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Immagini che ci guardano, Sintesi del corso di Semiotica

Sintesi dettagliata per esame Semiotica del Visibile (teorie), a.c 2021/2022

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Immagini che ci guardano e più Sintesi del corso in PDF di Semiotica solo su Docsity! IMMAGINI CHE CI GUARDANO HORST BREDEKAMP INTRODUZIONE: IL PROBLEMA DELLE IMMAGINI Tralasciando i tempi dell’iconoclastia bizantina e i movimenti protestanti radicali, non si è mai riflettuto sullo status delle immagini con così tanta forza come negli ultimi 40/50 anni. Per Bredekamp sono diversi i motivi per cui la questione delle immagini è diventata un tema così presente: 1. Il primo motivo è la quantità enorme di immagini che viene propagata giorno per giorno in tutto il globo (smartphone, tv, internet, giornali…) —> Bredekamp lo chiama ‘diluvio di immagini’ perchè è un’espressione che porta con sé un mix di impotenza e strategie difensive; 2. Il secondo motivo risiede nell’impiego politico: sebbene la rappresentazione del potere sia una delle forme più tipiche dell’immagine, essa in tempi di ‘mediocrazia’ è ancora più marcata, soprattutto se si pensa alla capacità delle immagini di influenzare comportamenti e relazioni —> da un punto di vista storico il XX è chiamato ‘secolo delle immagini’ perchè, a differenza di quelli precedenti, offre un inedito mélange di media nuovi e vecchi; 3. Il terzo lo troviamo nell’ambito militare: oggi le immagini assolvono alla funzione, grazie ai media e a internet, di estendere per via ottica il dominio della lotta e innescare processi mentali capaci di influenzare più direttamente che in passato l’impiego delle armi vere e proprie, arrivando a sostituirlo; 4. Quarto motivo è offerto dalle scienze naturali, che dagli anni ’60 investono moltissimo in innovazione estetica per visualizzare oggetti spesso invisibili —> quando le immagini delle scienze naturali non vengono già usate come strumento illustrativo ma come strumento analitico in sé, ci si trova davanti alla detta ‘iconic turn’, ovvero la svolta iconica (immagini che nella forma di simulazioni, imitazioni e diagrammi si rivelano capaci di far propri ampi settori del confronto con la realtà - es. la predizione di processi); 5. Quinto e ultimo motivo emerge da una sorta di regolamentazione giuridica delle immagini, oggi oggetto di tutela legale senza precedenti al fine di proteggere l’economia iconica, con effetti anche sulla ricerca accademica. Se in tutti questi campi le immagini sono state sempre considerate fenomeni secondari, ora vengono percepite e trattate come elementi primari della vita esteriore. Ciò aggrava però un conflitto latente da tempo circa lo status delle immagini: questo nasce dalla contraddizione tra l’ipotesi che la conoscenza sia fondata solo al di fuori del campo sensoriale e visivo, e la convinzione che le immagini non diano solo forma al pensiero, ma che creino anche sensibilità e comportamenti. Tutti gli studi nati attorno alle possibilità e alle problematiche delle immagini hanno rafforzato la condizione che il mondo non possa essere compreso appieno finché non sarà chiarita la questione delle immagini: in breve, che senza l’elemento iconico sembra impossibile arrivare ad un illuminismo contemporaneo. LEONARDO DA VINCI ha pronunciato uno degli aforismi più profondi mai pronunciati sulla forza delle immagini, ricavato da un’iscrizione per una statua velata: tradotto sommariamente recita ‘non svelare la verità se ti è cara, perchè il mio volto è carcere d’amore’. La vista della statua quindi, porterebbe ad una perdita della libertà, ovvero la capacità di fare quello che vuole. Questa frase si rifà all’usanza di coprire le immagini per poi scoprirle in occasioni particolari. Si può spiegare meglio l’aforisma di Leonardo analizzando il ‘Ritratto dell’Arcivescovo Filippo Archinto’ di TIZIANO (1558 ca): esso immortala l’arcivescovo di Milano nominato dal papa ma la cui nomina non è mai stata accettata dal governo. Se l’anello vescovile si vede chiaramente, il libro delle prediche e metà del corpo rimangono dietro un velo, facendoli distinguere a malapena. Si può interpretare questa raffigurazione come l’impossibilità del vescovo di esercitare la propria carica. Non meno plausibile è un’altra interpretazione, che prendendo spunto dal velo e dal taglio verticale dell’occhio destro, legge il velo come una minaccia: se questo viene alzato, l’osservatore ha la possibilità di vedere tutta la figura, finendo prigioniero del dipinto. In questo senso l’arcivescovo non è più un semplice ritratto, ma il ‘revenant’ (anima di un corpo che si presume ritorni dall’aldilà in forma corporea) di un precedente dipinto sempre di Tiziano del 1554-56. Questa interpretazione è rafforzata dalla dottrina dei due lati del corpo umano, illustrata da GIROLAMO CARDANO, che afferma che la parte sinistra del corpo incarna il risveglio spirituale, mentre quella destra incarna la condanna. La riflessione di Leonardo però è lontana dal sostenere che gli oggetti artificiali siano in grado di parlare: il suo motto riguarda il fenomeno più generale per cui le immagini possono influenzare chi le guarda, e anche l’immagine del ‘velo’ rientra in una tradizione ancora viva. Si prendano ad esempio in tal senso le opere incartate e legate di Man Ray o i monumenti ricoperti di Christo e Jeanne-Claude. Da qui si arriva alla definizione di immagine elaborata da LEON BATTISTA ALBERTI nel XV sec: secondo il teorico si ha un’immagine (simulacrum) nel momento in cui un oggetto naturale mostra un minimo di rielaborazione umana. Forme naturali a carattere iconico venivano rielaborate con piedistalli e cornici erano a fondamento della tradizione europea e cinese delle immagini casuali —> es. pezzo di arenaria bianca posto su piedistallo risalente alla dinastia Ming: non è solo l’uso di un piedistallo, che aiuta a stabilizzarne la semantica, a elevare questo elemento naturale a immagine, ma è l’atto di lisciare l’arenaria o di accentuarne le perforazioni per farlo avvicinare alla forma di una nuvola. Al contrario della teologia, in ambito filosofico le immagini non hanno mai avuto un’importanza centrale e una delle ragioni risale all’assunto du PLATONE che gli assegnerebbe uno status minore, se non negativo. Nel contrasto tra filosofia e immagine il mito della caverna ricopre un ruolo essenziale: la realtà vista dai più è formata dalle mere ombre di immagini di idoli. Secondo questo mito quindi l’intero mondo fruibile mediante i sensi è squalificato alla stregua di un cosmo di epifenomeni (fatto accessorio che non incide sull’esplicazione di un dato fenomeno) che impediscono l’accesso tanto alla realtà quanto alla verità. Inoltre perfino le immagini appaiono imprigionate in quanto idoli. Questa critica platonica alle immagini-ombra venne rafforzata dalla classica teoria dell’arte che identificava queste proiezioni con l’origine della pittura. A ben vedere però la critica alle immagini sottesa al mito della caverna vale come conferma della loro efficacia: il fatto che gli uomini seguano più le ombre della luce del sole è, sebbene in negativo, una forte formulazione dell’atto iconico. Tuttavia a causa delle affermazioni spesso contraddittorie di Platone in fatto di arte, non è possibile ricavarne un’estetica chiara, anche se è costante la convinzione che le immagini siano animate da forza attiva. Il concetto platonico di arte si muove tra due poli opposti: il bisogno di introdurre divieti per controllare la forza delle immagini e il riconoscimento della centralità della loro funzione di modello nell’educazione dei giovani. La critica di Platone riguarda in particolare le immagini che imitano/simulano il mondo allo scopo di sostituirlo: egli paragona i pittori a degli specchi viventi (chiunque abbia in mano uno specchio sa riprodurre fedelmente la realtà alla stregua di un pittore), ‘artefici di pura parvenza’. La pittura per il filosofo si impone sugli uomini con la stessa forza dell’amore illecito, perchè dialoga con la parte più ‘terragna’/istintiva dell’uomo. Dalle sue riflessioni si capisce come il suo parere negativo nasca dalla paura circa il potere delle immagini imitative (tanto che ne chiede il divieto). Il riconoscimento da parte di Platone dell’efficacia delle immagini è tanto importante quanto spesso ignorato. Quando SOCRATE sottolinea in uno dei suoi scritti come i dipinti non si limitino a ripetere la natura ma sanno rappresentarne lo spirito tramite ‘l’arte dell’omissione’, sembra disinnescare la critica rivolta agli artisti-specchi —> Platone consente a Socrate di giungere alla conclusione che la pittura funziona come la lingua, in cui le parole sanno riprodurre un concetto non in toto, ma per difetto. Per Socrate le parole, come i dipinti, grazie alla capacità di concisione rappresentativa possiedono una forza classificatoria. Platone nella ‘Repubblica’ paragona il suo Stato Ideale ad un’immagine ‘esemplare’: così come un pittore non potrà mai ritrarre una persona così perfettamente da farla coincidere con la realtà, così la sua opera può riprodurre uno stato in tutte le sue sfaccettature, ma ciò non toglie che abbia un valore. Il nocciolo di questo paragone è che un ritratto, così come la sua opera, va verificato nelle sue componenti: in questo senso promuove un’estetica dell’adeguatezza (non perfezionare la realtà fino a farla diventare irreale, ma dando ad ogni parte l’aspetto che si conviene). Quindi nel tentativo di dar forma ad uno stato ideale Platone ci fornisce una definizione onnicomprensiva delle immagini (dalla danza, al teatro, alle statue), debitrice degli schemata, ovvero i modelli di movimento del corpo che trasformano i corpi in immagini mediante un processo di stereotipizzante. La migliore applicazione di tali schemata la ritroviamo secondo il filosofo nell’arte Egizia, dove i modelli che i giovani trovavano nei templi avevano il potere di influenzarli nella definizione di sè, nella formazione di un’individualità, anche sul piano sociale. È in questo senso che Platone spiega anche il perchè lo stile dell’arte egizia non si sia mai modificato nel tempo. In senso sistematico le immagini fungono da fondamento del pensiero: nei ragionamenti basati sul mito della caverna ha collocato la capacità di visualizzazione grafica tra uno status subordinato (perchè sensoriale) e uno irrinunciabile (perchè le operazioni puramente mentali si fondano su quelle inferiori per potersi avvalorare). Per Platone le immagini forniscono, da un lato la base del pensiero e dei migliori comportamenti, dall’altro nascondono la verità. MARTIN HEIDEGGER e JACQUES LACAN hanno provato a prendere sul serio le immagini sul fronte filosofico, senza relegarle al quadro concettuale dell’estetica. Heidegger (1889-1976) in ‘L’origine dell’opera d’arte’ ha compiuto la sua svolta intellettuale: l’inclusione non solo del tempo come unità di misura dell’essere, ma anche di grandezze sovrastoriche quali le opere d’arte. Per Heidegger l’osservatore non ha le basi di quello che cerca di capire davanti all’opera d’arte, ma risolve la questione ponendo la condizione che essa debba essere anche in grado di mostrarsi per se stessa. Così facendo usa concetti legati all’attività insita nelle cose e nelle immagini (l’opera ‘parla’, ‘adocchia’ …). Queste constatazioni sfociano le potere bifronte dell’opera di scatenare effetti di profonda valenza proprio nel momento in cui resta se stessa, grazie alla distanza che la separa dall’uomo: ‘quanto più l’opera, rafferma nella forma, se ne sta in se stessa, e quanto più sembra sciogliere ogni legame con gli uomini, tanto più irrompe l’urto costituito dal fatto che essa sia’. Al momento cruciale però perde acume, optando per un paragone tra generi artistici che finisce per prediligere la poesia. È nei seminari che Heidegger osa di più. Esemplare è il caso della lezione di Werner Körte, docente storia dell’arte a Friburgo, in cui veniva esposta una relazione sull’acquerello di DÜRER ‘Leprotto’, di cui si sottolineava l’estraneità dell’animale che si mostra all’uomo come fosse un’animale vivo. Heidegger ha ripreso entrambe le osservazioni. La sua definizione di opera d’arte chiusa in se stessa tanto da rasentare l’imperscrutabilità ma dotata, grazie a questa sua autonomia, della capacità di aprirsi al mondo, si lega al concetto di vitalità: in particolare gli occhi della lepre sono tanto assenti quanto capaci di dominare lo spazio circostante. Heidegger usa l’acquerello per mettere alla prova la definizione di opera d’arte, giungendo poi a chiedersi che cosa accadrebbe se un’opera potesse essere tale senza dover ringraziare una committenza o dipendere dagli osservatori, senza però spingersi a dare una risposta. Lacan nel suo seminario del 1964 si spinge oltre