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Il teatro francese del Seicento. Francesco Fiorentino, Sintesi del corso di Letteratura Francese

Il teatro francese del Seicento. Prof. Blanco, Letteratura francese 2, Sapienza, 22/23

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 19/01/2023

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Scarica Il teatro francese del Seicento. Francesco Fiorentino e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Francese solo su Docsity! Il teatro francese del Seicento Capitolo 1 “Le istituzioni teatrali” 1.Teatri e teatranti A Parigi a lungo ci fu un solo edificio destinato alle rappresentazioni teatrali, l’Hôtel de Bourgogne. La sala aveva la forma di un rettangolo, con i palchi sui lati. Il palcoscenico era inclinato, candele di cattiva qualità illuminavano: erano frequenti le lamentele per la pessima visibilità. Il teatro apparteneva a una confraternità, quella della Passione, che nel 1548, anno in cui erano state vietate le rappresentazioni religiose (Mystères), aveva ottenuto il monopolio delle rappresentazioni teatrali in città. Se non potevano, o non volevano, prendere in affitto l’Hôtel de Bourgogne, le compagnie si insediavano in una sala di jeu de paume (pallacorda). Tuttavia, anche se installate in un jeu de paume, le compagnie comunque avrebbero dovuto pagare i diritti alla confraternita. Tra fine Cinquecento e inizio Seicento non mancavano le rappresentazioni neppure in provincia; all’inizio soprattutto per merito di gruppi amatoriali, poi grazie a compagnie itineranti che, se non erano sotto la protezione di un gran signore, conducevano vita molto grama. Mongrédien ha contato circa duecento troupes che durante tutto il Seicento batterono la provincia. Esse hanno contribuito all’unificazione culturale e linguistica del paese e sono state vere e proprie scuole di recitazione. Molti grandi attori fecero così il loro tirocinio. Infine, nei giorni di festa, i collegi gesuiti allestivano a scopi didattici rappresentazioni: storie romane e miti antichi rivisitati alla luce della Provvidenza, episodi biblici, soprattutto vite di santi venivano messi in scena da giovani allievi (unicamente uomini). Il teatro gesuita saldava la cultura classica con quella cristiana. Il primo contatto con il teatro per Pierre Corneille avvenne appunto nel collegio dei gesuiti di Rouen. Nonostante la reputazione del mestiere fosse pessima, l’estrazione sociale degli attori era spesso borghese e l’origine popolare di un attore era sottolineata dalla sua stessa recitazione. La vita teatrale era un’avventura scelta per passione che richiedeva molto coraggio. Data la stabilità nelle consuetudini delle compagnie francesi durante tutto il secolo, una buona fonte per conoscerle è il secondo libro del Théâtre français di Chappuzeau, pubblicato nel 1674. La compagnia teatrale era una libera associazione che si reggeva su un piano di sostanziale parità. La spartizione dei guadagni avveniva alla fine di ogni rappresentazione. Non esistevano registi, né direttori. Le parti potevano essere attribuite per contratto. La pièce appena terminata era affidata dall’autore al più “intelligente” degli attori, il quale decideva se sottoporla al giudizio dei compagni cui l’autore doveva leggerla senza commenti. Mentre Racine fu unanimemente considerato uno straordinario lettore, non altrettanto si diceva di Corneille. Nella prima metà del secolo gli autori contavano pochissimo: era chi recitava ad attirare il pubblico. L’autore cedeva dietro compenso i diritti sul suo testo. In ogni caso, i suoi diritti venivano riconosciuti soltanto fino alla pubblicazione del testo, che, a partire da quel momento, poteva essere recitato da chiunque senza che a lui nulla spettasse. 2.La recitazione La recitazione doveva essere necessariamente “esagerata”. Le e mute di fine verso, a inizio secolo, si pronunziavano e i versi femminili risultavano più lunghi. La dizione tragica valorizzava al massimo la musicalità. Alla retorica linguistica corrisponde anche una retorica gestuale. Se nella farsa il corpo viene contorto, i gesti nella tragedia sono nobili, dignitosi al fine di accordarsi alla qualità dei personaggi. Secondo i teorici del teatro, posteri di Quintiliano, che già associava le di 1 26 due professioni, per rappresentare con il corpo i sentimenti, gli attori dovevano soprattutto ispirarsi agli avvocati. Nella commedia, a scapito dell’eloquenza presto si accentua la propensione verso una espressione dei sentimenti meno artefatta. La tendenza alla sobrietà si estende a fine secolo anche alla tragedia: come sostiene Saint-Évremond nel 1672, “dovendo scegliere tra due vizi, si sopporta meglio il difetto che l’eccesso. Colui che non carica abbastanza i movimenti, non accontenta [...]. Colui che eccede, ferisce lo spirito”. I costumi non erano confezionati con alcuno scrupolo storico: erano tutti vestiti “alla francese”. Gli spettacoli teatrali cominciavano alle due del pomeriggio; in seguito l’orario d’inizio fu spostato alle tre. Ordinariamente i giorni deputati per le rappresentazioni erano il venerdì, cui si riservavano le prime, la domenica e il martedì. Il pubblico popolare del parterre era sempre molto rumoroso, spesso turbolento. I fischi erano un diritto che si acquistava con il biglietto d’ingresso. Fino al 1630 era molto disdicevole che una dama assistesse a una rappresentazione (nel caso, doveva comunque indossare una maschera). 3.Teatro e Chiesa La reputazione sociale del mestiere d’attore migliorò lungo il secolo. Decisiva a questo proposito fu la condotta di Richelieu che arrivò nel 1641 a riabilitare la professione anche ufficialmente. Il resto lo fece il giovane Luigi XIV. Restava, tuttavia, un forte pregiudizio sfavorevole alimentato regolarmente dalle gerarchie ecclesiastiche. Se non abiuravano alla loro professione, non potevano essere sepolti in terra benedetta né accedere ai sacramenti. I rapporti fra teatro e religione cristiana erano sempre stati tanto conflittuali quanto stretti. Prima della rinascita cinquecentesca del teatro laico, avvenuta in Italia, le principali rappresentazioni erano i mystères: pur essendo messe in scena di episodi d’argomento religioso, erano spesso considerate con sospetto dell’autorità ecclesiastica per la loro tendenza a piegare l’argomento sacro a fini profani. Il sospetto della religione cristiana verso il teatro risiedeva sostanzialmente nelle medesime ragioni che dettarono nel suo seno, a varie riprese, posizioni iconoclaste. Venivano condannate le immagini della realtà - a maggior ragione di una realtà profana - in quanto ispiravano concupiscenza e valorizzavano il corpo e la vita terrena. In ambiente protestante il teatro veniva addirittura vietato. Nell’Europa cattolica l’attività teatrale veniva protetta dallo Stato. A Milano il viceré spagnolo si distingueva dal cardinale Borromeo che lanciò contro il teatro e gli attori una campagna di risonanza europea. In Francia, a favorire il teatro era il laico Richelieu che, pur essendo cardinale, faceva prevalere la ragion di Stato su ogni altra considerazione. I maggiori attacchi al teatro si concentrarono dunque soprattutto dopo la morte del cardinale. Tra essi si segnala il Traité de la comédie (1667) del teologo giansenista Pierre Nicole, che condanna l’arte drammatica in quanto, “il fine del Teatro impegna i poeti a rappresentare solo passioni viziose”. Le passioni sono inoculate prima negli attori e poi soprattutto negli spettatori. A Nicole risponderà Racine che si sentì personalmente toccato dalle accuse. Ma la tensione crescerà ancor più a fine Seicento, quando la polemica, lanciata da Jacques-Bénigne Bossuet, il più autorevole vescovo francese, accende tutti i parroci di Parigi che non vogliono teatri nelle loro parrocchie. Bossuet si scatena in un durissimo attacco