’opera impersonale, ma soggettiva, l’opera- manifesto, scritta in collaborazione, in cui ciascuno abbandonerà il suo punto di vista strettamente personale per mettersi al diapason della propria epoca, per attingere una specie di universalità propria alle necessità del nostro tempo, in cui ciascuno trascurerà abbastanza se stesso per esprimere il maggior numero possibile di aspirazioni, in cui tutto verrà affrontato. Un'opera che sarà una sintesi di tutti i desideri e di tutte le torture, che sarà come il crogiolo di una rivolta, che, teatralmente, salderà il massimo dell'espressione col massimo dell’audacia, che sarà come la dimostrazione di tutti i procedimenti registici possibili, che nel minimo spazio e tempo raccoglierà il maggior numero di situazioni, in cui tre pensieri a confronto si proveranno a ritrovare il livello di base del pensiero, in cui gli aspetti di una medesima situazione teatrale appariranno nel loro aspetto oggettivo più dimostrativo, in cui tenteremo, infine, di esprimere in un lavoro la fisionomia di un intero teatro, come noi concepiamo il teatro, in cui si vedrà che cosa può essere una regia che rifugga dagli artifici per ritrovare con oggetti e segni diretti una realtà più reale della realtà. * Il Teatro Jarry è stato creato per servirsi del teatro e non per servirlo. Gli scrittori che si sono riuniti per questo scopo non hanno nessun rispetto né per gli autori né per i testi; e non pretendono a nessun costo né a nessun titolo uniformarvisi. Se si imbatteranno in opere, che siano originariamente e nella più assoluta sostanza, significative della condizione spirituale che essi ricercano, le accoglieranno a preferenza di altre. Ma se non ne trovano, tanto peggio per qualsiasi Shakespeare, o Hugo, o anche Cyril Tourneur capiti loro sotto i denti o sotto i piedi. Il Teatro Alfred Jarry 1929 Il Teatro Alfred Jarry è stato fondato nella primavera del 1927. Come primo spettacolo ha dato Les Mystères de lAmour, di Roger Vitrac, che fu rappresentato al Théatre de Grenelle il 2 e 3 giugno di quell’anno. Il secondo spettacolo ebbe luogo alla Comédie des Champs-Elysées il 15 gennaio 1928. Comprendeva il terzo atto del Partage de Midi di Paul Claudel, provato nella massima segretezza e rappresentato senza autorizzazione dell'autore, e il film di Pudovkin La Madre, in prima rappresentazione a Parigi. Nel giugno 1928 veniva rappresentato I/ Sogno, di Strindberg; e infine, nel dicembre 1928, Victor ou Les Enfants au Pouvoir di Roger Vitrac, che ebbe tre repliche. Non tutti conoscono le difficoltà in cui il Teatro Jarry non ha mai cessato di dibattersi dalla sua creazione. Ogni nuovo spettacolo costituiva un'impresa, un prodigio di applicazione, di volontà. Senza tener conto della vera ondata di odio, d'invidia suscitata dai suoi spettacoli. Les Mystères de l’Amour fu provato una sola volta in scena la sera prima dello spettacolo. I! Sogno ebbe solo una prova con scene e costumi. Le Partage de Midi fu visto una sola volta sul palcoscenico, la mattina stessa dello spettacolo. Fu peggio ancora per Les Enfants au Pouvoir. Fu impossibile vedere il lavoro in scena per intero prima della generale. IL TEATRO ALFRED JARRY E L’OSTILITÀ PUBBLICA Il Teatro Alfred Jarry nel 1930 DICHIARAZIONE Il Teatro Alfred Jarry, consapevole della sconfitta del teatro di fronte allo sviluppo dilagante della tecnica, si propone con mezzi specificamente teatrali di contribuire alla distruzione del teatro quale attualmente esiste in Francia, coinvolgendo in tale distruzione tutte le idee letterarie o