Heidegger, sostenendo che non solo le opere d’arte danno l’impressione di essere attive, ma anche gli oggetti. Egli affronta il tema a partire dalla capacità dell’opera di guardare l’uomo. Il suo esempio è una scatola di sardine che galleggia nel mare sotto al sole, divenendo un piccolo oggetto scintillante. Lacan sviluppa dalla scatola di sardine una teoria della reciprocità a partire dal concetto di regarde, che indica sia l’atto di vedere sia il ri- guardare: con questa teoria Lacan insiste sul fatto che le cose possono guardarci. Criticando l’illusione di poter cogliere gli oggetti nella loro interezza grazie alla sola prospettiva centrale, ribadisce la difficoltà di assumere un punto di fuga: l’osservatore non è solo l’essere puntiforme che si trova nel punto da cui è presa la prospettiva; sicuramente in fondo al suo occhio si disegna il quadro, ma egli stesso è nel quadro. In altre parole, poiché la scatola di sardine non si lascia cogliere appieno dal punto di vista della prospettiva centrale, non si può operare una chiara separazione tra soggetto e oggetto. La scatola di sardine è simbolo di tutte le immagini che attirano l’attenzione, poiché la loro definizione di semplici cose cozza con il rifiuto di lasciarsi controllare: l’oggetto L’analisi e la cura delle immagini appartengono alla stessa struttura basilare della cultura dell’analisi e cura del linguaggio. ________________________________________________________________________________ LE OPERE, PRIMI TESTIMONI DELLA TEORIA Il fenomeno dell’atto iconico è noto a diverse culture, senza tuttavia aver mai portato alla formulazione di una teoria precisa. Esistono però un tipo speciale di iscrizioni che è riuscito a riempire plasticamente la falla teorica, lasciando che sia l’opera stessa a parlare delle relazioni tra loro e i committenti, descrivendo cioè il rapporto interattivo tra creatori e proprietari. Le origini di questo lavoro concettuale risalgono all’Antico Testamento, in particolare al Libro di Isaia in cui un oggetto d’argilla rinnega il proprio creatore. Ma non è un caso isolato. Un racconto del popolo orientale degli Urriti racconta di un simile rapporto conflittuale tra opera e creatore: un calice in rame se la prende con il fabbro sentendosi incompiuto. Le testimonianze di opere che parlano in prima persona sono numerose e, perlomeno nella cultura greca e romana, sono le prime documentazioni scritte tramandate. La più antica di origine romana è una fibula rinvenuta in una tomba che reca sulla custodia la scritta ‘Manios mi ha fatto per per Numerius’: rimandando sia al creatore che al proprietario, essa instaura una relazione tra artigiano, manufatto e utente finale. Le più antiche iscrizioni, sia in ambito latino che in ambito greco, riguardavano formule di appartenenza (es. ‘io sono il recipiente di Tharios’ su tazza greca di VII a.C): esse presuppongono riconoscimento della consapevolezza dell’oggetto di saper distinguere tra sé, il proprio scopo e il proprietario/ambiente circostante. Il legame tra opera e prima persona singolare può andare anche oltre il rimando al creatore/proprietario, riferendosi ad altri utilizzatori. A queste auto descrizioni si accompagnano spesso le istruzioni per l’uso o addirittura all’avanzamento di richieste, come nel caso della statuetta dell’epoca di transizione tra lo stile geometrico e quello arcaico la cui iscrizione qualifica come dono ad Apollo in cambio del ‘compenso pattuito’. Già come inneschi di movimenti labiali, le opere dotate di iscrizioni in prima persona sono in grado di assumere ruolo attivo: esempio particolare è la kore scolpita tra 550-540 a.c da Aristone di Paro che si definisce usando la prima persona come scultura funeraria di Phrasikleia. Assumendo il nome della defunta, la statua garantisce vita eterna alla persona deceduta. Questa iscrizione stabilisce quindi un legame tra immagine e osservatore appena viene letta ad alta voce e nell’interazione tra immagine, scritto e parlato si compie una doppia transizione: come la statua incamera la personalità della defunta, il parlante finisce per incorporare la pretesa della statua di essere viva. In tutti questi usi della prima persona singolare Bredekamp pensa si basino sulla credenza degli effetti a distanza, di natura magica o occulta. Queste opere definiscono un orizzonte in cui l’aspetto performativo delle opere non viene visto come una fede, ma consapevolmente riflesso. Ciò risulta chiaro davanti a lavori che mettono in scena due personaggi allo stesso tempo. Una delle prime tazze munite di scritta in greco (il vaso di Nestore di Ischia) recita ‘Di Nestore [io sono] la tazza da cui si beve bene / ma chi beve da questa tazza al contempo/verrà colto dal desiderio d’impossessarsi della corona di Afrodite’: ciò che sorprende è ila salto dalla prima persona alla definizione stessa dell’oggetto (se l’appartenenza della tazza viene subito ammessa, la funzione viene descritta dalla voce del creatore/proprietario). Questo esempio rivela un uso mirato della prima persona singolare volto a sottolineare la vitalità dell’oggetto. Le figure antiche contrassegnate da iscrizioni in prima persona rappresentano, nella loro sintesi, il convincimento che gli artefatti non si presentano all’uomo solo come enti corporei attivi, indipendenti e capaci di parola, ma anche in grado di influenzarlo. Anche l’arte Islamica presenta una vasta gamma di opere che parlano in prima persona. Nell’ambito del Cristianesimo, la firma ha avuto un ruolo di spicco nella riflessione dell’atto iconico. La consueta iscrizione sulle opere d’arte contiene il nome del committente e/o dell’artista, insieme alla descrizione dell’oggetto e al verbo. Come dimostra il portale ovest della cattedrale di Saint-Lazare in Autun (XII sec) era fondamentale anche la posizione della firma, veicolando l’idea sottesa ad esse: l’artista fa in modo che il proprio nome appaia tra la processione dei beati e la Mandorla Christi, quasi a toccare la sfera celeste. L’artista (Gislebertus) ha agito nella certezza che il proprio nome possa vivere in eterno, nell’alto dei cieli. Nel corso del tempo la prassi antica autore-hoc(ciò)-fecit viene sostituita dalla formula autore-me-fecit. Anche i committenti potevano essere citati dall’opera parlante in prima persona, solitamente con la formula ‘me fieri iussit’ (ha ordinato che mi si facesse). Esemplare è la piccola croce bronzea di inizio XII sec, che usa questa formula con tale densità di significato da divenire firma di un’epoca intera. La figura di Cristo crocifisso indossa già la corona che lo qualifica come re dei cieli, legando il momento della morte subito con la dimensione temporale successiva del suo regno dei cieli; la stella a forma di rosa sopra il suo capo rimanda al suo ritorno come salvatore, quindi alla dimensione temporale ancora successiva; una quarta dimensione si schiude con le linee del corpo che si profilano sulle assi della croce, una sorta di immagine-fantasma che delinea solo le parti del corpo entrate in contatto con la croce durante la passione, dando il senso della durata del martirio. Nel giunto centrale della trave, sopra la testa di cristo, un’iscrizione spiega che ‘Wolfram il prete mi ha fatto fare’: la prima persona singolare viene quindi a sigillare la simultaneità di diverse sfere temporali, infondendo anima nella materia. ‘Me fieri iussit’ e la variante ‘me fecit’ non si limitavano alle immagini religiose, ma anche elementi architettonici e di arredo potevano essere messi in relazione con i benefattori e gli artefici. Tra le categorie più rilevanti di opere ‘parlanti’ vi sono le campane, il cui suono rafforzava la ‘vita’ certificata dalle iscrizioni. Come detto anche gli elementi architettonici potevano ‘parlare’ in prima persona: es. le costole della cupola di Torres del Rio nella Spagna del Nord, dove emergere in doppio carattere della componente architettonica di corpo della chiesa e pietra viva con qualità performative. Vi è inoltre un tipo specifico di opere ‘parlanti’ che offre altre varianti. L’autore della porta bronzea della Cattedrale di Novgorod (metà XII) si è ritratto inserendo l’iscrizione tradizionale in forma di nimbo; la tenaglia stretta dalla figura affonda nell’ultima lettera dell’incompiuta ‘fecit’, rendendo evidente come sia la stessa figura del rilievo a comporre l’autoritratto e la scritta, quasi come si fosse fatta da sola. Il processo creativo sembra quindi opera dell’opera stessa, parlante. Il rigore con cui si sviluppa il nucleo analitico del problema che vede le immagini (materia inorganica) come entità apparentemente vive, viene dimostrato al meglio dalle iscrizioni che danno voce a più persone. Esempio particolare è il fonte battesimale del duomo di Osnabrück (1226) in cui l’autore dell’iscrizione lega la donazione del fonte ad una ricompensa nella forma del ‘miglior bene’ di cui San Pietro (dedicatario del dono) dispone. Il donatore si rivolge all’oggetto con un accusativo distanziante, mentre l’oggetto stesso si esprime in prima persona, compiendo una balzo prospettico da opus a persona. Questa forma riflessiva è stata usata magistralmente da JAN VAN EYCK. Il suo ‘Ritratto di uomo con turbante rosso’ (1433) si può dire prefiguri le riflessioni di Leonardo e Tiziano sul potere dello sguardo: esso ti guarda, fonte di energia propria, a prescindere da dove ti trovi. Questa caratteristica viene ribadita dall’iscrizione in prima persona presente sulla parte inferiore cornice dipinta: ‘Jan van Eyck m’ha fatto nell’anno venne esaudita dall’Altes Museum di Schinkel, primo museo autonomo ad essere eretto in tempi moderni. La tradizione delle opere parlanti in prima persona è proseguita anche nel XX sec e l’esempio più evidente è dato dai quadri ‘distrutti’ di NIKI DE SAINT PHALLE dei primi anni Sessanta: la colorata allegria di queste sculture (che ne ha garantito la popolarità) è il ribaltamento di un carico traumatico che ha portato l’artista a riconoscere nell’interlocutore dell’opera la prima persona, a mo’ di alter ego (come ammesso da lei stessa la sua arte ha ricevuto un impulso fortissimo dalle molestie subite dal padre durante l’infanzia). ‘Tu est moi’ (1960) è una delle prime opere con cui ha tentato di elaborare il trauma con motivi e forme violente: il titolo ‘Tu è io’ lega la prima e la seconda persona con il verbo in terza, facendo sì che il problema posto da van Eyck (il doppio io) sfoci in una sequenza paradossale di tre elementi. L’unica cosa evidente è che a legare l’opera all’artista è un’unione distanziata. Alla luce dei motivi figurativi questo elemento assume tratti sinistri: sotto una falce di luna realizzata in gesso rosso acceso sono sparsi otto oggetti tipici delle pratiche violente (coltello, fune, pistola…). Questa interpretazione si rafforza con l’omofono ‘tuez- moi’ (uccidetemi) che si indovina dal titolo. Con ‘io’ si può intendere l’artista che ordina di essere uccisa, in modo da porre fine al proprio trauma; seconda possibilità è che sia l’opera stessa a prendere la parola con ‘io’. Il problema del doppio io torna quindi qui in una questione di vita e di morte: può essere ucciso solo ciò che è vivo. E questo viene portato a compimento da Saint Phalle nei suoi ‘Tiri’ del 1961: sono questi diversi assemblaggi di teste a forma di bersagli da colpire, da soli o con l’aiuto di qualche visitatore, con freccette. Le tre varianti del titolo della prima opera di questa serie (‘Saint Sébastian’, ‘Portrait of my lover’ e ‘Martyr nécessaire’) rispecchiano l’inevitabile scambio di ruoli. Queste azioni di Saint Phalle hanno condotto inevitabilmente a riflessioni sulla corporeità delle immagini. Nei ‘Tiri’ successivi il visitatore sparava con armi da fuoco a forme umanoidi in gesso, in modo che il colore colpito in parte schizzasse e in parte colasse: l’uccisione di un quadro poteva anche essere intesa come un suicidio. Con i Tiri, che culminano con la ‘Venus de Milo’ del 1962, l’artista proietta tutte le teorie dell’immagine su un orizzonte che sarebbe stato quello anche delle successive guerre iconiche: quando l’assassinio dell’immagine da la sensazione che questa cominci a ‘vivere’, ecco che tutte le teorie che riconoscono all’immagine lo status di mera rappresentazione si trovano prive di fondamento. È quello che viene chiamato ‘crisi dell’immagine’ e ‘morte della pittura’ e in realtà è l’avvio di una riflessione sul loro valore essenziale. Il ferimento personale di Saint Phalle ha portato all’esemplare formulazione del problema di fondo, secondo cui le immagini sono un prodotto a sè, se non entità autonome, e allo stesso tempo qualcosa di profondamente estraneo. Nella formula ‘tu est moi’ l’artista ha rafforzato la paura di venire confrontata, nell’opera, con il prodotto della propria forza creatrice quale entità autonoma, attraverso l’attacco