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il trono di spade 1 e 2 libro, Traduzioni di Storia Inglese

storia fantastica dalle origini al medioevo

Tipologia: Traduzioni

2018/2019

Caricato il 20/04/2019

maria-luciana
maria-luciana 🇮🇹

4.3

(3)

39 documenti

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Scarica il trono di spade 1 e 2 libro e più Traduzioni in PDF di Storia Inglese solo su Docsity! GEORGE R.R. MARTIN IL TRONO DI SPADE (A Game Of Thrones, 1996) Questo libro è per Melinda PROLOGO Le tenebre stavano avanzando. «Meglio rientrare.» Gared osservò i boschi attorno a loro farsi più oscuri. «I bruti sono morti.» «Da quando hai paura dei morti?» C'era l'accenno di un sorriso sui lineamenti di ser Waymar Royce. Gared non raccolse. Era un uomo in età, oltre i cinquanta, e di nobili ne aveva visti andare e venire molti. «Ciò che è morto resta morto» disse «e noi non dovremmo averci niente a che fare.» «Che prova abbiamo che sono davvero morti?» chiese Royce a bassa voce. «Will li ha visti. Come prova, a me basta.» Will sapeva che prima o dopo l'avrebbero trascinato nella discussione. Aveva sperato che accadesse dopo, piuttosto che prima. «Mia madre diceva che i morti non parlano» s'intromise. «Davvero, Will?» rispose Royce. «È la stessa cosa che mi diceva la mia balia. Mai credere a quello che si sente vicino alle tette di una donna. C'è sempre da imparare, perfino dai morti.» La foresta piena d'ombre rimandò echi della voce di ser Waymar. Troppi echi, troppo forti e definiti. «Ci aspetta una lunga cavalcata» insisté Gared. «Otto giorni, forse nove. E sta calando la notte.» «Cala ogni giorno, quasi sempre a quest'ora.» Ser Waymar alzò uno sguardo privo d'interesse al cielo che imbruniva. «Qualche problema con il buio, Gared?» Will vide le labbra di Gared stringersi e la rabbia repressa a stento invadere i suoi occhi, visibili sotto lo spesso cappuccio nero del mantello. Gared aveva passato quarant'anni nei Guardiani della notte, la maggior parte della sua vita di ragazzo, tutta la sua vita di uomo, e non era abituato a essere preso con leggerezza. Ma questa volta nel vecchio guerriero c'era qualcosa di più dell'orgoglio ferito. Una tensione nervosa che arrivava pericolosamente vicino alla paura. Will la percepiva, la sentiva. Forse perché lui stesso aveva paura. Era di guarnigione sulla Barriera da quattro anni. La prima volta che l'avevano mandato sull'altro lato tutte le antiche, sinistre storie gli erano tornate alla mente come una valanga. Aveva sentito le viscere attorcigliarsi e il sangue andare in acqua. In seguito ne aveva riso. Era un veterano adesso, con centinaia di pattugliamenti alle spalle. Per lui, non c'erano più terrori in agguato nella sterminata estensione verde scuro che quelli del Sud chiamavano la Foresta stregata. O per lo meno, non c'erano stati terrori fino a quella notte. C'era qualcosa di diverso, quella notte, qualcosa che gli mandava brividi gelidi lungo la schiena: le tenebre, la loro densità. Erano fuori da nove giorni, e avevano cavalcato prima verso nord, poi verso nord-est, poi di nuovo verso nord, seguendo da vicino le tracce di una banda di bruti e allontanandosi sempre più dalla Barriera. Ogni giorno era stato peggiore del precedente. E quel giorno era peggiore di tutti. Il vento gelido che soffiava da settentrione faceva oscillare e frusciare gli alberi della foresta come se fossero dotati di una loro vitalità interna. Per l'intera giornata Will non era stato in grado di scacciare la sensazione di essere osservato da occhi implacabili, paralizzanti, carichi d'odio. Anche Gared aveva avuto la stessa sensazione. E adesso Will aveva un'unica idea in mente: partire al galoppo sfrenato, tornare al più presto dietro la sicurezza della Barriera. Ma non era un'idea da condividere con il comandante. Specialmente con un comandante come quello. Ser Waymar Royce era il più giovane rampollo di un'antica casata con fin troppi eredi. Era bello: diciott'anni, occhi grigi, asciutto come la lama di un coltello. In sella al suo mastodontico destriero nero, torreggiava su Will e Gared, che montavano cavalli di taglia ben più piccola. Indossava stivali di cuoio nero, pantaloni di lana nera, guanti di camoscio nero, tunica nera, gilè di pelle nera, il tutto ricoperto da un «Io l'ho avuto dentro di me il freddo, signore.» Gared abbassò lo spesso cappuccio del mantello scoprendo due moncherini deformi al posto delle orecchie. Ser Waymar non distolse lo sguardo. «Due orecchie, tre dita dei piedi, il mignolo della mano sinistra. E a me è andata bene. Mio fratello finì congelato durante il turno di guardia. Stava ancora sorridendo.» Ser Waymar si strinse nelle spalle. «Dovresti andare in giro più coperto.» Gared lo folgorò con lo sguardo. La rabbia trasformò le cicatrici attorno alle sue orecchie, là dove maestro Aemon era stato costretto a tagliare le parti congelate, in rossi sentieri di fiamma. «Vedremo quanto ti coprirai tu, signore, quando verrà l'inverno.» Gared s'incurvò nuovamente sulla sella, cupo e taciturno. «Se Gared dice che il freddo...» cominciò Will. «Hai fatto guardie la settimana passata, Will?» «Sì, mio signore.» Non passava settimana senza che si ritrovasse in almeno una dozzina di maledetti turni. Cos'altro aveva in mente quello spocchioso damerino? «E com'era la Barriera?» «Umida.» Will corrugò la fronte. Ora intuiva dove voleva arrivare ser Waymar. «Quei bruti non potevano congelare. Non se la Barriera era umida. Non faceva abbastanza freddo.» Royce annuì. «Proprio così. Abbiamo avuto alcune lievi gelate la settimana scorsa, più qualche spruzzata di neve qua e là. Ma certamente non un freddo tale da uccidere otto uomini adulti. Uomini vestiti di cuoio e pelli, i quali, lasciate che ve lo ricordi, avevano a disposizione un rifugio ed erano in grado di accendere fuochi.» Il giovane cavaliere ebbe un sorriso di superiorità. «Guidaci, Will. Voglio vedere io stesso quei corpi.» Non c'era altro da fare se non obbedire. L'ordine era stato dato, e il giuramento li costringeva all'obbedienza. Will passò in testa, il suo malridotto morello che avanzava cauto nel sottobosco. La notte prima era caduta altra neve e sotto l'ingannevole strato bianco c'erano pietre, radici, affossamenti, tutte insidie nascoste per chiunque non fosse stato sul chi vive. Ser Waymar veniva dietro di lui, le froge del grande destriero nero che si dilatavano con impazienza. Quel cavallo da guerra era inadatto alle esplorazioni nella foresta, ma chi avrebbe osato farglielo notare? Gared restò di retroguardia, mugugnando tra sé. Il crepuscolo si fece più cupo. Il cielo privo di nubi assunse una sfumatura viola profondo, simile al colore di una vecchia contusione. Da quella tinta, scivolò nel nero. Le stelle fecero la loro comparsa. Sorse la mezzaluna. Will fu grato per quelle luci lontane. «Possiamo andare più in fretta di così» disse ser Waymar quando la luna fu alta. «Ne sono certo.» «Non con quel cavallo» ribatté Will. «A meno che, mio signore» la paura lo stava rendendo insolente «non voglia essere tu ad aprire la strada.» Ser Waymar non si degnò di rispondere. Da qualche parte, nel buio pesto della foresta, un lupo ululò. Will fece fermare il cavallo vicino a un antico tronco contorto dal tempo e smontò. «Perché ti fermi?» gli chiese ser Waymar. «Meglio proseguire a piedi, mio signore. Il loro campo è appena dietro quella cresta.» Royce si arrestò, pensieroso in volto, lo sguardo che esplorava lontano. Il vento freddo sussurrava tra gli alberi. La sua cappa d'ermellino si gonfiò come un'entità vivente. «Qualcosa non va» disse Gared a voce bassissima. «Davvero?» Il giovane cavaliere gli rivolse un sorriso beffardo. «Non senti?» ribatté Gared. «Ascolta le tenebre.» Will sentiva. Quattro anni nei Guardiani della notte, eppure non aveva mai avuto tanta paura. Cosa c'era là intorno? «Vento. Alberi che si scuotono. Un lupo. Quale di questi suoni ti turba, Gared?» Il vecchio guerriero non rispose. Royce smontò con eleganza e legò le redini del destriero a un ramo basso, a debita distanza dagli altri cavalli, poi sfoderò la spada lunga. Le pietre preziose incastonate nell'elsa scintillarono. I raggi della luna scivolarono sull'acciaio della lama. Era una splendida arma, forgiata al castello della sua nobile famiglia e, a giudicare dall'aspetto, da poco tempo. Will aveva i suoi dubbi che fosse mai stata usata in combattimento. «Gli alberi sono molto fitti» avvertì Will. «La spada potrebbe impacciarti i movimenti, mio signore. Meglio il pugnale.» «Se e quando avrò bisogno di un consiglio, Will, sarò io a chiedertelo» ribatté il giovane. «Gared, tu rimani qui, di guardia ai cavalli.» «Ci serve un fuoco.» Gared smontò a sua volta. «Penserò io ad accenderlo.» «Che sciocchezze vai dicendo, vecchio? Se in questa foresta ci sono dei nemici, un fuoco è proprio l'ultima cosa che ci serve.» «Esistono nemici che le fiamme terranno lontani.» Gared non mollò. «Orsi, meta- lupi e... e altre cose.» Le labbra di ser Waymar divennero una fessura. «Niente fuoco» ordinò. Il cappuccio teneva in ombra gli occhi di Gared, ma a Will non sfuggì il lampo di ostilità che scintillò in essi mentre il vecchio guerriero fissava il giovane. Per un attimo, arrivò a temere che Gared mettesse mano alla spada. Quella spada era poco elegante, brutta da guardare, con l'impugnatura sbiadita dal sudore e il taglio scheggiato da tanti duri scontri. Ma se Gared l'avesse effettivamente sfoderata, Will non avrebbe scommesso mezzo soldo bucato sul collo di ser Waymar. Gared alla fine abbassò gli occhi. «Niente fuòco» si arrese a denti stretti. Royce interpretò la risposta come sottomissione e gli voltò le spalle. «Va' avanti tu» ordinò a Will. Will si fece strada nel fitto sottobosco e cominciò a risalire il pendio della bassa altura, tornando a dirigersi verso il punto d'osservazione che aveva trovato dietro un albero-sentinella. Sotto il fine manto di neve, il terreno era fangoso e molle, cosparso di radici affioranti e di pietre. Un terreno sul quale era fin troppo facile cadere. Will non faceva alcun rumore nel salire, ma dietro di sé continuava a udire i fruscii della foresta provocati dal passaggio del giovane nobile che lo seguiva, il debole tintinnare metallico del fodero della sua spada, imprecazioni soffocate ogni volta che gli aspri rami più bassi andavano a impigliarsi in quella lama troppo lucida, troppo lunga, e in quella splendida cappa d'ermellino. Il grande albero-sentinella sorgeva quasi sulla sommità dell'altura, esattamente dove Will sapeva che sarebbe stato, con le ramificazioni inferiori a neppure un piede d'altezza dal suolo. Will strisciò sotto di esse, ventre nella neve e nel fango, osservando la radura sottostante, vuota. Il suo cuore perse qualche battito. Per un lungo momento, non osò neppure respirare. Il chiarore della luna illuminava la radura, le ceneri del fuoco spento da tempo, il rifugio parzialmente coperto dalla neve, le rocce incombenti, lo stretto torrente semi- cristallo. Pareva un'entità vivente, talmente sottile da svanire quando la si guardava di taglio. Emanava una luminescenza azzurra, un alone spettrale che si faceva indistinto ai bordi. E Will sapeva che quei bordi erano più affilati di quelli di qualsiasi rasoio. «Vuoi danzare?» Ser Royce affrontò l'avversario con coraggio. «Allora danza con me.» Sollevò la spada alta sopra la testa, pronto al duello. Le sue mani tremavano, forse per il peso dell'arma o forse per il freddo. Eppure, in quell'istante, Will non ebbe dubbi: ser Royce aveva cessato di essere un ragazzo ed era diventato un uomo, un vero guerriero dei Guardiani della notte. L'Estraneo si fermò. Will vide i suoi occhi. Erano azzurri, di un azzurro molto più profondo e intenso di qualsiasi occhio umano, un azzurro in grado di ustionare come il morso del ghiaccio. Quegli occhi si soffermarono sulla lama della spada levata, sui freddi riflessi che la luce della luna traeva dall'acciaio. Per un breve istante, Will osò dare spazio alla speranza. Nuove ombre emersero dalle ombre. Prima due... poi tre... poi quattro... cinque... Ser Waymar doveva aver percepito il freddo che arrivò assieme a esse, ma non le vide, non le udì. Will avrebbe dovuto gridare l'allarme, avvertire il suo signore. Era quello il suo dovere, anche a costo della vita. Tremò, si afferrò al tronco dell'albero- sentinella. E rimase in silenzio. La pallida spada di cristallo si mosse, fendendo l'aria della notte. Ser Waymar la intercettò con la sua spada d'acciaio. Non ci fu alcun impatto di metalli quando le lame cozzarono, solo una vibrazione acutissima, simile al lamento d'agonia di chissà quale animale, appena percettibile da orecchio umano. Ser Waymar bloccò un secondo fendente, un terzo, poi arretrò di un passo. Un altro vortice di colpi lo costrinse ad arretrare ancora di più. Alla sua destra, alla sua sinistra, dietro di lui, tutt'attorno a lui, le ombre continuavano a osservare. Ombre pazienti e silenziose, senza volto, quasi senza forma definibile nelle loro armature mimetiche, caleidoscopiche contro le più profonde ombre della foresta. Continuarono a osservare. Nessuna di esse dava il benché minimo cenno di voler interferire. Le spade tornarono a incrociarsi, a cozzare l'una contro l'altra, un fendente dopo l'altro, un affondo dopo l'altro, una parata dopo l'altra, fino a quando Will non fu costretto a coprirsi le orecchie. Quel sibilo angosciante generato dall'urto delle lame: non voleva più sentire, non voleva più udire. Il respiro di ser Waymar si fece pesante per la fatica. Il suo fiato condensava in ritmiche nuvole biancastre nel chiaro di luna. La sua lama era coperta di ghiaccio. Quella dell'Estraneo continuava a scintillare di luminescenza azzurra. E alla fine ser Waymar fu lento, troppo lento. La pallida lama di cristallo arrivò a mordere la cotta di maglia di ferro sotto il suo braccio. Il giovane urlò di dolore. Sangue gocciolò sugli snodi della maglia metallica, sangue che fumava nell'aria glaciale e sembrò rosso fuoco liquido quando cadde nella neve. Ser Waymar tastò il punto in cui era stato colpito. Quando ritirò la mano, le dita del suo guanto di camoscio erano fradice. L'Estraneo disse qualcosa in un linguaggio sconosciuto a Will, la voce che pareva lo spezzarsi della crosta di un lago congelato mentre pronunciava parole di ignota derisione. Ser Waymar ritrovò il proprio furore. «Per re Robert!» gridò. Andò all'attacco con un urlo rabbioso, la lunga spada incrostata di ghiaccio impugnata a due mani, un attacco trasversale carico di tutta la sua forza. La parata dell'Estraneo fu un movimento pigro, quasi annoiato. All'impatto, l'acciaio della lama di ser Waymar andò in mille pezzi. Una specie di urlo riverberò per la foresta. La miriade di frammenti metallici che erano stati una lama splendidamente forgiata volò a disperdersi chissà dove, come una manciata di inutili schegge. Royce cadde in ginocchio gridando, gli occhi coperti dalle mani. Altro sangue gli ruscellava tra le dita. Le ombre avanzarono tutte assieme, come rispondendo a qualche segnale, e si chiusero su di lui. In un silenzio da incubo, le loro spade si sollevarono. Poi calarono e calarono e calarono. Nient'altro che un freddo mattatoio. Le pallide lame di cristallo fecero a brandelli la maglia di ferro come se fosse stata seta. Di nuovo, Will chiuse gli occhi. Sotto di sé continuò a udire parole incomprensibili e risate taglienti, acuminate come stalattiti. Più tardi, molto più tardi, trovò la forza di guardare. La cima dell'altura era vuota. Rimase nascosto sull'albero, terrorizzato al punto che non osava respirare, mentre la luna percorreva il proprio cammino attraverso il cielo nero. Alla fine, con i muscoli intorpiditi e le dita intirizzite dal freddo, si decise a scendere. Royce giaceva nella neve, faccia in sotto, un braccio disteso di lato. La spessa pelliccia di ermellino era squarciata in una dozzina di punti. Povero corpo non di un uomo ma di un ragazzo: adesso si vedeva bene. A qualche passo di distanza c'era quanto restava della sua spada, la punta ridotta a un moncone frastagliato, simile a un albero colpito in pieno dalla folgore. Will s'inginocchiò, gettò attorno a sé un'occhiata guardinga, quindi afferrò la spada. Così spezzata, sarebbe stata la prova necessaria. Gared avrebbe capito. E se non avesse capito lui, lord Mormont, il Vecchio orso, o maestro Aemon, di certo non avrebbero avuto dubbi. Gared... Era ancora là, assieme ai cavalli? Doveva andarsene di lì. Subito. Will si raddrizzò. Ser Royce si alzò in piedi, sovrastandolo. I suoi abiti eleganti erano ridotti a stracci insanguinati, il volto era devastato. Nell'occhio sinistro era conficcata una scheggia della sua spada distrutta. L'occhio destro era spalancato. La pupilla era accesa da una fiamma di luce azzurra. In grado di vedere. Le dita di colpo inerti di Will lasciarono cadere la spada spezzata. Chiuse gli occhi e cominciò a pregare. Mani lunghe, affusolate, eleganti, salirono ad accarezzargli il viso, poi si strinsero attorno alla sua gola. Erano coperte del più soffice camoscio e appiccicose di sangue, ma al tocco erano gelide come ghiaccio. BRAN Era stata un'alba chiara e fredda, la limpidezza