contro il padre teatino François Caffaro. Bossuet non si limita a ribadire la condanna degli spettacoli, ma interdice al suo povero interlocutore il confessionale, la predicazione e la cattedra di Teologia. In questa campagna i devoti si sentono appoggiati dal re che, sotto l’influsso di Madame de Maintenon, ormai diserta il teatro. Ne farà le spese soprattutto la compagni degli Italiani, bandita dalla Francia. Nel campo religioso la grande eccezione è costituita dai gesuiti che, come abbiamo detto, utilizzano il teatro nei loro collegi. di 2 26 In tragedie come queste, sembra che non esista nessuna autorità terrena tanto forte da imporre la giustizia che può scaturire soltanto da un superiore, imperscrutabile disegno. Quanto poi ai rapporti tra i sessi, il meno che si possa dire è che essi sono improntati a ben poca delicatezza. Capitolo 3 “L’epoca di Richelieu” Il rinnovamento della drammaturgia francese alla fine degli anni Venti corrisponde a un vistoso cambiamento dello statuto sociale del teatro e coincide con l’affermarsi dell’autorità del cardinale di Richelieu, il quale, entrato nel 1624 nel gabinetto del re, avrebbe esercitato un potere quasi assoluto dal 1628 fino al 1642, anno della sua morte. Nella edificazione di un’autorità politica non più condizionata dal potere degli aristocratici, a partire dal 1634 il ministro affidò un ruolo essenziale alla cultura, cui venne attribuito il compito di elaborare nuovi valori. Avrebbe dovuto esaltare il primato dell’interesse statale, impersonato dal re, a scapito di quello dei “particolari” e conseguentemente sviluppare il sentimento nazionale, di cui uno dei capisaldi era individuato nella lingua francese stessa. Viene creata nel 1635 l’Académie Française. La cultura promuoveva nuovi comportamenti. Si propagandavano nuovi valori politici attraverso l’esaltazione dell’autorità regale: l’obbedienza a questa autorità doveva costituire un limite anche per due sentimenti molto enfatizzati dalla letteratura barocca, quali l’onore e l’amicizia. Onore e amicizia - sentimenti aristocratici per eccellenza - erano meno vincolanti dell’amore per la patria e del rispetto per il legittimo re. In questo progetto di nazionalizzazione della cultura, il teatro svolse un ruolo predominante. Da una parte il cardinale lo amava al punto da collaborare alla composizione di pièces. Dall’altra lo impiegò come strumento della sua politica: lo spettacolo si indirizzava contemporaneamente alle diverse classi, rappresentando concretamente l’ideale unità del regno. L’interesse per il teatro diventava così una moda che investiva anche gli strati sociali più alti. Nella Illusion comique, Corneille esalta questa nuova dignità del teatro, contrapponendola ai pregiudizi che nutriva la generazione precedente. È stato possibile distinguere il pubblico teatrale grosso modo in quattro tipi di persone: aristocratici, gli strati popolari, i letterati, gli honnêtes hommes, nobili e borghesi agiati. Sono questi ultimi che alimentano le casse dei teatri, a essi si rivolgono autori e critici. Dal 1635 il cardinale sovvenzionò regolarmente i teatri maggiori. Nel 1641, l’anno prima della sua morte, fece emettere un’ordinanza reale di riabilitazione della professione d’attore. E sempre nel 1641 fu inaugurato nel suo palazzo il teatro. La morte di Richelieu, e le vicissitudini politiche ad essa seguite, impedirono un utilizzo pieno di questo spazio. Nel 1661 sarebbe stato occupato da Molière che lo fece modificare vistosamente. Alla morte di Molière il teatro sarà attribuito all’opera musicale, che lo lascerà solo dopo l’incendio del 1763. Oggi in quei luoghi ha sede la Comédie Française. A partire dagli anni Trenta, si affermò una nuova generazione di autori più colta e ambiziosa di quella precedente. Racan e Théophile de Viau sono i più anziani di un gruppo che comprende come maggiori: Pierre Du Ryer, Tristan L’Hermite, Georges de Scudéry, Jean Mairet, Pierre Corneille, Jean de Rotrou, Paul Scarron. Il peso di questi autori comincia a crescere. Tuttavia le consuetudini teatrali, sempre piuttosto conservative, non cambiano. Gli autori sono ancora costretti a cedere le loro opere dietro compenso, senza poter partecipare agli utili. Sotto Luigi XIV tutti gli autori aspirerannoa far parte della lista, stilata dal potente Chapelain, delle gratificazioni regali. A questo cambiamento di moduli teatrali contribuì anche una nuova generazione d’attori. Gaultier-Garguille morì nel 1632, Gros-Guillaume nel 1634, Turlupin nel 1637. Come stella dei Comédiens du Roi si affermava Bellerose. E si affermava soprattutto una nuova troupe che dal 1634 occupò stabilmente il jeu de paume del Marais. Fra i di 5 26 Comédiens du Marais non mancavano attori comici come Jodelet o Matamore; ma un risalto maggiore vi assunsero le attrici, la Villiers e la Le Noir. Soprattutto, il Marais poteva vantare quello che fu il primo grande attore del teatro francese: Montdory. Egli rappresentò un nuovo tipo di attore. Di figura né imponente né bella, a differenza di Bellerose era “più adatto a fare un eroe che un innamorato”. Questa sua propensione per i ruoli eroici contribuì all’avvento della tragedia. La sua recitazione enfatica ma non leziosa si sarebbe incontrata perfettamente con lo stile richiesto dalle opere di Corneille. 1.La tragicommedia Nella drammaturgia rinnovata non trionfa subito la tragedia regolare, bensì continua a dominare la tragicommedia. Alla fine degli anni Venti essa ha quasi completamente soppiantato la tragedia, che inizierà la sua lenta ripresa soltanto alla fine del decennio successivo. Genere teatrale non teorizzato nell’antichità, la tragicommedia corrisponde ad analoghe forme drammaturgiche che si affermano nelle altre grandi fioriture teatrali europee di quest’epoca: nell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana, nella Spagna del siglo de oro, nell’Italia di fine Cinquecento. La tragedia classica s’impose come modello solo abbastanza tardi e sono numerosi i capolavori del teatro tragico seicentesco che non possono definirsi tali. Tragedia per livello dei personaggi e per drammaticità di eventi, la tragicommedia ha il lieto fine di una commedia. Ma a rigore di teoria - come osservò Corneille - Aristotele non aveva attribuito alcun ruolo al finale nella distinzione tra tragedia e commedia. D’Aubignac nella Pratique addirittura rifiuta di considerarla un genere a sé stante, proprio perché nella definizione aristotelica di tragedia non è pertinente il finale e neppure la distinzione sociale dei personaggi. Anzi, egli osserva che la definizione di tragicommedia, preventivamente comunicata può togliere agli spettatori il piacere di un lieto fine sorprendente. Gli autori dal gusto più marcatamente barocco, invece, tengono a rivendicarla come un genere nuovo. François Ogier, un critico dell’epoca molto in vista, preferisce come “più ragionevole”, la commistione tragicomica all’intrusione a fianco della tragedia di inserti comici recitati dai medesimi attori. E al tempo stesso il critico reputa simile combinazione più conforme alla realtà che è commistione di “riso e di lagrime”. L’estetica tragicomica, tipicamente moderna, invocherà sempre come giustificazione una maggiore aderenza alla realtà. Per la definizione della tragicommedia risultano altrettanto decisive caratteristiche diverse dal lieto fine. Essa non rispetta le unità, se non talvolta in forma attenuata quella di luogo, né si attiene alle strette regole di decoro e moralità che si imporranno nella tragedia classica. La sua vocazione avventurosa la spinge verso trame complesse zeppe di peripezie e ostacoli, liberamente tratte dai romanzi contemporanei. Le tragicommedie di Du Ryer, di Rotrou, di Scudéry, di Marechal, di Corneiile e altri loro contemporanei sono piene di invenzioni, di colpi di scena, di travestimenti, di