diretto di ciò che suscita questa paura. Quello che ha impedito di articolare la teoria circa la ‘vitalità’ degli artefatti, è stato ascritto alle opere stesse nella forma di auto affermazioni sempre più raffinate. I discorsi in prima persona delle firme, che reumatizzano l’energeia immanente all’opera, provengono dagli stessi fenomeni. In epoche antiche l’energia delle immagini veniva spiegata nei termini di un potere divino; durante l’illuminismo questo conflitto sarebbe potuto diventare oggetto di riflessioni genuine, ma la ritrosia di formulare in sede teorica qualcosa che poteva essere liquidato come magia degli oggetti, ha relegato il tema all’ambito letterario (es. Oscar Wilde). Nella loro capacità di mostrare una sfera rimossa nella relazione tra uomo e mondo rappresentato, le opere parlanti agiscono oltre i confini delle teorie dell’imitazione, della rappresentazione e del costruttivismo. I Tiri della Saint Phalle rappresentano la summa delle manifestazioni dell’atto iconico nella forma di opere che parlano in prima persona: queste forme espressive reumatizzano l’atto iconico schematico tipico dell’immediata efficacia delle immagini vive. Le opere dotate di iscrizioni hanno come obiettivo anche l’atto iconico sostitutivo che si esplica nello scambio di immagine e corpo (Cristo van Eyck che opera per due persone). L’atto iconico intrinseco riguarda tutta la storia figurativa: la lode a se stessa dell’opera è elemento fondamentale dell’atto iconico intrinseco. ________________________________________________________________________________ L’ATTO ICONICO SCHEMATICO: LA VITALITÀ DELLE IMMAGINI Come già visto l’uso della prima persona singolare nelle iscrizioni su statue e oggetti marca la presenza viva della figura. Ma non sono solo le parole a qualificare queste figure, ma anche i criteri formali che ne definiscono il contenuto in termini valoriali che forniscono gli standard valutativi e gli strumenti orientativi e imitativi: questi criteri prendono il nome di ‘schema’. Allo schema si accompagna la proposta di raccogliere le forme viventi delle immagini sotto il concetto di atto iconico schematico. In origine con gli schemi si intendevano i corpi modellati da mo’ di immagini, da usare a precisi scopi: in matematica i corpi, grazie ai contorni geometrici e alla ‘pelle’ dei volumi stereometrici assunsero in qualità di schemi, una consistenza iconica. Riallacciandosi alle regole matematiche Platone ha trasferito questo significato letterale al corpo umano, che veniva usato in pose e immagini convenzionali per rappresentare un determinato effetto. In un momento successivo, questa definizione è passata alle immagini vive. Nella filosofia della Verkörperung (incorporazione) la definizione platonica di schema vale come summa di tutti i comandi che rendono possibili le pose e i movimenti del corpo: è a questo ritorno alla definizione di schema come base corporea della conoscenza e del comportamento che fa riferimento la definizione di atto iconico schematico, che include immagini capaci di effetti esemplari tali da renderle vive. In base a questa definizione, alla categoria degli schemi si possono ascrivere i Tableaux Vivants, ovvero i ‘quadri viventi’ composti da persone reali la cui immobilità dovrebbe consentirgli di emanare, a metà tra apparizione viva e strutturazione artistica, un’impressione durevole (che appunto lo schema per Platone). Le prime messe in scena di questi tableaux vivants risalgono alla Grecia ellenistica, ma è dal XV sec che si sono moltiplicate le testimonianze che ce ne parlano. Una prima cronaca risale al 1437 quando ne venne allestito uno raffigurante la passione di Cristo in occasione dell’entrata a Parigi di Carlo VII. I tableax vivant sono stati spesso paragonati alla pittura muraria e alla scultura, chiarendo il legame tra vita e forma d’arte. La capacità di rimanere così immobili da essere scambiati per oggetti faceva sì che al solo vedere la posa si capisse subito cosa questa rappresentasse, portando l’osservatore a percepirla come modello. Questi principi hanno avuto tali effetti sulla storia dell’arte che ad esempio si può dire che il Rinascimento sia sorto prima come schema corporeo che come norma artistica: esemplare sono stati i tableaux vivants del corteo trionfale per Alfonso d’Aragona a Napoli del 1443, che ‘rianimarono’ antiche iconografie. A metà del ‘400 vi fu addirittura uno scandalo legato alle potenzialità ingannevoli delle immagini vive: durante la processione in onore del patrono di Firenze (Giovanni Battista) uno dei carri trasportava un piccolo tempio con una statua votiva, che doveva essere lo scenario per il tebleau vivant dell’imperatore Augusto (primo caso di messinscena pubblica celebrativa di un regnante dell’antichità); appena l’attore che doveva impersonificare Augusto mise piede sulla scena, un avventore tedesco, che il pubblico supera il carattere di finzione: porta il comandamento dell’immobilità di questo genere alla sua forma più estrema. Anche BILL VIOLA ha fatto una cosa simile, mettendo in scena la ‘Visitazione’ del Pontormo: se il tableau fa sì che il corpo diventi scultura, le figure di ‘The Greeting’ si muovono in scene sognanti, al rallentatore. La trasgressione della vita nell’arte attraverso l’immobilità temporale si verifica qui nell’ambito di un movimento che si avvicina con il ralenti all’immagine viva. Stessa storia vale per PETER GREENAWAY nel suo ‘I misteri di Compton House’ in cui si vedono continuamente persone svestite e immobili che, fingendosi statue, diventano testimoni segreti delle vicende. Il principio della scultura-simulata è impiegato anche nell’Opera. All’inizio della ‘Medea- Coreographie’ di SASHA WALTZ apparve un grande fregio le cui figure, a grandezza naturale, vennero proiettate sullo sfondo della scena. Le figure coperte di fango mostravano situazioni umane archetipe (battaglia, assembramento, famiglia): la scena si rifaceva al mito delle origini descritto nelle ‘Metamorfosi’ di Ovidio, secondo cui la razza umana venne creta a partire da pietre gettate nel fango del diluvio universale. A Firenze la leggenda ovidiana si è unita alla credenza che dopo la ritirata delle acque sia stata proprio la Toscana a veder nascere le prime civiltà: quindi non sarebbe solo culla umanità dopo il diluvio, ma anche luogo in cui la capacità di ‘trarre vita’ dalle pietre andrebbe intesa come forma originaria dell’arte. L’idea di ‘Firenze città dell’arte vivente’ è stata rappresentata plasticamente nelle grotte di BERNANRDO BUONTALENTI dei Giardini di Boboli (1583-1593): le pareti sono coperte da uno spesso strato di fango dalle quali si staccano delle figure schematiche maschili e femminili; tra questi si collocano anche i due ‘Prigioni’ di MICHELANGELO (murati nel 1585). Il fregio della Waltz nasce da questa doppia riflessione: dall’immobilità di uno strato di fango può nascere una vita in grado di rappresentare simbolicamente, in quanto immagine viva, la vita stessa insita nelle immagini. Il movimento impercettibile che animò ad un certo punto le figure (quasi spaventando il pubblico) riesce a tematizzare l’affacciarsi della vita di un fregio in apparenza scolpito, principio primo insito nella creazione - il tutto a partire da un atto iconico. Ulteriore variante è la sovrapposizione di spazio iconico e spazio dell’osservatore: la tecnica, che si rifà alle pitture pompeiane, consiste nel fondere lo spazio dell’immagine attiva con quello dell’osservatore, rendendolo immersivo, come i panorami ottocenteschi in cui gli spettatori sembravano muoversi in proiezione. Le tecniche immersive degli spazi digitali, o cyberspaces, provengono dai tableaux vivants con i loro corpi in azione simulata in un contesto percettivo caratterizzato dall’estrema fusione degli spazi. Diametralmente opposto è il principio dell’autostilizzazione degli artisti che si fanno loro stessi quadri viventi: tra i protagonisti di questa categoria vi è il duo artistico GILBERT E GEORGE, che dagli anni ’60 ha rivoluzionato il genere dei tableaux vivants. Definendosi living sculptures hanno reso obsoleta la questione della vitalità dell’opera mediante la sua conferma permanente: le loro pose sempre nuove testimoniano come le persone che rappresentano sculture e, in risposta, le immagini si facciano vive. I due artisti imitano se stessi in tempo reale, facendo scomparire la differenza tra immagine, copia e vita. Presentandosi come immagini, diventano simboli reali dell’atto iconico schematico. Tutte queste forme di tableaux vivants sono varianti del tentativo di annullare la distanza tra artefatto e umanità. La forza dell’immagine viva si esplica nel momento in cui lo spettatore riesce a cogliere se stesso nell’alterità iconica. Con legame tra immagine e corpo si intende un’attivazione schematica dell’osservatore che scatta grazie a uno speciale tipo di confronto con i contenuti e le forme delle pose rappresentate, mediante l’identificazione intuitiva dell’osservatore con se stesso: era questo il significato originale dello schema secondo Platone. La scuola filosofica più influenzata dalle immagini vive è stata sicuramente la teoria dell’immedesimazione di FRIEDRICH T. VISCHER, suo figlio ROBERT e THEODOR LIPPS, fondata sull’idea che si provi empatia nei confronti degli oggetti inanimati, come fossero persone. In questo modo tutte le forme di comprensione sono conseguenze della predisposizione estetica a vedere nell’artefatto non materia inanimata, ma il ricevente e il rispondente delle nostre sensazioni.Questa teoria è stata rafforzata dalla scienza cognitiva, grazie alla scoperta dei neuroni a specchio. Poiché esiste il rischio che questo concetto diventi un modello meccanico da usare in ambito sociale, gli è stata contrapposta l’idea di empatia narrativa, secondo cui l’immedesimazione è il prodotto dell’accordo che nasce processualmente dal conflitto: grazie all’immedesimazione nell’altro, questo procedimento porta all’esclusione di un terzo elemento. La critica al concetto estetico dell’estetica vede in WILLHELM WORRINGER un importante precursore: egli vedeva nell’empatia non il rispetto/accettazione del prossimo, ma la sua sostituzione mediante l’io che si sente sovrano. L’empatia sosterebbe l’attenzione dalla forma dell’artefatto alla reazione che esso susciterebbe in chi lo osserva, che si esprimerebbe come godimento di sé oggettivato dalla percezione estetica. Senza l’intenzione di percepire l’oggetto come qualcosa di estraneo ed antagonista rispetto l’io, la moderna estetica assimila l’opera d’arte all’io. Worringer sostiene che la moderna estetica non andrebbe impiegata nel vasto ambito dell’arte figurativa, in quanto il suo vero ambito è l’astrazione che si contrappone alla vita e al sentimento. Essendo in contrasto con una diffusa empatia che fornirebbe protezione all’ego infiacchito, è l’inorganico, ciò che minaccia la vita, l’astrazione quindi a costituire la vera sfida. L’astrazione non figurativa diventa così una pulsione originaria dell’arte, fondata sulla paura dell’ignoto: l’astrazione è la reazione apotropaica dei primi artisti all’ambiente minaccioso. L’ostilità al mondo esterno di Worringer potrebbe stupire, ma come critica al moderno concetto di individualismo e come obiezione al principio dell’empatia nell’arte è ancora molto attuale. Con la sua teoria egli sembra aver dato il via alle forme della Minimal Art. Nel solco di Worringer l’artista italiana VANESSA BEECROFT ha sviluppato fin dai primi anni Novanta una critica all’empatia partendo da una forma particolare di tableaux vivants: se in apparenza i suoi assemblaggi di immagini vive sembrano fare appello ad un’empatia intuitiva, l’immobilità perpetrata per ore dei suoi gruppi di statue femminili ne cristallizza l’organicità arrivando a negare l’empatia in modo radicale. L’intento è quello di attirare lo spettatore mediante la forma visiva, e al contempo imporsi su di lui partendo dalla sfera distante e aliena dell’artefatto. Gli automi sono altra forma di artefatto dotato di ‘anima’. Da sempre gli viene riconosciuto una valore superiore ai robot da lavoro in quanto non sono subordinati ad alcuno scopo produttivo. La loro storia risale agli operai in miniatura dell’antico Egitto, per arrivare agli avatar e agli androidi dei giorni nostri. Gli automi accrescono la distanza tra uomo e opera che nasce dall’idea alla base dell’atto iconico: la loro autonomia gli conferisce un che di inavvicinabile, un’estrema alterità capace di suscitare un mix di emozioni. Nascondendo il proprio carattere artificiale, infatti, l’immagine robotica crea un clima di sospetto in cui non si capisce se ci si trovi di fronte ad un artefatto o ad un essere in carne ed ossa. Un automa della metà del XVI sec è esemplare di quanto detto finora: alto quasi 40 cm e vestito originariamente