dell'aria quasi un annuncio che l'estate stava finendo. Si mossero al sorgere del sole, venti uomini in tutto, per andare a una decapitazione. Bran era tra loro, pieno di nervosismo per l'eccitazione dell'evento. Era il nono anno dell'estate, il settimo della sua vita, ed era la prima volta che veniva ritenuto abbastanza grande da cavalcare con il lord suo padre e con i suoi fratelli, abbastanza forte da vedere il volto della giustizia del re. Il condannato era stato portato in un piccolo forte tra le colline. Robb riteneva si trattasse di un bruto, uno dei molti che avevano giurato fedeltà con la propria spada a Mance Rayder, il Re-oltre-la-Barriera. Al solo pensiero, Bran sentiva accapponarsi la pelle. Ricordava bene le inquietanti storie della vecchia Nan. I bruti erano uomini malvagi, raccontava. Stringevano patti con i giganti e con i mangiatori di cadaveri. Venivano a rapire le bambine nel cuore della notte e bevevano sangue umano da corna svuotate di animale. E durante la Lunga Notte, le loro donne giacevano con gli Estranei, generando creature spaventose, solo parzialmente umane. Ma l'uomo che trovarono al forte, legato mani e piedi all'esterno del bastione in gli zoccoli dei loro cavalli sollevavano fontane di neve. Bran non fece neppure il tentativo di seguirli. Il suo pony non ce l'avrebbe mai fatta. Anche lui ricordava lo sguardo del condannato, e in quel momento non riusciva a pensare ad altro. Le risate di Robb svanirono in distanza e i boschi furono nuovamen- te silenziosi. Era talmente immerso nei propri pensieri che non si rese conto che il resto del gruppo l'aveva raggiunto finché suo padre non arrivò a cavalcare accanto a lui. «Tutto bene, Bran?» La sua voce non era priva di gentilezza. «Sì, padre.» Bran alzò lo sguardo. In sella all'imponente destriero da guerra, avvolto in cuoio e pellicce, suo padre incombeva su di lui come un gigante. «Robb dice che quell'uomo è morto con coraggio. Jon invece dice che è morto pieno di paura.» «E tu? Che cosa dici?» Bran ci pensò sopra. «È possibile che un uomo che ha paura possa anche essere coraggioso?» «Possibile? Bran, è quella l'unica situazione in cui si fa strada il coraggio» gli rispose suo padre. «Tu sai perché l'ho fatto?» «Era un bruto» rispose Bran. «Portano via le donne e le vendono agli Estranei.» «La vecchia Nan ti ha di nuovo raccontato le sue storie» sorrise lord Stark. «In realtà, quell'uomo era un disertore: aveva abbandonato i Guardiani della notte. Nessuno è più pericoloso di un disertore. Nel momento stesso in cui voltano le spalle al loro dovere, questi uomini sono consapevoli che se saranno catturati la loro vita non avrà alcun valore. Per questo non si tirano indietro di fronte al crimine, neppure al più atroce. Ma tu non mi hai capito, Bran. Non ti ho chiesto perché quell'uomo doveva morire, ma perché dovevo essere io a ucciderlo.» Una domanda per la quale Bran non aveva risposta. «Re Robert ha un boia» disse in tono incerto. «Ce l'ha, è vero» confermò suo padre. «Nello stesso modo in cui, prima di lui, anche i re della Casa Targaryen avevano un boia. La nostra tradizione però è ancora quella antica. Nelle vene degli Stark scorre il sangue dei Primi Uomini. E noi Stark credia- mo ancora che chi pronuncia la sentenza debba essere anche colui che cala la spada. L'uomo che toglie la vita a un altro uomo ha il dovere di guardarlo negli occhi e di ascoltare le sue ultime parole. Se il giustiziere non riesce ad affrontare questo, allora forse il condannato non merita la morte. Un giorno, Bran, tu sarai l'alfiere di Robb. Avrai un tuo castello che comanderai nel nome di tuo fratello e del tuo re e avrai su di te anche il fardello della giustizia, dal quale non dovrai trarre alcun godimento, ma al quale non dovrai neppure sottrarti. Un sovrano che si nasconde dietro un boia fa in fretta a dimenticare che cos'è la morte.» «Padre! Bran!...» Jon era improvvisamente apparso sulla sommità della collina di fronte a loro. Agitava un braccio gridando: «Venite! Fate presto! Venite a vedere cos'ha trovato Robb!». Un momento dopo era svanito. Jory Cassel spronò il cavallo, portandosi al fianco di Eddard e di Bran. «Guai, mio signore?» «Senza alcun dubbio» ribatté il lord. «Forza, vediamo in quale altro impiccio sono andati a cacciarsi i miei figli.» Passò al trotto. Jory, Bran e gli altri lo seguirono. Trovarono Robb sulla riva del fiume a nord del ponte, Jon ancora in sella accanto a lui. Le nevi della tarda estate erano cadute abbondanti durante l'ultima luna. Robb affondava nel manto candido fino alle ginocchia, il cappuccio abbassato, la luce del sole che si rifletteva sui suoi capelli. Stringeva qualcosa tra le braccia, scambiando con Jon commenti eccitati. I cavalieri avanzarono cauti tra i cumuli bianchi alla ricerca di appoggi solidi sul terreno ineguale nascosto dalla neve. Jory Cassel e Theon Greyjoy furono i primi a raggiungere i due ragazzi. Greyjoy era nel pieno di un'altra delle sue risate ironiche, ma si interruppe con un'imprecazione spaventata: «Per gli dei!». Un attimo dopo lottava per controllare il cavallo cercando al tempo stesso di estrarre la spada. Jory aveva già sguainato la propria, il cavallo che arretrava per la paura.«Robb! Allontanati!» «Non può farti niente, Jory.» Robb alzò lo sguardo da ciò che stringeva tra le braccia e concluse: «È morta». Bran era divorato dalla curiosità. Avrebbe voluto spronare il pony a sangue, ma suo padre impose loro di smontare vicino al ponte e di continuare a piedi. Bran saltò giù e si mise a correre. Quando arrivò dall'altra parte, anche Jon, Jory e Theon erano scesi da cavallo. «In nome dei sette inferi» stava dicendo Greyjoy. «Che diavolo è quella cosa?» «Una lupa» gli rispose Robb. «Vorrai dire un abominio... Non vedi quanto è grossa?» Bran, il cuore che martellava, si aprì la strada tra la neve che gli arrivava alla vita, portandosi vicino al fratello. C'era un'enorme forma scura semisepolta nella neve chiazzata di sangue, cristallizzata nella morte. Incrostazioni di ghiaccio si erano rapprese nella malridotta pelliccia grigia. Un debole odore di decomposizione aleggiava sulla neve, simile al profumo di una bella donna. Bran ebbe la fugace visione degli occhi spenti della creatura, pieni di vermi, di fauci irte di zanne giallastre. Ma a mandargli un brivido gelido lungo la schiena furono le dimensioni dell'animale: la lupa era più grossa del suo pony, due volte il più grosso dei cani da caccia di suo padre. «Abominio?» commentò Jon tranquillamente. «Nient'affatto: è una meta-lupa, e tutti i meta-lupi sono molto più grossi dei lupi normali.» «Sono duecento anni che non si vede un meta-lupo a sud della Barriera» disse Theon Greyjoy. «Se ne vede uno adesso» ribatté Jon. Bran distolse lo sguardo dal mostro che giaceva nella neve e fu a quel punto che si rese conto del fagotto tra le braccia di Robb. Nell'avvicinarsi, non poté trattenere un grido di delizia. Il cucciolo, gli occhi ancora chiusi, era una specie di palla di pelo grigio. Strusciava il piccolo muso contro il petto di Robb che continuava a cullarlo, cercando latte inesistente fra gli strati di cuoio ed emettendo tenui lamenti tristi. Timoroso, Bran allungò una mano. «Coraggio» lo esortò Robb. «Toccalo.» Bran azzardò una leggera carezza e immediatamente ritirò la mano. «Prendi.» Jon, inaspettatamente, gli mise un secondo cucciolo tra le braccia. «Ce ne sono cinque.» Bran sedette nella neve e strinse la creatura contro il viso. Un contatto soffice, caldo. «Meta-lupi che raggiungono il reame dopo così tanto tempo.» Hullen, mastro stalliere, mugugnò scuotendo il capo. «La cosa non mi piace.» «È un presagio» disse Jory Cassel. «È solo un animale morto, Jory.» Lord Stark camminò lentamente attorno al corpo, gli stivali che scricchiolavano sulla neve. Ma perfino lui appariva turbato. «Sappiamo perché è morta?» «Le è rimasto qualcosa in gola.» Robb era lieto di aver trovato una risposta anche prima che suo padre ponesse la domanda. «Guarda là, appena sotto la mandibola.» Lord Stark mise un ginocchio nella neve, frugando con la mano sotto il muso che volete fare?» «Sì, padre» disse Bran. «Sì» confermò Robb. «I cuccioli potrebbero morire comunque, a dispetto dei vostri sforzi.» «Non moriranno» affermò Robb. «Non lo permetteremo.» «E sia. Teneteli. Jory, Desmond, raccogliete gli altri tre cuccioli. È tempo di rientrare a Grande Inverno.» Fu solo dopo che furono rimontati in sella ed ebbero ripreso la strada verso il castello che Bran si concesse di gustare il sapore seducente della vittoria. Tenne il cucciolo al riparo degli indumenti di cuoio, al caldo contro il petto, al sicuro per la lunga ca- valcata. E cominciò a domandarsi come l'avrebbe chiamato. Inaspettatamente, a metà del ponte, Jon venne a cavalcare alla testa del gruppo. «Che c'è, Jon?» chiese lord Stark. «Non senti?» Bran udiva il vento nella foresta, lo scalpitio degli zoccoli sulle assi del ponte, il lamento affamato del suo cucciolo. Ma Jon udiva qualcos'altro. «Là» disse. Fece girare il cavallo e tornò indietro al galoppo lungo il ponte. I cavalieri lo osservarono mentre si fermava nel punto in cui giaceva la meta-lupa e si inginocchiava nella neve. In breve era di nuovo accanto a loro, sorridente. «Doveva essersi allontanato dagli altri» dichiarò. «O forse era stato allontanato» disse lord Stark. Il suo sguardo si soffermò sul sesto cucciolo la cui pelliccia, al confronto di quella grigia degli altri, era interamente bianca. Un cucciolo i cui occhi erano aperti, vigili, mentre quelli degli altri erano ancora ciechi. Fu questo a colpire Bran. «Un albino.» Theon Greyjoy trovava il tutto assai umoristico. «Questo qui morirà anche prima degli altri.» «Ti sbagli, Greyjoy.» Jon guardò il protetto del padre con uno sguardo impassibile, raggelante. «Questo appartiene a me.» CATELYN Catelyn non aveva mai amato quel parco degli dei. Veniva dalla Casa Tully, nel profondo sud di Delta delle Acque, sulla Forca Rossa del Tridente. Là, il parco degli dei era un giardino pieno d'aria e di luce. Rosse sequoie proiettavano le loro ombre su ruscelli mormoranti, uccelli cantavano da nidi invisibili, l'aria era intrisa dei profumi dei fiori. Gli dei di Grande Inverno abitavano un diverso tipo di parco, un luogo primordiale, invaso dall'oscurità. L'atmosfera sapeva di lichene morente, di cose che si decompongono. Tre acri di bosco ancestrale attorno ai quali era sorta la cupa struttura del maniero. Tre acri di alberi che non venivano toccati da diecimila anni. Querce e alberi-ferro sembravano più vecchi del tempo stesso, i loro neri tronchi ammucchiati gli uni contro gli altri. Osali e ostinate sentinelle immobili, armate di aghi di un verde dalla sfumatura quasi metallica, le cui ramificazioni più alte andavano a intrecciarsi in una cupola tenebrosa. Il terreno era un altro labirinto, fatto di radici sporgenti, distorte, aggrovigliate come tentacoli sotterranei. Quel parco era un luogo di silenzi profondi, di ombre impenetrabili, abitato da dei senza nome. Ma Catelyn sapeva che avrebbe trovato lì suo marito. Ogni volta che toglieva la vita a un uomo, lord Eddard Stark veniva a rifugiarsi nella pace del parco degli dei di Grande Inverno. Catelyn era stata segnata con i sette unguenti ed era andata sposa nell'arcobaleno di luci che riempivano le radure di Delta delle Acque. Apparteneva al Credo così come, prima di lei, vi erano appartenuti suo padre, suo nonno e il padre di suo nonno. Gli dei di Catelyn avevano un nome e i loro volti le erano familiari quanto i volti dei suoi genitori. Il loro culto aveva aspetti sfumati: una fiaccola su un sepolcro, l'odore dell'incenso, un ettaedro di cristallo pulsante di luce, voci che si univano in coro. Anche Casa Tully aveva il proprio parco degli dei, tutte le grandi Case ce l'avevano, ma non era altro che un luogo in cui passeggiare o leggere alla luce del sole. Il Credo rimaneva confinato nei templi. In questo, Ned le era venuto incontro. Le aveva eretto un piccolo altare sul quale Catelyn poteva pregare i sette volti del suo dio. Ma nelle vene degli Stark continuava a scorrere il sangue dei Primi Uomini e i loro dei erano quelli antichi e misteriosi dei grandi alberi, gli stessi della razza scomparsa dei Figli della foresta. Nel centro del parco, un vecchio albero-diga incombeva su un laghetto dalle acque nere, gelide. "L'albero del cuore" lo chiamava Ned. La sua corteccia era bianca come le ossa di un teschio, le sue foglie rosso scuro erano simili a mille mani grondanti sangue. Un volto era stato scolpito nel legno del grande albero, i lineamenti tirati e malinconici, gli occhi scavati in profondità, arrossati dalla resina, stranamente guardinghi. Erano antichi, quegli occhi. Addirittura più antichi di Grande Inverno. Se le leggende avevano qualche fondamento, quegli occhi avevano visto Brandon il Costruttore posare la prima pietra e poi avevano osservato le mura di granito del castello innalzarsi attorno a essa. Le leggende dicevano anche che erano stati i Figli della foresta a scolpire le facce negli alberi. Era accaduto all'alba del tempo, molto prima che i Primi Uomini attraversassero il mare Stretto. Nel Sud, gli ultimi alberi-diga erano stati abbattuti o bruciati oltre mille anni prima. Continuavano a esistere solamente sull'isola dei Volti, dove gli Uomini verdi mantenevano la loro veglia silenziosa. Qui, a Grande Inverno, era tutto diverso. Nel Nord ogni castello aveva il proprio parco degli dei, ogni parco degli dei aveva il proprio albero del cuore, e ogni albero del cuore aveva il proprio volto scolpito nel legno. Catelyn trovò suo marito dietro l'albero-diga, seduto su una pietra coperta di muschio. Sulle sue ginocchia giaceva Ghiaccio, la spada lunga delle esecuzioni. Eddard Stark, Ned come lei lo chiamava, ne stava ripulendo la lama incrostata di sangue secco nelle acque dello stagno, nere come la notte. Uno strato di humus vecchio di millenni ammantava il terreno del parco, attutendo il suono dell'avvicinarsi di Catelyn. Eppure, gli occhi rossi scavati nel legno parevano seguirla a ogni passo. «Ned.» «Catelyn.» Alzò lo sguardo su di lei, la voce lontana e formale. «Dove sono i figli?» Era la domanda che sempre le poneva. «Nelle cucine. Si accapigliano sui nomi da dare ai cuccioli di meta-lupo.» Allargò le falde del mantello sul suolo del bosco e sedette sul bordo dello stagno, voltando le spalle all'albero-diga. Gli occhi scavati nel legno continuavano a osservarla e lei fece del suo meglio per ignorarli. «Arya ne è già innamorata, Sansa è incuriosita e ben disposta, ma Rickon non è del tutto convinto.» «Ha paura?» «Un po'» convenne Catelyn. «Ha solo tre anni.» «Dovrà imparare ad affrontare le sue paure.» Ned corrugò la fronte. «Non avrà tre anni per sempre. E l'inverno sta arrivando.» «Lo so.» Perfino dopo tanti anni, ogni volta che udiva quelle parole Catelyn rabbrividiva. Il motto degli Stark. Ogni nobile Casa aveva il proprio. Motti di famiglia, punti di riferimento, invocazioni di speranza. Frasi che parlavano di onore e «Ma tuo zio non si trova anche lui nella valle di Arryn? Jon l'aveva nominato cavaliere della Porta insanguinata, se non vado errato.» «Brynden farà quello che può per lei e per il bambino» disse Catelyn. «Il che significa molto, ma non tutto...» «Va' da lei» la incitò Ned con urgenza. «Porta i nostri figli con te. Fa' che i corridoi di quel castello sulla montagna si riempiano di suoni e di risate. Quel ragazzo ha bisogno di avere intorno altri ragazzi, e Lysa non dovrebbe affrontare questa perdita da sola.» «Vorrei che fosse possibile.» Catelyn scosse il capo. «C'è dell'altro nella lettera, Ned.» «Che altro?» «Il re sta venendo a Grande Inverno per vedere te.» Passò del tempo prima che Eddard Stark comprendesse appieno il senso di quelle parole. Nei suoi occhi, l'ombra che li aveva oscurati si fece meno cupa. «Robert sta venendo qui?» Catelyn annuì. Un sorriso riuscì finalmente a illuminare l'espressione di Ned. Lei avrebbe voluto condividere la sua gioia, ma non riusciva a dimenticare quanto aveva udito nel cortile del castello. Una meta-lupa trovata morta nella neve, con un fram- mento di rostro di unicorno conficcato in gola. Sentì la paura aggrovigliarsi dentro di lei come un serpente. Ma pur di fronte a tutto questo, riuscì comunque a sorridere all'uomo che amava, un uomo che rifiutava di credere ai presagi. «Ero sicura che ti avrebbe fatto piacere» gli disse. «Lo facciamo sapere anche a tuo fratello, sulla Barriera?» «Certamente» approvò Ned. «Benjen vorrà esserci. Dirò a maestro Luwin di inviare il suo miglior corvo messaggero.» Eddard si alzò, aiutandola ad alzarsi con lui. «Maledizione, quanti anni saranno passati? E questo è tutto il preavviso che ci manda? In quanti sono? La lettera lo dice?» «Credo almeno un centinaio di cavalieri, più i loro scudieri, più una cinquantina di armati. Vengono anche Cersei e i ragazzi.» «Questo costringerà Robert a viaggiare più lentamente. Meglio per noi: avremo più tempo per prepararci.» «Vengono anche i fratelli della regina» aggiunse Catelyn. L'espressione di Ned si contrasse. L'idea non gli piaceva affatto. Tra lui e la famiglia della regina non correva esattamente buon sangue, e Catelyn lo sapeva. I Lannister