peripezie. In tutte queste opere, la storia in genere viene messa in moto da un dato di fatto falso i cui nefasti effetti vengono alla fine neutralizzati grazie alla scoperta della verità. Gli intrighi sono complicati. Essi prevedono per lo più due innamorati separati da un personaggio cattivo, potente o astuto, i quali alla fine si riuniscono grazie all’eroismo di lui e alla fedeltà di lei. Il virtuosismo sta nel creare ostacoli nuovi. La tragicommedia del decennio 1630-40 corrisponde agli ideali che Richelieu sta affermando nello Stato: come il sovrano si assume il compito di decidere liberamente, l’autore non più vincolato né alla storia sacra né a quella classica, quasi altrettanto autoritariamente immodificabile, può inventare. La più famosa delle tragicommedie è Le Cid (1637) di Pierre Corneille, il cui successo fu paradossalmente decisivo per l’introduzione delle unità e per l’affermazione del modello tragico. Vi erano messi in scena i valori maggiori della società aristocratica: l’onere, l’amore, l’eroismo. di 6 26 I due amanti giovanissimi, Chimène e Rodrigue - anche se Rodrigue era il quarantaseienne Montdory -, sono separati dallo schiaffo con cui il padre di lei umilia il padre di lui, preferito dal re come istitutore dell’erede al trono. Il vecchio don Diègue, che nel vano tentativo di riabilitarsi è stato disarmato, offre la sua spada al figlio, Rodrigue. Questi tra amore e onore non esita a scegliere quest’ultimo: capisce infatti che si tratta di una falsa alternativa. Senza onore non potrebbe aspirare all’amore di Chimène. L’onore è il presupposto della consistenza sociale di una famiglia: perderlo equivale a perdere il diritto a restare in società. Rodrigue sfida il Conte, padre di Chimène, e l’uccide. Gli espedienti messi in atto dal drammaturgo per assolvere Rodrigue, per renderlo un eroe senza macchia magrado s’impegni in un duello (da Richelieu rigorosamente vietato) con il padre dell’amata, sono molteplici. Da una parte viene dipinto a fosche tinte il Conte; dall’altra è il Conte stesso ad approvare il comportamento del giovane che lo sfida. Pur essendo Rodrigue incolpevole e soprattutto pur amandolo, Chimène deve tuttavia chiedere al re la sua punizione: anche una donna ha dei doveri verso il proprio onore. Ma l’onore femminile è passivo. Rodrigue sconfigge infatti i Mori, che opportunamente, quella sera stessa, si preparano ad assaltare Siviglia. Cambia nome (emancipandosi da nome del padre), diviene il Cid, il Signore, il difensore dello Stato, l’eroe. Soltanto Chimène sara costretta ad “arrossire di vergogna”; dovrà subire i comportamenti indelicati di tutti gli altri personaggi. Il re le ingiunge di sposare Rodrigue. L’ambiguità ideologica e politica della pièce alimentò la polemica. Vi si scorse sia un’apologia del valore spagnolo nel momento in cui la Francia era in guerra con la Spagna, sia un’apologia del duello, che Richelieu di nuovo aveva appena vietato. In effetti i valori della pièce risultano molto contraddittori. Se da una parte l’onore, il primato del sangue, l’ardimento che s’impone alla stessa legge, appaiono valori consoni a un universo aristocrativo se non addirittura feudale, d’altra parte la forte carica epica e nazionale del personaggio di Rodrigue e la luce negativa in cui è posto il Conte che si ribella alla decisione del re appaiono più consoni ai valori del nuovo Stato. Il dibattito letterario fu ancora più acceso. Esso si concentrò sostanzialmente su due punti. Per prima cosa fu messo sotto accusa il carattere immorale della tragicommedia, che si concludeva sulla prospettiva d’un matrimonio tra Chimène e l’assassino di suo padre. Se questo esito era conforme al vero storico, come protestò Corneille, non era tuttavia conforme al verosimile (morale). Fu poi contestato alla pièce il crimine di lese unità. Tre nuovi finali meno conturbanti furono proposti: o il padre di Chimène sopravviveva alle ferite; o si rivelava non essere suo padre; o la salvezza del reame imponeva le nozze. Le critiche non Convinsero Corneille, che nell’Esame della pièce, pubblicato nel 1660, poté rivendicare la sua sostanziale fedeltà al modello tragico aristotelico che consisteva nel creare un eroe che fosse, come Edipo, al tempo stesso innocente e seppure involontariamente colpevole e nel farlo perseguitare da chi gli è più vicino. L’argomentazione di Corneille mostra, a distanza di tempo, una grande superiorità: non è dogmatica. La questione non era costruire opere conformi alle regole ma creare opere che piacessero. In effetti Corneille sapeva che per piacere bisognava ricorrere a un’arte raffinata, che aveva le sue regole. In Corneille, come in Racine e in Molière per quanto diversi essi siano, forme drammatiche e contenuti morali appaiono ora, come apparvero allora, indissolubili. 2.La pastorale A metà degli anni Venti si rinnova anche il successo del genere pastorale grazie a Racan con Les Bergeries (1625), a Mairet con La Sylvie (1626) e a d’Urfé con Sylvanire (1627). La pastorale drammatica sceneggia in un ideale quadro bucolico amori di pastori che all’inizio inevitabilmente si presentano assai contrastati. Vari possono essere gli ostacoli che li impediscono: un personaggio ama due persone; rifiuta l’amore per una predilezione di 7 26 secondario dava all’autore una maggiore libertà. I tragediografi, dunque, si scatenarono a caccia di episodi oscuri. Mettendo in scena storie di cui sono protagonisti re e principi, la tragedia finiva necessariamente per avere un significato politico. Questo non vuol dire che gli autori, neppure Corneille, si servissero delle tragedie per comporre trattati o manifesti politici. Le loro opere dovevano innanzitutto piacere. Un tratto sembra accomunare praticamente tutte le tragedie seicentesche: l’esplicito elogio della regalità. Il decennio 1630-40, che pure segna il trionfo della tragicommedia, è lo stesso in cui si elaborano le basi della drammaturgia classica. Non che il Cinquecento avesse ignorato i moduli tragici antichi. Ma gli autori erano scrittori reputati che ambivano soprattutto ad essere letti, al punto che a lungo si è dubitato (a torto) che le loro opere fossero davvero rappresentate (lo erano, tuttavia, soltanto in maniera occasionale e amatoriale). Questa stagione fu comunque travolta dalle guerre di religione che insanguinarono la Francia a fine Cinquecento. Con l’avvento della dinastia dei Borboni, riprende la pratica della tragedia. Hardy scrisse tragedie abbastanza diverse da quelle umanistiche, sopprimendo l’eroe passivo che si limita a subire le persecuzioni del destino. Ma esse sono diverse anche da quelle che si sarebbero scritte più avanti: vi si trova in generale una prevalenza del lirico sul drammaturgico. Prima del 1630 già si segnala comunque una importante tragedia: Pyrame et Thisbé (1623) di Théophile de Viau. Vi viene raccontata la storia, tratta da Ovidio, di due giovani amanti impediti nel loro amore dallo scatenamento di una pluralità di forze: il sospetto dei vecchi, le rivalità familiari come in Romeo e Giulietta, la gelosia di un re tirannico. Questa tragedia costituisce il culmine di quel rinnovamento del linguaggio erotico a teatro che la nuova generazione d’autori porta avanti contro Hardy. Ma a tanto impegno lirico non corrisponde che pochissima azione. È solo a partire dal 1630 che si elabora un nuovo canone tragico. La tragedia non si conforma immediatamente alle numerose regole che i critici, oltre che i drammaturghi stessi, discutono con passione. Generalmente si considera la prima tragedia regolare la Sophonisbe (1634) di Mairet. Sempre nel 1634, vengono rappresentate altre tre tragedie: Hippolyte di La Pinelière, La Mort de César di Scudéry, la Médée di Corneille. L’eloquenza, il patetico, le passioni rappresentate a forti tinte (soprattutto la gelosia e la vendetta) costituiscono