di tutto punto, la sua meccanica è composta da ingranaggi che ne consentono movimenti sempre nuovi senza aiuto esterno. Già Leonardo parlava di una ‘forza’ come principio fondante della vita insita negli automi. Egli pensava al corpo umano come ad un meccanismo al cui interno, alla nascita, viene caricata una molla invisibile che si muove fino ad arrestarsi (morte): eleva quindi la parabola vitale di una molla a modello di vita —> lo scopo ultimo dell’attività motoria umana è la quiete della morte. L’animazione dell’oggetto ha reso questo mito un leitmotiv dell’illuminismo, tanto da assurgerlo a fondamento del Sensismo: nella statua di Pigmalione sembra manifestarsi il fatto che la vita e la morte sono stati diversi della stessa materia. Tra i numerosi adattamenti spicca quello di JEAN-JACQUES ROUSSEAU del 1771, in cui l’opera è inizialmente coperta (cfr. Leonardo) e inoltre l’animazione di questa non avviene per mediazione di Venere, ma per il solo desiderio dell’artista: di fatto l’opera si anima per una presa di coscienza tattile (Galatea percepisce se stessa e pronuncia la prima parola ‘io’, che dalla Grecia pre-ellenistica sottolinea l’identità delle opere d’arte). Pensando alla storia delle riflessioni linguistiche dell’atto iconico, è interessante per Bredekamp il fatto che la statua capace di coscienza di sé ricorra alla formula ‘Questa sono io’, che come visto dai tempi più antichi contrassegna la vita propria delle immagini. Contrappunto perfetto a Galatea è il Commendatore’ di pietra del ‘Don Giovanni’ di MOZART, sulla cui apparizione s’impernia l’opera. Don Giovanni uccide il commendatore inavvertitamente, padre della sua amante; nel secondo atto lui e il servo Leporello s’incontrano al cimitero, dove vedono la statua funeraria del commendatore la cui iscrizione si pone nel solco delle opere parlanti, dichiarando di attendere vendetta. Leporello avverte subito come siano l’io non si riferisca al defunto ma alla statua, ma Don Giovanni spavaldo ne prende le distanze sbeffeggiandolo, invitando la statua al banchetto. L’apparizione effettiva della statua al banchetto rappresenta il clou di tutta l’opera: Leporetto lo chiama ‘uom di sasso, uom bianco’ (espressione che nel XV indicava le statue monumentali in marmo). L’opera di Mozart è inimitabile riflessione sull’atto iconico: quale difensore del calore umano Don Giovanni non capisce come il commendatore, posseduto dalla vendetta, sia più passionale di lui. Inoltre con i suoi balzi di registro vocale (basso) il commendatore riesce a caratterizzare l’atto iconico anche sul piano sonoro come evento eccezionale. L’opera diventa manifesto per l’illuminismo capace di includere l’atto iconico schematico senza cui qualsiasi forma di illuminismo altro non è che un torto irrimediabilmente inanimato. Il XX ha saputo declinare in forme nuove il mito di Pigmalione, prendendo spunto dall’analisi che SIGMUND FREUD svolge di un racconto di WILHELM JENSEN: un giovane archeologo ossessionato dall’idea di salvare dall’eruzione la sagoma di un bassorilievo pompeiano di nome Gradiva; l’archeologo si reca quindi a Pompei dove incontra una donna, il suo infelice amore di gioventù, in cui riconosce Gradiva stessa, che da figura in rilievo diventa reale; la donna però gli dice che è l’amore per l’immagine a farlo innamorare, un amore pronto ad essere annullato. Freud in questo racconto vede il fondamento stesso della psicanalisi. I surrealisti, alla luce dell’interpretazione freudiana, hanno visto in Gradiva una figura centrale del regno tra ‘sogno e realtà’, avanzando il sospetto che nel nostro interlocutore si celi la moderna Galatea, portando il gioco alle estreme conseguenze. Agli occhi di questi artisti i manichini dei negozi erano la traduzione pratica del mito di Pigmalione. l’Exposition internazionale du surrealisme parigina del 1938 fu campo sperimentale per questa teoria: es. la ‘Bambola’ realizzata da SONIA MOSSÉ. Se il racconto di Freud fu uno stimolo, le bambole di HANS BELLMER rappresentarono una sfida: egli fabbricò una bambola (1936) fatta di gesso, legno e altri materiali basandosi sul racconto di E.T.A Hoffmann ‘Olimpia’. Il corpo fragile e deforme costituiva un atto di ribellione contro l’utilità e il classicismo propugnati dal nazionalsocialismo. Attorno alla pancia abnorme si accalcavano arti legati da masse sferiche, assieme a evidenti organi sessuali che le donano una propri, aggressiva sensualità. Modello fu una bambola snodabile in legno, del 1520 ca: le giunture sferiche della bambola sono le stesse di Bellmer. Le bambole dell’artista tedesco sono il prodotto di un Pigmalione le cui statue hanno preso vita non grazie a Venere, ma ai demoni della sua epoca. La videomaker e fotografa LIANE LANG è riuscita a ibridare l’arte delle bambole con il mito di Pigmalione e il culto di Venere di prassiteliana memoria, fondendo tutti e tre i motivi dell’atto iconico schematico: l’opera in questione è ‘Faun’ del 2007. La fotografia ritrae una riproduzione in gesso del Fauno Barberini a cui l’artista ha aggiunto gli arti esili che parrebbero di una giovane ragazza che, sbucando dal telo posto alle spalle del fauno, si avvinghia al busto di questo. L’artista è famosa per le sue complesse sculture di cui essa ha sempre sottolineato la vitalità. Il fauno, già portatore di carica erotica, grazie all’aggiunta di motivi tipici dell’atto iconico schematico viene rafforzato nella sua capacità di trasmetterci il mistero dell’attività degli oggetti. Il Fauno Barberini per la Lang segna, con la sua longevità, il trionfo dell’oggetto sul proprio creatore, contro tutti i ‘poteri forti’. Il fatto che l’artista non solo ponga la sua opera contro il tempo, ma anche contro il creatore stesso per ribadirne l’autonomia vitale, è la quinta essenza dell’atto iconico schematico nella forma dell’animazione dell’oggetto. Ultima variante dell’animazione oggettuale non ha provato a giovare il confine vitale- inorganico, ma sconfiggerlo: essa ha trovato il proprio Leitmotiv nella produzione, a inizio XX sec, di un centauro, percepito come ibrido tra oggetto inanimato e uomo. Nel Manifesto del Futurismo (1909), FILIPPO TOMMASO MARINETTI auspica la fusione tra uomo e macchina, nuova formulazione dell’antico mito del centauro. Già Botticelli aveva fornito una versione impressionante del mito del centauro, in cui la dea della saggezza Pallade doma il centauro. In modo programmatico Marinetti si è fatto fotografare sempre nel 1909 come incarnazione del moderno centauro, al volante della propria auto: con il contatto con l’auto, l’uomo crea un essere di cui è parte integrante; in questo modo umanizza l’automobile, che partecipa agli eventi fondamentali della vita dell’uomo (nascita, eros, morte). L’avvicinamento erotico a queste macchine fa si che l’automobile si incarni in raffigurazioni sempre nuove di Galatea: l’auto è quindi la moderna statua di Pigmalione con cui l’uomo si unisce creando il centauro. Il detto di Marinetti secondo cui una corsa di automobili sarebbe più bella della Vittoria di Samotracia ha ispirato lo scultore inglese CHARLES SYKES per ‘Silver Lady’ (1911), figurina che oggi campeggia sui cofani delle Rolls-Royce. Questa è diventata l’emblema plastico di un’auto subito ammirata come opera d’arte. Già nel 1909 Marinetti mette insieme automobili-velocità-morte: per il poeta la violenza e la morte erano compagne della velocità, tali da liberare il guidatore dei freni dello scrupolo e della correttezza. Un’idea però accompagnata da un senso di speranza e rinascita: il futurismo prepara la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili, liberandolo così dall’idea di morte e quindi dalla morte stessa. La forza dell’immagine del centauro uomo-macchina si è mantenuta anche a discapito della guerra e del fascismo: basti pensare alle immagini vive a partire da montaggi di biomasse che vengono create oggigiorno. Queste immagini artificiali, spesso valutate in chiave etica, raggiungono il loro livello più profondo solo quando vengono intese come la risposta alla domanda su come un’immagine possa vivere e agire. Anche qui Leonardo precorse i tempi, creando delle chimere incrociando animali. Negli anni Trenta il fotografo EDWARD STEICHEN ha lavorato nella convinzione che gli organismi viventi appartenessero al campo dell’arte e si è concentrato sugli incroci di piante (in quanto modo ha tacitamente sanzionato la teoria iconica per cui solo l’osservatore ha vita propria): nel 1936 espose i suoi incroci al Museo di Arte Moderna di NY, convalida istituzionale del fatto che anche una forma di vita potesse assurgere a opera d’arte. L’artista e fotografo EDGAR LISSEL ha attualizzato questo credo, trattando i materiali organici come fossero strumenti artistici: nel suo progetto del 2005 ‘Domus Aurea’ ha applicato colture batteriche isolate (le stesse che hanno distrutto gli affreschi della villa neroniana) su riproduzioni delle pareti antiche; gli stessi batteri arrivarono a cancellare le tracce della propria opera distruttiva, coprendo le pareti ormai bianche; nelle pareti era incorporato del materiale organico che reagiva al processo, dando la risposta alla domanda sulla natura attiva o passiva dell’immagine. Queste opere così realizzate rientrano nel genere dei ‘bioartefatti’. Come anticipato anche l’economia sfrutta questa possibilità di fondere corpo e immagine. Lo scienziato e statista americano BENJAMIN FRANKLIN fece stampare delle banconote così ben fatte da rendere molto difficile la falsificazione: egli ebbe l’idea di far imprimere le foglie sul metallo, in modo da consentire svelate tirature. Poiché per imprimerle sul metallo le foglie venivano fissate su una superficie di gesso e amianto con un lembo di stoffa, ecco che si verificava di nuovo il contatto di corpo e tessuto, su esempio della vera icon; inoltre dato che la stoffa coincideva con la forma della banconota, la sua conformazione contribuiva all’autenticità della moneta. Questa maggior resistenza alla falsificazione ha fatto sì che nascesse per la prima volta una circolazione stabile del denaro anche al di fuori di determinate regione, oltre ad un sistema finanziario basato sulla fiducia. La banconota, vera e propria versione monetaria della vera icon, ha sviluppato così una propria potentia: con la loro autenticità ha rafforzato la coscienza politica delle colonie americane, svolgendo un ruolo fondamentale nella formazione di un’identità nazionale fino al 1776 (anno dichiarazione indipendenza). Le impronte digitali hanno avuto lo stesso ruolo rivoluzionario delle banconote americane per gli individui. La dattiloscopia, risalente ai tempi degli Assiri e dei Babilonesi, è diventata a partire dalla fine del XX sec parte integrante della criminologia. Nel momento in cui si imprime il proprio dito sporco di inchiostro su un pezzo di carta ecco che diamo vita alla nostra ‘vera immagine’. Dalla matrice originaria della vera icon emerge l’effetto per cui l’immagine, trasformata in corpo, si fa medium di una doppia esistenza. Questo vale anche per la fotografia. Quando l’inventore della Polaroid EDWIN LANDS presentò nel 1947 un autoritratto capace di autogenerarsi, il legame con la vera icon fu subito evidente: la persona ritratta si trovò a guardare l’immagine in fieri di se stessa. L’evento emanò un’aurea speciale anche perchè sembrava incarnare l’essenza originaria della fotografia, ovvero la possibilità di ripetere con l’aiuto della tecnica la realizzazione dell’immagine vera, accrescendone l’autenticità. La prima delle immagini realizzate grazie alla luce realizzate da JOSEPH NICEPHORE NIEPCE (1822 ca) si basa sul ritratto, in forma di incisione, del cardinale Georges D’Amboise (1650): una volta imbevuta di olio l’incisione era stata resa semitrasparente in modo da far passare i raggi di sole che indurivano uno strato di asfalto steso sul vetro; dopodiché l’asfalto non indurito perché rimasto in ombra venne sciacquato via in modo che si creasse un negativo creato dalla luce. A partire da questo modello è nata nel 1826 ca ‘l’icona della storia della fotografia’, ovvero la vista sull’aia e sui campi della tenuta Niepce a Le Gras. Anche i brevetti rispettivamente di DAGUERRE e TALBOT seguivano un andamento simile, partendo però dalla stampa per approdare all’impressione fotografica. Talbot parla della sua invenzione in termini che evidenziano una vicinanza alle leggende delle ‘immagini vere’: la sua fotografia non è arte, ma è un’impressione operata dalla ‘mano della natura’, e questo rende in grado questo medium di realizzare opere di un grado superiore, munite tanto dell’aura delle icone (che non aveva nulla a che vedere con l’intervento umano) quanto dell’immediatezza tipica delle autoproduzioni naturali. Per Talbot quindi le sue fotografie sono ‘impresse’ dalla natura