di Castel Granito avevano aspettato fino all'ultimo momento prima di allearsi alla causa del re, in modo da essere assolutamente certi sul vincitore. Eddard Stark non li aveva mai perdonati per questo. «E va bene» concluse. «Se il pedaggio per avere Robert con noi è un'infestazione di Lannister, lo pagheremo. Sembra che si stia portando dietro mezza corte.» «Dove va il re, va la corte.» «Non sarà male vedere i suoi ragazzi. L'ultima volta che l'ho visto, il più piccolo stava ancora succhiando latte. Quanti anni avrà adesso, cinque?» «Il principe Tommen ha sette anni» disse Catelyn. «La stessa età di Bran. Ned, ti prego, sta' attento a quello che dirai. Che ci piaccia o no, la signora di Lannister rimane la nostra regina. E si dice che, ogni anno che passa, lo faccia pesare sempre più.» «Daremo una festa.» Ned strinse la mano di lei nella propria. «Certo che daremo una festa! Con musica e canzoni. E Robert vorrà andare a caccia. Manderò Jory a sud lungo la strada del Re, per incontrarlo e scortarlo fin qui. Per gli dei, come faremo a sfamare tutta quella gente? E tu mi dici che è già in movimento. Maledizione a lui e alla sua pellaccia di re!» DAENERYS «Questa è bellezza allo stato puro.» Suo fratello sollevò la stoffa in modo che lei potesse esaminarla. «Avanti, toccala. Senti com'è stata tessuta.» Dany la toccò. Era talmente liscia da dare l'impressione di scorrere tra le sue dita come acqua. Non le riuscì di ricordare di aver mai indossato qualcosa di altrettanto delicato. «Ma è mia?» Allontanò la mano, intimorita. «È davvero mia?» «Un dono di magistro Illyrio» le rispose suo fratello con un sorriso. Viserys era un giovane scarno, le mani in costante movimento, lo sguardo perennemente febbrile negli occhi viola pallido. Quella sera era di ottimo umore. «È un colore che farà risaltare il viola dei tuoi occhi» riprese. «E poi ci sarà l'oro, perché indosserai molti gioielli, di tutti i tipi. Qualcos'altro che Illyrio ha promesso. Dovrai apparire come una principessa.» Una principessa. Dany aveva dimenticato cosa significasse. Forse non l'aveva mai realmente saputo. «Perché ci fa tutti questi regali?» chiese. «Cosa sta cercando di ottenere da noi?» Erano vissuti nella casa del magistro per una buona metà dell'anno, mangiando il suo cibo, riveriti dai servitori. Dany aveva tredici anni, un'età sufficiente per capire che lì, nella città libera di Pentos, c'era quasi sempre un prezzo da pagare per regali così impegnativi. «Illyrio è tutt'altro che uno sciocco» rispose Viserys. «Sa che non dimenticherò chi mi è stato amico, una volta che avrò riavuto il mio trono.» Daenerys non rispose. Magistro Illyrio era un mercante di spezie, pietre preziose, reliquie di drago, più svariate altre cose molto meno gradevoli. Si diceva che avesse amici in tutte le Nove Città Libere e oltre, fino a Vaes Dothrak e alle terre misteriose affacciate sul mare di Giada. Si diceva anche che non aveva mai avuto un amico che non fosse allegramente pronto a vendere, se il prezzo era giusto. Dany ascoltava le voci della strada e sapeva quello che c'era da sapere. Così come sapeva che era molto meglio non fare troppe domande a suo fratello, soprattutto quando era tanto preso dai suoi sogni. La sua ira poteva esplodere come un vulcano. "Risvegliare il drago": era questo il modo in cui lui definiva il proprio furore. «Illyrio manderà delle schiave a farti il bagno.» Viserys tornò a riappendere l'abito accanto alla porta. «Fa' in modo di toglierti bene di dosso il puzzo delle stalle. Di cavalli, khal Drogo ne possiede mille. E ti posso assicurare che è una cavalcatura ben diversa quella che vorrà questa notte.» Ispezionò Dany con un'occhiata critica. «Continui a stare curva. Mettiti dritta.» Le tirò indietro le spalle. «Voglio che vedano che hai le forme di una donna, adesso.» Le sue dita scivolarono sui seni acerbi di lei, pollice e indice si strinsero attorno a un capezzolo. «Non deludermi questa notte, Dany. Non ti piacerebbero le conseguenze. Tu non vuoi risvegliare il drago, o sbaglio?» Le sue dita strinsero e torsero crudelmente attraverso la tunica spessa di lei. «O sbaglio?» «Non sbagli.» La voce di Daenerys era appena udibile. «Bene.» Suo fratello sorrise di nuovo e le toccò i capelli, quasi con affetto. «Quando scriveranno la storia del mio regno, dolce sorella, diranno che ha avuto inizio stanotte.» Le acque della baia erano inquiete. Daenerys rimase a guardarle dalla finestra. Suo fratello se n'era andato, lasciandola sola. Le squadrate torri di mattoni di Pentos erano Daenerys voleva, invece, era la grande casa dal portale rosso, con l'albero di limoni fuori dalla finestra, e quell'infanzia che non aveva mai conosciuto. Alle sue spalle, ci fu un discreto bussare alla porta. Daenerys arretrò dalla finestra e si voltò dicendo: «Potete entrare». Le serve di Illyrio entrarono, s'inchinarono e si misero al lavoro. Erano schiave, un regalo di uno dei molti amici dothraki del magistro. Non avrebbero dovuto esistere schiavi nella città libera di Pentos, ma loro lo erano comunque. La donna anziana, piccola e grigia come un topolino, non apriva mai bocca; in compenso, la ragazza giovane non smetteva mai di chiacchierare mentre lavorava. Era una puledra di sedici anni, capelli biondi, occhi azzurri: la favorita di Illyrio. Riempirono la vasca con l'acqua calda che avevano portato dalle cucine e in essa versarono oli profumati. La ragazza sfilò la tunica di cotone grezzo dalla testa di Dany e l'aiutò a scivolare nell'abbraccio liquido. L'acqua era quasi bollente, ma Dany non batté ciglio, non emise neppure un lamento. Il calore le piaceva, la faceva sentire pulita. Inoltre secondo suo fratello nulla poteva essere troppo caldo per un Targaryen. «La nostra è la Casa del drago» ribadiva Viserys. «C'è il fuoco nel nostro sangue.» Sempre in silenzio, la schiava anziana lavò i lunghi capelli argentei di Daenerys, sciogliendone i nodi. La giovane le lavò i piedi continuando a ripeterle quanto fosse fortunata. «Drogo è talmente ricco che i suoi schiavi indossano collari d'oro. Ci sono centomila cavalieri nel suo khalasar, e il suo palazzo a Vaes Dothrak ha duecento stanze, tutte con porte d'argento massiccio.» E c'era di più, molto di più. Che uomo attraente era il khal, così alto di statura, così fiero nell'aspetto. Che cavaliere ineguagliabile, che guerriero indomabile, che arciere formidabile. Daenerys non diceva nulla. Aveva sempre pensato che, nel momento in cui avesse raggiunto l'età giusta, avrebbe sposato Viserys. Per secoli, da quando Aegon il Conquistatore aveva preso in sposa la propria sorella, la Casa Targaryen aveva perpetuato se stessa attraverso l'incesto matrimoniale tra fratello e sorella. «La purezza della discendenza doveva essere mantenuta incontaminata» le aveva ripetuto Viserys mille e mille volte. Il loro era il sangue dei re, il sangue dorato dell'antica Valyria, il sangue del drago. E come i draghi non si accoppiavano con le bestie inferiori, così i Targaryen non si mescolavano con gli uomini inferiori. Però adesso Viserys aveva deciso di vendere la sua unica sorella, la sua unica sposa possibile, a uno straniero, a un barbaro. Una volta che fu pulita, le schiave l'aiutarono a uscire dalla vasca e la asciugarono. La giovane le spazzolò i capelli finché non furono risplendenti come argènto liquefatto. La donna anziana la profumò con l'essenza penetrante dei fiori delle pianure dei Dothraki sui polsi, dietro le orecchie, sulle punte dei seni e infine in mezzo alle gambe. La vestirono con l'abito inviato da magistro Illyrio e le calarono sul viso il velo di seta color porpora scuro, celando il viola intenso dei suoi occhi. La schiava giovane le infilò sandali dorati ai piccoli piedi. La schiava anziana le sistemò la tiara sui capelli e le fece scivolare attorno ai polsi braccialetti d'oro incrostati di ametiste. Ultimo venne il collare, un pesante ornamento d'oro massiccio intarsiato con antichi geroglifici di Valyria. La schiava giovane, senza fiato, ammirò il lavoro finito. «Adesso sì che hai davvero l'aspetto di una principessa!» Daenerys studiò la propria immagine riflessa nello specchio dalla cornice d'argento, ennesimo, sensibile tocco del previdentissimo magistro Illyrio. Una principessa, certo. Ma la ragazza che non la smetteva mai di chiacchierare aveva detto anche altre cose: i collari d'oro indossati dagli schiavi di khal Drogo, la sterminata ricchezza di khal Drogo, così sterminata da poter comprare qualsiasi cosa. Un gelo improvviso le percorse le membra, increspando la pelle delle sue braccia nude. Viserys, sagoma più scura nelle ombre fresche, l'aspettava nel vestibolo al piano terreno. Sedeva sul bordo della fontana, una mano che tracciava percorsi nell'acqua. Si alzò nel vederla avvicinarsi. «Fermati lì» ordinò, e cominciò a esaminarla con occhio critico. «Va bene, girati. Sì. Hai un aspetto...» «Regale.» Magistro Illyrio fece il suo ingresso da un portale ad arco. Per la mole che aveva, si muoveva con sorprendente leggerezza. A ogni passo, rotoli di adipe tremolavano sotto gli ampi abiti di seta dai colori sgargianti. Aveva anelli d'oro tempestati di pietre preziose a ogni dito. Uno schiavo gli aveva intriso di unguento la bionda barba biforcuta fino a farla luccicare come se anch'essa fosse fatta d'oro. «Possa, in questo splendido giorno, il Signore della Luce far scendere su di te benedizioni senza fine, principessa Daenerys.» Il magistro le prese la mano e s'inchinò leggermente. Fu la più leggiadra delle mosse. Aveva denti giallastri tutti storti dietro la cortina di pelo della sua barba dorata. «Tua sorella è una visione, vostra grazia» disse a Viserys. «Un'autentica visione. Drogo ne sarà rapito.» «È troppo magra» sentenziò Viserys a labbra serrate. I suoi capelli, che avevano la medesima sfumatura biondo argento di quelli della sorella, erano strettamente raccolti dietro il capo e fermati in una crocchia da un osso di drago. Era un'acconciatura severa, che faceva risaltare i lineamenti squadrati, scavati del suo volto. Appoggiò la destra sull'elsa della spada che Illyrio gli aveva prestato per l'occasione e chiese: «Sei certo che a Drogo piacciano le donne così giovani?». «La ragazza ha già avuto il suo primo mestruo.» Non era la prima volta che Illyrio lo faceva presente all'ultimo Targaryen. «È in età sufficiente per il khal. Ma guardala. Quei capelli biondo argento, quegli occhi viola... È puro, antico sangue di Valyria. Nessun dubbio in merito, nessun dubbio. La nobile figlia del vecchio re, la sorella del nuovo re. Non potrà non incantare il khal, la nostra principessa.» Finalmente Illyrio lasciò andare la sua mano e Daenerys si rese conto che stava tremando impercettibilmente. «Auguriamocelo.» Viserys continuava a nutrire i suoi dubbi. «Questi selvaggi delle pianure hanno gusti infami. Ragazzi, cavalli, capre...» «Certo, certo» convenne Illyrio. «Questo, però, a khal Drogo sarà opportuno non dirlo.» «Mi prendi forse per uno stupido?» Un lampo d'ira balenò negli occhi viola di Viserys. «Al contrario, ti prendo per un re.» Il magistro si esibì in un altro inchino. «E i re non hanno la prudenza dei comuni mortali. Ti prego di accettare le mie scuse, se ti ho arrecato offesa.» Senza attendere la sua risposta, Illyrio si girò e batté le mani per far venire i portantini. Le strade di Pentos erano immerse in una cupa tenebra. Due servi li precedevano, illuminando il percorso con lanterne a olio istoriate, dai vetri azzurro chiaro. Sulla loro scia, una dozzina di uomini muscolosi trasportavano l'elaborato palanchino di Illyrio, i lunghi pali orizzontali in appoggio sulle spalle. Dietro le tende spesse della cabina l'aria era calda, satura di traspirazione. Il magistro si era inondato di profumi penetranti, ma Dany percepì comunque il lezzo che emanava dalla sua carne flaccida. Viserys, stravaccato accanto a lei sui cuscini, non lo notò. La sua mente era lontana, anch'esso dai tentacoli di quell'edera pallida. Si mescolarono con gli altri ospiti, sotto la luce della luna che dipingeva sfumature argentee sulle foglie di pietra dei capitelli. La maggior parte dei presenti erano signori dothraki. Uomini grandi e grossi, dalla pelle color rame scuro, con anelli d'ottone attorno ai baffoni spioventi, i capelli neri come l'inchiostro intrisi d'olio e acconciati in cascate di trecce piene di campanelli. Ma tra loro c'erano anche guerrieri e fabbricanti di spade di Pentos, Myr, Tyrosh. C'era un prete rosso addirittura più grasso di Illyrio. E poi uomini con i capelli lunghi del porto di Ibben e lord provenienti dalle isole dell'Estate, dalla pelle nera come ebano. Daenerys li guardava con una mescolanza di meraviglia e di timore. E all'improvviso ebbe paura: in mezzo a quell'orda caleidoscopica, lei era l'unica donna. «Quei tre là» bisbigliò Illyrio «sono i cavalieri di sangue di Drogo. Vicino alla colonna c'è khal Moro, assieme al figlio Rhogoro. L'uomo con la barba verde è il fratello del signore di Tyrosh, e l'uomo dietro di lui è ser Jorah Mormont.» «Mormont?» Fu quell'ultimo nome a scuotere Daenerys. «Un cavaliere?» «Sicuro.» Un altro sorriso separò la barba dorata di Illyrio. «E con tanto d'investitura dei sette unguenti da parte del sommo septon in persona.» «Che ci fa qui?» chiese Daenerys in un soffio. «L'usurpatore voleva la sua testa» spiegò Illyrio. «Un qualche affronto da poco. Mormont aveva venduto alcuni cacciatori di frodo nella città di Tyrosh come schiavi, invece di consegnarli ai Guardiani della notte. Una legge assurda. Un uomo dovrebbe essere libero di disporre delle proprie risorse come meglio gli aggrada. O no?» «Prima che questa serata si concluda» disse Viserys «parlerò con ser Jorah Mormont.» Daenerys non poté evitare di osservare il cavaliere con una certa curiosità. Era un uomo in età, decisamente oltre i quaranta, con un'incipiente calvizie, ma ancora forte e in ottima forma fisica. Al posto di seta e cotone, vestiva lana e cuoio. Sulla sua tunica verde scuro era ricamata l'immagine di un orso in piedi sulle zampe posteriori. Dany stava ancora osservando quello strano uomo che veniva dalla patria che non aveva mai conosciuto quando la mano umidiccia di Illyrio si posò sulla sua spalla nuda. «Da questa parte, dolce principessa» le sussurrò il magistro. «Ecco il khal.» Dany provò l'impulso di scappare di corsa a nascondersi. Ma non poté farlo: suo fratello la stava guardando, e se lei l'avesse deluso, avrebbe risvegliato il drago. Piena d'ansia, si voltò a osservare l'uomo che Viserys sperava l'avrebbe chiesta in sposa prima che la notte avesse ceduto il passo al giorno. La giovane schiava chiacchierona non si era sbagliata. Khal Drogo superava di tutta la testa il più alto degli uomini in quel cortile. E al tempo stesso si muoveva con estrema leggerezza, il passo sinuoso come quello della pantera di cristallo nella colle- zione a casa di Illyrio. Era più giovane di quanto Daenerys avesse immaginato, meno di trent'anni. La sua pelle aveva il colore del rame lucidato, i folti baffi erano raccolti da anelli d'oro e di bronzo. «Devo andare a compiere il mio atto di sottomissione» disse Illyrio. «Aspettate qui. Sarò io a condurlo fino a voi.» La mano di Viserys si chiuse attorno al braccio di lei in una morsa dolorosa mentre il magistro si faceva strada in direzione del khal. «Guarda bene la sua treccia, dolce sorella.» Un'unica treccia satura di olii raccoglieva i capelli di khal Drogo, neri come la notte più profonda. A ogni movimento, i campanelli attaccati a essa tintinnavano in modo vagamente minaccioso. Era incredibilmente lunga: gli scendeva lungo tutta la schiena, fino alla parte superiore delle cosce. «Quando un Dothraki viene sconfitto in duello» le spiegò Viserys «deve tagliarsi la treccia in segno di disonore, in modo che tutto il mondo possa essere testimone della sua vergogna. Khal Drogo non ha mai perduto un duello. Khal Drogo è come una reincarnazione di Aegon, Signore dei draghi. E tu diventerai la sua regina.» Daenerys studiò khal Drogo. Il suo volto aveva lineamenti scolpiti, crudeli, e occhi gelidi, neri come onice. Quando il drago si risvegliava, suo fratello a volte le faceva male, le faceva paura. Ma quella paura non era nulla in confronto al terrore primordiale che le istillava il torreggiante guerriero stagliato contro i viticci di edera pallida. «Non voglio essere la sua regina» disse quasi senza rendersene conto, con una voce sottile sottile. «Viserys, ti prego... Ti prego! Non voglio! Portami a casa...» «Casa?» Adesso la voce del re Mendicante era piena di furore a stento represso. «E dov'è la nostra casa, dolce sorella? Ce l'hanno portata via, la nostra casa!» La trascinò sotto un androne assediato dalle ombre, lontano dagli sguardi di tutti, le sue dita scavarono nella pelle di lei. «Allora, dov'è la nostra casa?» Per lui, casa era Approdo del Re e la Roccia del Drago e tutto quel grande reame andato perduto. Per Daenerys, non era nient'altro che le loro stanze nel palazzo di Illyrio. Di certo non una vera casa, eppure era tutto quello che avevano. Ma questo suo fratello non poteva, non voleva sentirlo. Lì, per lui, non esisteva nessuna casa. Viserys aumentò la stretta. Voleva una risposta da lei. E la voleva