artistiche, tutte le convenzioni psicologiche, tutti gli artifici plastici, ecc., su cui questo teatro è fondato, e riconciliando, almeno provvisoriamente, l’idea teatrale con le parti più roventi dell'attualità. sTORIA Il Teatro Alfred Jarry, dal 1927 al 1930, ha dato quattro spettacoli, superando le massime difficoltà. I. Il primo fu rappresentato al Théàtre de Grenelle il I° e 2 giugno 1927, in spettacolo serale. Comprendeva: 1. Ventre Brilé ou La Mère Folle, pochade musicale di Antonin Artaud. Spettacolo lirico che denunciava in forma umoristica il conflitto fra il cinema e il teatro; 2. Les Mystères de l’Amour, tre quadri, di Roger Vitrac. Commedia ironica che portava sulla scena l'inquietudine, la duplice solitudine, le delittuose riserve mentali e l'erotismo degli amanti. Per la prima volta un sogno reale è stato realizzato in teatro; 3. Gigogne, un quadro di Max Robur. Scritto e rappresentato a titolo dichiaratamente provocatorio. II. Il secondo spettacolo fu dato alla Comédie des Champs-Elysées il 14 gennaio 1928, in matinée. Comprendeva: 1. Le Partage de Midi (solo un atto), di Paul Claudel, recitato contro il volere dell'autore. L'atto fu messo in scena sulla base di questo assioma, che un’opera stampata appartiene a tutti; 2. La Madre, da Gor'kij, film rivoluzionario di Pudovkin, proibito dalla censura; esso fu proiettato, in primo luogo per le idee che contiene, poi per le sue qualità intrinseche, e infine, per protestare, appunto, contro la censura. III. Il terzo spettacolo fu rappresentato al Théàtre de l’Avenue il 2 e 9 giugno 1928, in matinée. Comprendeva: Il Sogno, di August Strindberg. Dramma allestito, in considerazione del suo carattere eccezionale, perché l’onirismo vi ha una parte preponderante, perché nessuno aveva il coraggio di darlo a Parigi, perché fu tradotto in francese dallo stesso Strindberg, a causa della difficoltà dell'impresa, e infine per applicare e sviluppare su vasta scala i metodi di messinscena propri del Teatro Alfred Jarry. IV. Il quarto spettacolo fu rappresentato alla Comédie des Champs-Elysées il 24 e 29 dicembre 1928 e il 5 gennaio 1929 in matinée. Comprendeva: Victor ou Les Enfants au Pouvoir, dramma borghese in tre atti di Roger Vitrac. Il dramma, ora lirico, ora ironico, ora diretto, era rivolto contro la famiglia borghese, puntando su discriminanti come l’adulterio, l’incesto, la scatologia, la collera, la poesia surrealista, il patriottismo, la follia, la vergogna e la morte. sanno, anche i surrealisti di destra. Il giorno della conferenza di S. M. Ejzenstejn alla Sorbona, per esempio, c'erano, oltre al questore, un centinaio di poliziotti dislocati un po’ dovunque. Non c’è niente da fare. Bisogna prendersela col regime. Il sabotaggio sistematico. È generalmente opera di gente malevola o di cialtroni che con le loro provocazioni attirano sistematicamente su di sé, e di conseguenza sul pubblico e sullo spettacolo, l’attenzione della forza pubblica che, se no, se ne starebbe tranquillamente alla porta. Fatto il colpo, non resta altro a questi agenti provocatori che accusare il Teatro Alfred Jarry di essere d'accordo con la polizia, e il gioco è fatto. Prendono due piccioni con una fava. Impediscono lo spettacolo e gettano il discredito sugli organizzatori. Se la manovra è potuta qualche volta riuscire, ora, per fortuna, il trucco è scoperto e non inganna più nessuno. La concorrenza. Come è naturale, tutti gli specialisti dell’«avanguardia», gente in vista o in procinto di esserlo, diffidano di noi e ci osteggiano senza parere. Sono le