gli ingredienti essenziali di questa prima fioritura tragica. Il modello dominante appare quello senechiano. Si tratta prevalentemente di tragedie di argomento storico. La più eccentrica scelta corneliana a favore del mito era destinata a essere ripresa di lì a poco, quando sarebbe sopravvenuta la moda delle tragedie à machines. Il capolavoro di questa prima fioritura è tragica è Marianne, di Tristan L’Hermite, recitata nel 1636: Hérode ama perdutamente, non essendone riamato, la moglie Marianne cui ha sterminato la famiglia. Salomé, la sorella del re che odia la cognata, gli fa credere che Marianne sia adultera e minacci la sua vita. Hérode fa condannare la moglie e impazzisce. Comunque negli anni Trenta la tragedia non si afferma ancora come un modello incontrovertibile. Con Le Cid, di qualche mese successivo a Marianne, Corneille torna infatti alla tragicommedia. La disputa nota come la “querelle du Cid” ebbe un ruolo essenziale nella storia del teatro francese. Un’attenzione a un’opera teatrale così intellettualmente e socialmente altolocata sarebbe stata impensabile solo dieci anni prima. Le critiche investirono sia il finale dell’opera sia la sua mancata osservanza delle unità. Corneille resisté e cedette solo dinanzi all’autorità politica di Richelieu. Tuttavia, esse lo avevano toccato. Solo tre anni dopo, nel 1640, fece rappresentare Horace che non era più una tragicommedia, bensì una tragedia rispettosa delle tre unità. Anch’essa tuttavia rischiò una censura per ragioni morali. Horace salva Roma vincendo il duello con i Curiazi, ma non sopporta che sua sorella, fidanzata di uno dei Curiazi, lo di 10 26 pianga. L’omicidio di Camille da parte del fratello fu considerato una grave infrazione. E Corneille, come sempre, non si piegò, preferendo il credibile al verosimile. La trilogia tragica di Corneille che succede al Cid (nel 1640 viene recitata al Marais Horace, poi Cinna nel 1642, Polyeucte nel 1643) fornisce, per usare una bella formula di Morel, “l’armatura morale della tragedia francese all’epoca di Luigi XIII”: un composto di virtù neostoiche e di quell’ideale aristocratico di magnanimità, che a partire da Aristotele era stato rielaborato dal pensiero gesuita. L’eroe protagonista di tutte queste pièces è pronto a immolarsi non soltanto in nome della gloria privata, ma soprattutto per l’affermazione di un valore superiore. E questo suo gesto può essere apprezzato solo dagli spiriti eletti. Come ha osservato Forestier, Corneille adotta già nelle prime tragedie un modello drammaturgico antico, quello dell’eroe contemporaneamente innocente e colpevole; modello che meglio d’ogni altro può suscitare i sentimenti - secondo Aristotele - specifici della tragedia: timore e pietà. L’assoluzione di Horace attesta il primato dell’interesse pubblico su qualsiasi prospettiva particolare, per quanto moralmente fondata. Inoltre, esalta il ruolo superiore che la figura del monarca legittimo ha peraltro in quasi tutto il teatro seicentesco, nel quale si presenta sempre come una sorta di deus ex machina che detiene il potere di risolvere i nodi della trama, amministrando la giustizia. Nella tragedia successiva, Cinna, compare di nuovo un protagonista colpevole: Cinna trama contro Augusto, istigato dall’amata Émilie. L’eroe non solo non commette il delitto, ma è renitente a commetterlo. L’innocenza del giovane patrizio, che progetta anche di suicidarsi dopo avere ucciso, è tuttavia un’innocenza scipita, senza gloria: gli mancano quei caratteri eroici indispensabili nell’antropologia corneliana. Non ha il merito di avere salvato la patria come Rodrigue e Horace o di essere un martire della fede come Polyeucte. Il vero protagonista della tragedia diviene dunque Augusto che, scoperta la congiura, compie un atto di clemenza. Acquista così, grazie alla magnanimitas, una nuova legittimità, che gli verrà subito riconosciuta anche dai suoi oppositori. Anche il protagonista di Polyeucte, benché martire della fede, si presenta come un personaggio contraddittorio. Da una parte la sua religiosità sublime, dall’altra un atto temerario che scatena la persecuzione. Anche Polyeucte è insieme innocente e colpevole, al pari di Horace. Ma il martirio riscatta la sua colpa, trasformandola in motivo di gloria. Nella tragedia successiva, Pompèe (1643), Corneille si rivolgeva all’amatissimo Lucano e a Plutarco in un’opera dal significato politico piuttosto scabroso: Pompeo, eroe magnanimo, viene messo a morte a tradimento per colpa di un ministro ignobile. Richelieu era appena morto. Corneille consumava la sua rivincita contro colui che aveva orchestrato la campagna ai danni del Cid? La tragedia si chiude sulla prospettiva di un nuovo confronto tra le parti. 5.Le unità Tutte e quattro le tragedie corneliane che si succedono dopo Le Cid, rispettano abbastanza le unità. Quella delle unità è stata una questione che ha attraversato la cultura europea per oltre due secoli. Riprendendo quanto avevano sostenuto Aristotele e Orazio, ne avevano scritto nel Cinquecento i teorici italiani Castelvetro, Vida, Giraldi Cinthio, Trissino, Scaligero. La discussione riprese in Francia nel Seicento e durò fino a Boileau e oltre. Le unità non erano, all’epoca, le sole regole della drammaturgia, che ne conosceva numerose altre. Particolarmente vincolanti erano quelle che riguardavano caratteri e azioni dei protagonisti che dovevano corrispondere alle norme morali in vigore (le bienséances), altrimenti la loro condotta era irrimediabilmente tacciata di inverosimiglianza. La storicità dell’evento è irrilevante per la verosimiglianza, che intende attribuire una funzione morale all’arte in generale. Nello stile, una traccia di quest’obbligo alla verosimiglianza affiora nella tendenza dei personaggi, soprattutto tragici, a riferirsi a massime per giustificare i loro comportamenti. di 11 26 Per quanto importanti fossero anche queste altre regole, quelle delle unità erano tuttavia le più famose e dibattute. Il loro rispetto si pone all’ordine del giorno già per i drammaturghi degli anni Trenta, ma le pièces di quegli anni, nelle quali sono in vigore, restano relativamente poche. Solo dopo il Sessanta saranno davvero largamente operanti. La loro applicazione comportò una vera e propria trasformazione della drammaturgia seicentesca. Unità di tempo Se la pièce durava circa due ore, quanto tempo doveva durare l’azione? Secondo i modernisti fautori della tragicommedia, quanto si voleva. Secondo i partigiani delle regole antiche, invece, no. Teoricamente, essendo quella teatrale l’imitazione di una azione, per adeguarsi completamente all’illusione dello spettatore l’azione sarebbe dovuta durare due ore. Ma evidentemente questa soluzione estrema era assai difficile da realizzare. Si poteva giocare quindi sugli intervalli tra un atto e l’altro, durante i quali si supponeva trascorso un lasso di tempo. Ma quanto? Ci si accordò perché tutta l’azione durasse una giornata. Questa concentrazione naturalmente comportava alcuni problemi. Ma, malgrado le resistenze, l’unità di tempo si stabilì. L’azione, concentrata in 24 ore, trovava un ritmo incalzante: un passato più o meno lungo, del quale gli spettatori erano informati nell’exposition, presentava inesorabilmente i suoi conti l’ultimo giorno. Unità di luogo Valeva per questa unità un ragionamento analogo a quello per l’unità di tempo: essendo una la scena, anche l’azione avrebbe dovuto concentrarsi in un solo posto. Di fatto intorno al 1640, per unità di luogo si intese la città. Nel determinare l’unità di luogo intervenivano questioni squisitamente tecniche. La scena era fissa e il sipario fu introdotto tardi. La mancanza di sipario costringeva poi a lasciare in vista la scena anche tra un atto e l’altro. Tutte queste difficoltà spiegano perché l’unità di luogo fu la prima a imporsi. Ma