subito. «Non lo so dov'è...» La voce di Daenerys si spezzò, i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Io invece lo so» sibilò suo fratello. «A casa ci andremo con un esercito, dolce sorella. L'esercito di khal Drogo. Ecco come ci andremo. E se per fare sì che io lo ottenga tu dovrai sposarlo e dormire con lui, tu lo farai.» Le sorrise. «Se per fare sì che io lo ottenga il suo intero khalasar vorrà fotterti, tu ti farai fottere, dolce sorella. Da tutti i suoi quarantamila uomini. E anche da tutti i loro cavalli, se necessario. Invece sii grata che sarà solamente Drogo a fotterti. Chissà, col tempo potresti addirittura cominciare a fartelo piacere. Adesso asciugati gli occhi. Illyrio lo sta portando qui. E khal Drogo non deve vederti piangere!» Daenerys si girò. Era vero. Magistro Illyrio, tutto sorrisi e salamelecchi, stava guidando khal Drogo verso di loro. Con il dorso della mano, Dany si tolse dalle palpebre lacrime che non sarebbero mai cadute. «Sorridi» le disse nervosamente Viserys, la mano che tornava all'elsa della spada. «E sta' eretta. Fagli vedere che hai le tette. E gli dei sanno quante poche tette hai...» Daenerys sorrise. E rimase eretta. EDDARD Un fiume in piena fatto d'oro, argento e acciaio si riversò attraverso il portale del castello, trecento uomini a cavallo in una tonante colonna, cavalieri e alfieri, vassalli e soldati di ventura. Sopra di loro, nell'aria fredda, sventolavano vessilli dai colori azzurri e dorati: il cervo incoronato, emblema della Casa Baratheon, campeggiava su di essi. Eddard Stark conosceva quasi tutti quei cavalieri. Ecco ser Jaime Lannister, capelli biondi scintillanti come oro lavorato. Ecco Sandor Clegane, con il volto sfigurato da una spaventosa ustione. Il giovane alto accanto a lui non poteva essere altri che il principe ereditario. E il piccolo uomo deforme dietro tutti loro era di certo Tyrion Lannister, il Folletto. Eppure, l'uomo gigantesco che cavalcava in testa alla colonna, affiancato da due cavalieri con le cappe bianche della Guardia reale, a Ned sembrò uno sconosciuto. O all'orizzonte e oltre. La frutta è talmente matura che ti si scioglie in bocca: meloni, pesche, prugne... Non esiste roba più dolce. Sentirai, te ne ho portate un po'. Perfino a Capo Tempesta, con quel vento che soffia dalla baia, fa talmente caldo da riuscire a muoversi a stento. E dovresti vedere le città! Fiori da tutte le parti, mercati stracolmi di cibo, i vini dell'estate così a buon prezzo e così buoni che ti sbronzi solamente a respirarli. Tutti quanti sono grassi, ubriachi e ricchi.» Robert rise e si diede una sonora pacca sulla pancia. «Per non parlare delle ragazze, Ned!» Ci fu un lampo negli occhi del re. «Quando fa caldo, le donne perdono tutto il loro pudore, te lo dico io! Si mettono a nuotare nude nel fiume, perfino sotto le mura della Fortezza Rossa. In strada fa troppo caldo per mettersi lana o pellicce, così se ne vanno in giro con certe gonne corte, di seta se hanno soldi, di cotone se non ne hanno. Ma non fa nessuna differenza quando sudano e la stoffa gli si appiccica alla pelle: è come se addosso non portassero niente.» Robert Baratheon rise di nuovo. Era sempre stato un uomo di colossali appetiti, pronto a immergersi nei piaceri della vita. Una cosa che nessuno avrebbe mai potuto dire di Eddard Stark. Al tempo stesso, per quegli appetiti, per quei piaceri, il re stava pagando un duro prezzo: aveva il fiato grosso quando arrivarono alla base della scala e alla luce della lanterna il suo volto era congestionato. «Maestà» disse Ned rispettosamente. Con un ampio movimento circolare, proiettò la luce della lanterna nell'oscurità che invadeva il sepolcro. Ombre si spostarono e si riaddensarono, luci purpuree scivolarono sulle pietre del pavimento definendo una lunga, doppia teoria di pilastri di granito che veniva progressivamente inghiottita dalle tenebre. I morti erano immobili sui troni di pietra addossati alle pareti fra i pilastri, la schiena appoggiata alla tomba che conteneva i loro resti. «Lei è verso il fondo» riprese Eddard. «Vicino al lord mio padre e a Brandon.» Avanzò per primo tra i pilastri. Robert lo seguì in silenzio, rabbrividendo nel gelo del sottosuolo. Il gelo dominava, là sotto. I loro passi risuonavano contro le pietre del pavimento, rimbalzavano sulla volta del sepolcro che ospitava i defunti della Casa Stark. Ai piedi dei signori di Grande Inverno stavano accucciati grossi meta-lupi; i volti scolpiti nelle pietre che sigillavano le tombe li osservarono passare con occhi privi di luce che scrutavano in eterne tenebre. Nell'alone luminoso in movimento, quelle figure di granito parevano agitarsi sui loro scranni, protendersi verso i vivi. Secondo l'antica tradizione, una spada lunga di ferro era posata di traverso sulle ginocchia di ognuno di essi, per consentire loro di tenere gli spiriti della vendetta imprigionati nelle cripte. La ruggine aveva divorato la lama più antica, lasciando solamente poche tracce rossastre là dove il metallo era rimasto in appoggio sulla pietra. Ned si chiese se questo poteva significare che ora gli spettri erano liberi di vagare nel castello, ma non volle crederci. I primi lord di Grande Inverno erano stati uomini duri e aspri come la terra sulla quale avevano dominato. Nei secoli che aveva- no preceduto l'arrivo dei Signori dei draghi dall'altra parte dell'oceano, quei lord avevano respinto qualsiasi alleanza. Erano stati i re del Nord. Ned si fermò, sollevando la lanterna. Più oltre, la grande cripta continuava a sprofondare nelle viscere della terra, perdendosi nelle tenebre. C'erano altre tombe in quelle tenebre, vuote e aperte, nere crisalidi di pietra in attesa di ricevere i morti a venire. In attesa di lui, Eddard Stark, e dei suoi figli. Un'altra cosa cui Ned non volle pensare. «È qui che lei riposa» disse. Silenziosamente, Robert annuì, s'inginocchiò, chinò il capo. C'erano tre tombe, una accanto all'altra. Lord Rickard Stark, padre di Ned, aveva un volto allungato, austero. Lo scultore l'aveva conosciuto bene. Sedeva con quieta dignità, le dita di pietra strette attorno all'impugnatura della spada. Nella sua esistenza, però, tutte le spade l'avevano tradito. Nei due sepolcri più piccoli ai lati giacevano i suoi due figli. Brandon era morto a vent'anni, strangolato per ordine di Aerys Targaryen, il re Folle, appena pochi giorni prima delle nozze con Catelyn Tully di Delta delle Acque. Suo padre era stato costretto a veder morire il vero erede degli Stark, il primogenito, l'uomo nato per regnare. Lyanna aveva solamente sedici anni, una donna-bambina di prodigiosa bellezza. Eddard l'aveva amata con tutta la sua anima. Robert l'aveva amata al di là dello spirito: era stata la sua promessa sposa. Re Robert esitò, sempre genuflesso. «Era più bella, molto più bella di così.» Il suo sguardo rimase sui lineamenti di pietra di Lyanna, come se in qualche modo potesse farla tornare in vita. Alla fine si alzò, in un movimento reso goffo dal troppo peso. «Maledizione, Ned, dovevi proprio metterla in un posto come questo?» La memoria del dolore passato rendeva aspra la sua voce. «Meritava di meglio di questo pozzo buio...» «Era una Stark di Grande Inverno. È qui che deve riposare» rispose Ned con semplicità. «Dovrebbe essere sulla cima di una collina, sotto un albero di frutta, con sopra il sole e le nubi. Dovrebbe poter sentire la carezza della pioggia.» «Ero con lei, quando se n'è andata» gli ricordò Ned. «Voleva tornare a casa, per riposare accanto a Brandon e a nostro padre.» A volte, nella notte, poteva ancora udirla. «Prometti» lo aveva implorato, mentre giaceva in quella stanza satura dell'odore delle rose e del sangue. «Devi promettermelo, Ned!» La febbre le aveva portato via le forze, la sua voce era stata poco più di un sussurro ma, quando lui le aveva dato la sua parola, la paura era svanita dagli occhi di sua sorella. Ned ricordava solo poche altre cose: il modo in cui gli aveva sorriso per l'ultima volta, le dita di lei che abbandonavano le sue lasciando cadere petali disseccati, anneriti. Il resto era una penombra indefinita. L'avevano trovato più tardi, paralizzato dalla sofferenza, mentre ancora stringeva il corpo di lei tra le braccia. Howland Reed, il piccolo uomo delle terre lacustri, li aveva sciolti dall'abbraccio. Ned non aveva alcun ricordo di questo. «Le porterò dei fiori» credeva di aver detto a Reed. «Lo farò ogni volta che potrò. Lyanna... amava i fiori.» La mano di re Robert sfiorò il volto di pietra, le sue dita ne percorsero i lineamenti con dolcezza, come se fossero stati quelli di una donna in vita. «Ho giurato di uccidere Rhaegar per quello che le ha fatto.» «L'hai ucciso» gli ricordò Ned. «Soltanto una volta.» Robert era ancora pieno di veleno. Si erano affrontati al guado del Tridente mentre la battaglia infuriava tutt'attorno. Da un lato Robert Baratheon, mazza da combattimento ed elmo dalle grandi corna di cervo. Dall'altro Rhaegar Targaryen, il principe dall'armatura nera. Sulla placca pettorale c'era il drago a tre teste, emblema della sua Casa, disseminato di rubini che ai raggi del sole scintillavano come faville di fuoco. Le acque del Tridente scorrevano rosse di sangue attorno agli zoccoli dei loro destrieri mentre i due cavalieri andavano all'attacco, gira- vano uno attorno all'altro, si scontravano con furia cieca. Era stata la mazza ferrata di Robert a dare il colpo conclusivo, sfondando il drago di rubini e il torace sotto di esso. Quando Eddard era arrivato sulla scena del duello, il cadavere di Rhaegar giaceva nella corrente e soldati dei due eserciti frugavano nell'acqua alla ricerca dei rubini divelti dalla sua armatura. «Ogni notte lo uccido di nuovo» confessò Robert. «Mille morti, diecimila morti sono niente al confronto di quello che meritava.» Non c'era nulla che Ned potesse dire. «Meglio rientrare, maestà» suggerì dopo una lunga pausa. «Tua moglie ti starà aspettando.» «Mia moglie? Che gli Estranei se la portino alla dannazione!» Robert continuava a essere pieno di amarezza, ma cominciò comunque a muoversi con passo pesante. «E un'altra cosa, Ned: se la sento ancora una volta, la farsa del "maestà", ti stacco la testa e la infilo su una picca. Tu e io siamo ben altro!» «Non ho dimenticato cosa siamo, Robert.» Fu il turno del re di non trovare niente da dire. «Dimmi di Jon Arryn» riprese Ned. «Non ho mai visto un uomo arrivare alla fine per malattia tanto rapidamente.» «Sono ai tuoi comandi, maestà.» Parole che doveva dire e che disse, pur essendo pieno di timori su ciò che stava per arrivare. «Sempre.» «Gli anni che tu e io abbiamo trascorso assieme al Nido dell'Aquila...» Robert parve averlo udito a stento. «Per gli dei... quelli sì furono anni buoni, validi. Ned, ti voglio di nuovo al mio fianco. Ti voglio con me ad Approdo del Re, non quassù, all'ultimo, dannato confine del mondo, dove non sei utile a nessuno.» Scrutò nel buio che li circondava e per un attimo i suoi lineamenti ebbero l'espressione malinconica degli Stark. «Te lo giuro, Ned: se conquistare un trono è duro, è nulla in confronto a quello che ti arriva addosso quando ci stai seduto sopra. Le leggi sono una noia, fare i conti con le casse del regno è addirittura peggio. E poi la gente... Sembra senza fine. Sto seduto su quello stramaledetto sedile di ferro a sentire le loro lamentele fino a quando il cervello mi va in acqua e il culo a fuoco. Non ce n'è uno che non voglia qualcosa: denaro, terre, giustizia. E le menzogne che raccontano... I miei nobili, le mie nobildonne non sono di certo meglio. Sono circondato da adulatori e da imbecilli. Roba da farti uscire di senno, Ned. Una metà non ha il coraggio di dirmi la verità, l'altra metà non sa nemmeno dove si trovi. Certe notti penso che forse sarebbe stato meglio averla perduta, la battaglia del Tridente. Be', non proprio...» «Mi rendo conto» disse Ned a bassa voce. «Lo so.» Robert riportò lo sguardo su di lui. «Penso che tu ti renda conto. E penso anche che nessun altro si renda conto, mio caro, vecchio amico.» Gli sorrise. «Lord Eddard Stark, voglio farti Primo Cavaliere del re.» Ned mise un ginocchio a terra di fronte a lui. L'offerta non lo sorprese. Robert non poteva avere nessun'altra ragione per fare tutta quella strada fino a Grande Inverno. Il Primo Cavaliere del re era il secondo uomo più potente dei Sette Regni: parlava in luogo del re, guidava gli eserciti del re, redigeva le leggi del re, arrivava addirittura a sedere lui stesso sul Trono di Spade, dispensando la giustizia del re quando questi era assente, ammalato o altrimenti occupato. Ciò che Robert gli stava offrendo erano una responsabilità e un potere vasti quanto il reame stesso. Ma erano anche l'ultima delle responsabilità, l'ultimo dei poteri che avrebbe mai voluto. «Non sono degno di un simile onore, maestà» rispose. «Ned, se avessi voluto farti un onore, ti avrei permesso di rifiutare» borbottò Robert in modo benevolo. «Il mio progetto è ben altro: avere te che mandi avanti il regno mentre io vado avanti a mangiare, bere, fottere e condurre una splendida vita di dissolutezze fino alla mia prematura dipartita.» Sorrise beffardo e si diede un'altra pacca sullo stomaco. «E poi, lo sai quello che dicono in merito al re e al suo Primo Cavaliere, no?» «Ciò che il re sogna» recitò Ned «il Primo Cavaliere costruisce.» «Versione dei nobili. Una servetta che mi feci qualche tempo fa mi diede quella dei bassifondi: "Il re si abboffa mentre il Primo Cavaliere si becca la merda".» Robert gettò indietro la testa e scoppiò in una tonante risata suscitando echi nelle tenebre del sepolcro. I ciechi occhi di pietra degli spettri di Grande Inverno parevano osservare con ostile disapprovazione. Alla fine, la risata cessò. Eddard era sempre con un ginocchio a terra, lo sguardo alzato sul suo re. «Maledizione, Ned, potresti per lo meno sforzarti di stare al gioco con un sorriso» sbottò Robert. «C'è un vecchio detto, qui nel Nord. Dicono che durante l'inverno fa così freddo che la risata di un uomo gli si congela in gola, soffocandolo fino alla morte» rispose Ned in tono piatto. «Forse è per questo che gli Stark non brillano per il loro senso dell'umorismo.» «E allora vieni al Sud con me: t'insegnerò io come si fa a ridere di nuovo» promise il re. «Mi hai aiutato a prendere il dannato trono, ora ti chiedo di aiutarmi a restarci sopra. Ned, siamo destinati a regnare assieme, tu e io. Se Lyanna fosse vissuta, saremmo diventati fratelli. Un legame di sangue oltre che di affetto. Ebbene, non è troppo tardi. Io ho un figlio, tu hai una figlia. Il mio Joffrey e la tua Sansa faranno un'unica Casa delle nostre due, come Lyanna e io avremmo fatto tanto tempo fa.» Questa offerta sorprese invece Eddard Stark. «Sansa ha soltanto undici anni.» Robert fece un gesto impaziente. «Un'età sufficiente per essere quanto meno promessa sposa. Per il matrimonio potremo aspettare qualche anno.» Il re sorrise. «Ora alzati e rispondi di sì, maledetto te.» «Nulla mi renderebbe più felice, maestà.» Ned esitò. «Un onore così grande... E del tutto inaspettato. Posso avere qualche tempo per pensarci? Devo dirlo a mia moglie...» «Ma sì, ma sì, dillo pure a Catelyn. Dormici pure sopra, se davvero ci tieni.» Il re allungò una mano, facendo alzare Ned con impeto. «Ma cerca di non farmi aspettare troppo a lungo. La pazienza non è la mia maggiore virtù.» Per un lungo momento, Eddard Stark sentì aleggiare attorno a sé, dentro di sé, un pericolo spaventoso. Il suo posto era il Nord. Tornò con lo sguardo alle figure di pietra che parevano assediarlo da tutti i lati. Respirò l'aria gelida del sepolcro. I morti lo stavano osservando. I morti lo stavano ascoltando. Lui lo sapeva, lo sentiva. E l'inverno stava arrivando. JON C'erano volte, non molte ma c'erano, in cui Jon Snow era felice di essere un bastardo. Prese al volo una caraffa e si riempì di nuovo la coppa fino all'orlo: questa era proprio una di quelle volte. Tornò a sedersi sulla panca assieme agli altri giovani signorotti di campagna e bevve. Il gusto del vino dell'estate, dolce, carico dell'aroma della frutta, gli si diffuse in bocca, portandogli il sorriso sulle labbra. Nella sala grande del castello di Grande Inverno l'atmosfera era caliginosa per il fumo, satura dell'odore della carne arrostita e del pane appena sfornato. Le alte pareti di pietra grigia erano adornate di stendardi, un caleidoscopio di bianco, azzurro e oro: il meta-lupo degli Stark, il leone dei Lannister, il cervo incoronato dei Baratheon. Un menestrello cantava una ballata accompagnandosi all'arpa, ma verso il fondo della sala, dove si trovava Jon, la sua voce giungeva a malapena, sopraffatta dal crepitare dei fuochi, dalla cacofonia di piatti e coppe che sbattevano, dal brusio di centinaia di conversazioni alimentate dal troppo vino. La festa in onore del re andava avanti da quattro ore. I fratelli e le sorelle di Jon erano seduti assieme ai rampolli reali, appena al disotto della piattaforma sopraelevata sulla quale lord e lady Stark intrattenevano il re e la regina. Per l'occasione, il lord suo padre avrebbe senza dubbio lasciato bere un bicchiere di vino a ciascuno dei ragazzi, ma non più di uno. Laggiù, sulle panche, nessuno avrebbe impedito a