in persona (non a caso il suo primo volume arricchito da riproduzione si chiama ‘Pencil of Nature’) che esercita una pressione su un supporto. A rafforzare il senso sia naturalistico che religioso possiamo citare è un fotogramma del 1839 del fisico J.C.ENSLEN: su una foglia appare il volto di Cristo. Anche il dibattito sulla Sindone di Torino che sembra un negativo creato da raggi di luce (quindi trasformabile in positivo grazie a fotografia) ha legato l’arte della fotografia alla tradizione della vera icon. Da questa linea di pensiero si svilupparono molte teorie, addirittura la fotografia venne definita ‘autorappresentazione non alterata dell’oggetto’. Non si è mai però placata la corrente opposta, volta a evidenziare il carattere costruttivo della fotografia e tesa a criticare soprattutto la presenza incondizionata dell’immagine: che una fotografia rappresenti se stessa e non la presenza reale e non mediata di un altro corpo è uno dei fondamenti della teoria fotografica costruttivistica che si propone di denunciare la manipolazione e la falsificazione delle fotografie. A questa relativizzazione tuttavia si contrappone la constatazione che è impossibile eliminare ogni traccia iconica di quanto ritratto, ovvero il suo effetto corporeo: esemplare il discorso di ROLAND BARTHES sulla fotografia della madre morta. Innegabile è che la definizione corporea-reliquaria della vera icon e la successiva valutazione delle copie hanno privilegiato tecnologie iconiche sempre nuove, tese a riprodurre immagini senza che l’aspettativa di riconoscervi qualcosa di ‘vero’ andasse perduta. Campo in cui la sostituzione corpo-immagine assume dimensione peculiare è quello die simboli della sovranità. Essi traggono da loro autorevolezza dall’idea di valere al pari di una ‘immagine vera’: secondo questo modello ancora oggi viene apposto il sigillo che agisce come atto legale di convalida e autorizzazione. Stessa storia vale, su scala più ampia, per le monete, da considerarsi ripetizioni marchiate di ‘immagini vere’. Dal momento che queste immagini vere vengono marchiate sul metallo, questi oggetti diventano veicoli tattili e ottici di valore autenticato: senza immagini infatti le monete hanno solo un valore materiale che avrebbe provato e contrattato, ma mediante l’iconizzazione si ratifica un patto fiduciario che definisce e fissa il valore. Come sigilli che bastano a se stessi le monete sono una forma elementare dell’atto iconico che garantisce possesso e scambio. I filosofi THOMAS HOBBES e ALFRED N. WHITEHEAD hanno riflettuto (rispettivamente in epoca moderna e contemporanea) su questo ambito, citando sebbene non esplicitamente i contenuti propri dell’atto iconico sostituivo. Secondo la teoria della visione di Hobbes la visione reagisce ad un atto di pressione scatenato da strati di luce che pulsano negli oggetti e vengono trasmessi all’occhio via etere, andandola a definire un’azione coatta. Poiché anche la politica si esercita con mezzi coercitivi, le immagini che vanno contro gli uomini in ogni momento e ovunque sono concetto più semplice per comprenderla. Illustrando l’azione propria delle immagini il filosofo usa come esempio le nuvole: dato che osservandole si riesce ad anticipare la pioggia imminente, che diventa oggetto di riflessone, a questa vista si legano tutte le successioni di eventi in grado di trasformare le singole immagini del pensiero (marks) in simboli del comportamento rilevanti e generali (signs). L’immagine del Leviatano compie questo passo da mark a sign: diventando il frontespizio ‘segno’ dello Stato, acquista un carattere rilevante attraverso una delle due possibilità dell’impressione iconica, ovvero abituazione o choc. Esso innesca un’azione che può essere più o meno primariamente linguistica: senza contratti tradotti in parole non può esistere una vita collettiva, ma questi sono possono valere o essere mantenuti senza la difesa e il sostegno delle armi e delle immagini. Poiché per Hobbes tutte le conquiste della civiltà devono scontrarsi con le passioni, si deve ricorrere alla paura per frenarle e dominarle: i contratti rischiano di venire rescissi se non c’è alcun potere visibile a tenere i firmatari in soggezione. Le riflessioni di Hobbes miravano ad elevare la presenza visiva del Leviatano a scudo contro la guerra civile imminente. La teoria di Whitehead del ‘comportamento simbolicamente condizionato’ ha portato le riflessioni di Hobbes nel contesto delle moderne democrazie, definendo le immagini non icone sacrosante, ma come simboli in continua mutazione. Il suo esempio della validità delle forme simboliche riguarda tutte le forme di riconoscimento dell’esercito, volte a far sì che i soldati impauriti dalla morte non si riducano a individui privi di volontà: le bandiere, i vessilli, i tamburi e le trombe uniti ai simboli delle unità militari sono le basi dell’azione stessa dell’unità da battaglia. Se le condizioni storiche cambiano, allora anche i simboli iconici devono contribuire al cambiamento: è in questo contesto di immagini cangianti che spingono all’azione tesa a modellare la società che si concentrano le funzioni dell’atto iconico per Whitehead, anche se non usa questo termine. pubblicare la foto di Bismarck per difendere il diritto all’immagine si è trasformato in un’espressa volontà di apparire, per lanciare appunto un’accusa ai suoi assassini. Un fenomeno simile in quanto a incontrollabilità è quello dell’iconoclastia o iconoclasmo, ovvero l’aggressione a mezzo iconico volta ad annichilire il nemico identificandolo con immagini che vengono danneggiate o distrutte. Paradigmatico è un in folio moscovita di IX sec che mostra Cristo in croce a cui una figura avvicina alla bocca la spugna imbevuta di aceto grazie ad una lancia, mentre in primo piano un uomo regge una lancia alla cui estremità vi è un lenzuolo con cui imbratta con la calce un’immagine circolare di Cristo. L’iscrizione chiarisce come l’iconoclasta venga messo sullo stesso piano degli aguzzini di Cristo. Analogamente alla pratica di applicare la transustanziazione all’icona stessa e di mischiare al vino frammenti dell’immagine del corpo di Cristo durante l’eucarestia, queste scene illustrano l’identificazione di immagine e corpo al momento della loro uccisione. Una situazione simile è stato il falò effettuato dagli ugonotti nel 1560 con immagini, paramenti liturgici, reliquie e documenti saccheggiati dalla cattedrale, dal palazzo vescovile e le sale capitolari di Nîmes-la-Romaine (bassa Linguadoca): la distruzione delle prove iconiche dell’odiata chiesa autoritaria e delle prove giuridiche delle sue protese di possesso rappresentò la risposta ai roghi dei fratelli di fede avvenuti un anno prima. In maniera complementare i cattolici sentivano gli attacchi delle immagini sacre come aggressioni fisiche (es. avevano definito durante le iconoclastia boeme alcune sculture come martiri viventi). Richiamandosi alle punizioni corporali, gli atti iconoclastici sono sempre stati compiuti con grande attenzione alla forma: es. a Treviri viene conservata una statua di Venere (o Diana), appesa mediante catene, che per secoli è stata colpita dalle pietre dei pellegrini, in una sorta di lapidazione, tanto da essere ridotta ad un informe busto. L’iconoclastia si può dire abbia creato un codice comportamentale che metteva sullo stesso piano immagini e criminali. Questa ampia gamma di gesti solleva il dilemma dell’iconoclastia, che rafforza ciò che rifiuta: sostiene che le immagini siano inanimate, ma nel momento in cui le distrugge, trattandole da criminali in carne e ossa, accorda loro la vita. Non manca una spinta teologico-iconica, soprattutto in Asia, ma è sorprendente come iconoclastia di natura non prettamente religiosa siano ancora oggi attuali (Riv. Francese, Riv. Russa, riv. culturale cinese…). È subentrata oggi una nuova fase che lega gli attacchi iconoclastici dei tempi moderni al carattere artistico degli oggetti aggrediti, così da vedere nell’immagine non il sostituito di un corpo, ma un’immagine per se stessa. Tra i casi più importanti gli attacchi negli anni ’80 ai dipinti di BARNETT NEWMAN, ‘Who’s abradi of red, yellow and blue’ (III e IV), che già dal titolo si richiama il rischio di essere attanagliati dalla paura vedendo il quadro. Fin dalla sua prima esposizione nel 1950 l’opera di Newman è stata vista come veicolo d’aggressività capace di raggiungere il dolore fisico, tanto che ad aggressioni di tipo retorico si sono aggiunti tagli veri e propri delle tele. Il divieto illuministico di prendere in considerazione l’atto iconico sottoponendolo a discussione ha provocato una reazione inconsulta: l’aggressore berlinese ha giustificato la propria azione come risposta violenta alla forma del quadro, capace di suscitare paura. I corpi possono essere, nella loro presenza effettiva, immagini e questa era la prerogativa alla base della vera icon. I corpi possono essere distrutti nel nome delle immagini: è questa la degenerazione rispettiva. E le immagini possono essere distrutte in sostituzione di corpi: è questa l’iconoclastia. La conclusione logica, seppur inversa, è che occorre riconoscere uno status vivente alle immagini per potersi rivolgere ad un io autonomo, non mero sostituto. Esempi concreti del trattamento dell’essere umano come immagine e viceversa, in termini di adorazione, castigo o aggressione fisica, si trovano in tutte le epoche, fino ad oggi. Bredekamp usa tre esempi per farne capire appieno il suo funzionamento nel corso della storia: - Porta della Città di Capua: esempio dell’agibilità iconica dei sovrani del Medioevo - Congiura dei Pazzi. - Guerra delle immagini attualmente in corso. Porta della città di Capua: eretta tra il 1234-1239 per volere di Federico II von Hohenstaufen. Secondo le fonte questa sortiva un effetto assimilabile a quello delle leggi. L’impianto è oggi perduto, ma possiamo ricostruirlo grazie ad un disegno precedente all’atto di iconoclastia: la facciata presentava un complesso gruppo scultoreo disposto gerarchicamente attorno alla figura centrale dell’imperatore; il busto centrale dei tre tondi posti sopra l’arco era della Iustitia Caesaris, probabilmente affiancata da due figure di giudici. Secondo una fonte della fine del XIII sec le sculture erano così ben fatte da sembrare, grazie anche alle iscrizioni, in grado di parlare. Stando alla fonte la Iustitia Caesaris si presentava, parlando in prima persona, come custode del regno grazie al dominio imperiale (riferendosi quindi all’imperatore sopra di lei) per poi minacciare di disonorare colui il cui coraggio vacilla; i giudici ai lati del tondo centrale mettono l’interlocutore ad un bivio tra incolumità e punizione. Questi moniti venivano rafforzati dalle persone incaricate di recitare i versi ai passanti, fungendo da tramite per un0attività iconica di stampo imperiale. Congiura dei Pazzi e conseguenze: questo è esempio di come persone e istituzioni assenti vengono prese mediante immagini. Rientra qui la pratica del culto votivo: persone e parti del corpo vengono mostrare allo scopo di produrre un effetto curativo o far sì che una convalescenza si risolva al meglio. Se il corpo è quello di una persona dotata di responsabilità e potere ecco che questa forma di scambio acquisisce una dimensione politica, giuridica e militare. La congiura dei Pazzi venne messa in atto nel 1478 ai danni della famiglia de’ Medici, durante la messa nel duomo di Firenze (unica circostanza in cui i Medici si muovevano senza guardie del corpo), e vide l’attentatore Bernardo Bandini Baroncelli pugnalare a morte Giuliano de’ Medici. Il fratello Lorenzo (poi il Magnifico), scampato alla congiura con solo una ferita non mortale, iniziò una violenta rappresaglia che si concretizzò in un uso bifronte dell’atto iconico sostituivo: se da un lato i responsabili vennero giustiziati nel corpo e nell’immagine, dall’altro egli si mostrò sia in carne ed ossa, sia come statue di cera volte a impersonare l’incolumità della sua dignità istituzionale. Una delle statue di cera addirittura mostrava gli abiti insanguinati indossati durante la congiura e dal momento in cui venne posta nella chiesa delle monache di Chiarito, accanto al crocifisso teumaturgico, acquisì un’aurea di salvazione miracolosa. Anche le altre statue vennero poste in chiese e visto che queste effigi, protette dal culto, garantivano l’incolumità a Lorenzo, confermavano la profezia secondo cui il potere dei Medici sarebbe rimasto incolume come i Medici stessi. I congiurati ebbero una sorte complementare: nel giro di pochi giorni più di 70 persone, tra cui il l’arcivescovo di Pisa, vennero appese alle finestre del Palazzo della Signoria e del Bargello; allo stesso tempo la funzione curativa delle immagini venne convertita in funzione punitiva, tanto che Botticelli venne incaricato