costringere tutta l’azione in un medesimo spazio fu un problema tutt’altro che facile. Nel prosieguo del secolo, la regola dell’unità di luogo divenne così stringente che, mentre era ancora vivo Corneille (nel 1678), lo stesso Cid finì per essere ambientato in “una camera a quattro porte”. Unità d’azione Questa unità, che contemplava una sola azione in ogni tragedia, non fu di fatto mai rispettata. Essa contrastava troppo con l’inclinazione, molto forte del secolo, per il romanzesco. Fu invocata piuttosto per discutere aspetti della composizione, come lo sviluppo dell’azione, la sua coerenza. L’affermarsi a fine secolo dell’unità d’azione procurò tra gli altri effetti un accorciamento delle tragedie. Se già quelle di Racine sono lunghe in media 1640 versi - meno di quelle corneliane -, quelle di Campistron (1656-1723) raggiungono in media i 1420 versi. L’ultimo atto in particolare si abbrevia vistosamente: il rifiuto del romanzesco riduceva le possibilità dell’intreccio. Lungo il secolo l’avvento della tragedia regolare con le sue regole fu comunque assai lento. La tragicommedia e il gusto per l’avventuroso che essa incarnava resistette a lungo e non fu mai del tutto soppiantato, come dimostra una statistica elaborata da Scherer: periodo 1640-49: 69 tragedie, 67 tragicommedie, 31 commedie; 1650-59: 32 tragedie, 30 tragicommedie, 30 commedie, 5 pastorali; 1660-69: 40 tragedie, 15 tragicommedie, 52 commedie, 8 pastorali. Capitolo 4 “La Fronda” Nel 1642 muore Richelieu, nel 1643 anche Luigi XIII, lasciando il futuro Luigi XIV ancora bambino. Si apre un periodo di terribile instabilità politica che negli anni 1648-1653, quelli della cosiddetta Fronda, diviene vera e propria guerra civile. Da una parte c’è l’autorità monarchica. Essa è difesa dalla regina madre, Anna d’Austria, e da Mazarino. Dall’altra parte si schierano tutti i nemici di Richelieu, pronti a profittare della situazione favorevole per recuperare l’influenza perduta. I questo campo si era ben lungi dall’andare d’accordo. Finiva sempre per disfare le alleanze dei grandi signori la concorrenza tra le ambizioni personali - prime fra tutte quelle di Monsieur, zio del giovane di 12 26 ingegneristico deve essere piegato alla coerenza dell’azione. Inoltre, la presenza degli dèi con i loro mirabolanti movimenti rischia di ridimensionare eccessivamente gli eroi, e di contravvenire alle biensèances, mostrando divinità in preda a debolezze umane. La soluzione di Corneille, Donneau de Visé e compagni consiste nell’attribuire agli dèi il ruolo di coadiuvanti piuttosto che quello di rivali degli eroi. L’impiego delle macchine si diffonde in tutti i teatri. E dalla tragedia si estende anche alla commedia. 3.La commedia Grande fioritura. Corneille vi ritorna nel 1643-44 e 1644-45 con Le Menteur e La Suite du Menteur. Entrambe sono ispirate a modelli spagnoli. Dédicace di Don Sanche d’Aragon (1650) → Corneille teorizza un nuovo tipo di commedia sulla base di Aristotele, « commedia eroica », cioè commedia sebbene i protagonisti siano i reali d’Aragona e di Castiglia. Sostiene che sono le qualità dell’eroe e dell’azione e non il livello dei personaggi a distinguere la tragedia dalla commedia. La tragedia richiede «un uomo che non sia né del tutto cattivo, né del tutto buono; lo vuole perseguitato da qualcuno dei suoi prossimi; richiede che corra il pericolo di morire per mano di qualcuno che dovrebbe difenderlo». caratteristiche che non sono di esclusivo appannaggio dei principi. Anzi, pietà e terrore, i sentimenti della tragedia, saranno ancor più suscitati da personaggi meno altolocati e più vicini agli spettatori. Così come la tragedia può prescindere dall’altezza dei personaggi, anche la commedia può usare personaggi altolocati, a patto di coinvolgerli in una storia che non susciti né paura né pietà. Genere di commedia più in voga → di intrigo. Dopo avvenimenti complicati e imprevedibili, innamorati impossibili ricongiunti da un’agnizione : travestimenti, scambi di persone, rapimenti, equivoci, questioni d’onore. Fonte principale è il teatro spagnolo, come Lope de Vega, Calderon de la Barca, Tirso de Molina ecc. Vengono adattati alla scena francese ad esempio eliminando le infrazioni troppo vistose alle regole delle unità, tagliando scene troppo comiche, ridotti i monologhi e gli «a parte». Sia la commedia eroica che quella d’intrigo, se da una parte conferiscono un tono letterario e una distinzione morale al genere, dall’altra tendono spesso a ridurre la parte riservata al riso. Commedia burlesca → più interessante per gli ulteriori sviluppi del genere. Ne scrivono Scarron, Boisrobert, Thomas Corneille. Grandi attori come Jodelet. Jodelet ou le maitre valet → forse 1643. Prima pièce scritta da Scarron per Jodelet. Dom Juan è il bel pretendente di Isabelle, la quale gli viene contesa dal perfido dom Louis, che in passato ha ucciso suo fratello e sedotto sua sorella. Jodelet è il servo di dom Juan; ma il personaggio comico questa volta è al centro della trama. Profittando di uno scambio di ritratti per cui Isabelle ha ricevuto il suo come quello del promesso sposo, Jodelet ha infatti scambiato abiti e identità con il padrone, che intende con questo stratagemma verificare l’affidabilità della donna che dovrebbe sposare. Così tutti credono Jodelet un giovane signore, malgrado si comporti in maniera enormemente inadeguata a questo ruolo. Jodelet interpreta il ruolo del gracioso della commedia spagnola: del servo che accompagna il caballero ma a differenza di come spesso si presenta il gracioso, non è astuto. La comicità è di situazione. Comicità che sancisce attraverso il riso la presa di distanza dal personaggio che l’esprime, e la superiorità dello spettatore. Forte parodia, non per forza contestativa. Comicità di Jodelet è connessa alla libertà di giocare con il linguaggio. Da finire sul libro.
 Importanza del burlesco per Molière :
 - centralità del personaggio comico rispetto all’intrigo. - struttura che oppone un personaggio comico a tutti gli altri. di 15 26 - personaggio subalterno che finge di essere un signore torna nelle Précieuses Ridicules con una qualità nuova che lo emancipa dal ruolo di gracioso: la cultura. I due servi di Molière sono più verosimilmente presi per ciò che non sono perché capaci di usare un linguaggio alla moda. Non sono solo una funzione drammatica, rappresentano anche un fenomeno di costume del loro tempo. - riferimento al basso, al corporale, al regressivo. 1643 → anno probabile del primo successo di Scarron, e Molière con i Béjart fonda a Parigi l’Illustre Théatre e comincia la sua carriera teatrale. I suoi inizi coincidono quindi con la moda di questa comicità. 1659 → Jodelet vecchio e famoso entra nella compagnia di Molière e recita nelle Précieuses Ridicules. Capitolo 5 “Il teatro di Luigi XIV” (1660-1680) Sconfitta la Fronda e gli spagnoli che la sostenevano → Luigi XIV ha un regno pacificato su cui ha un’autorità assoluta, sul modello iniziato da Richelieu. Ministri e generali scelti da lui, nobili resi innocui con l’obbligo di risiedere a Versailles. Posto di rilievo riservato alla cultura, che deve esaltare la Francia e il re con una nuova estetica opposta a quella barocca, considerata d’importazione straniera, spagnola e italiana. Estetica classica → riprende valori antichi di misura, razionalità, controllo. Le passioni sono un errore e un peccato. L’arte però non sempre coincide con il potere. 1664 → grandissima festa a Versailles: Les plaisirs de l’île enchantée. Tema dei festeggiamenti → Orlando furioso di Ariosto. Maga Alcina teneva prigionieri nella sua isola incantata giovani guerrieri, tra cui il re nei panni di Ruggero, che si distraevano con spettacoli vari, una commedia, un balletto. Vigarani → costruisce le macchine.
 Périguy e Benserade → versi che spiegavano i personaggi. Lully → musica.