Jon Snow di bere quanto avesse voluto. Jon si stava rendendo conto anche di qualcos'altro: la sua sete era quella di un adulto, il che faceva la chiassosa delizia del giovane branco che lo circondava. Lo incitavano, lo invogliavano, gli riempivano la coppa non appena lui la svuotava. A Jon piaceva stare assieme a loro, si godeva le loro storie di duelli, seduzioni e cacce. Era certo che quei compagni fossero di molto più stimolanti dei rampolli reali. La sua curiosità verso i visitatori si era esaurita al momento del loro ingresso nella sala del banchetto. Il corteo gli era sfilato tanto vicino da poterlo toccare e lui aveva dato una lunga occhiata a ognuno dei componenti. Per primo era venuto il lord suo padre che scortava la regina. Cersei Lannister era effettivamente la bellezza che tutti gli uomini dicevano che fosse. Una tiara di pietre preziose tratteneva i suoi lunghi capelli biondi, gli smeraldi in perfetto accostamento cromatico con il verde dei suoi occhi. Suo padre le aveva dato il braccio nel salire i pochi gradini della piattaforma e l'aveva fatta accomodare, ma la regina non l'aveva neppure degnato di uno sguardo. Jon Snow aveva soltanto quattordici anni, ma era «Per cui questo è uno dei meta-lupi dei quali ho sentito parlare.» Jon alzò lo sguardo sorridendo. Suo zio Benjen Stark gli arruffò i capelli pressoché nello stesso modo in cui lui aveva arruffato il pelo del cucciolo. «Si chiama Spettro.» Uno degli altri signorotti seduti al tavolo interruppe l'aneddoto che stava raccontando e si spostò per fare posto al fratello del suo lord. Benjen scavalcò la panca con le lunghe gambe e prese la coppa dalla mano di Jon. «Vino dell'estate» rilevò dopo un sorso. «Niente di più dolce. Quante te ne sei già scolate di queste, Jon?» Jon sorrise senza rispondere. «Proprio come temevo» rise Ben. «Ah, be', in ogni caso credo di essere stato anche più giovane di te la prima volta che mi sono sbronzato.» Da un vassoio accanto a loro prelevò una grossa cipolla arrostita gocciolante salsa speziata e l'addentò, facendola scricchiolare tra i denti. Benjen Stark era un uomo dai lineamenti marcati, asciutto come uno sperone basaltico, ma c'era sempre un accenno di allegria nei suoi occhi azzurro acciaio. Vestiva interamente di nero, secondo la tradizione della confraternita dei Guardiani della notte. Per l'occasione, aveva scelto spesso velluto, alti stivali e una larga cintura dalla fibbia d'argento. Come unico ornamento, portava attorno al collo parecchi giri di collana, anch'essa d'argento. Continuò a osservare Spettro e a mordere la cipolla. «Un lupo molto quieto» osservò. «È diverso dagli altri» rispose Jon. «Non fa il minimo rumore. Per questo l'ho chiamato Spettro. E anche perché è bianco. Gli altri sono bruni, grigi o neri.» «Ci sono ancora molti meta-lupi oltre la Barriera. Uscendo di pattuglia, li sentiamo muoversi nella foresta.» Benjen Stark lanciò a Jon uno sguardo penetrante. «Dimmi una cosa, Jon: di solito non mangi allo stesso tavolo dei tuoi fratelli?» «Il più delle volte.» Il tono di Jon rimase incolore. «Ma questa sera lady Stark ha ritenuto che far sedere con loro un bastardo avrebbe potuto recare affronto alla famiglia reale.» «Capisco.» Benjen gettò un'occhiata al disopra della spalla, verso il tavolo sulla piattaforma all'estremità più lontana della sala. «Mio fratello non ha esattamente l'aria di uno che si sta divertendo.» Anche Jon l'aveva notato. Un bastardo era costretto a notare le cose, a intuire le verità che si celavano dietro gli sguardi. Suo padre era stato perfetto in ognuna delle cortesie di rito, ma c'era in lui una rigidezza che Jon non aveva visto spesso. Lord Eddard Stark parlava poco, i suoi occhi cupi, fermi sulla prospettiva della sala, guardavano ma senza vedere nulla. A due posti da lui, il re non aveva fatto che bere senza sosta per tutta la serata. Dietro la spessa barba nera, la sua faccia larga era accesa dei fumi del vino: troppi brindisi, troppe risate sguaiate, troppi assalti all'arma bianca a ogni portata. Accanto a lui, la regina appariva distante e remota come una scultura di ghiaccio. «Anche la regina è arrabbiata» disse Jon a voce bassa, calma. «Questo pomeriggio, mio padre ha portato il re a visitare la cripta, ma la regina non voleva che ci andasse.» «C'è ben poco che ti sfugge, vero, Jon?» Benjen scrutò attentamente il ragazzo, valutandolo. «Sulla Barriera c'è bisogno di uomini come te.» Jon sentì l'orgoglio crescere. «Robb è un lanciere più bravo di me, ma io lo batto con la spada. E mastro Hullen dice che so cavalcare meglio di chiunque altro al castello.» «Risultati notevoli.» «Zio, quando farai ritorno alla Barriera, portami con te!» disse Jon con impeto. «Papà mi permetterà di andare, se sarai tu a chiederglielo. So che lo farà.» Lo sguardo attento di Benjen rimase fisso nel suo. «La Barriera è un posto duro per un ragazzo, Jon.» «Sono quasi un adulto, ormai» protestò Jon. «Al mio prossimo compleanno avrò quindici anni. E maestro Luwin dice che i bastardi crescono più in fretta degli altri ragazzi.» «Questo è abbastanza vero.» Cera una strana piega all'angolo della bocca di Benjen. Afferrò la coppa di Jon, la riempì versando da una caraffa che era stata appena portata al tavolo e bevve con calma. «Daeron Targaryen aveva solo quattordici anni quando conquistò Dorne» insisté Jon. Il Giovane drago era uno dei suoi miti. «Conquista durata una sola estate» gli ricordò suo zio. «Il tuo re ragazzino perse diecimila uomini nell'assalto, e altri cinquantamila cercando di respingere il contrattacco. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli che la guerra non è un gioco.» Bevve un altro sorso di vino. «Inoltre» aggiunse, asciugandosi le labbra «Daeron Targaryen morì a diciotto anni. O forse ti sei dimenticato di quella parte della storia?» «Non mi sono dimenticato di niente» esclamò Jon. Tutto quel vino l'aveva reso spaccone. Si raddrizzò sulla panca, mettendocela tutta per apparire più alto. «Voglio servire nei Guardiani della notte, zio Ben.» Era una cosa cui aveva pensato a lungo e intensamente durante troppe notti insonni, mentre i suoi fratelli dormivano attorno a lui. Un giorno Robb avrebbe ereditato Grande Inverno e quale protettore del Nord avrebbe cavalcato alla testa di grandi eserciti. Bran e Rickon, come suoi alfieri, avrebbero governato fortezze nel suo nome. Le sue sorelle Arya e Sansa sarebbero andate spose agli eredi di nobili, grandi Case e si sarebbero spostate al Sud, diventando signore di splendidi castelli. Ma quali speranze poteva nutrire un bastardo? Quale sarebbe stato il suo posto nel mondo? «Jon, tu non hai la minima idea di che cosa stai chiedendo. Quella dei Guardiani della notte è una confraternita alla quale si presta solenne giuramento. Non abbiamo famiglia. Nessuno di noi sarà mai padre. La nostra moglie è il dovere, la nostra amante l'onore.» «Anche un bastardo sa cos'è l'onore» dichiarò Jon. «E io sono pronto a prestare quel giuramento.» «Sei un ragazzo di quattordici anni» obiettò Benjen. «Non sei ancora un uomo. E fino a quando non saprai che cos'è una donna, non puoi capire a che cosa rinunceresti.» «Non m'importa!» replicò Jon con foga. «Potrebbe importarti, se sapessi cosa significa» ribatté Benjen. «Se realmente ti rendessi conto di qual è il prezzo di quel giuramento, forse, figliolo, saresti molto meno incline a pagarlo.» Jon sentì la rabbia montargli dentro. «Non sono il tuo figliolo!» «Un peccato.» Benjen Stark gli mise una mano sulla spalla. «Torna da me dopo aver messo al mondo a tua volta un po' di bastardi. Vedremo allora se sarai della stessa idea.» «Io non metterò mai al mondo dei bastardi.» Jon adesso tremava per l'ira. «Mai!» L'ultima parola gli venne fuori in un sibilo, come un soffio velenoso. Su quel tavolo pieno di risate e di vino scese il silenzio, gli occhi di tutti si puntarono su di lui. Jon sentì le lacrime aprirsi la strada tra le palpebre. In qualche modo, si alzò in piedi. «Credo sia opportuno che io mi ritiri» disse con gli ultimi frammenti di dignità. Girò su se stesso e schizzò via prima che potessero vedere che stava piangendo. Ma il vino gli era andato alla testa molto più di quanto non si fosse reso conto. Barcollò per ritrovare l'equilibrio, finendo malamente addosso a una delle serve. La caraffa di «Fratellastri» corresse Jon. Le parole del Folletto gli avevano fatto piacere, ma cercò di non darlo a vedere. «Allora lascia che ti dia qualche consiglio, bastardo» riprese Tyrion Lannister. «Mai, mai dimenticare chi sei, perché di certo il mondo non lo dimenticherà. Trasforma chi sei nella tua forza, così non potrà mai essere la tua debolezza. Fanne un'armatura, e non potrà mai essere usata contro di te.» Jon Snow non era in vena di stare a sentire consigli, da nessuno. «Tu che ne sai di cosa significa essere un bastardo?» «Agli occhi dei loro padri, tutti i nani sono bastardi.» «Ma tu rimani un Lannister, sangue del loro sangue.» «Davvero?» Il Folletto ebbe un'espressione sardonica. «Non esitare, ragazzo: va' pure a dirlo al lord mio padre. Mia madre morì nel darmi alla luce, per cui lui non ha mai potuto esserne del tutto certo.» «Io non so nemmeno chi sia, mia madre» disse Jon. «Una donna d'eccezione, senza alcun dubbio. La maggior parte di loro lo sono.» Tyrion gli elargì un sorriso di solidarietà. «Ricorda una sola cosa, ragazzo: tutti i nani potranno anche essere dei bastardi, ma non è affatto necessario che tutti i bastardi debbano essere dei nani.» Detto questo, il Folletto girò sui tacchi e fischiettando arrancò verso il portale per tornare alla festa. Quando aprì la porta, la luce proveniente da dentro proiettò la sua ombra sull'intera lunghezza del cortile del castello. Per un momento, Tyrion Lannister fu più torreggiante del re del Sette Regni. CATELYN Tra tutti gli ambienti della Prima Fortezza di Grande Inverno, i quartieri privati di Catelyn erano decisamente i più caldi. Era raro che vi venisse acceso il fuoco. Il castello era costruito su un sistema di sorgenti calde sotterranee le cui acque ribollenti, simili a flussi sanguigni di un corpo gigantesco, risalivano lungo le inter- capedini nelle mura. La temperatura di quelle acque teneva il gelo lontano dalle stanze, riempiva di tiepida umidità i giardini racchiusi nel vetro, impediva alla terra di congelare. Durante l'estate, tutto questo appariva poca cosa; durante l'inverno, faceva la differenza tra la vita e la morte. La sala da bagno di Catelyn era perennemente torrida, piena di vapori, le pareti calde al tatto. Quel calore le faceva tornare alla mente Delta delle Acque, i giorni passati al sole assieme a Lysa e a Edmure. Per Eddard, quel calore rappresentava un problema. Gli Stark erano gente fatta per il freddo, le ripeteva in continuazione. Al che lei rideva, rispondendo che forse Brandon il Costruttore aveva eretto il castello nel posto sbagliato. Così, quando ebbero finito, seguendo il medesimo rituale silenzioso compiuto mille volte, Ned si staccò dal corpo di lei, si alzò dal letto e andò ad aprire le pesanti tende. Una per una, spalancò le strette finestre, lasciando che l'aria fredda della notte in- vadesse la stanza. Catelyn rimase a osservarlo, tirandosi le coperte di pelliccia fino al mento. Immobile di fronte alle tenebre, il vento del nord che si avvolgeva attorno a lui, nudo e a mani vuote, il signore di Grande Inverno appariva in qualche modo più piccolo, quasi vulnerabile, molto simile all'adolescente al quale, quindici anni prima, era andata in sposa nel tempio di Delta delle Acque. Ned aveva fatto l'amore con lei in modo urgente, quasi disperato. Catelyn sentiva la schiena e le braccia ancora indolenzite dalla passione di lui, una cosa che non le dispiaceva affatto. Sentiva anche il suo seme dentro di sé. Pregò che si sviluppasse. Erano passati tre anni dalla nascita di Rickon. Lei non era troppo vecchia, poteva ancora dargli un altro figlio. «Rifiuterò.».Ned si girò verso di lei, una luce cupa nello sguardo, la voce satura di dubbi. «Non puoi.» Catelyn si rizzò a sedere sul letto. «Non devi.» «Il mio posto, il mio dovere sono qui, nel Nord. Non ho alcun desiderio di diventare Primo Cavaliere di Robert.» «Lui questo non lo capirà. È re, adesso, e i re non sono come gli altri uomini. Se rifiuti di servirlo, si domanderà perché e presto o tardi comincerà a sospettare che tu possa essere contro di lui. Non ti rendi conto del pericolo nel quale rischi di mettere tutti noi?» «Robert non farà mai del male a nessuno dei miei né a me.» Ned scosse il capo, rifiutando di accettare una cosa del genere. «Lui e io eravamo più che fratelli. Mi vuole bene. Nel momento in cui gli dirò di no, si metterà a urlare, a bestemmiare, a fare il diavolo a quattro, ma nel giro di una settimana ci faremo sopra una risata. Io lo conosco, Catelyn!» «Tu conosci un uomo che non esiste più. Questo re ti è del tutto estraneo.» Catelyn ricordò la meta-lupa morta nella neve, con il frammento di rostro di unicorno inchiodato in gola. Doveva fare in modo che Ned capisse, che vedesse. «Per un re, mio signore, l'orgoglio è tutto. Robert ha fatto molta strada per vederti, per offrirti questo grande onore. Non puoi ributtarglielo in faccia.» «Questo grande onore?» Ned ebbe una risata piena di amarezza. «Ai suoi occhi lo è.» «E ai tuoi?» «Lo è anche ai miei!» rispose Catelyn con rabbia. Come poteva Ned non vedere? «Ha offerto suo figlio in matrimonio a nostra figlia, in quale altro modo definiresti un gesto del genere? Un giorno, Sansa sarà regina dei Sette Regni. I suoi figli domineranno dalla Barriera del Grande Nord alle montagne di Dorne. Qual è il tuo problema di fronte a tutto questo?» «Per gli dei, Catelyn: Sansa ha solamente undici anni! E Joffrey... non so, Joffrey è...» «L'erede diretto del Trono di Spade» completò lei al suo posto. «Inoltre, io avevo solo dodici anni quando mio padre mi promise a tuo fratello Brandon.» «Brandon.» La bocca di Eddard assunse una piega amara. «Lui saprebbe cosa fare, adesso. Lo sapeva sempre. Tutto doveva andare a Brandon: tu, Grande Inverno, ogni cosa. A Brandon, non a me. Lui era nato per essere Primo Cavaliere del re e padre di regine, non io. Io non ho mai chiesto di portare il bastone del comando.» «Non l'hai chiesto, è vero» riconobbe Catelyn. «Tuttavia la realtà rimane, e non si può cambiarla: Brandon è morto e tu hai il bastone del comando. E ora tocca a te tenerlo in pugno, che ti piaccia o no.» Ned tornò a girarsi, voltandole le spalle, e scrutò di nuovo nelle tenebre; forse osservava la luna e le stelle, o forse le sentinelle sulle mura. Catelyn si intenerì vedendo la sua pena. L'aveva sposata in luogo di Brandon, esattamente come voleva la tradizione, ma quel fantasma non aveva mai cessato d'incombere su di loro. Assieme all'altro fantasma, quello della donna il cui nome si era sempre rifiutato di rivelare: la donna che gli aveva dato Jon, il figlio bastardo. Catelyn stava per alzarsi e andargli vicino quando qualcuno bussò alla porta in modo perentorio, inaspettato. Ned si girò, la fronte aggrottata: «Che c'è?». «Mio signore» era la voce di Desmond. «Maestro Luwin è qui. Chiede urgente «Sì.» «Che cosa dice?» «Forse è opportuno che io mi ritiri» suggerì di nuovo maestro Luwin. «No» lo fermò Catelyn. «Avremo bisogno del tuo consiglio.» Si liberò delle pellicce e si alzò. L'aria era gelida contro la sua pelle nuda mentre attraversava la stanza. Maestro Luwin distolse lo sguardo. Ned stentava a credere ai propri occhi. «Ma che fai, Catelyn?» «Accendo il fuoco.» Catelyn s'infilò una camicia da notte e s'inginocchiò sulle pietre gelide del caminetto. «Maestro Luwin» cominciò Ned «potresti...» «Maestro Luwin ha portato alla luce tutti i miei figli» lo interruppe Catelyn. «I falsi pudori sono del tutto fuori luogo.» Infilò il messaggio tra gli alari e lo coprì con i ceppi più grossi. Ned attraversò la stanza, la raggiunse, l'afferrò per un braccio e la fece alzare in piedi. «Mia signora, parlami!» Il suo volto era a brevissima distanza da quello di lei. «Che cosa c'è in quel messaggio?» Catelyn s'irrigidì nella sua stretta. «Un avvertimento» disse in un soffio. «Se abbiamo orecchie per udirlo.» Lo sguardo di Ned frugò il suo. «Va' avanti.» «Lysa dice che lord Arryn è stato assassinato.» «Assassinato...» La stretta di Eddard Stark aumentò ancora di più. «Da chi... Da chi?» «Dai Lannister» rispose Catelyn. «Dalla regina.» «Ah, dei onnipotenti!» Ned la lasciò andare; c'erano segni rosso scuro sulla pelle di lei. «Tua sorella è accecata dal dolore per la perdita di Jon. Non sa quello che dice.» «Lo sa perfettamente, invece. Lysa è un'impulsiva, è vero, ma questo messaggio è pianificato troppo attentamente, celato troppo abilmente. Lei era conscia che se fosse caduto nelle mani sbagliate avrebbe significato morte certa. Per correre un simile ri- schio, i suoi devono essere stati ben più che semplici sospetti.» Catelyn guardò dritto negli occhi suo marito. «A questo punto, veramente non abbiamo più scelta. Tu devi diventare Primo Cavaliere del re, Ned. Tu devi andare con Robert al Sud e scoprire la verità.» «La verità, dici?» Eddard Stark era giunto a una conclusione radicalmente diversa. A Catelyn bastò un attimo per rendersene conto. «Le