di eseguire delle Schandbilder degli attentatori (tra cui il Baroncelli appeso per il collo), affrescandole sul portale della Dogana accanto a quello del governo. Rispettando la consuetudine di allegare scritte alle Schandbilder, il Magnifico accompagnò gli affreschi con una poesia oltraggiosa in cui parla in prima persona Baroncelli: in sintonia con l’affresco dell’appeso, la profezia delle ultime righe (‘per aspettare morte più cruda’) avrebbe dovuto garantirne la cattura e l’esecuzione. L’anno successivo l’assassino di Giuliano venne estradato dal sultano turco e venne appeso per il collo ad una delle finestre del Bargello, propria sopra alla sua Schandbild: con l’esecuzione della pena il pronostico dell’immagine era stato superato, visto che al posto dell’immagine era stata eseguita la pena vera e propria. La valenza delle Schandbilder del Botticelli non era rivolta solo ai congiurati, ma anche alla curia romana, in quanto sappiamo svolsero un ruolo chiave nelle trattative per porre fine alla guerra tra Roma e Firenze in seguito alla congiura dei Pazzi: come detto tra gli avversari vi era anche l’arcivescovo di Pisa, di cui vi era di conseguenza anche un affresco diffamatorio; la delegazione vaticana aveva chiesto la rimozione di detto affresco, richiesta accolta dal governo fiorentino da cui poi partirono le trattative di pace. L’anno seguente cancellare la distanza tra i combattenti e la loro presenza visiva nei quartier generali, mentre la pubblicazione delle immagini viene costantemente sottoposta a critiche. L’atto iconico sostituivo comporta conseguenze contraddittorie. Attraverso la trasformazione di un corpo in immagine a mezzo stampa, esso testimonia l’autenticità e l’attività intrinseca dell’artefatto, il che consente di valutare effigi ufficiali e aventi funzioni giuridiche quali sostituti validi di corpi fisici. La sostituzione di corpi con l’immagine permette anche l’iconoclastia e l’interpretazione dei corpi come immagini può degenerare nel maltrattamento della persona a fini iconoclastici. Per Bredekamp questo attesta la necessità di una teoria politica e di una prassi generale della presa di distanza. ________________________________________________________________________________ L’ATTO ICONICO INTRINSECO: LA FORMA IN QUANTO FORMA Quando la statua del dittatore Saddam Hussein è stata abbattuta, i soldati ne hanno coperto il volto con la bandiera americana: è questo un caso di reazione ‘bellicosa’ alla potentia delle immagini. Coprire il volto di una statua, dipinto ecc… è un gesto di difesa: equivale a mettere la fascia sugli occhi del condannato durante l’esecuzione: non si fa per risparmiargli la vista della morte imminente, ma per risparmiare gli occhi agli aguzzini. Tutto questo richiama alla mente il monito sul velo leonardesco. L’origine del timore rappresentato dalla vista dell’immagine risale al mito di Medusa: gorgone dall’aspetto così terrificante da tramutare in pietra chiunque ne incrociasse lo sguardo (Perseo infatti riesce a sconfiggerla guardandone il riflesso in uno specchio). Anche una volta decapitata da Perseo, la sua testa è ancora in grado di trasformare le cose in pietra.A questo punto il tema passa dalla teoria dello sguardo a quella dell’immagine: dato che la testa della gorgone è diventata immagine, il mito affronta l’atto iconico. Le raffigurazioni post-antiche di Medusa hanno in gran parte evitato di sottoporre lo spettatore al suo sguardo, per farlo sì riflettere sull’orrore senza tramutarlo in pietra. L’arte (e qui si richiama l’idea consolatoria di Lacan già vista) diventa in questo modo lo scudo di Atena, mostrando il corpo di Medusa attraverso il riflesso così che non uccida. CARAVAGGIO è stato uno dei pochi a non ‘seguire la regola’, sviluppando ulteriormente il tema della pietrificazione partendo dall’immagine dipinta e arrivando ad un’altra immagine, riflessa e inefficace; la vista del dipinto di RUBENS poteva venire sopportata solo se coperto e infine lo stesso Lacan pensò di coprire ‘L’origine del mondo’ di COURBET. Ciò testimonia come la paura della potenza visiva delle immagini sia ancora attuale. Questa paura però può trasformarsi in lode alle immagini, qualora queste sembrino così vive da pietrificare. Questa idea nelle sue due possibili direzioni ha stimolato moltissime descrizioni e cronache che attestano la vitalità delle opere d’arte, come quella di GIOVANNI DI CARLO STROZZI riguardo la ‘Notte’ michelangiolesca, che ci dice parer dormendo; nello stile di Pasquino, la statua stessa risponde con una poesia dello scultore che l’osservatore può sussurrare, ma tanto lei continuerebbe a dormire. Questo ‘silenziamento’ dell’osservatore è il primo passo verso la sua pietrificazione per mezzo dell’opera d’arte viva. Il mito di Medusa ricorda come l’energia vitale degli artefatti origini dalla paura nella morte e in una conseguente presa di distanza, sul doppio binario cancellazione- rafforzamento della paura. L’assunto di fondo secondo cui questo conflitto non si risolve automaticamente nell’opera, ma anzi in essa viene discusso in termini sempre nuovi, fa sì che l’idea di arte di Warburg rappresenti un fondamento paradigmatico dell’atto iconico. Il fatto che l’osservatore si senta osservato rientra nel filone di cronache e riflessioni con cui il mito di Medusa continua a presentarsi in forme sempre nuove. Il punto di partenza è che ognuno disponga del ‘tremendum’ dello sguardo, soprattutto a chi viene riconosciuta la dettatura tipica dello sguardo di Medusa (potere di lanciare il malocchio). Nel contesto della dottrina apotropaica del ‘similia similibus curantur’ (i simili si curino coi simili) risalente ai tempi di Plinio, secondo cui le forze demoniache si fanno spaventare solo da se stesse, venne introdotta una grande quantità di specchi e occhi artificiali per controbilanciare chiunque fosse dotato dell’occhio malefico. Poiché determinati oggetti potevano irradiare questo sguardo magico, si arrivò ad un chiasmo di occhiate in cui l’atto di guardare e di essere visti aveva un effetto reciproco e qualitativamente identico. È il caso della testa di Costantino I nella Basilica di Massenzio (Foro Romano) di cui si decideva che se fosse caduta avrebbe trascinato con sé Roma e il mondo intero: la testa è munita di occhi giganteschi e secondo la leggenda erano in grado di vedere. Se le teorie della visione postmoderne sostengono che l’atto di vedere scaturisca da un’emanazione dell’occhio (lumen) rimbalzato dall’oggetto guardato verso l’occhio stesso, allora bisogna tener contro che la visione, in chiave apotropaica, era ibridata con la convinzione epicurea che perfino gli oggetti fossero in grado di guardare per primi, e sortire degli effetti. Questa reciprocità di guardare ed essere visti è stata descritta tra gli altri dall’Alberti e, soprattutto, da NICCOLÒ CUSANO nella metà del XV sec. Cusano ha influenzato la teoria della visione dei suoi tempi con una serie di riflessioni sul chiasmo degli sguardi, soprattutto con il suo ‘De Visione Dei’ (1453) in cui risponde alla domanda come il mondo creato da Dio debba essere visto da Dio stesso affinché possa essere riconosciuto come emanazione delle sue infinite possibilità. A detta del teorico in ciascuna forma del creato deve risiedere una possibilità formale che rimandi all’infinità divina: l’immagine diventa quindi testimone chiave dell’autopercezione divina e della natura effimera del creato. L’immagine non è statica, ma agisce. Cusano spiega la peculiare essenza di tutto ciò che ha una forma ricorrendo a una serie di esempi, tra cui la vera icon e un autoritratto di Rogier Van Der Weyden (entrambi andati perduti - si pensa tuttavia che l’autoritratto possa essere sostituito dall’Uomo con turbante rosso di Van Eyck). Parlando dell’autoritratto Cusano conclude dicendo che l’immagine possiede una vita propria poiché indipendentemente dal punto d’osservazione o dal movimento dell’osservatore, esso sembra sempre guardarlo. Per Cusano il dipinto sa scatenare il proprio potere solo quando incontra un’altra grandezza dotata di potentia propria: in questo modo formula in modo paradigmatico l’incrocio degli sguardi e ricorrendo al chiasmo coglie il paradosso secondo cui un quadro, privo di materia organica, può essere attivo sull’esempio di un Dio che guarda e crea. Lo stesso problema è stato affrontato, tra gli altri, anche da MAURICE MERLEAU- PONTY, il cui saggio ‘Chiasmo degli sguardi’ parte dalla vista in quanto forma di tatto per giungere ad un argomento complementare secondo cui ciò che viene visto, nella sua resistenza tattile, esercita a propria volta una pressione visiva sul soggetto vedente. Per Cusano però questo concetto del chiasmo degli sguardi non vale per sè, ma è la prova dell’infinità delle vie divine, ragionamento che porta ad una conseguenza inaudita: un ritratto capace di raggiungere la somiglianza incredibile con il vero è morto; viva è l’opera che presenta delle differenze rispetto al modello, il che alimenta la voglia di raggiungere la perfezione per poter cogliere l’infinità delle opzioni divine almeno come vettore di un possibile movimento. La vitalità è un movimento generato dall’interno che consente di cogliere l’infinito: è questa la verità della potentia che Cusano lega alle immagini. La potenzialità artistica in sé innesca un movimento interiore che si esprime nella forma dell’attività iconica. Con questa conclusione Cusano diventa il massimo teorico dell’atto iconico intrinseco. Lo stesso effetto trainante che consente di esercitare un impulso motorio all’ambiente partendo da un’energia interiore, ha toccato anche la superficie stessa del dipinto. Molti studiosi hanno riflettuto se la tela debba essere considerata alla stregua di un corpo: se l’opera d’arte viva participi alle cose del mondo o se questo agisca senza mediazioni all’interno del quadro. La pala di una crocifissione realizzata forse in Boemia nel 1400 ca rappresenta una formulazione molto sottile di questo problema: il sangue non cola nello spazio vuoto della rappresentazione, ma scorre sulla superficie dipinta. Si nota soprattutto dai rivoli che sgorgano dai chiodi: essi non seguono la superficie legnosa della croce, ma colano a piombo sulla tela. Sembra come se la tavola fosse uscita da sé per fungere da pelle di Cristo in un’altra forma. Al contrario della vera icon, qui non è il volto di Cristo a imprimersi sulla tela, ma sono il supporto e i colori a proiettarsi verso l’esterno diventando il suo corpo. A cavallo del 1500 HANS HOLBEIN IL VECCHIO ha perfezionato questo processo nella sua ‘Passione grigia’, con cui ha cercato di risolvere iconicamente il paradosso secondo cui il corpo di Cristo è visibile nell’immagine ma non presente, mentre egli è presente ma non visibile nel vino e nell’ostia. La tecnica a grisaille usata da Holbein, data la monocroma, si avvicina più alla scultura che alla pittura. Questa situazione viene però superata dal sangue che sgorga sul serio dal corpo di Cristo: esso cola sulla tavola come se questa fosse una prosecuzione del corpo del Salvatore; il sangue sembra incrostarsi scuro sul legno. Il fondo del colore diventa quindi recipiente del sangue. In Holbein il vecchio sembra che sia la tavola stessa a fungere da vera icon. I tentativi di chiamare in causa una questione religiosa partendo dalla sostituzione di corpo e immagine all’interno dell’opera d’arte ci sono stati anche nell’arte contemporanea. YVES KLEIN ad esempio ha fissato questo tema in fondo ad una poesia del 1951 legando il cielo ferito con i colori blu e rosso, un cielo da cui cola sangue. Nelle Antropometrie, costituite soprattutto da colore blu impresso sulla carta, il corpo femminile svolge in ruolo di quello di Cristo rispetto al lenzuolo di Santa Veronica: l’impronta è diretta, autentica, il blu trasforma il rosso del sangue sul Golgota, metafora di tutti gli orrori, in un cromatismo pacificante. Nei monocromi blu la transustanziazione giunge a compimento. Il culmine delle riflessioni novecentesche si è raggiunto con artiste come YOKO ONO che hanno dipinto con il proprio sangue scaturito da ferite autoinflitte. I protagonisti della ‘pittura con il sangue’ si sono gradualmente staccati dalla questione religiosa, avvicinandosi tuttavia al nocciolo della sofferenza creatrice attraverso un sacrificio ineluttabile ma capace di portare alla morte. Dai tempi del Dadaismo sono emersi concetti volti a opporre alla durezza di questo sacrificio lo slittamento del conflitto nell’immanenza/materialità dell’immagine. Iniziò OTTO DIX nel primo dopoguerra con un autoritratto in veste di omicida passionale nel quale le mani rosso sangue e le impronte digitali dovevano certificare l’autenticità dell’artista-assassino. Negli ‘Smoke Drawings’ di STEPHAN VON HUENE (1963-1964) l’impiego del proprio