regole del gioco, se non proprio dell'amicizia. Il Teatro Alfred Jarry deve tenerne conto. Ci si limita qui a farlo presente. Il pubblico. Non parliamo qui del pubblico prevenuto o del pubblico del tipo «c'ero anch'io» o mondano. C'è quello che dice è una vergogna, quello degli scherzi spassosi, che imita per esempio lo sgocciolio di un rubinetto, o il canto del gallo, e quello che con voce roboante afferma di essere invitato da Alfred Jarry e che viene a trovarlo. In breve, il pubblico che si suole definire francese. È per questo pubblico che diamo spettacolo, e le sue reazioni balorde sono un supplemento al programma che l’altro pubblico sa apprezzare. La critica. Oh! la critica! prima di tutto ringraziamola, ma non parliamone. Rimandiamo invece il lettore alle ultime pagine di questo opuscolo. NECESSITÀ DEL TEATRO ALFRED JARRY Se il Teatro Alfred Jarry non tendesse che a mettere in evidenza e aggravare in qualche modo il conflitto denunciato fra le idee di libertà e d'indipendenza che vuole difendere e le forze ostili che gli sono contro, sarebbe già abbastanza giustificata la sua esistenza. Ma al di fuori delle forze negative che suscita con l’assurdo, pretende, supponendo per l’ultima volta possibile il gioco teatrale, di portare sulla scena manifestazioni positive, oggettive e dirette, atte a screditare, con l'utilizzazione di elementi acquisiti e sperimentati, le opere banali e i falsi valori moderni e insieme a ricercare e a mettere in evidenza gli avvenimenti autentici e probanti dello stato attuale dei Francesi. Restando inteso che in questa espressione si vuole includere il passato recente e il prossimo futuro. POSIZIONE DEL TEATRO ALFRED JARRY Gli spettacoli, dato che sono rivolti a un pubblico francese e a tutti quelli che nel mondo sono considerati amici della Francia, saranno chiari e misurati. Il linguaggio sarà parlato e non si trascurerà nulla di ciò che costituisce gli elementi ordinari del successo. Saranno evitati il lirismo immaginifico, le lungaggini filosofiche, le oscurità, i sottintesi eruditi, ecc. Invece: dialoghi brevi, personaggi tipici, movimenti rapidi, atteggiamenti stereotipati, locuzioni proverbiali, canzonette, opera lirica, ecc., vi troveranno, in proporzione con le dimensioni del lavoro, il posto che occupano in Francia. L'humour sarà l’unico semaforo verde o rosso che illuminerà i drammi, indicando allo spettatore se la strada è libera o bloccata, se è il caso di gridare o di tacere, ridere forte o sommessamente. Il Teatro Alfred Jarry si propone di diventare il teatro di tutto il ridere. Riepilogando, ci proponiamo come tema: l'attualità, intesa in tutti i sensi; come mezzo: l’humour, in tutte le sue forme; e come fine: il riso assoluto, il riso che va dall’immobilità bavosa alla risata irrefrenabile fino alle lacrime. Affrettiamoci a dire che per humour intendiamo lo sviluppo di quella nozione ironica (ironia tedesca) che caratterizza una certa evoluzione dello spirito moderno. È ancora difficile darne una esatta definizione. Il Teatro Alfred Jarry, confrontando i valori comici, tragici, ecc., considerati per se stessi o nelle loro reazioni reciproche, mira per l'appunto a precisare in via sperimentale questa nozione di humour. È chiaro dunque che le dichiarazioni che seguiranno intorno all'umoristica partecipano esse stesse di questo spirito e che sarebbe sbagliato considerarle a stretto lume di logica. ALCUNI OBIETTIVI DEL TEATRO ALFRED JARRY Ogni teatro che si rispetti sa trarre profitto dall’erotismo. Basti pensare al sapiente dosaggio delle