sole verità che conosco si trovano qui. Il Sud è un covo di serpenti dal quale ho tutte le intenzioni di tenermi lontano.» «Mio signore,» Luwin tornò a tormentare la catena che portava al collo, la quale, nel tempo, aveva indurito la pelle soffice della sua gola «grande è il potere del Primo Cavaliere. Può scoprire il segreto della morte di lord Arryn, fare sì che i suoi assassini vengano portati di fronte alla giustizia del re e, qualora le ipotesi peggiori dovessero rivelarsi fondate, proteggere lady Arryn e suo figlio.» Ned girò per la stanza uno sguardo disperato. Catelyn sapeva cosa provava in quel momento, ma non poteva andare da lui e prenderlo tra le braccia, non ancora. Prima era necessario arrivare alla vittoria. Per i suoi figli, i loro figli. «Mi hai detto che Robert è più di un fratello per te. Dimmi, Ned, abbandoneresti tuo fratello fra gli artigli dei Lannister?» «Che gli Estranei vi portino alla dannazione, te, lui e i Lannister» imprecò cupamente Ned. Voltò loro le spalle e andò nuovamente alla finestra. Catelyn rimase in silenzio, anche Luwin tacque. Attesero, quietamente, che Eddard Stark desse l'addio alla propria casa, alla propria terra. Quando tornò a girarsi verso di loro, la sua voce era venata di stanchezza, di malinconia. «Molto tempo fa, anche mio padre andò al Sud, rispondendo alla chiamata di un re.» Qualcosa luccicava tra le sue palpebre. «Non fece mai più ritorno.» «Un tempo diverso» rilevò Luwin «e un re diverso.» «Veramente?» osservò Ned, cupo. Sedette su una sedia accanto al caminetto. «Catelyn, tu rimarrai qui, a Grande Inverno.» Quelle parole furono come una stalattite di ghiaccio conficcata nel cuore. «No...» disse in un soffio. E adesso, di nuovo, aveva paura. Sarebbe stata quindi questa la sua condanna? Non vedere mai più il volto del suo uomo? Non sentire mai più le sue braccia che la stringevano? «Rimarrai a Grande Inverno.» Nessuna ritirata, nessun compromesso, Catelyn lo sapeva. «Governerai il Nord al mio posto, mentre io mando avanti gli affari di Robert. Dovrà sempre esserci uno Stark a Grande Inverno. Robb ha quattordici anni, presto sarà un uomo. Deve imparare a governare, e io non sarò al suo fianco. Fallo partecipare ai concili del castello. Preparalo per quando verrà il suo momento.» «Con l'aiuto degli dei» mormorò maestro Luwin «non sarà questo il caso per molti anni ancora.» «Maestro Luwin» continuò Ned «la fiducia che ho in te è la medesima che ho nel sangue del mio sangue. Da' a mia moglie la tua saggezza, nelle cose grandi come in quelle piccole. E insegna a mio figlio ciò che deve imparare, perché... l'inverno sta ar- rivando.» Maestro Luwin annuì gravemente. Ci fu un altro lungo silenzio prima che Catelyn trovasse il coraggio di porre la domanda che la scavava dentro più di qualsiasi altra: «Che faremo degli altri nostri figli?». Ned si alzò e andò ad abbracciarla, i loro volti vicinissimi. «Rickon è molto piccolo» disse gentilmente. «Resterà qui con te e Robb. Gli altri... verranno con me.» «Non puoi...» Catelyn faticò a tenere ferma la voce. «Non possiamo.» «E esatto, non possiamo: dobbiamo» rispose lui. «Così come Sansa deve sposare Joffrey Baratheon: a questo punto è cruciale. I Lannister non dovranno nutrire il minimo sospetto in merito alla nostra devozione al trono. Ed è tempo che Arya conosca le raffinatezze delle corti del Sud. Tra non molti anni, anche lei sarà in età da matrimonio.» Al Sud, Sansa sarebbe stata splendente, Catelyn non aveva dubbi in merito, e lo sapeva il cielo se Arya aveva bisogno di raffinarsi. Nel profondo di sé, lasciò andare con riluttanza le sue figlie. Ma non Bran. Mai Bran. «Va bene. Ma, Ned, in nome dell'amore che mi porti, lascia anche Bran qui a Grande Inverno. Ha soltanto sette anni.» «Io ne avevo otto quando mio padre mi mandò in adozione al Nido dell'Aquila» rispose Ned. «Ser Rodrik mi dice che tra Robb e il principe Joffrey non corre buon sangue, il che è male. Bran è in grado di rimediare a quell'ostilità. È un bambino dolce, sempre allegro, cui è facile voler bene. Che cresca tra i giovani principi e diventi loro amico, così come io divenni amico di Robert. La nostra Casa ne uscirà rafforzata.» Aveva ragione, e Catelyn lo sapeva bene, ma ciò non rese il colpo meno doloroso da sopportare. Li avrebbe perduti tutti e quattro, dunque: Ned, le due ragazze, il suo «Potrebbe esistere una soluzione, mio signore.» Fu maestro Luwin a intervenire quietamente. «Qualche giorno fa, tuo fratello Benjen è venuto da me per parlarmi di Jon. Sembra che il ragazzo aspiri a indossare il nero.» Ned non riusciva a crederci. «Jon ha chiesto di entrare nei Guardiani della notte?» Catelyn non disse nulla. Lasciò che Ned facesse da solo i conti con il problema. In quel momento, qualsiasi cosa lei avesse detto sarebbe stata sbagliata, ma, se avesse potuto, avrebbe baciato il buon maestro lì, sui due piedi. Era la soluzione perfetta. Benjen Stark era un confratello dell'ordine in nero e avrebbe trattato Jon come un figlio, il figlio che non aveva mai avuto né mai avrebbe potuto avere. Col tempo, anche Jon avrebbe prestato giuramento, e non sarebbero mai esistiti figli suoi che un giorno avrebbero potuto reclamare diritti su Grande Inverno contro i nipoti di Catelyn. «Servire sulla Barriera, mio signore» disse maestro Luwin «è un grande onore.» «E nei Guardiani della notte, perfino un bastardo può raggiungere i più alti ranghi» rifletté Ned, ma la sua voce rimaneva piena di dubbio. «Però Jon è ancora talmente giovane. Chiedere di compiere una scelta simile a un uomo adulto è un conto, ma a un ragazzo di quattordici anni...» «Un duro sacrificio» concordò maestro Luwin. «Ma questi sono tempi duri, mio signore. E la sua strada non sarà meno cruda della tua o di quella della tua lady.» Questo spinse Catelyn a pensare nuovamente ai tre figli che stava per perdere, la spinse a compiere uno sforzo ancora più grande per rimanere in silenzio. Ned si voltò nuovamente verso la finestra, il viso greve, pensieroso. «E sia» concluse alla fine con un sospiro, girandosi. «Immagino sia la soluzione migliore. Parlerò a Ben.» «E quando a Jon?» chiese maestro Luwin. «Quando verrà il momento. Ci sono molti preparativi da fare prima che tutto sia pronto per la partenza. Desidero che Jon trascorra questi pochi giorni che rimangono in modo lieto. L'estate è prossima alla fine, così come l'infanzia. Quando il tempo verrà, sarò io stesso a dirglielo.» ARYA Tutti storti. I punti del suo ricamo erano un disastro, di nuovo. Arya li osservò con occhio critico, corrugando la fronte. Lanciò un'occhiata a Sansa, circondata dalle altre ragazze. Il ricamo di sua sorella era splendido, lo dicevano tutti. «I suoi ricami sono deliziosi quanto lei» aveva detto una volta septa Mordane alla lady loro madre. «Sansa ha mani così precise, delicate.» Lady Catelyn aveva chiesto anche di Arya, al che la septa aveva fatto una smorfia: «Arya? La delicatezza di un fabbro ferraio». Arya girò lo sguardo sulla stanza, timorosa che septa Mordane potesse averle letto nel pensiero. Timore infondato: la tutrice delle signorine d'alto rango del castello di Grande Inverno non le stava prestando alcuna attenzione. La septa, tutta sorrisi e ammirazione, sedeva accanto alla principessa Myrcella. Non le capitava spesso di avere il privilegio di istruire una principessa reale nelle arti femminili, aveva detto quando la regina aveva accompagnato Myrcella nella sala del ricamo. Arya pensò che anche i punti di Myrcella erano un po' storti, ma a giudicare da come septa Mordane stava tubando, non pareva proprio. Esaminò nuovamente il proprio lavoro, alla ricerca di qualche trucco per salvare il salvabile. Niente da fare. Emise un gran sospiro e abbassò l'ago. Guardò sua sorella con aria depressa. Sansa chiacchierava allegramente, allineando altri perfetti, deliziosi punti. Beth Cassel, la figlioletta di ser Rodrik, era seduta ai suoi piedi e beveva qualsiasi cosa lei dicesse. Jeyne Poole stava protesa in avanti e le bisbigliava all'orecchio. «Di che cosa state parlando?» chiese Arya di punto in bianco. Jeyne le lanciò un'occhiata sorpresa, poi ridacchiò. Sansa apparve imbarazzata. Beth arrossì. Ma nessuna di loro le rispose. «Allora?» insisté Arya. «Me lo dite o no?» Jeyne si assicurò che septa Mordane non stesse ascoltando. Myrcella disse qualcosa proprio in quel momento e la septa rise con tutte le signorine. «Stavamo parlando del principe.» La voce di Sansa era morbida come un bacio. Il principe, certo. Joffrey Baratheon, erede al Trono di Spade, quello alto e bello, Arya non aveva dubbi in merito. Al banchetto, Sansa gli era stata seduta accanto, mentre Arya aveva avuto il piacere della compagnia dell'altro, quello bassotto e grassottello. Ovvio, no? «A Joffrey tua sorella piace.» Jeyne era tutta orgogliosa, come se il merito fosse suo. Era la figlia dell'attendente di Grande Inverno e la migliore amica di Sansa. «Le ha detto che la trova bellissima.» «La sposerà, un giorno.» La piccola Beth aveva un'espressione sognante, le braccia strette attorno al corpo. «E Sansa sarà la regina di tutto il reame.» Sansa ebbe la buona grazia di arrossire e lo fece in modo molto carino. Faceva pressoché ogni cosa in modo molto carino. All'idea, Arya ingoiò una boccata di acido risentimento. «Beth, non dovresti inventarti storie simili.» Sansa scompigliò i capelli della ragazzina, addolcendo la durezza della frase, poi spostò lo sguardo su Arya. «Tu cosa pensi del principe Joff, sorellina? È molto galante, non trovi?» «Jon dice che a guardarlo sembra una ragazza.» «Povero Jon.» Sansa allineò un'altra serie di punti. «È geloso perché è bastardo.» «Jon è nostro fratello.» Arya aveva parlato a voce decisamente troppo alta e le sue parole echeggiarono contro le pareti di quella stanza nella torre, rompendo la quiete del pomeriggio. Septa Mordane sollevò lo sguardo. Aveva un viso ossuto, occhi acuti, una bocca dalle labbra sottili che sembrava fatta apposta per i rimproveri. Aveva la fronte aggrottata. «Qual è l'argomento, signorine?» «Fratellastro» corresse Sansa con voce soffice, affilata, sorridendo a tutto beneficio della septa. «Arya e io parlavamo di quanto siamo liete di avere la principessa con noi quest'oggi.» «Un grande onore per tutti noi, senz'alcun dubbio» approvò la septa. Al complimento, la principessa Myrcella ebbe un sorriso incerto. «Arya, per quale motivo non stai ricamando?» Septa Mordane si alzò in un fruscio di sottane fin troppo inamidate e si diresse verso di lei. «Mostrami i tuoi punti.» Arya avrebbe voluto urlare. Sansa, sempre lei, e quel suo dannato modo di richiamare l'attenzione della septa. «Ecco qui.» Arya non ebbe altra scelta se non presentare il proprio capolavoro. «Arya, Arya, Arya.» La bocca priva di labbra della septa si arcuò. «Proprio non ci siamo.» La stavano guardando, tutte quante. Era insopportabile. Sansa era troppo bene educata per sorridere alla mortificazione della sorella, però aveva Jeyne Poole per formidabile e baffoni bianchi altrettanto formidabili, i due bambini mulinavano spade di legno anch'esse imbottite. Una dozzina di spettatori, tra uomini e ragazzi, vociavano incoraggiamenti. Robb era quello che sbraitava più di tutti. Accanto a lui, Arya riconobbe Theon Greyjoy, sul volto la sua solita espressione di sprezzante ironia, la piovra dorata simbolo della sua nobile Casa sulla spessa tunica nera. Al centro dell'improvvisata arena, i contendenti avevano il fiato grosso. Chiaramente, se le stavano dando da parecchio. «Un minimo più faticoso del ricanto» rilevò Jon. «Un minimo più divertente del ricamo» replicò Arya. Lui sogghignò, allungò una mano e le arruffò i capelli. Arya arrossì. Si erano sempre voluti bene, Jon e lei. Anche lui aveva i lineamenti duri del lord loro padre, e tra i figli Stark erano i soli. Robb, Sansa, Bran, perfino il piccolo Rickon avevano i volti sorridenti e i capelli neri fiammeggianti dei Tully di Delta delle Acque. Da piccola, Arya aveva avuto il timore di essere a sua volta bastarda. Così era andata a confidare a Jon le sue paure, ma era stato Jon stesso a fugarle. «Perché non sei anche tu giù nel cortile?» gli chiese Arya. «Perché ai bastardi non è permesso danneggiare i giovani principi.» Jon ebbe un mezzo sorriso. «Dietro ogni livido di un addestramento alla spada dev'esserci una mano di sangue nobile.» «Ah.» Ad Arya questo non piacque affatto, anche se avrebbe dovuto saperlo. Ecco un'altra cosa ingiusta della vita: era la seconda volta che ci pensava nella stessa giornata. «Io me la caverei bene quanto Bran» disse osservando il fratellino andare all'attacco di Tommen. «Lui ha sette anni e io nove.» «Sei troppo magra.» Jon la studiò con la saggezza di chi di anni ne ha quattordici. «Dubito molto che riusciresti anche solamente a sollevarla, una spada.» Le tastò i muscoli del braccio. «E quanto a maneggiarla, sorellina, scordatelo.» Arya ritirò il braccio di scatto e lo folgorò con un'occhiataccia. Jon le arruffò di nuovo i capelli, poi tutti e due tornarono a seguire la tenzone tra Bran e Tommen. «Lo vedi il principe Joffrey?» le chiese Jon. Arya non l'aveva visto subito. Guardando con più attenzione, lo notò verso il fondo del cortile, all'ombra del grande muro di pietra. Era circondato da uomini che lei non riconobbe, giovani signori con le livree dei Lannister e dei Baratheon, estranei, tutti quanti. Tra loro c'erano uomini più in età, cavalieri quasi certamente. «Guarda gli stemmi sulla sua casacca da addestramento» accennò Jon. Uno scudo elaborato ornava la tunica imbottita del principe, un ricamo di eccezionale bellezza, nessun dubbio in merito. Sullo scudo erano accostati due stemmi divisi a metà in verticale: da un lato il cervo incoronato della Casa reale, dall'altro il leone di Lannister. «Gente orgogliosa, i Lannister» rilevò Jon. «Si potrebbe pensare che lo stemma della corona basti, invece no. Il principe sta rendendo alla casata di sua madre il medesimo onore che rende a quella del re.» «Anche la donna è importante!» protestò Arya. «Certo che lo è. Forse, sorellina, dovresti seguire l'esempio anche tu» rise Jon «e accoppiare gli stemmi dei Tully e degli Stark nel tuo blasone.» «Un lupo con un pesce in bocca?» Arya rise a sua volta. «Che stupidata. E poi, se a una ragazza non è permesso combattere, a che le serve una casacca da addestramento?» «Una ragazza può avere l'addestramento, ma non le spade.» Jon si strinse nelle spalle. «Un bastardo può avere le spade, ma non l'addestramento. Le regole non le ho fatte io, sorellina.» Da sotto venne un grido. Il principe Tommen, finito nella polvere, cercava di rialzarsi, ma senza molto successo. Tutta l'imbottitura che aveva addosso lo faceva sembrare una tartaruga rovesciata sul dorso. Bran incombeva su di lui, spada di legno levata, pronto a colpirlo di nuovo nel momento in cui si fosse rimesso in piedi. Gli uomini tutt'attorno cominciarono a ridere. «Basta così!» tuonò ser Rodrik, offrendo la mano al principe e aiutandolo a sollevarsi. «Ben combattuta. Lew, Donnis, aiutateli a togliersi l'armatura.» Si guardò attorno. «Principe Joffrey, Robb: un altro assalto?» Robb, già sudato da un precedente duello, non se lo fece ripetere. «Con piacere» rispose. Accettando a sua volta l'offerta di ser Rodrik, Joffrey avanzò nella luce del sole. I suoi capelli parvero oro liquefatto. Sul suo viso, l'espressione perennemente annoiata non mutò. «Questa è roba da bambini, ser Rodrik.» Theon Greyjoy se ne uscì con un'improvvisa risata. «Voi siete bambini» disse con derisione. «Lo sarà Robb, un bambino.» Joffrey non si scompose. «Io sono un principe. E trovo quanto mai tedioso bacchettare gli Stark con una spada di legno.» «Di bacchettate, Joff, ne hai prese molte di più di quante ne hai date» lo rimbeccò Robb. «O forse hai paura?» «Terrore.» Joffrey lo guardò con supponenza. «Sei tanto più vecchio di me, Robb.» Alcuni degli uomini Lannister risero. Jon, la fronte aggrottata, rimase a osservare la scena. «Un vero stronzetto, quel Joffrey» disse ad Arya. Ser Rodrik si diede una pensosa arricciata di baffi. «Quindi, che cosa suggerisci, principe?» «Acciaio.» «E acciaio sia» approvò subito Robb. «L'idea è tua.» «Troppo pericoloso.» Il maestro d'armi mise una mano sulla spalla del giovane Stark per farlo stare calmo. «Vi permetterò spade da torneo, senza affilatura.» Joffrey non rispose, ma fu qualcun altro a rispondere per lui, un uomo che Arya non aveva mai visto, un cavaliere alto, dai capelli scuri, il volto solcato da cicatrici da ustione. «Questo è il tuo principe.» Il cavaliere avanzò fino a mettersi davanti a Joffrey. «Chi sei tu per dire al tuo principe che deve avere una spada spuntata, ser?» «Io sono il maestro d'armi di Grande Inverno» rispose ser Rodrik. «E ti suggerisco, Clegane, di non dimenticarlo.» «E chi addestri a Grande Inverno, maestro d'armi?» volle sapere l'uomo dal volto bruciato, muscoloso come un toro. «Donne, forse?» «Addestro cavalieri» ribatté ser Rodrik. «E combatteranno con l'acciaio soltanto quando saranno pronti, quando avranno l'età per farlo.» L'uomo sfregiato si rivolse a Robb: «Quanti anni hai, ragazzo?». «Quattordici.» «Ne avevo dodici quando uccisi un uomo per la prima volta. E puoi stare certo che non fu con una