corpo (palmo della mano) diventa un processo estremamente artificiale che si contestualizza nell’immagine stessa: questi disegni, caratterizzati da carica erotica surreale, si basano sulla dissezione dei corpi raffigurati, spesso a opera di una falce, per far sì che le interiora acquisito nuova consistenza attraverso le impronte digitali dell’artista. Oltre alla vera icon del volto, anche le ferite di Cristo e gli strumenti di tortura sono diventati veicoli per rilevare il carattere autentico del supporto iconico. I chiodi, le fruste, la corona di spine ecc.. vanno a comporre, dal XV sec, il collage dell’Arma Christi. Queste forme primigenie del collage rasentavano l’astrazione pure, ad esempio nel caso delle Speerbilder, incisioni della lancia di Longino isolate dal contesto. Il principio dell’immagine di Cristo si traduce in una ferita sulla carta, con il fondo trattato in simbolo dell’immediatezza salvifica del corpo di Cristo. Anche questo motivo è stato ripreso in epoca contemporanea: LUCIO FONTANA ha evocato con pari intensità la ferita al costato di Cristo elevandola a materia stessa della pittura, con i suoi ‘Tagli’ formula il superamento del quadro creando uno spazio che emerge da dietro il quadro, visibile e soprattutto tangibile grazie al rigonfiamento del taglio. La massima integrazione della ferita di Cristo sulla tela, nella sua sintesi di arte e teologia iconica, avviene nel ‘Bilderstreit’ (1977) di ANSELM KIEFER: il dipinto mostra una tavolozza sotto il fuoco di carri armati, mentre si leggono i nomi in bianco dei difensori delle immagini (es. Giovanni Damosceno) e in nero quelli degli iconoclasti (Teofilo). La tavolozza è quindi un campo di battaglia dalle cui ferite cola colore come fosse sangue. La fessura da cui sgorga il colore ricorda, ancora una volta, la ferita al costato di Cristo. L’energia intrinseca che trasforma continuamente la tela in un corpo capace di riflettere sul motivo del telo di Veronica, è funzione del colore e della sua capacità di dare coesione ai vari elementi del quadro. Lo sfondo tonale della tradizione giottesca, che risolve in armonia il gioco cromatico, determina l’accostamento di elementi diversi che nella pittura riesce a far emergere una vitalità spontanea. I dipinti di Raffaello ad esempio raggiungono un livello di perfezione tale da far dire al Vasari ‘paiono più di carne viva’. Il ‘Pigmalione’ del PONTORMO (1529-30) assume valenza programmatica assegnando al colore una funzione animatrice. La metamorfosi della statua in donna viva e vegeta non avviene, come vorrebbe il motivo, attraverso l’intervento di Afrodite, ma grazie all’incarnato: basta il colore ad assegnare alla statua lo status capace d’incantare chiunque la guardi. Nello stesso spirito è l’approccio di TIZIANO: il fatto che egli fosse in grado di creare qualcosa di vivo a partire da materia inanimata (Vasari parlando del suo ‘San Sebastiano’ usa infatti la parola ‘vivo’) non si rapporta alla superficie corporea, ma a tutta la materia del quadro. Il segno più evidente di questo è il fatto che egli non usi il pennello, ma la spatola: questo gli consente di dare libero sfogo all’agilità del colore con una radicolite che rasenta l’astrazione (vedi il braccio di ‘Marsia’ oppure il cielo della ‘Ninfa e il pastore’). Da Tiziano parte una tradizione che punta a liberare il colore dall’oggetto che giungere a destinazione con REMBRANDT. Nei suoi ultimi dipinti, come il ‘Paesaggio in tempesta’ (1637) l’artista inscena una battaglia di forme che spuntando l’una dall’altra, sottolineando la potentia dell’immagine colore dà voce alla loro vita spontanea. L’artista inglese ALEXANDER COZENS ha posto questo gioco cromatico autonomo, che va al di là dell’imitazione della natura, al centro del New Method elaborato a metà degli anni ’80. Il risultato delle sue riflessioni furono una serie di acquerelli che a partire da chiesa di colore informi, spesso casuali, (blots), vanno a comporre paesaggi astratti. In Cina questi procedimenti non intenzionali, spesso realizzati in uno stato di ebbrezza, che trasformano l’artista nel braccio di un’energia creativa indipendente ha sortito effetti esemplari: acquerello eseguito da Wang tramite la tecnica del P’o-mo. Anche questa tradizione, dalle origini così diverse, è diventata uno dei fondamenti dell’arte contemporanea: basti pensare a JACKSON POLLOCK che sosteneva di agire some medium di un’energia immanente all’arte. Nel dripping il colore sembra eccitarsi da solo, tanto da rendere l’opera non l’oggetto finito in sè, ma l’atto creativo, medium perfetto dell’atto iconico. presentarsi in chiave mutliprospettica, facendo diventare l’arte del disegno architettonico fonte di atti iconici autonomi nella forma. Pietra miliare di ciò sono i disegni caratterizzati dalla linea a S, la cui tradizione si fa risalire ai ‘marginalia’ di DÜRER. Questi possono essere avvicinati ai ghirigori concettuali con cui il filosofo PIERCE cercava di esprimere liberamente le proprie architetture di pensiero. Nella convinzione che la stabilità sia solo l’istantanea di una dinamica inarrestabile, ecco che il pensiero si indirizza strutturalmente contro il sistema valoriale dominante della prospettiva centrale. La linea S si può intendere come motivo universale della natura naturans (espressione che rende il produrre della natura della sua stessa realtà): i disegni di Pierce sarebbe quindi gli indici autoprodotti di una natura in continuo movimento. Questi movimenti ‘pensosi’ curvilinei sono diventati forma universale grazie all’opera di FRANK GEHRY. Celebre è il disegno del suo Museum of Tolerance di Gerusalemme, che raggiunge una tale profondità dimensionale da gettare linee di sviluppo infinite. Il suo stile, propenso a creare curve sempre nuove che si avviluppano in profonidità fino a dar vita ad un continuum organico, ha una spiccata qualità spaziale. Nel disegno domina il senso di un oggetto che si libra su due livelli, senza alcun contatto con il suolo. I suoi disegni non tentato di solito di modellare l’edificio sulla soggettività dell’osservatore: l’autonoma oggettività della costruzione dovrebbe invece stimolare, nell’immaginazione di chi guarda, una gamma di possibilità. Ecco perchè Bredekamp considera i suoi schizzi incarnazioni dell’atto iconico autonomo nella forma, nella sua natura multiprospettica. Altro aspetto della forma attiva dell’artefatto è la capacità di restare nella memoria per mezzo dei diversi media. Nel 1993 Gehry e lo storico dell’arte Lavin visitarono la certosa di Champmol a Digione (del 1400 ca), imbattendosi nelle sculture tardo medievali di CLAUS SLUTER: Gehry venne colpito dalla serie di figure in lutto, poiché il pathos dei loro abiti sembrava seguire gli stessi criteri della sua architettura. A ispirarlo furono soprattutto le forme ondose dei cappucci delle figure. Da queste figure Gehry da vita a diversi modelli, tra cui il celebre modello in velluto del 1994. Le strutture in fibra di vetro hanno poi convertito questa forma ondulata in sculture autonome simili a teschi di animali. Dopo una serie di passaggi intermedi, queste idee videro la propria applicazione nella banca realizzata a Berlino, vicino alla Porta di Brandeburgo: all’interno dell’edificio una grande struttura ondulata in vetro e alluminio nasconde la sala delle conferenze. Dal momento che l’arte di Sluter ha saputo innescare una ‘teatro della memoria produttivo’, ecco che il rapimento dell’atto iconico leonardesco si rivela in tutta la sua energia creatrice. È il modello uno degli elementi più vividi dell’atto iconico intrinseco. Questo possiede il dono bifronte di allontanarsi dai concetti e allo stesso tempo di fingere da vincolo. Il termine di origine latina è vezzeggiativo di ‘modus’ (misura), volto a indicare la riduzione di quanto misurato dal vivo, utile ad afferrare questioni e dimensioni complesse. L’architettura in miniatura, da millenni, funge da strumento per esprimere qualcosa che ancora non esiste: essi hanno il compito quindi di illustrare qualcosa che può essere concretizzato. È nel doppio gioco di comprensione e traduzione di una cosa immaginata in forma più grande che risiede l’efficacia del modello. L’importanza del modello vale anche per le scienze: nessun metodo può esprimersi senza modelli e proprio in questo loro carattere vincolante si cela la loro grandezza. Tra i modelli scientifici più importanti mai realizzati vi è quello evoluzionistico di DARWIN con cui si propose di cancellare ogni dubbio circa il suo valore onnicomprensivo, poiché la lingua non è in grado di catturare strutture complesse come quelle della natura. Darwin ricorse al diagramma per mettere insieme informazioni quasi illimitate rendendole, al tempo stesso, comprensibili. L’immagine del diagramma di Darwin è un ottimo esempio di come questi ci aiutino a pensare, ma anche di come questi abbiano una ‘volontà propria’. I modelli possono diventare feticci di un mondo di ricerca circondato da una quantità enorme di dati. Il diagramma darwiniano, nella sua pulizia schematica, astratta e ramificata, sembra rappresenta un albero (da qui ‘diagramma ad albero’), ma nessuno si è mai chiesto se rappresenti veramente un albero (in realtà sarebbe più corretto parlare di ‘struttura a corallo’ perchè l’origine è in un unico punto, escludendo la presenza di ‘radici’). Questo modello è quindi ottimo esempio di come i modelli spesso assumano un valore ancora maggiore rispetto a quello che rappresentano. La doppia natura di chiarezza e suggestione caratterizza anche un altro celebre modello: la doppia elica del DNA ideata da ODILE CRICK, moglie di Francis H. Crick. Non è un caso forse che Odile fosse una pittrice: forse era a conoscenza dell’immagine creata da Hogarth per rappresentare la bellezza della natura o del ‘libretto pedagogico degli schizzi’ di Paul Klee, entrambi persuasi che la linea a S incarnasse al meglio sia la natura quanto il pensiero. Il modello della Crick era volto a semplificare (e quindi deficitario) e per questo nella legenda veniva specificato essere ‘purely diagrammatic’, ma ciò è stato comunque ignorato per molti anni. Il fatto che la doppia spirale non rappresentasse affatto né il reale meccanismo interno al DNA né le sue interazioni con l’ambiente, è riuscito a imporsi solo alla fine degli anni ’90. Il ‘purely diagrammatic’ è stato oscurato a lungo per la fertilizzazione dell’immagine. La creazione di modelli conduce alla comprensione quando vi si aggiunge la componente iconicamente attiva. Anche in questo caso Darwin fa da maestro: su uno degli schizzi più efficaci mai fatti su carta del suo modello evolutivo ha redatto le parole ‘I think’. È questa l’immagine del primo modello evolutivo, che si dipana in tutte le direzioni, ben lontano dalla famiglia dei diagrammi ad albero e sicuramente più simile ad una struttura corallina. La scritta rimane ancora un mistero, ma poiché sovrasta il disegno, ricorda le firme in prima persona che facevano parlare l’opera in antichità: a ben vedere queste due parole oscillano tra i poli dell’autorialità e dell’autocertificazione, rientrando appieno nella famiglia delle iscrizioni che parlano in prima persona. La lezione dei bozzetti darwiniani è che l’uomo pensa per immagini: esse sono un suo prodotto, ma possono ricorrere alla prima persona singolare. Il comprimere al fine di rendere accessibili quantità elevate di dati in modelli vale come presa di distanza dalla ‘paura’ di doverle gestire: il rimpicciolito produce un’eccedenza psicologica a sua volta soggiogata dalla physis che emana dai modelli stessi. L’atto iconico intrinseco scaturisce dall’energia creativa di questo conflitto. I modelli sono il suo modello. Il superamento della paura come obiettivo ultimo della produzione iconica è al centro della vita artistica di ABY WARBURG: egli ha perseguito questo obiettivo dalle origini della produzione figurativa fino alle riviste illustrate della sua epoca. Durante un’escursione tra una popolazione indigena del Nuovo Messico s’imbattè in un rito con il quale si domavano i serpenti a sonagli al fine di non essere morsi durante le cerimonie, alla fine delle quali i crotali venivano liberati per fare da ambasciatori celesti e convincere i lampi a colpire la terra e a portare la pioggia (per questo nell’iconografi nativo-americana i serpenti sono resi come fulmini). Poiché il loro potere mortale veniva superato, i serpenti diventavano immagini, creando una presa di distanza tra sé e la loro natura assassina. Warburg si distingue nell’ambito delle teorie culturali nate da un’esperienza etnografica diretta poiché egli non prende come presupposto la linguistica strutturale, ma la teoria espressiva degli schemi corporei, dei gesti e delle azioni. Questa sua teoria spianò la strada ad una teoria del linguaggio che veniva incontro al