installazioni del boulevard, del music-hall e del cinema. Il Teatro Alfred Jarry opererà in tale direzione fin dove gli sarà consentito. Si propone di arrivare più in alto con mezzi che preferisce mantenere segreti. Per di più, e oltre alle emozioni che provocherà, direttamente o alla rovescia, come la gioia, la paura, l’amore, il patriottismo, il piacere del delitto, ecc. ecc., si specializzerà in un sentimento su cui nessuna polizia al mondo può interferire: la vergogna, l’ultimo e più temibile ostacolo alla libertà. Il Teatro Alfred Jarry rinuncerà a tutti i mezzi che hanno a che fare da vicino o da lontano con le superstizioni, come: sentimenti religiosi, patriottici, occulti, poetici, ecc., se non per denunciarli o per combatterli. Non ammetterà che la Inoltre i drammi saranno completamente sonorizzati, compresi gl’intervalli, durante i quali l'atmosfera drammatica sarà mantenuta fino all’ossessione da altoparlanti. Il lavoro, calcolato così nei particolari e fedele al ritmo scelto nell'insieme, si svolgerà a guisa di un rotolo di musica perforato in un pianoforte meccanico, senza disarticolazioni tra una battuta e l’altra, senza incertezze nei gesti, e darà al pubblico l'impressione di una fatalità e del determinismo più rigoroso. Per di più, il congegno così caricato funzionerà senza curarsi delle reazioni del pubblico. APPELLO AL PUBBLICO Il Teatro Alfred Jarry, esponendo al pubblico le precedenti dichiarazioni, si permette di chiedergli un aiuto, di qualsiasi genere. Si metterà in diretto contatto con tutti quelli che vorranno interessarsi in un modo o in un altro all’azione che intraprende. Risponderà a tutti i suggerimenti che verranno fatti. Esaminerà tutte le opere che gli perverranno, impegnandosi fin d’ora, nella misura delle sue possibilità, a rappresentare quelle che corrispondano al programma stabilito. Ci proponiamo inoltre di tenere un elenco in cui iscriveremo tutti gli aderenti di principio, pregandoli però di farci sapere, quando ci scriveranno, la professione e l'indirizzo, affinché possiamo, col loro permesso, tenere conto della loro personalità o più semplicemente tenerli al corrente della nostra attività. ILLUSTRAZIONI Ad essere precisi, queste illustrazioni dell’opuscolo non sono fotografie di messe in scena: ma si dovranno considerare come la storia senza parole, in nove quadri viventi, dello spirito col quale agiremo. Trattandosi d'’illustrare un opuscolo, abbiamo preferito preparare ex novo delle fotografie corrispondenti a questo scopo invece di riprodurre vere messe in scena. Queste si sono viste e si vedranno a teatro. Lo spirito di queste illustrazioni è comune ad Antonin Artaud e a Roger Vitrac che le hanno composte in stretta collaborazione e che le hanno interpretate personalmente insieme a Josette Lusson. Atteggiamenti e scene d'insieme sono stati impostati da Antonin Artaud; Eli Lotar è il realizzatore della fotografia e del montaggio. La copertina è del pittore Gaston-Louis Roux. CONFERENZA E LETTURA Il 15 maggio 1930, M. Roger Vitrac terrà alla Sorbona al Gruppo di studi filosofici e scientifici per l'esame delle tendenze nuove, una conferenza sul Teatro, seguita da una lettura, da parte di Antonin Artaud, del primo atto del dramma: Le Coup de Trafalgar. Gli interpreti del Teatro Alfred Jarry Attrici Genica ATHANASIOU. Tania BALACHOVA. Jeanne BERNARD. Domenica BLAZY. Edith FARNÈSE. GILLES Jacqueline HOPSTEIN. Attori Fdmond BEAUCHAMP. André BERLEY. Auguste BOVERIO. René BRUYEZ. Henri CRÉMIEUX. Max DALBAN. DALLE. Marc DARNAULT. Etienne DECROUX. Elizabeth