 Molière → La Princesse d’Elide. La festa mette in scena il sogno di un luogo meraviglioso, letterario, arredato con fasto, in cui trionfano amore amicizia e sogno. È anche uno spettacolo autoritario di cui il re è destinatario ed eroe davanti ai suoi cortigiani, divenuti i suoi comprimari e spettatori. La festa non solo rispecchia un ordine e un ideale politico, ma lo rappresenta. Molière mette in scena per la prima volta Tartuffe. Il teatro manteneva intatta la sua capacità di criticare e smascherare. 1.Molière e l’estensione del dominio del comico 1658 → dopo anni in provincia, Molière torna a Parigi. Nella troupe: coniugi De Brie e Du Parc, famiglia Béjart. Dal 1659 → Jodelet, Du Croisy, La Grange. A fine carriera alleva come erede Baron. Tutti i teatri occupati. Restavano un paio di jeux de paume secondari. 1659-62 → Mazarino fa costruire nuovo teatro alle Tuileries, all’italiana, semicircolare con la scena al centro. Attribuita a Molière la sala dell’Hotel de Bourbon. Sloggiato dopo un anno perché Monsieur de Ratabon progetta allargamento del Louvre. 1660 → principali compagnie parigine sono i Comédiens du Roi (detti anche Les Grands Comédiens) e la compagnia del Marais, specializzata in tragedia di macchina, su cui i primi stavano avendo la meglio. Racine → fornitore dei comédiens. Marais → tutti vecchi : Floridor, Bellerose, Montfleury. di 16 26 Altro concorrente → gli Italiani, appoggiati da Mazarino nel 1662. Troupe stabile con Scaramouche (Tiberio Fiorilli), Arlecchino (Domenico Biancolelli). Ricevevano la pensione più alta di tutti. 1658-59 → Molière condivide con loro la sala del Petit-Bourbon, pagando affitto e prendendo i giorni extraordinaires. Molto successo gli italiani. Molière ne riprende la maschera all’italiana invece di quella infarinata francese nelle Précieuses Ridicules. Anche nome del personaggio Mascarille è di derivazione italiana. Teatro italiano più libero nella satira. Sorta di privilegio di extraterritorialità dovuto alla lingua, alla tradizione e al prestigio. 1697 → La fausse prude. Adombrata Madame de Maintenon. Italiani cacciati da Parigi. Vari tipi di commedia a Parigi negli anni ‘50 → d’intrigo, burlesca, commedia dell’arte e commedia sostenuta. E la farsa? Reintrodotta proprio da Molière. Il suo successo era giudicato un attentato alla morale e al prestigio del teatro. Un fattore decisivo del successo di Molière sembra proprio l’assenza di offerta per questo genere di comicità. Tipo di comicità e recitazione inconsuete, proprio nel momento in cui i grandi attori declinavano per vecchiaia e l’Hotel de Bourgogne eccelleva solo nella tragedia. Tentativo di commedia eroica corneliana → Dom Garcia de Navarre, 1661. Fallimentare. Attingerà ai suoi versi per Le Misanthrope. Da questo insuccesso fu riportato al riso. Modelli farseschi ritornano sempre. Boileau glielo rimprovera. I prestiti farseschi erano comunque rielaborati. Ad esempio, se riprendeva la struttura ad agone tipica della farsa, che oppone due personaggi molto contrastanti, la applicava a questioni morali di rilievo. Se ricorreva alla ripetizione, la trasformava da mero espediente della comicità verbale in segno di una mania. Grande innovazione → connettere comicità di orgine farsesca a valori sociali e morali alti e complessi come quelli dell’honnêteté, nuova cultura che si afferma nel gusto e nei comportamenti delle classi elevate sotto Luigi XIV. Valori → rispetto, tolleranza, buon gusto, misura. Astuzia usata per la loro affermazione è un mezzo e non un fine in sé. È giustificata come procedura irregolare per fronteggiare individui pericolosi e alienati nella loro ossessione. Gli imaginaires (maniaci) molieriani costituiscono una minaccia sociale: sono fanatici ossessivi che esercitano in forma dispotica e arbitraria un potere attribuito dalla legge e dalla tradizione. Il ridicolo è su di loro. Honnêteté e riso, che apparivano difficilmente conciliabili, vengono allora associati. Combinazione tra valori socialmente prestigiosi e riso, stile alto e stile basso, era estraneo sia alla tradizione che alla sensibilità contemporanea. Molière ebbe come avversari il partito dei devoti (vecchia corte, compagnia del Santo Sacramento di Bossuet) e i suoi concorrenti come Montfleury, alcuni critici che gli rinfacciano la promiscuità con la farsa che rischiava di compromettere la dignità del teatro. Criticato anche da d’Aubignac. In effetti questa sintesi era resa possibile proprio dal discredito in cui era caduta la farsa a opera di una generazione di teatranti che se ne era allontanata per nobilitare il teatro. Molière inventa anche la commedia-balletto → danza musica e canto. Ad esempio: La Princesse d’Elide, Le bourgeois gentilhomme, Le malade imaginaire, Psiché. Prevedeva comunque il primato del testo recitato sulle parti musicali. 3 periodi della carriera di Molière secondo Defaux (1980) : - 1658-1664 → da ritorno a Parigi a proibizione del Tartuffe per intervento reale. Opere come Les Précieuses Ridicules, Sganarelle ou le cocu imaginaire, L’école des maris, L’école des femmes. Accordo tra il drammaturgo e lo spirito del nuovo regno di Luigi. Maniaco viene sempre sconfitto e mania castigata con il ridicolo in nome dell’honneteté. L’interdizione di Tartuffe spezza questo accordo. di 17 26 Il grande sogno di conciliare le istanze politiche con una morale galante nutrito dal 1630 fallisce per l’invadenza imperialistica del tema erotico che minaccia la consistenza di tutti gli altri valori. La Thébaide ou Les Frères ennemis, 1664 → tragedia d’esordio di Racine, rappresentata dalla troupe di Molière. Ispirata a Euripide. Materia non era erotica, come voleva la moda. Finale sanguinoso inusuale in rapporto alle bienséances. Ma esibiva subito un sentimento tragico del destino, che non mancherà mai nelle sue opere maggiori. Vi operano disinvoltamente le tre unità. Tragedia presenta contrasto politico tra i due pretendenti come quello tra due mezze legittimità. Padre decide che ognuno deve regnare per un anno. Eteocle rifiuta di cedere posto al fratello perché dice di essere amato dal popolo. Polinice invoca il diritto ereditario, non assoggettato alla compiacenza dei sudditi. La questione politica si risolve nel fatto che l’interesse dello Stato è di avere soltanto un re. Lo Stato non sopporta divisioni, a Tebe come in Francia. All’origine c’è quindi la colpa del padre. Così la teoria giansenista della predestinazione si sposa con quella di destino tragico. La disgrazia è sufficiente: chi la patisce è al tempo stesso mezzo colpevole e mezzo innocente. Proprio questo stato ambiguo permette di suscitare i sentimenti propri della tragedia: timore e pietà. Alexandre le Grand → completa conversione alla moda galante. Il quadro politico cede dinanzi al prevalere del motivo erotico. Andromaque, 1667 → tragedia che consacra Racine. La Du Parc faceva Andromaque. Hotel de Bourgogne. La tragedia galante raggiunge la sua perfezione distruggendo l’ideale che l’ispira : mostra fino a che punto l’amore possa accecare e compromettere le qualità morali di un individuo, senza che per questo egli si trasformi in un mostro. Nel palazzo di Pirro a Butroto (Butrinto) nell'Epiro, Ermione attende le nozze promesse, per cui è venuta da Sparta. Ma Pirro indugia, la trascura per amore di Andromaca, che è sua schiava. A lei offre la mano, la corona e la salvezza per il figlio Astianatte. Preoccupati, i greci inviano a lui Oreste, per chiedere il fanciullo. Oreste è innamorato di Ermione e spera che Pirro rifiuti e lasci la fidanzata, che potrebbe così rispondere al suo amore. La minaccia dei greci, diviene un'arma in mano a Pirro, nel tentativo di piegare Andromaca: ma anche se straziata, resiste. Ermione rivela ad Oreste il suo amore per Pirro, e gli chiede di porre la scelta a Pirro tra lei e Astianatte. A dispetto dell'amore per Andromaca, Pirro decide di consegnare Astianatte e sposare Ermione. Oreste è disperato, mentre Ermione è raggiante di felicità, a cui si associa il disprezzo per la principessa troiana, che ora viene a supplicarla in favore del figlio. Un incontro tra la schiava e Pirro, sembra capovolgere la situazione: Pirro le offre di sposarla e di porre in salvo la vita del figlio. Andromaca accetta, ma il suo disegno è di sposarlo, assicurare la sua protezione al figlio e quindi darsi la morte. Ermione, davanti a questo affronto, chiama