potente concetto warburghiano dell’opera, il cui ambito di applicazione si rende evidente dalla sua analisi del disegno di DÜRER ‘Morte di Orfeo’. Per Warburg questo disegno è documento CONCLUSIONI Per Warburg il trasferimento del movimento corporeo nell’immagine distanziante (come avviene ad esempio nel rito del serpente) non è uno scarto brusco, ma un passaggio graduale: già nei gesti e nella danza del rito vi sono qualità intrinsecamente figurative. Edgar Wind da parte sua ha dichiarato che l’espressione fisica più estrema è anche quella più vicina alla forma simbolica. In queste ed altre formulazioni risiede il nucleo della filosofia dell’incorporazione (Verkörperung), una delle sfide più audaci alla teoria culturale, raccolta ad esempio dalla filosofia della vicinanza (Lebensnähe) che prevedeva già nel momento stesso della percezione fisica una classificazione semantica che lega l’attività corporea alla costruzione di concetti. Simile è anche lo studio dei gesti prelinguistici da un’ottica antropologica. Della filosofia dell’incorporazione fanno parte anche domande circa l’eredità animale della semantica corporea e suo trasferimento in ambito espressivo e iconico, interrogativo affrontato da Warburg. La chiave interpretativa dello studioso per questo problema è stato un testo di CHARLES DARWIN in cui viene illustrata appunto la teoria della semantica corporea: secondo Warburg questa teoria definisce uno spazio simbolico capace di venire incontro al suo concetto di Pathosformel; egli vede nella mimica e nei gesti del mondo animale uno dei presupposti della propria teoria. Nel modellamento conscio delle espressioni e delle opere d’arte Warburg riconosce quel surplus intrinseco delle immagini di fattura umana, il cui ambito si estende dai semplici gesti alle coreografie, fino alle formule di pathos delle opere d’arte. L’assistente di Warburg, GERTRUD BING, ricapitolò lo studio di Darwin sulla mimica, dichiarando come il loro metodo prendesse le mosse proprio dal punto in cui lo scienziato aveva interrotto: rispetto alla mimica intesa come azione frenata ed ereditata, quasi impossibile da influenzare scientificamente, la studiosa ha distinto il gesto quale prodotto di un pensiero simbolico capace di impiegare i maniera mirata il corpo. Qui si ricollega l’interpretazione darwiniana di opere come il Laocoonte, che nella loro sovreccitazione hanno sperato la mimica, approdando a forme espressive più mature. Warburg avrebbe potuto rifarsi ancora di più a Darwin se la sua teoria della sexual selection non fosse già stata rimossa. Per lo scienziato infatti, l’evoluzione intesa come sopravvivenza del più forte non andava rapportata solo alle dotazioni intellettive e fisiche, ma anche al gioco della sexual selection, che si fonda sul potere di attrazione di particolari forme esteriori. La formula ‘selezione sessuale’ gli venne suggerita dalla pavonia (specie di farfalla), colpito dalle macchie a forma di occhio che recavano aree di luce e ombra risultando modellate in chiave prospettica. Darwin riflette sulla nascita di queste forme e se queste poggino su un concetto pre-esistente, paragonandole dalle Madonne di Raffaello, legando le forme della natura alle arti figurative. Secondo Darwin le piume degli uccelli sono come le tele pittoriche capaci di influenzare l’evoluzione non meno delle capacità di adattamento alle nuove condizioni di vita: esse finiscono per definire una sorta di storia stilistica del gusto. Anche l’uomo è coinvolto nel processo, ma è riuscito a conquistarsi un posto speciale ritrovandosi con la peluria limitata ad alcune parti del corpo, cosicché la pelle possa fungere da supporto pittorico: Darwin ha interpretato questa metamorfosi della pelle umana da membrana protettiva a superficie modellabile come condizione primaria, per gli umanoidi, del diventare pittori. Dalla pittura della pelle ai tatuaggi, dalle acconciature alle decorazioni con penne animali il corpo umano è diventato oggetto di ornamento, completando così la transizione verso l’immagine nel senso stretto. Questo secondo pilastro della teoria evoluzionistica (sexual selection) concepisce lo sviluppo delle specie come una sinfonia continua di atti iconici. Secondo questa teoria l’uomo viene scacciato dal suo posto privilegiato nel cosmo, perchè è la sensibilità estetica il vero motore della selezione naturale. La sexual selection è da intendersi come ricerca del dello nella peculiarità del partner: beauty così non più il classico valore del ‘bello’, ma quello del ‘fuori dagli schemi’ capace di imporsi sull’energia corporea grazie alla propria attrattività. La categoria della bellezza come variabilità sgrava il processo di trasmutazione naturale dalla necessità di subordinarsi a finalità e obiettivi. Il nesso bellezza-variabilità si rifà a Hogarth, mentre il concetto di ‘ornament’ è molto vicino alle idee dell’architetto OWEN JONES, divenuto celebre per la pianificazione e la realizzazione dell’EXPO del 1851. Qualche anno dopo l’esposizione pubblicò il libro ‘Grammar of ornament’, storia onnicomprensiva dell’ornamento in tutte le culture conosciute. Darwin da Jones riprendere la tesi per cui le forme ornamentali degli animali trovano prosecuzione negli ornamenti della pelle umana. Il principio darwiniano della sexual selection fu però difficile da digerire per i suoi contemporanei, cosa che ha portato alla sua rimozione. Resta il fatto però che questa ha avuto una grande influenza su outsider come ROLAND A. FISHER, il quale con l’attivazione iconica dell’evoluzione ha portato in primo piano un tratto di abbondanza e dissipazione formale che non si lascia delimitare dalla mentalità economicista dell’essere o meno all’altezza della fitness (forza). Solo liberandosi dalla regole e finalità meccanicistiche Fisher riesce a spiegare il vettore di sviluppo evolutivo accelerato chiamato ‘runaway selection’, che vale come corsa di atti iconici naturali. In tempi più recenti il concetto di sexual selection è stato riconosciuto nella branca della biologia evoluzionistica, in studi che invece che riconciliarlo con la natural selection, ne hanno sottolineato l’interazione ibrida e conflittuale. Questo nuovo ponte che collega mondo animale con quello umano, si sembra contrapporsi alla definizione albertiana secondo cui un’immagine deve presuppone un minimo di intervento umano: la specificità dell’intervento umano però non viene eliminata, anzi essa getta le basi per la comprensione del nostro comportamento. Il dissenso di Warburg e Cassirer verso Darwin si fonda proprio sull’accentuazione dell’iniziativa umana a partire dai gesti, che nell’immagine artificiale diventa principio di una vicinanza distanziata. Gli artefatti si sono così affrancati dal legame simbiotico immagine-corpo da far sì che in essi forma ed efficacia agiscano in modo autonomo. Queste forme però, nella loro estrema varietà, non possono avere effetti senza un principio di azione che si è sviluppato nel corso di moltissimo tempo, che la concepisca come immagine capace di spingere l’azione. Dietro alla questione delle facoltà figurative degli animali legata alla sexual selection, si cela anche il problema dell’affinità iconica del mondo inorganico. Già LUCREZIO nel suo ‘De rerum natura’ ha dato una risposta inimitabile. All’inizio del quarto libro egli sviluppa la teoria delle immagini che si staccano dalle cose come ‘pellicine’ (teoria iconica atomistica): così come la cenere si stacca dal legno che brucia e così come la pelle dei serpenti durante la muta, ‘una tenue immagine dev’essere emessa dalle cose’. Nella sua visione atomistica del mondo Lucrezio dà un nome all’energia fisica delle immagini: una pressione interna che le fa ‘spellare’ allo scopo di provocare reazioni. Poiché le immagini sono ‘strati di pelle’ staccati dai corpi, queste creano un legame fisico tra oggetto e osservatore, facendo della vista un tipo particolare di tatto: la pressione iconica genera un un impulso corporeo. Le forme naturali per lo scrittore latino, nel loro continuo movimento, diventano strumenti di meraviglia. Questo tipo incessante di generazione iconica sembra indissolubilmente legato al potere dell’immaginazione: le nuvole danno continuamente vita a forme nuove, ora sono montagne, ora ghigni, ora cavalieri (cfr. ‘San Sebastiano’ di Andrea Mantegna). In modo analogo l’Alberti vedeva in formazioni irregolari come radici o zolle di terra dei lineamenti che, con piccole variazioni, potevano condurre a forme definite. L’arte figurativa umana quindi tende a orientare allo spirito ludico della natura. Tra le forme naturali e gli artefatti umani vi è continuità, non rottura. Studiando il metodo botticelliano (arrivare a panorami da idee passeggere) Leonardo ha fatto sua questa origine dell’immagine. Sebbene fosse scettico, questo tipo di pittura (che consisteva nel lanciare contro una parte una spugna impregna di vari colori creando Homo faber: l’essere umano come homo faber crea, soggettivamente, un mondo di artefatti che però gli vengono incontro come un mondo oggettivo a sé stante. Warburg e Cassirer convergono nell’intendere l’uomo, a partire dalle sue prime impressioni corporee, come un animal symbolicum (animale che crea simboli - per Cassirer l’umanità si può conoscere solo analizzando l’universo simbolico che l’uomo ha creato storicamente): fuori da queste relazioni simboliche egli non è in grado di scoprire alcun ‘mondo’. Questa conclusione trova definizione dialettica nell’ambito delle immagini: l’uomo symbolicum si trova alle prese con le immagini, entità che stimolano l’atto iconico. Se queste immagini vengon toccate dal fruitore passano da uno stato di latenza ad una liberazione di energeia che a sua volta svincola il concetto di vita quale entità dotata di volontà propria. Da qui si desume il diritto alla vita delle immagini, così come il dovere di prendersi cura di loro, di usarle e anche criticarle. Le immagini sono subiscono quindi, ma producono esperienze percettive e comportamenti: è questa la quintessenza dell’atto iconico. ________________________________________________________________________________ POSTFAZIONE: IL VOLO DELL’OCCHIO L’autoritratto in forma di placca realizzata da LEON BATTISTA ALBERTI negli anni trenta del 1400 sfoggia un logo nella forma di un occhio volante. Questa impresa araldica si basa su una tensione tra il lato oscuro dell’atto iconico sostitutivo e quello più sgargiante di quello intrinseco. Per Alberti l’occhio alato è l’organo migliore di tutti. Alla fine dei suoi ‘Quattro libri della famiglia’ appare un altro occhio volante il cui aspetto grafico contrasta con l’aria maestosa dell’emblema: anche in questo caso vi sono dei tentacoli in avanti, ma ce ne sono 3 appesi alla palpebra inferiore che ondeggiano nella direzione opposta, rendendo evidente la loro funzione di nervi strappati. Questi tentacoli si rapportano al motivo albertiano del ‘circulum rationis’: l’occhio è circondato dai ‘ganci’ delle passioni di cui bisogna liberarsi. Le ali sottolineano la qualità divina dell’occhio, mentre i tentacoli l’urgenza delle passioni: frattura chiarita dalla scritta ‘quid tum’ (ebbene, che cosa allora?). L’occhio alato non guarda solo, ma indica la direzione del proprio volo, unendo ottica e aptica (sensibilità dell'individuo verso il mondo adiacente al suo corpo): questo perchè non guarda in avanti, ma guarda diritto l’osservatore che si trova al suo lato. L’unione del tentacolo anteriore con l’occhio che guarda di sguincio lo rende un organo percettivo che riassume in sé vista e tatto. Instaura con questo emblema sia un legame filosofico con Lucrezio che con la icon di Pierce, conquistando una validità sovrastorica: la domanda sul perché le immagini ci facciano piangere senza alcun intervento esterno è la conferma di questo emblema. I dipinti di Rothko provocano questa stessa reazione emotiva, amplificandola, poiché la profondità spaziale incommensurabile irradiata dalle sue superfici monocrome riesce ogni volta ad emozionare. L’emblema di Alberti dimostra come gli atti iconici riescano a strappare l’occhio dal resto del corpo attraverso l’energia risucchiante delle cose da vedere e toccare, e con esso vengono strappati anche i tentacoli che incarnano le passioni: è la versione drammatica dell’immagine leonardesca della prigionia in cui si può cadere guardando un quadro ed ha la stessa energeia che ritroveremo poi in Van Eyck con la sua mise en abîme della prima persona nei suoi ritratti. In modo paradigmatico l’emblema mostra l’essenza dello sguardo che si leva, abbracciando il mondo intero, ma che ne è al contempo incalzato: uno sguardo rivolto ad artefatti iconicamente attivi. Il motto di Leonardo e l’emblema albertiano sono i custodi dell’atto iconico. FINE
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