LANNAY. Ghita LUCHAIRE. Germaine OZLER. Alexandra PECKER. Yvonne SAVE. Yvonne VIBERT. Max JOLY. René LEFÈVRE. Robert LE FLON. Jean MAMY. Raymond ROULEAU. SARANTIDIS. Ulric STRARAM. Geymond VITAL. DE VOS. sedia pronunciando frasi misteriose. Moriva, e allora passava una regina, che moriva anche lei, e altri personaggi, che morivano a loro volta. L'autore non ha voluto fornire la chiave del problema. MARCEL SAUVAGE Errore! Ventre Briùlé è un lavoro «artistico» per appassionati del Grand-Guignol. Un fascio di luce violetta proveniente dalle quinte sferza all'improvviso il volto degli attori: è una storia terribile accompagnata dai rulli dei tamburi della musica di Maxime Jacob. BENJAMIN CRÉMIEUX Ventre Brùlé, credetemi, è più che altro una breve allucinazione senza testo o quasi, in cui l’autore ha condensato una sintesi di vita e di morte, che ha lasciato dietro di sé un'impressione di stranezza molto più forte e persistente che Les Mystères de l’Amour di Roger Vitrac. Perché il piatto forte di questo primo spettacolo era un’opera di Roger Vitrac: Les Mystères de l’Amour. FORTUNAT STROWSKI Il piatto forte s’intitolava infatti Mystères de l’Amour, tre quadri, di Roger Vitrac, regia di Antonin Artaud. FRANCOIS IMPARTIAL Il titolo era chiaro: Les Mystères de l’Amour, in ben tre atti. BENJAMIN CRÉMIEUX Questo lavoro è già uscito in libreria, e alla lettura si rimaneva colpiti da certi scorci. MARCEL SAUVAGE Ho letto in volume il lavoro di Roger Vitrac, curioso miscuglio molto interessante. BENJAMIN CRÉMIEUX Roger Vitrac vi ha inserito tutte le immagini che può suscitare la parola amore, giustapponendole senza collegarle con alcun intreccio. MARCEL SAUVAGE È insomma un tentativo di fotografia mentale delle devastazioni commesse dal tempo di Adamo ed Eva. BENJAMIN CRÉMIEUX Vi si vede un uomo che batte una donna, la adora, ne è tradito, sogna di ucciderla, di essere ucciso da lei... MARCEL SAUVAGE Sì, sì, si amano, si uccidono, risuscitano, si picchiano, fanno dei bambini. BENJAMIN CRÉMIFEUX ...che adora i suoi bambini, che li uccide. MARCEL SAUVAGE SÌ, sì... li ama, li ammazza; risuscitano, si picchiano e la terra gira sotto gli occhi bendati di un bambino grasso: l'Amore. BENJAMIN CRÉMIEUX Un momento! Si vede la suocera, il suocero, si vede la vita della coppia in tutte le sue manifestazioni. FORTUNAT STROWSKI En! eh! Vi ricordate quei versi di Musset? Nassan era dunque nudo, ma nudo come la mano, nudo come un piatto d’argento... BENJAMIN CRÉMIEUX Permettete, dovete ammettere che c’è forse una parodia poetica di gusto abbastanza raffinato, ma alla rappresentazione non è restato quasi nulla. MARCEL SAUVAGE Devo dire che alla fine dello spettacolo se ne sapeva quanto prima. In scena, tutto ciò si risolve, se così posso esprimermi, in un guazzabuglio che è una via di mezzo fra il cinema, il music-hall e la farsa di collegio. FORTUNAT STROWSKI Alto là, giovanotto. Gli autori e registi di questo spettacolo non sono così ignoranti, tutt'altro. Fra loro ho riconosciuto brillanti allievi della Sorbona ed eccellenti umanisti. Forse si lamenteranno che il mio intervento semplifichi il loro nuovo «linguaggio». FRANGCOIS IMPARTIAL Voi concludete, senza neppure raccontare la trama. Ve la esporrò io e così capirete. FORTUNAT STROWSKI È inutile cercare di capire, almeno secondo il nostro modo abituale. Io non vi racconterò nulla e neppure mi proverò ad esprimere un'opinione definitiva. Avrei bisogno di rivedere il lavoro più volte. FRANGCOIS IMPARTIAL Vogliate ascoltarmi lo stesso. Les Mystères de