Oreste e, invocando il suo amore, gli chiede di uccidere Pirro. Combattuta tra orgoglio e amore, attende l'esito; quando Oreste gli viene a riferire che l'infedele è stato ucciso, scoppiano il suo dolore e il suo amore. Respinge quindi l'uomo che troppo l'ha ubbidita e corre a suicidarsi sul cadavere del promesso sposo. Oreste, in preda alla follia, sviene e Pilade ne approfitta per portarlo via. Britannicus, 1669 → tragedia di ambientazione romana e argomento politico, a sfidare Corneille. Fu un insuccesso. Si intrecciano due azioni che hanno entrambe Nerone come protagonista. Da una parte abbiano il triangolo erotico, reso tragico dalla rivalità tra due fratelli, dall’altra abbiamo un rapporto madre-figlio che è soprattutto politico. È in questione il potere : Britannicus è l’erede legittimo, espropriato dalle trame di Agrippina e dalla debolezza del padre Claudio. Britannico è però pronto a lasciare ogni pretesa pur di avere Junia. Agrippina è personaggio negativo. Ha tramato alterando la trasmissione di 20 26 naturale del potere: ha pervertito la successione in una forma non ammessa dalla monarchia francese. La tragedia presenta così un nuovo tipo di personaggio: Nerone è al tempo stesso il cattivo e colui che invece può rivendicare alcune giuste prerogative. Contraddizione rinfacciata a Racine, che nella Postfazione si giustifica ricorrendo alla formula di «mostro nascente». A fine tragedia perde la legittimità morale che prima deteneva. Bérénice (1670): era palese sfida a Corneille. Tito, nominato imperatore alla morte del padre, deve allontanare l’amata regina per ottemperare alla legge romana che non vuole che ci siano re o regine a governare la città. Il problema di Racine era quello di imbastire una storie e una suspense a partire da questa situazione elementare e precocemente risolta. E ci riesce: se la decisione di Tito è subito presa, non per questo è comunicata subito alla regina. Alla comunicazione si oppongono sia l’amore di Tito, che non riesce a parlare, sia l’amore di Berenice, che non riesce a crederci. In questi problemi si inserisce Antioco, che a sua volta vuole esprimere il suo amore per Berenice. Antioco, cui Berenice aveva imposto il silenzio, viene incaricato dall’inconsapevole Tito di trasmettere alla regina la sua decisione. Quando apprende la separazione della coppia, Antioco concepisce la speranza: così si trasforma in personaggio tragico. Al quarto atto Tito finalmente comunica la decisione a Berenice; la regina rifiuta le ragioni dell’amato, che le paiono pretestuose: può ancora suicidarsi, e non si sa come reagirebbe lui. Il quinto atto fornisce una conclusione soddisfacente: i tre protagonisti hanno tutti lo stesso destino che li vuole separati. I due uomini hanno un parziale compenso per la solitudine: Antioco diventa amante in maniera insperata, mentre a Tito viene data ragione rendendolo l’amante perfetto. Solo Berenice non ha nessun beneficio ed è quindi protagonista della tragedia. Bajazet (1672): Racine sceglie un argomento recente: il sultano Murat IV (Amurat nella pièce), zio dell’attuale sultano, aveva fatto uccidere suo fratello Bajazet. Nella pièce il visir Acomat cerca di contrapporre Bajazet al sultano invidioso. A questo scopo ha fatto innamorare del giovane Roxane, la favorita del sultano. Acomat non è il tipico ministro: è un personaggio molto machiavellico e rappresenta un’istanza di ragionevolezza che deve piegarsi all’irrazionalità da cui sono mossi tutti gli altri personaggi. Se Roxane ama Bajazet, lui ama ed è amato da Atalide, nobile come lui. Roxane senza volerlo ha permesso il rapporto, ma poi gelosa vuole che Bajazet le prometta personalmente e ufficialmente di sposarla. Da qui la catastrofe: muoiono gli amanti pagando alcune colpe, la loro furberia non è degna di un protagonista tragico, quindi va pagata. La soluzione di Bérénice viene contraddetta in Bajazet. Il giovane protagonista non accetta di compiacere la passione della potente Roxane, misconoscendo il proprio amore per Atalide. Quindi non si formano nuove coppie e loro muoiono. Mithridate (1672): ultima tragedia “romana” di Racine. Protagonista è il grande re, nemico giurato di Roma. La tragedia racconta la sua morte. Si lega un’altra azione, che ha per protagonisti la moglie designata di Mitridate, la greca Monime, e i suoi due figli Farnace e Xipharès, entrambi innamorati di lei. Quindi padre contro figli e fratelli tra loro. Il tutto mentre il re, sconfitto di nuovo dai Romani, invece di pensare alla resa progetta un nuovo piano temerario e disperato: quello di portare la guerra in Italia. La falsa notizia della morte di Mitridate porta Xipharès a dichiararsi a Monime, altrimenti non l’avrebbe mai fatto. Farnace, innamorato anch’egli, invece è subito infedele accordandosi coi Romani. Questione politica si intreccia con erotica. Il ritorno di Mitridate impone la rinuncia a Xipharès. Con un tranello di Mitridate, Mimone è spinta a confessare l’amore che prova per Xipharès ed egli è condannato a morte. Gli amanti sono vittime perseguitate. È possibile un finale parzialmente lieto però: è Mitridate a morire. Davanti a Mitridate morente Xipharès batte i Romani e riceve in sposa Monime, non ancora diventata sua matrigna. Viene evitato l’incesto: le biensèances sono salve, e il coraggio e l’onestà di 21 26 premiati.
 Iphigénie, feste reali del 1674 → si ispira a Euripide. Problema di difficile soluzione per una cultura razionalista: la presenza del meraviglioso. Osserva nella Prefazione che la storia del sacrificio della figlia di Agamennone sull’altare di Diana aveva avuto già nell’antichità diversi finali: sacrificio, sostituzione con una cerbiatta secondo Euripide, sacrificio di un’altra Ifigenia secondo Pausania. Quest’ultimo finale gli permette di superare due impedimenti: impedisce l’uccisione orribile di una persona così virtuosa e amabile, e evita di dover ricorrere al soccorso di una dea, di una macchina o di una metamorfosi. Crea quindi il personaggio di Eriphile, figlia di Elena e Teseo. È frutto di amori peccaminosi e questo macchia la sua natura. È il doppio negativo di Ifigenia. Ama Achille, patisce la sua superiorità, la invidia, cerca di arrecarle danno, la tradisce. Il suo rancore è inappagabile perché trova le sue ragioni alla radice della propria esistenza. Comunque il meraviglioso rimane: restano gli oracoli e l’efficacia del sacrificio. Il soprannaturale è solo attenuato. Il sacerdote non compare mai, le sue parole sono solo riportate. Il sacrificio di Eriphile viene raccontato da Ulisse. Ma Ulisse non ha visto Diana discendere dal cielo: lo spettacolo meraviglioso è riservato a un testimone anonimo e inattendibile, un soldato stupito. Questa attenuazione in senso razionalistico del meraviglioso non impedisce che il soprannaturale condizioni la vicenda. Gli dèi sono esigenti e gli umani non posso che subire le conseguenze della loro volontà. Non hanno nessun arbitrio. Virtù per eccellenza dell’agostinismo → umiltà, devozione, obbedienza. Ifigenia vittima innocente accetta la decisione di suo padre e degli dèi. Agamennone → dilaniato tra il sentimento paterno e le responsabilità di comandante in capo dei Greci che lo spingono ad accettare il sacrificio della figlia. Ulisse è il patrocinatore esperto che lo convince. «Achille che minaccia determina il moi cuore / La mia pietà sembrerebbe un effetto della paura». questi versi sono una motivazione onorevole: nessuna ombra può oscurare la dignità regale. Agamennone, sacrificando la figlia, cede a un dovere. Phèdre et Hippolyte → 1677. Dal 1687 prende il nome di Phèdre. Phèdre è preda consapevole di una passione criminale e quindi suscita compassione. In una anonima Dissertation sur les tragédies de Phèdre et Hippolyte, nel 1677 viene accusato di troppa compiacenza verso un personaggio odioso e criminale. Racine nella Prefazione si difende enfatizzando la presunta moralità della sua opera: con Phèdre aspira a riconciliare la tragedia con numerose persone celebri per pietà e dottrina che l’hanno condannata in questi ultimi tempi. Queste «persone celebri» sono state identificate con coi suoi maestri giansenisti da cui si era separato dopo una polemica che lo aveva opposto a Nicole, a proposito della liceità morale del Teatro. Louis Racine, biografo del padre, racconta persino di un’approvazione della tragedia da parte di Antoine Arnauld. La testimonianza è sospetta: volendo accreditare un’immagine edificante e unitaria della personalità paterna, attraverso Phèdre cerca di creare un ponte tra la produzione mondana precedente e quella religiosa successiva. Forestier pensa che si tratti di altri predicatori, come i gesuiti Rapin e Bouhours, perché da parte dei giansenisti il rifiuto del teatro era talmente radicale da non lasciare adito ad alcuna speranza di revisione. Queste affermazioni hanno comunque finito per influenzare l’interpretazione dell’opera che è stata considerata una traduzione teatrale della concezione giansenista della predestinazione. Arnauld: «la regina è un giusto a cui è mancata la grazia». Fedra sembra coincidere con la concezione agostiniana della creatura macchiata dal peccato originale la cui volontà si abbandona alla concupiscenza. di 22 26 Il monopolio delle opere musicali concesso a Lully fa deperire quel genere ibrido che era rappresentato dalle commedie-balletto di Molière. La Comédie Française, dove sono ancora attivi i suoi compagni, celebra invece il culto di Molière. 