spada spuntata.» A Robb ribolliva il sangue nelle vene, Arya se ne accorse subito. Era stato ferito di stupefatta ammirazione, senza osare rivolgere loro la parola. Ser Boros Blount era calvo e aveva la faccia spigolosa, ser Meryn Trant aveva occhi infossati e una barba del colore della ruggine. Ser Jaime Lannister, invece, aveva davvero l'aspetto di uno dei cavalieri di cui parlavano le leggende, e anche lui faceva parte della Guardia reale. Robb però diceva che ser Jaime aveva assassinato il re precedente, il vecchio re Folle, disonorando così l'armatura bianca. Il più grande cavaliere ancora vivente restava ser Barristan Selmy, Barristan il Valoroso, comandante della Guardia. Suo padre gli aveva promesso che, una volta raggiunta Approdo del Re, avrebbero incontrato ser Barristan in persona. Bran aveva contato i giorni facendo delle tacche nel suo muro speciale del castello, impaziente di partire per vedere quel mondo che fino ad allora aveva solo sognato e cominciare una vita che riusciva a immaginare solo remotamente. Ma adesso che il suo ultimo giorno a Grande Inverno era arrivato, si sentiva come sperduto. Grande Inverno era l'unica casa che avesse mai conosciuto. Suo padre gli aveva detto di fare oggi i suoi addii e Bran ci aveva provato. Dopo che i cacciatori si erano allontanati, si era aggirato per la Prima Fortezza assieme al suo meta-lupo, deciso a salutare coloro che si sarebbe lasciato alle spalle. La vecchia Nan, Gage il cuoco, Mikken nella sua fucina di fabbro, Hodor il ragazzo delle stalle. Hodor che sorrideva sempre, si prendeva cura del suo pony, non diceva mai niente a eccezione della parola "Hodor". E anche l'uomo della serra, che gli dava dei mirtilli quando andava a fargli visita... Dire addio a tutti loro, certo. Ma non aveva funzionato come previsto. Bran aveva cominciato con l'andare alle stalle, a vedere il suo pony. Solo che non era più il suo pony perché stava per ricevere un vero cavallo. Di colpo, Bran avrebbe voluto mettersi in un angolo a piangere. Era scappato via prima che Hodor e gli altri stallieri vedessero i suoi occhi pieni di lacrime. Quello era stato il principio e anche la fine dei suoi addii. Aveva passato il resto della mattinata tra gli enormi alberi secolari del parco degli dei, cercando d'insegnare al suo meta-lupo a riportargli il bastone, ma nemmeno quello aveva funzionato. Il cucciolo era molto più intelligente di qualsiasi altro mastino del canile di suo padre, e Bran era pronto a giurare che era in grado di capire qualsiasi cosa lui gli diceva. Non aveva però il benché minimo interesse a cor- rere dietro a un pezzo di legno. Non gli aveva ancora dato un nome. Robb aveva chiamato il suo Vento grigio, in quanto correva come il vento. La meta-lupa di Sansa era Lady. Arya aveva scelto il nome di una qualche strega guerriera delle leggende. Il piccolo Rickon aveva chiamato il suo Cagnaccio e Bran riteneva che fosse un nome parecchio stupido da dare a un meta-lupo. Quello di Jon, l'albino sempre silenzioso, era Spettro. Bran avrebbe voluto trovarlo prima lui quel nome, anche se il suo meta-lupo non era bianco. Negli ultimi tempi aveva tentato centinaia di nomi, ma nessuno andava bene. Alla fine, stanco dell'inutile giochetto del lancio del bastone, decise di andare a scalare. Con tutto quello che era successo, erano settimane che non saliva sulla torre spezzata, e quella sarebbe stata quasi certamente la sua ultima possibilità. Corse attraverso la verde, profonda penombra del parco degli dei. Prese la strada più lunga, per non passare vicino allo stagno nel centro ed evitare così l'albero del cuore. Aveva sempre avuto paura di quell'albero. Gli alberi non dovrebbero avere occhi, di questo Bran era convinto, e non dovrebbero avere nemmeno foglie che sembrano mani coperte di sangue. Il suo lupo senza nome lo tallonava. «Tu rimani qui» gli ordinò quando raggiunsero la base dell'albero-sentinella che cresceva vicino all'armeria. «A terra. Così. Fermo lì, adesso.» Il lupo obbedì. Bran lo grattò dietro le orecchie, poi si girò, spiccò un salto, afferrò un ramo basso e si issò a forza di braccia. Continuò a salire agilmente, un ramo dopo l'altro, una biforcazione dopo l'altra. Era quasi a metà dell'altezza dell'albero quando il meta-lupo senza nome si alzò improvvisamente in piedi ed emise un lungo ululato. Bran guardò in basso. Gli occhi gialli del lupo, di nuovo silenzioso, lo fissavano e Bran sentì un inquietante brivido gelido percorrergli la schiena. Riprese a salire. E il meta-lupo ululò di nuovo. «Zitto!» gli gridò. «Seduto! E fa' il bravo. Sei peggio della mamma...» Niente da fare. Gli ululati lo inseguirono per tutta la scalata finché non saltò sul tetto dell'armeria, scomparendo dalla vista. I tetti di Grande Inverno erano la sua seconda casa. Sua madre diceva sempre che aveva imparato a scalare ancora prima di imparare a camminare. Bran non ricordava quando esattamente aveva cominciato a camminare, ma non ricordava nemmeno quando aveva cominciato a scalare. Di conseguenza, sua madre doveva avere ragione. Ai suoi occhi, la Prima Fortezza di Grande Inverno era un labirinto di pietra grigia: muraglie, torri, cortili, tunnel che si dilatavano in ogni direzione. Nelle parti più antiche del castello, le sale e i camminamenti salivano e scendevano al punto che risultava impossibile capire a quale piano ci si trovava. Nel corso dei secoli, il maniero era cresciuto su se stesso, dentro se stesso, simile a un mostruoso albero fatto di roccia. Questo gli aveva detto una volta maestro Luwin: un mostruoso albero con rami contorti, massicci, attorcigliati e con radici che sprofondavano dentro le viscere della terra. Bran conosceva quel labirinto e quando ne emergeva, quando arrivava fino quasi al cielo, gli bastava un solo sguardo per avere l'intera vastità di Grande Inverno al proprio cospetto. Gli piaceva, quell'immensità. Gli piaceva non avere nient'altro che gli uccelli sopra di sé, e l'intera vita quotidiana del castello sotto di sé. Poteva restare appollaiato per ore sugli antichi doccioni di pietra erosi dalle tempeste, in eterno allerta sulla Prima Fortezza. E assieme a loro, vedeva tutto: gli uomini nel cortile al lavoro con il legno e con il ferro, i cuochi nella serra che preparavano le verdure per il pranzo, i cani inquieti che correvano senza sosta avanti e indietro nei canili, le ragazze che chiacchieravano al lavatoio. Questo lo faceva sentire signore e padrone del castello con una profondità che mai suo fratello Robb avrebbe conosciuto. Gli permetteva di conoscere anche tutti i segreti del castello. Chi l'aveva edificato non si era dato pena di livellare il suolo. C'erano colline e valli nascoste all'interno delle mura della Prima Fortezza, e c'era un ponte coperto che dal quarto piano della torre campanaria raggiungeva il secondo piano dell'uccelliera. Bran sapeva che quel ponte esisteva. E sapeva come penetrare nel perimetro interno dalla porta sud: bisognava scalare tre piani, percorrere uno stretto tunnel scavato nella pietra che correva tutt'attorno a Grande Inverno e infine sbucava, al piano terreno, presso la porta nord, sotto l'ombra minacciosa di decine e decine di metri di muraglia. Nemmeno maestro Luwin poteva saperlo, questo. Bran ne era convinto. Sua madre era terrorizzata. Aveva incubi su Bran che cadeva da chissà quale muro andando a sfracellarsi al suolo. Lui le aveva detto che non sarebbe accaduto, ma lei non gli credeva in nessun modo. Una volta l'aveva costretto a prometterle che non si sarebbe più mosso da terra ed era riuscito a mantenere la promessa per quasi un mese, diventando però più malinconico e più scalpitante ogni giorno che passava. Alla fine non aveva più resistito: mentre i suoi fratelli dormivano, era sgattaiolato dalla finestra nel cuore della notte. Il giorno seguente, tormentato dalla colpa, aveva confessato il suo crimine e lord Eddard l'aveva confinato nel parco degli dei perché facesse ammenda. Aveva addirittura fatto mettere guardie tutt'attorno per essere certo che Bran vi trascorresse la notte a riflettere sulla sua disobbedienza. Alla mattina, di Bran non c'era traccia. Sembrava svanito, inghiottito dalle ombre. L'avevano trovato profondamente addormentato tra le biforcazioni più alte del più alto albero-sentinella del parco. «Tu non sei mio figlio!» Una volta che gli ebbero riportato Bran di fronte, per quanto infuriato, suo padre non aveva potuto fare a meno di scoppiare a ridere. «Tu sei uno scoiattolo. E sia: fa' lo scoiattolo. Vuoi scalare? E scala. Cerca almeno di non farti vedere da tua madre.» Bran aveva fatto del suo meglio ma non pensava di essere riuscito ad abbindolarla sul serio. E lady Catelyn, visto che suo padre non l'avrebbe fermato, aveva stretto altre alleanze. La vecchia Nan gli aveva raccontato la storia di un ragazzino molto cattivo colpito da un fulmine per essere salito troppo in alto. Dopo di che, i corvi erano scesi a «Evitami le battute di spirito. Stannis e Renly sono una cosa, Eddard Stark è tutto un altro discorso. A Stark Robert darà ascolto, che siano dannati tutti e due. Avrei dovuto insistere che nominasse te, ma ero certa che Stark avrebbe rifiutato.» «Possiamo ancora considerarci fortunati» disse l'uomo. «La scelta del re avrebbe potuto ricadere su uno dei suoi fratelli, o addirittura su Ditocorto... Che gli dei ci assistano. Datemi mille nemici onorevoli piuttosto che un solo nemico ambizioso, e dormirò sonni più tranquilli.» Suo padre. Era di lui che quelle persone stavano parlando. Bran voleva udire di più. Avvicinarsi, di poco, di pochissimo... Ma se avesse volteggiato davanti alla finestra fino al doccione, l'avrebbero di certo visto. «Dobbiamo tenerlo d'occhio» disse la donna. «E molto attentamente.» «Preferisco tenere d'occhio te.» L'uomo pareva ancora più annoiato, adesso. «Torna qui.» «Lord Eddard non è mai stato realmente interessato a niente che accada a sud dell'Incollatura» insisté la donna. «Mai... fino a ora. Vuole mettersi contro di noi, starine certo. Per quale altra ragione avrebbe deciso di lasciare il suo trono qui nel Nord?» «Per cento e una ragioni. A partire da quelle buffonate altisonanti chiamate dovere, onore e via blaterando. Forse Eddard Stark vuole il suo nome scolpito in grande nel libro della storia. Oppure vuole stare lontano dalla moglie, o forse vuole entrambe le cose. O magari, chissà, per una volta in vita sua vuole stare un po' al caldo.» «Sua moglie è sorella di Lysa Arryn. C'è quasi da meravigliarsi che Lysa non sia qui a darci il benvenuto con le sue accuse.» Bran abbassò lo sguardo. C'era uno stretto cornicione, largo appena qualche centimetro, subito sotto la finestra. Si abbassò, protendendosi verso di esso. Era troppo lontano. Non ci sarebbe mai arrivato. «Ti stai scaldando troppo» disse l'uomo. «Lysa non è che una pecora spaventata.» «Quella pecora spaventata divideva il letto con Jon Arryn.» «Se avesse saputo qualcosa, puoi stare certa che sarebbe andata da Robert ben prima di scappare da Approdo del Re.» «Dopo che lui aveva già acconsentito a fare adottare quella gelatina di suo figlio a Castel Granito? Non penso proprio. Sapeva perfettamente che la vita del ragazzo sarebbe stata il pegno del suo silenzio. E adesso che lui è al sicuro nel Nido dell'Aquila, Lysa potrebbe rialzare la cresta.» «Madri!» L'uomo pronunciò la parola come se fosse stata un insulto infamante. «Mi sono fatto l'idea che partorire vi gioca brutti scherzi alla testa. Siete pazze, tutte quante.» La sua risata aveva un suono sgradevole. «Ma che la rialzi pure la cresta, lady Arryn. Qualsiasi cosa sa, o crede di sapere, non ha prove.» Ci fu una pausa. «O ne ha?» «Tu t'illudi davvero che il re avrebbe bisogno di prove?» incalzò la donna. «Non mi ama! Tu lo sai, io lo so.» «E dimmi, dolce sorella, di chi pensi sia la colpa?» Bran studiò il cornicione. Era troppo stretto per atterrarci sopra, ma se fosse riuscito ad aggrapparsi a qualcosa e quindi tirarsi su... solo che una manovra del genere avrebbe fatto rumore e attirato l'attenzione dei due verso la finestra. Non capiva bene che cosa stava ascoltando, ma era certo che i due non supponevano che lui, o qualcun altro, ascoltasse. «Tu sei cieco come Robert» disse la donna. «Se intendi dire che lui e io vediamo la medesima cosa, allora hai ragione» ribatté l'uomo. «E vediamo un uomo che sceglierebbe la morte piuttosto che tradire il proprio re.» «Ne ha già tradito uno, di re. O te ne sei scordato, per caso? Oh, non nego che sia leale nei confronti di Robert, è fin troppo ovvio. Ma che cosa accadrà quando Robert sarà morto e Joffrey salirà al trono? E quanto prima ciò avverrà, tanto più tutti noi saremo in una posizione di maggiore sicurezza. Ogni giorno che passa, mio marito diventa sempre più impaziente, e con Stark al fianco sarà anche peggio. È ancora innamorato di sua sorella, ti rendi conto? Del cadavere di quell'insipida sedicenne. Quanto tempo pensi che passerà prima che mi metta da parte per una nuova Lyanna?» Bran sentì d'improvviso la morsa di una paura senza nome. Desiderò con tutto se stesso tornare indietro e cercare i suoi fratelli. Ma per dire loro che cosa? Doveva andare più vicino. Doveva vedere chi stava parlando. «Cerca di pensare meno al futuro e più ai piaceri che hai a portata di mano» sospirò l'uomo. «Smettila!» esclamò la donna. Bran udì lo schiocco secco di uno schiaffo improvviso. Carne su carne. L'uomo rise di nuovo. Bran si protese verso l'alto, si arrampicò sul doccione, avanzò carponi sul tetto. Era quella la via più facile. Raggiunse il doccione successivo, quello appena sopra la finestra dalla quale uscivano le voci. «Tutto questo sta diventando estremamente tedioso, sorella» disse l'uomo. «Vieni qui e chiudi la bocca.» Bran serrò le gambe attorno alla gola del doccione, intrecciò i piedi e roteò, rimanendo appeso a testa in giù nel vuoto. Lentamente, cautamente allungò il collo verso la finestra. Il mondo visto al contrario era strano. C'era un cortile direttamente sotto di lui, le pietre ancora bagnate per la neve disciolta. Guardò dentro la stanza. Un uomo e una donna stavano come lottando. Erano nudi. L'uomo gli voltava le spalle, la sua schiena impediva a Bran di vedere in viso la donna, che l'uomo spingeva contro il muro. Poi vennero i rumori. Suoni molli, umidi. Bran capì: si stavano baciando. Continuò a guardare con occhi sbarrati, terrorizzato, il fiato mozzo. L'uomo spinse una mano tra le gambe di lei. Dovette farle male perché la donna cominciò a gemere in modo basso, gutturale. «Fermati» gli disse. «Fermati, ti prego...» Continuò a dirgli di fermarsi, ma non lo respinse, e la sua voce era debole, incerta. Le dita di lei affondarono nei capelli dell'uomo, si attorcigliarono nei riccioli biondi, abbassarono il volto di lui tra i seni. E Bran vide il suo viso: occhi chiusi, bocca aperta che continuava a gemere, capelli biondi che danzavano ritmicamente avanti e indietro, seguendo il movimento dei due corpi uniti. Era la regina Cersei Lannister. Forse Bran fece un rumore perché gli occhi della donna si aprirono di scatto, videro, parvero conficcarsi nel volto di Bran. La regina urlò. Poi tutto accadde in un vortice. Cersei spinse violentemente l'uomo lontano da sé continuando a urlare, a indicare. Bran cercò di risalire, si inarcò comprimendo i muscoli dell'addome fino a farsi male, le braccia protese verso il doccione. Ma si mosse troppo in fretta, le sue dita incontrarono la liscia pietra del doccione e scivolarono su di essa senza far presa. Nel panico, le sue gambe cedettero e cadde. Per un istante, Bran ebbe le vertìgini, sentì l'amaro sapore del fiele in gola mentre volava oltre la finestra. Protese la mano sinistra, che annaspò nel nulla, incontrò lo stretto cornicione e lo perse, ma la mano destra riuscì ad afferrarlo. Bran oscillò e andò a sbattere con violenza contro il muro. L'impatto gli fece uscire tutta l'aria dal petto. Rimase a penzolare nel vuoto aggrappato con una mano sola, ansimante. Dalla finestra sopra di lui si affacciarono dei volti. «Quanto meno muore in silenzio» ribatté il principe. «È quel suo lupo a fare tutto il chiasso. La notte scorsa non mi è riuscito di chiudere occhio.» L'ombra di Clegane si allungò sulla terra compatta del cortile mentre uno scudiero gli poneva in capo l'elmo nero. «Se lo desideri, principe» disse attraverso la celata aperta «posso far tacere io la creatura.» Lo scudiero collocò la spada lunga da combattimento nella mano guantata di metallo. Clegane la impugnò, bilanciandola, e assestò un paio di fendenti d'assaggio nell'aria gelida. Dietro di lui, il cortile riecheggiava del clangore di lame contro lame. «Un mastino che uccide un lupo!» L'idea divertì il principe. «Grande Inverno è talmente infestato da lupi che gli Stark nemmeno s'accorgerebbero che ne manca uno.» «Dissento, nipotino caro.» Tyrion saltò gli ultimi gradini e arrivò nel cortile. «Gli Stark sanno contare fino a sei, a differenza di certi principi di mia conoscenza.» Joffrey ebbe quanto meno la buona grazia di arrossire, incassando la stoccata. «Una voce dal nulla.» Clegane sbirciò dal proprio elmo, guardando in tutte le direzioni. «Spiriti dell'aria!» Il principe rise. Rideva sempre quando la sua guardia del