l’Amour comporta tre atti. Nel primo non succedeva niente che possa restare impresso. Nel secondo un personaggio faceva un sogno che ci permetteva di vedere una bara, poi un manichino a cui il personaggio tagliava la testa. Nel terzo atto, il personaggio stava a letto con sua moglie; un garzone di macellaio entrava nella stanza e ne usciva offeso... Ma, per che cosa? Allora la donna usciva e poi tornava con un bambino che aveva partorito dietro le quinte. Il bambino veniva messo sul caminetto «per sostituire un’opera d’arte». Cadeva e finiva in frantumi. Irrompeva un poliziotto a chiedere spiegazioni. Gli rispondevano: «È mio figlio che è caduto dal caminetto perché aveva il morbillo». Avete capito? FORTUNAT STROWSKI Il vecchio Furetière nel suo dizionario definisce comprendere con concepire, che è quasi esattamente la stessa parola: «mettere insieme», «possedere insieme». Ora questa nuova arte è proprio l'opposto di una tale moda. Applicare ad essa i procedimenti unificanti dell’intelligenza è come applicare il sillogismo aristotelico ai Pensieri di Pascal. BENJAMIN CRÉMIEUX Restiamo a teatro. Bisogna, a teatro, che una progressione continua porti avanti l’azione: ora la frammentarietà delle visioni proposte da Vitrac manca proprio di progressione continua, intreccio o atmosfera. FRANCOIS IMPARTIAL Senz'altro, ma Roger Vitrac afferma che il teatro non esiste: ha fatto questo lavoro per provare le sue teorie. Egli dichiara che tutta l’arte teatrale consiste nel mettere il pubblico in un certo stato di eccitazione e, nel momento in cui il pubblico crede di aver capito, provargli tutto il contrario. FORTUNAT STROWSKI Da parte mia voglio soltanto rendere omaggio al Teatro Alfred Jarry, prendendolo sul serio. Mi sembra che potrà avere freschezza, ingenuità, diversità e a volte un'originale profondità. MARCEL SAUVAGE Sì, nell'insieme, questo primo spettacolo non manca d'interesse, benché basato su luoghi comuni che non valgono più di quelli del boulevard. Disgraziatamente - l’ho già detto - lo spirito di Padre Ubu era assente dalla festa. umorismo forzato diventa ben presto faticoso, tanto più che ha pretese morali, e gli spettatori l’altra sera lasciarono il Théatre de Grenelle, senza né ridere né piangere. BENJAMIN CRÉMIEUX Ciò che mi ha soprattutto colpito in questo spettacolo è la mancanza di novità. Ma le idee registiche di Artaud sono ciò che mi è parso più valido. FORTUNAT sTROWSKI Un focolare che lancia razzi... SECONDO SPETTACOLO Partage de Midi, di Paul Claudel (III atto). La Madre, di Pudovkin. Al signor Jean Prévost Redattore della «NRE» 3, rue de Grenelle, Paris Signore, Ma che vogliono questi giovani che annunciano che daranno Le Partage de Midi di Paul Claudel e poi dànno solo il terzo atto? Non è per presa in giro, mi creda, ma per incapacità che l'hanno recitato così male. Essi appartengono a un’epoca in cui non si ammette più la poesia a teatro e in cui non si ha bisogno di sentir parlare degli attori. Per loro, il teatro è i loro nervi, e ricercano un teatro di nervi. A casaccio, essi cospargono il testo di grida, di gemiti, di contorsioni, di lamenti. Perché se il testo non serve a fare sobbalzare sulla poltrona lo spettatore, a che cosa serve allora? Si trattava insomma di non recitare Claudel, e quei giovani ci sono ben riusciti, non le pare? In quanto alla scena, era forte! Due materassi erano, uno sospeso in aria sopra un letto (sa, il letto di ferro dei lavori di Bataille), l’altro per terra al capo di una corda.
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