1.La Comédie Française La Comédie Française nel 1685 conta venticinque membri. Gli attori più importanti sono Baron, la coppia Champmeslé, i fratelli Raisin e Le Comte, Mademoiselle de Beauval. La troupe recitava spesso due pièces per circa 320 giorni l'anno. Lo spettacolo durava circa quattro ore. Al repertorio composto nel 1680 di 127 titoli, di cui 55 appartenenti a Corneille, Molière e Racine, si aggiungevano pièces nuove. Bisognava prevenire la censura. Nelle assemblee settimanali della compagnia la preoccupazione maggiore era quella di trovare una nuova sede. Alla fine si installarono al jeu de paume dell'Etoile (rue des Fossés Saint-Jacques). Il repertorio comico, naturalmente, era dominato da Molière: Tartuffe e L'Avare erano le commedie che continuavano a ottenere pIù successo. La Comédie Française, a confronto degli Italiani, era reputata come maggiormente rispettosa delle bienséances, oltre che delle regole della commedia classica. Baron, ritornato per la fusione dei teatri, non fu soltanto l'attore di maggior prestigio della compagnia; scrisse anche alcune pièces fortunate tra cui spicca L’homme à bonnes fortunes (1686). Moncade, da lui impersonato, corteggia contemporaneamente più donne, regalando a Araminte l'orologio ricevuto da Cidalise e a Cidalise la spilla di Araminte. Alla fine, le dame, messesi d'accordo, lo smascherano umiliandolo. Non gli resta che cambiare nome e quartiere. Con circa cinquanta commedie, Dancourt (1661-1725) è il più assiduo fornitore della Comédie. La specialità di Dancourt fu la commedia di costume. La più celebre delle pièces di Dancourt è Le Chevalier à la mode (1687). Il giovane debosciato Villefontaine riesce a farsi mantenere da due anziane signore e al tempo stesso puntare a una giovane ereditiera. Scoperto il suo gioco dalle dame ingannate, così si giustifica riuscendo ad uscire di scena di fatto impunito. Questo tipo di commedia di costume svelta fino al cinismo, parigina, coglie gli aspetti più vistosi dell'attualità, si fonda sul ridicolo dello snobismo e valorizza tutta una umanità spregiudicata e desiderante che vive al di fuori dei canoni della famiglia e dunque dell'ordine sociale e morale costituito. Essa si afferma come il modello comico dominante fino alla reggenza e sarà poi soppiantata da un'altra forma di comico: la commedia sentimentale, che riporta l’azione all’interno della famiglia. Jean-François Regnard (1655-1709) negli anni Ottanta si dedicò alla letteraturà, cominciando a scrivere per il teatro all’età di trentatré anni. Prima per gli Italiani, poi, nel 1694 diede ai francesi Attendez-moi sous l'orme, cui seguono altre commedie, tra cui Le Joueur (1696), Les Folies Amoureuses (1704), Le Légataire universel (1708) che ebbero un successo trionfale. Il teatro, privato della protezione regale diventa quello che sarà nei secoli a venire il luogo dove un pubblico borghese si diverte a vedere ridicolizzate le proprie mancanze, manie e illegittime aspirazioni. Una commedia di carattere, che però inclina verso la rappresentazione di costumi, è Le Joueur (1697), riconosciuto in genere dalla critica come il capolavoro di Regnard. Valère, preso dal vizio del gioco, perde anche l'amore della bella e appassionata Angélique, che pure si era mostrata sempre pronta a perdonarlo. Alla fine costei dovrà rassegnarsi a sposare Dorante, zio di Valère, che però non ama. La coppia dei giovani qui si spezza. A una è concesso un matrimonio ragionevole e triste, all'altro una passione morbosa e degradata. Il gusto del tempo tinge di nero la rappresentazione dei caratteri. di 25 26 Le Joueur fu l'occasione di un altro scontro violento tra Regnard e Dufresny, che gli contestò la paternità della pièce, in nome del suo Chevalier joueur. Nell'irresistibile Légataire universel, il vecchio Géronte decide di sposare la fanciulla amata da suo nipote. Géronte è anche malato. La questione fondamentale diviene dunque la sua eredità, e il geniale servo Crispin la risolve prima sventando con due travestimenti il progetto del vecchio di lasciare considerevoli somme a parenti provinciali, poi- a causa di una morte apparente del vecchio - addirittura occupando il suo posto e dettando un testamento. Ma Géronte non è morto. Quando tornerà in sé, sarà comunque convinto ad accettare come sua l'opera di Crispin. 2.La “troupe” del teatro italiano Gli Italiani finirono dunque all'Hotel de Bourgogne e anche loro dovettero adottare un Regolamento approvato dalla moglie del Delfino nel 1684. La compagnia sarebbe stata formata da dodici attori. Il capo della troupe italiana era ancora il grande Arlecchino Domenico Biancolelli. Nel 1689 Saint-Évremond li considerava eccellenti attori che però recitavano pièces scadenti. II passaggio dall'italiano al francese non solo aumentò la possibilità di comunicare con un pubblico che conosceva sempre meno l'italiano, ma consentì anche di ricorrere ad autori francesi capaci di strutture drammatiche più complesse. Questo passaggio fu graduale. All'inizio furono inserite nelle commedie battute in francese, poi, qualche scena. È solo a partire dal 1680, da quando cioè gli Italiani si instalIano all'Hôtel de Bourgogne, che possono recitare commedie interamente in francese. Negli anni Novanta, immediatamente prima della loro cacciata, sono inclusi nelle commedie italiane inserti coreografici e musicali. È il momento del trionfo dell’opera. Il gusto di questa fine di secolo inclina al meraviglioso. La Comédie Française, vincolata alla memoria di Molière, continuava a privilegiare un repertorio di approfondimento psicologico o di satira sociale. Nell’offerta teatrale parigina, gli Italiani approfitarono, dunque di uno spazio tutto loro: da una parte quello di una commedia spettacolare e poetica, a metà strada tra la commedia e I opera; dall’altra quello della parodia. Furono loro i veri maestri di questo genere che trionferà nel secolo successivo. 3.La tragedia e l’opera Era opinione comune, all'epoca, che a decretare il tramonto del più illustre dei generi letterari fosse stata la concorrenza dell'opera. Il fatto che la tragedia dovesse fare i conti con il favore per l'opera, appare tuttavia soltanto il motivo contingente del suo declino. La tragedia non conoscerà nuovi capolavori dopo il ritiro di Racine. Dopo la morte di Corneille (1684) e il ritiro di Racine dalla scena, la tragedia dispone soltanto di epigoni le cui opere oggi non interessano che agli specialisti. I modelli illustri e inarrivabili di Corneille e di Racine schiacciano quest'ultima generazione. Proprio in questo periodo viene inaugurato il canonico parallelo tra i due massimi tragediografi. La contrapposizione polemica tra i due grandi autori, durante la loro vita sempre in aspra concorrenza, cede comunque il passo a un riconoscimento più equanime delle rispettive grandezze: «Corneille è persuaso che per raggiungere il cuore, bisogna passare per lo spirito. Racine ha creduto invece che bisognava arrivare allo spirito attraverso il cuore», scrive Longepierre. Ciò che comunque più accomuna questi epigoni finisce per essere la ricerca del patetico, sia nella forma sublime dell'orrore, sia in quella lacrimosa della pietà. La tragedia si spegne, s'avanza il secolo del dramma. di 26 26
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