corpo si esibiva in quella farsa, alla quale Tyrion aveva fatto l'abitudine. «Quaggiù» disse infatti. Il Mastino abbassò lo sguardo, fingendo di vedere il Folletto solo in quel momento. «Oh, il piccolo lord Tyrion. Le mie scuse. E io che nemmeno ti avevo visto...» «Oggi, Clegane, non sono in vena di insolenze.» Poi Tyrion si rivolse al nipote: «Joffrey, hai aspettato anche troppo a fare visita a lord Eddard e alla sua lady per presentare loro la tua solidarietà». «La mia solidarietà?» Joffrey apparve petulante come solamente un principe ereditario sa esserlo. «Cosa se ne farebbero?» «Niente di niente, ma ci si aspetta che tu ti comporti in tal senso. La tua assenza è stata notata.» «Il ragazzino Stark non è nulla per me e io non ho la minima intenzione di fare la donnicciola.» Tyrion Lannister lo raggiunse e lo schiaffeggiò in piena faccia, duramente. La guancia di Joffrey s'infiammò. «Di' un'altra parola, una sola» esclamò Tyrion «e ti servo il doppio.» «Lo dirò alla mamma!» si infuriò Joffrey. Tyrion lo schiaffeggiò di nuovo. Adesso il principe ereditario ne aveva due, di guance in fiamme. «Ecco, bravo, tu dillo alla mamma» riprese Tyrion. «Prima, però, ti presenterai a lord e lady Stark e cadrai in ginocchio davanti a loro. Gli dirai quanto sei dispiaciuto, che le tue preghiere sono con loro e con il piccolo Brandon e infine che possono consi- derarti al loro servizio per qualsiasi cosa tu possa fare in quest'ora disperata, sia per loro sia per il loro figlioletto. Una qualche parte di quanto ho detto non ti è chiara?» Il ragazzo parve sul punto di mettersi a piangere. Invece riuscì ad annuire debolmente, poi si girò di scatto e corse via tenendosi la guancia. Tyrion lo guardò scappare. Un'ombra venne a incombere su di lui. Sandor Clegane gli torreggiava sopra come una scogliera. Il metallo nero opaco della sua armatura pareva risucchiare la luce del sole. La celata, che aveva la forma di un muso di mastino ringhiante, assetato di sangue, era abbassata. Tyrion aveva sempre ritenuto che fosse comunque un notevole miglioramento rispetto alla faccia mostruosamente sfigurata dal fuoco di Clegane. «Il principe si ricorderà di questo, piccolo lord» lo avvertì il Mastino, e la sua risata, distorta dall'elmo, risuonò come un basso gorgoglio. «Ci conto, ma nel caso lo scordasse, fa' il bravo cagnolino, Clegane: rinfrescagli tu la memoria.» Tyrion gettò uno sguardo attorno. «Hai idea di dov'è mio fratello?» «A colazione con la regina.» «Oh, bene.» Tyrion si congedò con un cenno del capo e si avviò fischiettando, alla massima velocità che le sue gambette gli consentivano. Sandor Clegane aveva inevitabilmente un carattere da mastino. Tyrion sapeva che il primo che l'avesse affrontato alla spada si sarebbe amaramente pentito di averlo fatto. Nei quartieri degli ospiti di Grande Inverno l'atmosfera era cupa. Jaime sedeva con Cersei e i bambini al tavolo di una prima colazione priva di calore e di allegria. Le conversazioni erano appena sussurrate. «Il re dorme ancora?» Tyrion si lasciò cadere su una sedia, ignorando il fatto di non essere stato invitato. «Il re non è nemmeno andato a dormire» gli rispose sua sorella guardandolo con l'espressione di disgusto neppure troppo velato che Tyrion ricordava fin dai primordi della sua memoria. «È con lord Eddard. Il loro dolore lo ha colpito dritto al cuore.» «Ha proprio un cuore grande, il nostro Robert» s'intromise Jaime con un sorriso pigro. Erano ben poche le cose che Jaime Lannister prendeva sul serio, Tyrion lo sapeva bene. Eppure, durante i terribili, interminabili anni della sua infanzia, era stato l'unico a dimostrare nei suoi confronti una sia pure infinitesima misura di affetto, di rispetto. Per questo, Tyrion era disposto a perdonare tutto al fratello, o quasi tutto. «Pane» disse al servo che si avvicinò. «Più due di quei piccoli pesci e un boccale della vostra buona birra scura per aiutarli ad andare giù. Oh, e anche della pancetta affumicata. E fatela arrostire finché non è ben croccante.» L'uomo fece un breve inchino e si ritirò. Tyrion tornò a girarsi verso i suoi fratelli gemelli. Quella mattina apparivano davvero calati nella parte. Entrambi avevano scelto il verde, accuratamente in tinta con il verde dei loro occhi. Entrambi si erano acconciati i riccioli biondi nello stesso modo e ornamenti d'oro simili scintillavano ai loro polsi, alle dita, al collo. Per l'ennesima volta, Tyrion si domandò come sarebbe stato avere un gemello, e per l'ennesima volta si rispose che era meglio non saperlo. Incontrare ogni giorno la propria immagine riflessa nello specchio era già un'impresa titanica di per se stessa. Due di lui? No, troppo spaventoso. «Zio» chiese il principe Tommen «hai notizie di Bran?» «La scorsa notte mi sono fermato alla sua stanza. Nessun cambiamento. Secondo maestro Luwin, è un buon segno.» «Io non voglio che Brandon muoia.» La voce di Tommen era piena d'incertezza, di timore. Era un bambino delicato, molto diverso da suo fratello Joffrey. Quanto a diversità, comunque, Jaime e Tyrion non prendevano lezioni da nessuno. «Anche lord Eddard aveva un fratello chiamato Brandon» rifletté Jaime. «Uno degli ostaggi uccisi dai Targaryen. Nome sfortunato.» «Non sfortunato fino a quel punto, forse» disse Tyrion. Il servo gli portò la colazione e lui staccò un pezzo di pane nero e se lo mise in bocca. «Che intendi dire?» Cersei lo studiava con aria guardinga. Il sorriso di suo fratello s'incurvò in una smorfia acida. «Tyrion, mio dolce fratello» e adesso c'era una nota tenebrosa nella sua voce «a volte mi domando da che parte stai.» Tyrion aveva la bocca piena di pane nero e pesce. Mandò giù il tutto con una sorsata di birra scura. «Jaime, diletto fratellino, tu mi ferisci.» Il sogghigno che riservò a Jaime Lannister parve lo snudarsi delle zanne di un meta-lupo. «Dovresti sapere quanto io amo la nostra famiglia.» JON Salì lentamente i gradini di pietra, cercando di non pensare che poteva essere l'ultima volta. Spettro lo seguiva, silenzioso come sempre. Fuori, refoli di neve vorticavano sui portali del castello e il grande cortile era un ribollire di rumori e di caos, ma dentro le spesse mura di pietra tutto era immobile, tiepido, silente. Fin troppo immobile e silente, per Jon. Raggiunse il pianerottolo più in alto e si fermò per un lungo momento. Aveva paura. Sentì il muso di Spettro spingere contro la sua mano e il contatto gli diede coraggio. Si raddrizzò ed entrò. Un'ombra era seduta accanto al letto. Era là da molto tempo, giorno e notte. Lady Stark non si era mai allontanata dal capezzale di Bran, nemmeno per un istante. Si era fatta portare il cibo, pitali per espletare le proprie funzioni corporali, un piccolo, duro pagliericcio sul quale dormire. Ma i sussurri del castello dicevano che non aveva dormito molto, su quel pagliericcio. Aveva nutrito lei stessa il bambino con la mistura di erbe, miele e acqua che teneva accesa la flebile fiamma della sua vita. Non aveva mai lasciato la stanza. Per questo Jon si era tenuto lontano. Ma ora il tempo era finito. Rimase immobile sulla soglia, timoroso di parlare, ancora più timoroso di andare avanti. La finestra era aperta. Fuori, un lupo senza nome ululò. Spettro lo udì e alzò il muso. Lady Stark si girò verso di lui e per alcuni attimi parve non riconoscerlo. Alla fine, strinse le palpebre. «Cosa sei venuto a fare qui?» La sua voce era piatta, priva di qualsiasi emozione. «A vedere Bran. A dirgli addio.» «Gliel'hai detto.» Non ci fu nessun cambiamento nella voce di Catelyn. I suoi lunghi capelli neri erano opachi, aggrovigliati. Nell'arco di una sola notte, pareva invecchiata di vent'anni. «Adesso vattene.» Una parte di Jon voleva farlo, voleva scappare a gambe levate, ma l'altra parte sapeva che se l'avesse fatto, forse non avrebbe mai più rivisto Bran. Fece un cauto passo in avanti. «Ti prego...» mormorò. «Ti ho detto di andare via.» Qualcosa di raggelante si mosse negli occhi di lei. «Non ti vogliamo qui.» In un'altra circostanza, quelle parole gli avrebbero messo le ali ai piedi portando lacrime ai suoi occhi. In questa circostanza, l'unico risultato che ottennero fu di farlo infuriare. Presto sarebbe diventato un confratello dei Guardiani della notte e avrebbe affrontato pericoli ben più letali di Catelyn Tully Stark. «Bran è mio fratello» disse. «Preferisci che ti faccia buttare fuori dalle guardie?» «Chiamale pure, le tue guardie.» Jon accettò la sfida. «Non m'impediranno di vedere mio fratello. Nemmeno tu me lo impedirai.» Attraversò la stanza lasciando il letto come una muraglia tra loro. Guardò suo fratello. Catelyn teneva tra le sue una mano di Bran. Pareva un artiglio. L'essere che giaceva in quel letto non era il Bran che Jon conosceva. La carne sembrava svanita. La pelle si tendeva sulle ossa simili a bastoni di legno. Sotto la coperta, s'indovinavano forme contorte, che Jon trovò quasi repellenti: le gambe. Gli occhi erano sprofondati nelle orbite, spalancati sul vuoto, completamente ciechi. Era come se la caduta avesse raggrinzito Brandon Stark all'interno di quanto restava del suo corpo. Pareva una foglia secca, che il primo colpo di vento avrebbe trascinato via, verso la tomba. Eppure, dentro quella gabbia fragile di costole spezzate, continuava a esistere il respiro. Il torace si sollevava, si abbassava, tornava a sollevarsi. «Bran» sussurrò Jon. «Perdonami se non sono venuto da te prima. Io... avevo paura.» Lacrime gli scesero sulle guance, ma non gliene importò nulla. «Ti prego, fratello, non morire. Ti prego. Tutti noi aspettiamo che tu ti risvegli. Robb e le ragazze e io... tutti noi...» Lady Stark osservava senza dire una parola. Jon interpretò il suo silenzio come un segno di accettazione. Là fuori, il meta-lupo ululò di nuovo, il meta-lupo al quale Bran non aveva fatto in tempo a dare un nome. «Io adesso devo andare, Bran» proseguì. «Zio Benjen mi aspetta. Vado a nord, alla Barriera. Dobbiamo partire oggi, prima che arrivino le grandi nevi.» Ricordò quanto Bran fosse stato eccitato all'idea del viaggio. E d'un tratto abbandonare suo fratello in quello stato fu molto di più di quanto fosse in grado di sopportare. Si asciugò le lacrime, si protese in avanti e baciò leggermente Bran sulle labbra. «Non volevo che lui andasse al Sud» disse lady Stark in un soffio. «Volevo che rimanesse qui con me.» Jon le rivolse uno sguardo cauto. Lei non lo stava guardando, gli stava parlando, però era come se lui non fosse nemmeno nella stanza. «Ho pregato tanto che non andasse» continuò Catelyn in quel tono distante. «Era il mio bimbo speciale. Sono andata all'altare e ho pregato sette volte i sette volti di dio perché Ned cambiasse idea e lo lasciasse qui con me. A volte, gli dei esaudiscono le preghiere.» Jon non sapeva cosa dire. «Non è stata colpa tua» azzardò dopo un silenzio imbarazzato. Fu a quel punto che gli occhi di lei trovarono i suoi. Quando parlò, la sua voce era un fiume di veleno: «Non so che farmene della tua assoluzione... bastardo». Jon abbassò lo sguardo. Catelyn continuava a stringere la mano di Bran tra le sue, dita che parevano le ossa di un corvo. «Addio, fratello.» La voce di lei lo raggiunse sulla soglia: «Jon». Non aveva intenzione di fermarsi, ma non l'aveva mai chiamato per nome, perciò si girò. Catelyn lo guardava dritto in faccia, come se lo vedesse per la prima volta. «Cosa c'è, lady Stark?» «Avresti dovuto essere tu a schiantarti su quelle pietre, al posto di Bran.» Poi Catelyn tornò a girarsi verso il figlio e scoppiò in un pianto disperato, tutto il suo essere scosso dai singhiozzi. Mai prima di allora Jon l'aveva vista piangere. E per lui, quella fino al cortile fu una lunghissima discesa. Il viso di Arya s'illuminò. «Un regalo?» «Una specie. Chiudi la porta.» Sul chi vive e tutta eccitata al tempo stesso, Arya si protese a dare un'occhiata nel corridoio. «Nymeria, qui.» Fece uscire la meta-lupa dalla stanza. «Di guardia» le ordinò, chiudendo la porta. Jon tolse dall'involto di stoffa l'oggetto che aveva portato e lo tese a sua sorella. Gli occhi di Arya si spalancarono, occhi scuri come i suoi. La voce di lei era un sussurro: «Una spada». Il fodero era di soffice cuoio grigio, liscio e ricco come il peccato. «Arya, questo non è un giocattolo...» Lentamente, Jon estrasse la lama, in modo che lei vedesse la sfumatura azzurra del puro acciaio. «Sta' attenta a non tagliarti. È affilata come un rasoio.» «Alle ragazze non servono rasoi» scherzò lei. «Ad alcune sì» sorrise Jon. «Le gambe della septa le hai mai guardate?» Arya ridacchiò alla battuta, ma il suo sguardo non si staccò mai dalla spada. «È così sottile...» «Proprio come te» confermò Jon. «L'ho fatta fare da mastro Mikken apposta. I braavos usano spade come questa a Pentos, Myr e nelle altre Città Libere. Un uomo non lo decapita, ma a usarla nel modo giusto, con la rapidità giusta, lo può riempire di brutti buchi.» «Io ce l'ho la rapidità!» «Ma dovrai far pratica tutti i giorni.» Jon le mise l'elsa in mano, le mostrò come impugnarla e fece un passo indietro. «Come la senti? Ti piace il suo bilanciamento?» «Direi di sì.» «Prima lezione: infilzarli sempre di punta.» Arya gli diede un colpo con il piatto della lama. «Lo so con quale parte colpirli!» dichiarò, ma immediatamente dopo fu piena di dubbi. «Septa Mordane me la porterà via.» «Per portartela via, dovrà sapere che ce l'hai.» «Ma Jon, con chi potrò fare pratica?» «Troverai qualcuno» l'assicurò lui. «Approdo del Re è una vera città, mille volte più vasta di Grande Inverno. Fino al momento in cui non troverai un compagno di lama, osserva gli addestramenti nel cortile della Fortezza Rossa. E poi corri, va' a cavallo, diventa forte. Ma qualsiasi cosa tu faccia...» Arya conosceva quel gioco privato tra loro due. Lei e Jon continuarono in coro: «Non-dirlo-a-Sansa!». Jon le scompigliò i capelli. «Mi mancherai, sorellina.» Improvvisamente, l'irriducibile Arya parve sul punto di mettersi a piangere. «Vorrei che tu venissi con noi.» «Strade diverse a volte conducono allo stesso castello. Chi può sapere?» Ora Jon si sentiva meglio, non avrebbe permesso alla tristezza di aggredirlo di nuovo. «Devo andare, adesso. Se faccio aspettare zio Benjen un altro po', passerò il mio primo anno sulla Barriera a svuotare pitali.» Arya corse da lui per l'ultimo abbraccio. «Calma, sorellina!» l'avvertì con una risata. «Prima metti giù la spada.» Lei la mise da parte quasi con vergogna, poi lo tempestò di piccoli baci. Quando fu giunto sulla porta, si voltò verso di lei per l'ultima volta e la vide con la spada in pugno, che se la bilanciava nella mano. «Oh, a momenti dimenticavo...» le disse. «Tutte le grandi spade hanno un nome.» «Come Ghiaccio» convenne Arya studiando la sua lama. «E questa? Ce l'ha, un nome? Dimmelo, Jon!» «Non indovini?» fece lui con un sorriso ironico. «Qual è la tua cosa preferita?» Arya apparve perplessa, ma non durò che un batter d'occhi perché era rapida, molto rapida. Dissero in coro anche questo: «Ago!». Il ricordo della loro ultima risata insieme riscaldò Jon Snow per tutta la lunga cavalcata verso settentrione. DAENERYS Daenerys Targaryen andò sposa a khal Drogo nella pianura all'esterno delle mura della città libera di Pentos. Così voleva l'antico credo dei Dothraki: ogni evento rilevante della vita di un uomo doveva accadere al cospetto del cielo. Andò sposa piena di terrore, circondata di splendore barbarico. Drogo aveva chiamato a raccolta il suo intero khalasar e loro erano apparsi: quarantamila guerrieri dothraki con i loro quarantamila cavalli, più un numero incalcolabile di donne, bambini e schiavi. Avevano allestito un immane campo appena fuori le mura della città, erigendo palazzi di giunchi, mangiando tutto il mangiabile e facendo correre brividi gelidi lungo la schiena dei bravi cittadini di Pentos, la cui paura era andata crescendo di giorno in giorno. «I miei colleghi magistri e io abbiamo fatto raddoppiare la Guardia cittadina» li informò magistro Illyrio, ingozzandosi di anatra al miele e di peperoni piccanti marinati. Erano nella residenza di Drogo. Per l'occasione, il khal era andato a unirsi al suo khalasar, concedendo a Daenerys e a suo fratello di rimanere nel maniero fino alle nozze. «È meglio che la principessa Daenerys si sposi in fretta, prima che metà della ricchezza di Pentos finisca nelle tasche di mercenari e di braavosiani» commentò ser Jorah Mormont. La notte in cui Dany era stata barattata al khal, il cavaliere esiliato aveva messo la propria spada al servizio di Viserys, che aveva accettato l'offerta con entusiasmo. Da allora, Mormont era stato il loro inseparabile compagno. Magistro Illyrio ridacchiò dietro la barba biforcuta. Per contro, l'espressione del re Mendicante rimase seria. «Quel barbaro può averla anche domani, se vuole.» Viserys scoccò un'occhiata a sua sorella, lei distolse lo sguardo. «Basta che paghi il dovuto.» «Fidati di me, principe. È tutto fatto.» Illyrio agitò la mano in un gesto languido che fece scintillare i troppi anelli sulle sue dita grassocce. «Il khal ti ha promesso la corona, e tu la corona avrai.» «Sì, ma quando?» «Quando il khal deciderà. Per prima cosa prenderà la fanciulla. Una volta che
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